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"Un Rapporto Almadiploma: calano del 32% le assunzioni dei diplomati", di Giulia Boffa

Almadiploma ha pubblicato un Rapporto sulla situazione dei diplomati dopo la fine della scuola: cosa fanno? Trovano lavoro o si iscrivono all’università? E con quali risultati? I diciannovenni sono in calo nel nostro Paese, del ben 37% negli ultimi 27 anni, ma è aumentato il numero di coloro che si diplomano: nel 2011 è stato il 74%, ben il doppio degli anni ’80. Nel passaggio dal diploma all’università invece il tasso è rimasto pressochè invariato, attorno al 29%, per diverse cause: il ridotto interesse, le difficoltà economiche delle famiglie e la mancanza di politiche per il diritto allo studio, rispetto all’accesso agli studi universitari di questa fascia di popolazione giovanile.

Nello stesso tempo diminuisce il tasso di occupazione giovanile, cresce quello di disoccupazione (pari al 36,6% tra i 15- 24enni), calano del 32% le assunzioni di diplomati nel 2012 (Sistema Excelsior-Unioncamere-Ministero del Lavoro). E diventa sempre più rilevante il numero di coloro che non fanno nessuna scelta e che ricadono nella categoria dei NEET (Not in Education, Employment or Training), giovani che non studiano e non cercano lavoro.

L’indagine è stata rivolta ad oltre 48mila diplomati del 2011, 2009 e 2007 intervistati a uno, tre e,per la prima volta, cinque anni dal conseguimento del diploma di scuola secondaria superiore.

Nello specifico, sono stati coinvolti 29.231 diplomati del 2011, provenienti da 246 istituti d’istruzione superiore, indagati ad un anno dal diploma; 12.339 diplomati del 2009, di 98istituti, intervistati a tre anni; 6.786 diplomati del 2007, di 55 istituti, contattati a cinque anni dal diploma.

I ragazzi sono contenti della scelta fatta?
Il 44% dei diplomati 2011 dichiara di aver sbagliato a scegliere la scuola fatta; dopo un anno gli stessi ragazzi rivedono il loro giudizio e si dichiarano “pentiti della scelta” nel 40% dei casi. Alla vigilia della conclusione degli studi il 56% dei diplomati 2011 dichiara che, potendo tornare indietro, sceglierebbe lo stesso corso nella stessa scuola, mentre il 44% dichiara che compierebbe una scelta diversa: un quarto dei diplomati cambierebbe sia scuola sia indirizzo, il 10,5% ripeterebbe il corso ma in un’altra scuola, il 9% sceglierebbe un diverso indirizzo/corso nella stessa scuola. Con il trascorrere del tempo il giudizio si modifica.
Prima della conclusione degli studi i diplomati meno convinti della scelta compiuta a 14 anni risultano i liceali e quelli degli istituti professionali. I diplomati professionali, invece, nel corso del primo anno successivo al conseguimento del titolo, sono i più insoddisfatti della scelta compiuta. Infine, i diplomati degli istituti tecnici risultano invece generalmente più appagati.

Quanti si iscrivono all’Università e con quali risultati?
Ad un anno dal diploma, 61 diplomati su cento si iscrivono all’Università (49 su cento hanno optato esclusivamente per lo studio, 12 su cento frequentano l’università lavorando); il 19% ha invece preferito inserirsi direttamente nel mercato del lavoro, tanto che ad un anno dal titolo si dichiarano occupati.
I restanti 20 su cento, infine, si dividono tra chi è alla ricerca attiva di un impiego (14,5%) e chi invece, per motivi vari (tra cui formazione non universitaria, motivi personali o l’attesa di una chiamata per un lavoro già trovato), non cerca un lavoro (5%).
La quota di diplomati dediti esclusivamente allo studio universitario è nettamente più elevata tra i liceali (72%; un altro 16% studia e lavora) rispetto ai diplomati del tecnico (37%) e del professionale (21,5%).
Al contrario, come è normale attendersi, i diplomati che esclusivamente lavorano sono poco diffusi tra i liceali (4%), rispetto ai diplomati del tecnico (28%) e del professionale (37%).

Quanti lavorano e con quale titolo di studio?
A tre anni dal diploma, aumenta la quota di occupati: sono dediti esclusivamente al lavoro il 24% dei diplomati, mentre è ancora impegnato con gli studi universitari il 44% (tra questi, il 21% coniuga studio e lavoro).
A cinque anni l’analisi mette in luce un apprezzabile aumento della quota di occupati: infatti è dedito esclusivamente al lavoro il 40% dei diplomati (+4 punti rispetto a quando furono intervistati a tre anni dal diploma), mentre è ancora impegnato con gli studi universitari poco più del 30% dei ragazzi. Infine, il 17% degli intervistati coniuga studio e lavoro. Chi cerca lavoro è l’8%. Rimane assai elevata, ancora dopo cinque anni dal diploma, la quota di liceali che studia – esclusivamente – all’università: 58%, contro il 27% del tecnico e l’11% del professionale.

Il voto di diploma è importante nella ricerca del lavoro.
Il voto di diploma influenza in modo rilevante gli esiti occupazionali e formativi dei diplomati.
La percentuale di differenza ad un anno dal titolo è pari a 8 punti percentuali: risulta esclusivamente impegnato in attività lavorative, infatti, il 15% dei diplomati con voto alto e il 23% di quelli con voto basso. A tre anni le quote di quanti lavorano solamente sono rispettivamente 19% e 30%, mentre a cinque 33% e 47,5%.
Se l’impegno in un’attività lavorativa pare essere caratteristica peculiare dei diplomati con voto più modesto, la prosecuzione degli studi all’opposto, è una scelta che coinvolge soprattutto i diplomati più brillanti: indipendentemente dalla condizione lavorativa, infatti, risultano iscritti all’università nella misura del 70% (contro il 51% di quelli con voto basso).
Chi ha ottenuto voti più alti continua a studiare anche a distanza di tre e cinque anni dal diploma: la percentuale è pari al 74% e 58%, contro il 54% e il 40%, rispettivamente, dei colleghi meno “bravi”.

Chi si iscrive all’università e chi invece cambia idea
I diplomati 2011 iscritti all’Università, dopo un anno, sono il 61%. Alla vigilia dell’Esame di Stato, l’82% di questi aveva dichiarato di volersi iscrivere all’università e ha successivamente confermato le proprie intenzioni. All’opposto, l’11% ha invece cambiato idea soprattutto tra i diplomati professionali (38%),
seguiti da quelli tecnici (18%); praticamente irrilevante (4%), invece, tra i liceali.
Fra chi non intendeva iscriversi ad un corso di laurea il 15% ha successivamente cambiato idea; tale percentuale sale al 35% tra i liceali, mentre scende considerevolmente tra i diplomati professionali (10%).

Fra i diplomati 2011 di estrazione borghese, contrariamente a ciò che avviene tra i giovani di famiglia operaia, è nettamente più frequente l’iscrizione all’università (78% contro 48%).
Anche il titolo di studio dei genitori influenza le scelte formative dei giovani: l’89% dei diplomati provenienti da famiglie in cui almeno un genitore è laureato ha deciso di iscriversi all’università.

Oltre un quinto dei diplomati del 2011 iscritti all’università ha optato per un corso di laurea nell’area economico-sociale (la percentuale sale al 35% tra i ragazzi degli istituti tecnici); il 20% ha invece scelto un percorso nell’area umanistica (quota che sale al 25% tra i diplomati professionali) mentre il 19% si è orientato verso una laurea in ingegneria o architettura (il valore sale al 22% tra i diplomati degli istituti tecnici e scende al 7% tra i professionali).
Il livello di coerenza tra percorso universitario prescelto e diploma di scuola secondaria conseguito, non è particolarmente elevato,anche se la scelta di un corso di laurea affine agli studi secondari superiori facilita la riuscita universitaria.

Più dei tre quarti dei diplomati del 2011 iscritti all’università frequentano regolarmente le lezioni. È noto che ogni anno di studio universitario “dovrebbe” consentire allo studente di maturare 60 crediti formativi (ogni credito, definito CFU, corrisponde a 25 ore di “lavoro”, compresa la frequenza alle lezioni, le esercitazioni, lo studio a casa, ecc.).
Gli intervistati hanno dichiarato di aver ottenuto, dopo un anno dal diploma, poco meno di 34,5 crediti formativi (in media): gli studenti dei licei si dimostrano i più brillanti (in un anno hanno ottenuto in media 38 crediti), seguiti dai colleghi degli istituti tecnici (31 crediti).
Faticano decisamente a tenere il passo i diplomati degli istituti professionali, che hanno maturato “solo” 25 crediti.

A un anno dal titolo, per 12 diplomati su cento la scelta universitaria fallisce: il 6% ha deciso di abbandonare l’università fin dal primo anno, mentre un ulteriore 6% è attualmente iscritto all’università ma ha già cambiato ateneo o corso di laurea (i dati ufficiali dicono che abbandonano nei primi 12 mesi 18 studenti su cento). Dopo tre anni sale a 18 diplomati su cento la quota di insoddisfatti della propria scelta universitaria: in particolare, l’8% ha abbandonato gli studi universitari, quota quest’ultima che aumenta leggermente per i diplomati degli istituti tecnici (10%), resta in media per i professionali e diminuisce al 4% per i liceali. Un ulteriore 10% è attualmente iscritto all’università ma ha cambiato ateneo o corso di laurea.

La disoccupazione coinvolge soprattutto i diplomati liceali.
Ad un anno dal conseguimento del titolo trovano lavoro 31 diplomati su cento: questa percentuale raggiunge il suo massimo in corrispondenza dei diplomati professionali (41%), mentre tocca il minimo tra i liceali (21%).
A tre anni dal titolo la percentuale di occupati cresce al 45% (quota che oscilla tra il 69% dei diplomati professionali e il 35 dei liceali).
A cinque anni dal diploma il 57% risulta occupato, quota che raggiunge il 68% fra i diplomati professionali.

La disoccupazione coinvolge 33 diplomati su cento; una quota significativa, che si riduce tra i liceali (29%) ma che raggiunge ben il 37,5% dei diplomati professionali.

Il tasso di disoccupazione, a tre anni dal titolo, è pari al 21% ; cresce fino a raggiungere il 24% tra i tecnici mentre scende al di sotto della media tra i liceali (15,5%). A cinque anni, invece, è pari al 17% ed è più consistente in particolare tra i diplomati professionali (19%).

Tra i diplomati 2011 che risultano impegnati esclusivamente in un’attività lavorativa la tipologia di attività più diffusa risulta essere il lavoro non stabile, che coinvolge il 31% degli occupati (in particolare si tratta di contratti a tempo determinato).
La quota di assunti con contratti formativi è del 27%. D’altra parte, il lavoro stabile riguarda 19 diplomati occupati su cento: 15 impegnati in contratti a tempo indeterminato, la restante quota in attività autonome.
Elevata è la quota di chi non ha un contratto regolare (13% per il totale dei diplomati, in particolare 19% fra i liceali).

A tre anni dal diploma, tra chi è dedito solamente al lavoro il contratto formativo risulta essere quello più diffuso, con il 34,5% dei diplomati. Aumenta la quota di lavoratori stabili (che raggiunge il 32,5%) mentre si riduce la quota di precari (18%) e diminuiscono coloro che lavorano senza alcun contratto (4%).

A cinque anni, il quadro generale migliora ulteriormente; in particolare cresce fino al 60% la quota di chi lavora stabilmente. Il lavoro in nero si riduce al 3%.

L’attività nel settore pubblico risulta decisamente poco diffusa tra i diplomati di scuola secondaria superiore, nonché tendenzialmente in calo tra uno e cinque anni dal titolo: ad un anno dichiarano infatti di lavorarvi 12 diplomati su cento, a tre anni sono 8 e a cinque 6 su cento.

Circa tre occupati su quattro, ad un anno dal diploma, sono inseriti in un’azienda che opera nel settore dei servizi (in particolare del commercio, 32%); 18 su cento lavorano invece nell’industria (predomina la metalmeccanica, che assorbe il 6% degli occupati), mentre è decisamente contenuta la quota di chi lavora nell’agricoltura (circa 3%).

I diplomati che lavorano a tempo pieno (senza essere contemporaneamente impegnati nello studio universitario) guadagnano in media, a un anno dal diploma, 925 euro mensili netti.

Quanto guadagnano e soprattutto sono soddisfatti?
A tre anni dal conseguimento del titolo il guadagno mensile netto dei diplomati è pari in media a 1.084 euro (1.146 per i diplomati professionali). La retribuzione, a cinque anni dal diploma, sale lievemente: 1.169 euro.

Tra i diplomati del 2007,a cinque anni dal conseguimento del diploma emerge un grado di soddisfazione abbastanza elevato (voto medio pari a 7,2 su una scala 1-10). I diplomati si dichiarano particolarmente appagati dai rapporti con i colleghi (7,8), dal luogo di lavoro e dal grado di autonomia (7,4). Non soddisfano invece aspetti come la coerenza con gli studi fatti (5,3), le prospettive di carriera (5,6) e di guadagno (5,7), la corrispondenza tra attività lavorativa e i propri interessi culturali (5,9).

Ad un anno dal termine degli studi, sono in particolare i neodiplomati degli istituti tecnici a non utilizzare “per niente” le competenze acquisite con il diploma in misura rilevante (42%).

I diplomati nei professionali, invece, impiegano maggiormente ciò che hanno appreso a scuola: il 22,6% dichiara di utilizzare le competenze acquisite durante il percorso di studi in misura elevata, mentre per il 44% l’utilizzo è più contenuto. Con il passare del tempo invece l’utilizzo delle competenza scolastiche aumenta.

da Orizzontescuola.it

"Il lavoro non c’è o è precario: nove milioni in difficoltà", di Massimo Franchi

Si allarga sempre di più l’oceano del disagio sociale provocato dalla «difficoltà con il lavoro». La Cgil ieri ha stimato in 9 milioni le persone che ne fanno parte. Il calcolo è presto fatto: i quasi 3 milioni di disoccupati (2 milioni 875 mila a dicem- bre 2012, il picco più alto degli ultimi 20 anni); i 3,4 milioni di lavoratori che nel 2012 hanno usufruito della cassa integrazione; i quasi tre milioni fra precari, scoraggiati e part time involontari («caratteristica del nostro Paese con pochissime ore lavorate e dunque pochissimi contributi che fanno avvicinare la situazione di questi lavoratori a quelli dei precari»). «Se si sommano i lavoratori che si trovavano nella cosiddetta “area del disagio”, cioè precari o part time involontari, a quelli della cosiddetta “area della sofferenza occupazionale”, vale a dire disoccupati, scoraggiati immediatamente disponibili a lavorare e persone in cassa integrazione, con i nove milioni totali il 2012 si conferma l’anno nero dell’occupazione in Italia», affermano il presidente della Fondazione Di Vittorio, Fulvio Fammoni e il segretario confederale della Cgil, con delega al mercato del lavoro, Serena Sorrentino.

La preoccupazione della Cgil va poi ad un futuro che per il 2013 si preannuncia ancora più negativo. E pensando «all’arrivo a giugno dell’aumento dell’Iva di un punto, del pagamento retroattivo della Tares (la nuova tassa sui rifiuti) e la fine della proroga dei contratti a tempo determinato nella Pubblica amministrazione «siamo di fronte ad una vera ecatombe – rincara la dose Fulvio Fammoni – di cui la politica non discute in questa campagna eletto», spiega il segretario generale della Cgil.

BOOM DI PARTITE IVA

Una situazione economica così complicata che porta Susanna Camusso a chiedere, da Crotone, «che si apra una stagione di dialogo con Confindustria e con tutte le altre associazioni, che abbia però l’idea di ricostruire, perché non si può agire solo sulla flessibilità e sulla precarietà».

All’interno del disagio a soffrire di più degli ultimi rivolgimenti e della riforma del lavoro sono certamente i giovani. Citando il sondaggio della settimana scorsa che rilevava come il 14 per cento dei contratti a progetto è stato trasformato in partita Iva, la responsabile per le Politiche giovani della Cgil Ilaria Lani spiega come «il motivo per cui abbiamo ragione di ritenere che una parte consistente delle partite Iva sia falsa è proprio il fatto che i dati degli ultimi anni dimostrano che hanno un solo committente e in forma continuativa, e questo tradisce la possibilità di un abuso». Nell’ultimo anno, aggiunge la sindacalista, «si registra un aumento delle partite Iva individuali e lo si registra in alcuni settori esposti come le attività professionali, in generale tutte le attività di assistenza sociale e dei servizi, l’istruzione (scuole private, enti di formazione) ma anche un pezzo del terziario avanzato, l’informatica, i trasporti: settori in cui c’è da parte di molte aziende la richiesta ai giovani di aprire la partita Iva per lavorare in attività dipendenti o comunque strettamente legate all’attività ordinaria dell’azienda».

«CALO RECORD PRESTITI FAMIGLIE»

Gennaio gelido per i prestiti delle banche italiane a famiglie e imprese. Il mese scorso, secondo le prime stime dell’Abi, c’è stata una caduta del 3,26% su base annua degli impieghi a questo comparto del settore privato che ammontano in totale a 1.467 miliardi (1.474 a dicembre). Una caduta del genere «non si era mai registrata nella serie storica partita nel giugno del 1999», spiega l’associazione bancaria italiana.

L’Unità 20.02.13

"Scuola: Basta con la politica dei piccoli passi", di Benedetto Vertecchi

Continua lo stillicidio di provvedimenti (o di annunci di provvedimenti) su questo o quell’aspetto del funzionamento delle scuole e delle università. Di volta in volta si tratta – sono solo alcuni esempi del calendario scolastico, della scelta dei libri di testo o delle prove di ammissione ai corsi di laurea. Si procede all’insegna della casualità, senza tener conto che in attività complesse, come sono quelle educative, non si possono modificare alcuni aspetti senza produrre mutamenti anche negli altri. A dispetto del gran parlare che si fa dell’educazione scolastica come di un sistema, tutto si può dire dell’azione di governo tranne che sia sostenuta da interpretazioni di sistema. L’effetto è una crescente incertezza fra gli insegnanti e gli allievi, che vedono cambiare le condizioni del loro impegno senza che sia possibile individuare un disegno d’insieme. E non potrebbe essere altrimenti, se solo si considerasse che da troppo tempo alla base degli interventi di politica scolastica non c’è l’intento di sviluppare l’educazione adeguandola al mutare della domanda sociale, ma solo quello di fornire un livello minimo di servizio che realizzi il massimo beneficio col minor impegno di risorse. Sarà bene essere chiari. Adeguare l’educazione alla nuova domanda sociale non significa necessariamente abbracciare qualunque proposta incontri un diffuso consenso, senza chiedersi se tale consenso sia il risultato della generale consapevolezza della necessità di conferire certe caratteristiche al profilo degli allievi (un tempo solo bambini, ragazzi, giovani, ma ora, e sempre più, anche adulti), oppure se non si tratti di una convergenza frutto di un senso comune prevalentemente condizionato da logiche di utilità a breve termine (e non è questa l’ipotesi peggiore) o da condizionamenti operati attraverso gli apparati della comunicazione sociale. Un nuovo senso comune è quello che vorrebbe ottenere una migliore qualità dell’educazione riducendo le risorse a disposizione delle scuole. Se nel caso dell’adeguamento alla domanda c’è, anche se in modo parziale e deviato, una qualche attenzione all’evoluzione dei quadri d’intervento, quando si pretende di mettere sullo stesso piano la riduzione della spesa e il miglioramento della qualità ci si limita a esibire un’ideologia gradita a chi propugna tale riduzione in sede di decisione politica. Da troppo tempo ci siamo abituati ad affermazioni che non meriterebbero alcuna attenzione se non fossero riprese e riproposte in sede politica. Basti pensare alla disinvoltura con la quale si sostiene (ci sono forze politiche che hanno ritenuto di farne un punto qualificante della loro proposta programmatica in vista delle elezioni) l’esigenza di affermare criteri meritocratici nella valutazione degli allievi, degli insegnanti e delle scuole. Sembra non ci si renda conto del ridicolo di ricorrere ad una parola (meritocrazia) che deve la sua fortuna ad un’opera di fantasociologia (mi riferisco a un libro di Michael Young pubblicato oltre cinquant’anni fa, nel quale la parola designava uno scenario da incubo, una sorta di utopia negativa, nella quale gli individui sono apprezzati in relazione al loro quoziente intellettivo e allo sforzo che pongono nel realizzare ciò in cui sono impegnati). Ma, soprattutto, si mostra di non capire quanto siano vari i fattori che concorrono a determinare gli effetti dell’educazione, e come tali effetti non siano da considerarsi realizzati una volta per tutte, ma costituiscano solo l’approssimazione raggiunta in un momento determinato, modificabile in momenti successivi. La politiche di contenimento della spesa per l’educazione, pur imbellettate con esibizioni ideologiche dalle quali si dovrebbe rifuggire se appena le si conoscesse, sono rivelatrici della mancanza di una cultura dell’educazione. Non si capisce, del resto, come potrebbe affermarsi una cultura dell’educazione in assenza di interventi volti a promuovere la ricerca e a sostenere la conoscenza educativa, ai diversi livelli e nei diversi modi in cui è necessario che cresca la consapevolezza dei problemi. C’è bisogno di una ricerca istituzionale, di approfondimenti su tematiche specifiche, di riflessione sulla sapienza che gli insegnanti accumulano cercando soluzione per le tante difficoltà che incontrano nel loro lavoro quotidiano. Riversare sulle scuole provvedimenti abborracciati e scoordinati fra loro è proprio ciò che dovrebbe essere evitato. L’innovazione di cui c’è bisogno non può che derivare dall’affermazione di una nuova politica per la scuola, nella quale non ci sia posto per la distribuzione di perline colorate. Occorre pensare a un progetto di ampio respiro, che sostenga il lungo corso della vita che attende i nostri bambini e i nostri ragazzi. Quelli che al momento sono gli oggetti del desiderio, così come le trovate per razionalizzare questa o quella pratica nell’attività delle scuole, non possono che veder cadere la loro capacità di attrazione in tempi sempre più brevi, perché soggetti da un lato allo sviluppo della tecnologia e, dall’altro, alla pressione del mercato.

L’Unità 20.02.13

"Foggia, in 5 lingue il contratto per i braccianti", di Gino Martina

Per le organizzazioni delle aziende è l’accordo più importante d’Italia. Per la Flai Cgil segna una nuova conquista. Per i lavoratori migranti è l’affermazione di diritti finalmente accessibili. Perché il suo testo è stato tradotto per la prima volta in cinque lingue diverse: romeno, bulgaro, polacco, arabo e francese. È il nuovo contratto provinciale dei braccianti agricoli della Capitanata, come è chiamata la provincia di Foggia. Riguarda oltre 46mila addetti, di cui almeno 19mila (dati ufficiali Inps) provenienti da altri Paesi, soprattutto Romania e Bulgaria. Quella di Foggia è la zona che, assieme al resto della Puglia e alla Campania per il pomodoro, l’uva e le olive, e della Sicilia per uva e agrumeti, raccoglie quasi il 60% dei lavoratori del settore agricolo italiano. Le campagne della zona Nord della Capitanata, da San Severo al Gargano, da giugno a luglio si trasformano. Diventano immensi tappeti rossi colorati dai pomodori, diretti alle 7mila aziende di immagazzinamento, imballaggio, trasporto e trasformazione. Le ditte dell’indotto sono solo un anello di una filiera che vede operare 26.849 aziende agricole, che esportano pomodoro in Campania, nel Nord Italia e nel resto d’Europa, o che lo vendono alle grandi aziende di trasformazione e confezionamento presenti sul territorio, come la Princes Italia. LAVORO NERO Le cifre ufficiali sul numero dei braccianti, però, sono parziali. Perché esiste il lavoro nero, gestito quasi sempre dai caporali, uno degli anelli della filiera produttiva, a cui le aziende agricole fanno spesso riferimento per il reclutamento della manodopera. Le stime parlano di almeno altre 13mila persone che arrivano da Paese esteri, puntualmente in estate, nelle campagne foggiane, dove i lavoratori stranieri arriverebbero a toccare quota 32mila, impegnati nel ciclo che va dalla raccolta del pomodoro alla vendemmia di settembre. La maggior parte di loro vive in condizioni precarie, disagiate, disumane. Soprattutto chi è irregolare, finisce in mano a caporali, che Daniele Calamita, segretario provinciale Flai Cgil, definisce «più crudeli di quelli che negli anni Cinquanta sfruttavano gli italiani. Perché questi entrano nella vita delle persone, la condizionano. Le costringono a vivere in casolari abbandonati e fatiscenti, e a pagare un affitto. Prendono soldi per il trasporto sul terreno di lavoro, 5 euro per un panino al tonno che al massimo potrà costare 1 euro. Forniscono acqua schifosa e si fanno dare perfino 50 centesimi per attaccare il carica batterie del telefonino al generatore di corrente per ricaricare il cellulare». Chi si ribella o parla coi sindacalisti è minacciato, malmenato, o cacciato. Spesso è allontanato dai compagni di lavoro, connazionali, amici o addirittura parenti, che vogliono evitare problemi col caporale, che quasi sempre è della stessa etnia. Il caporale di oggi, viene dai paesi dei nuovi braccianti. Agli italiani, legati alla criminalità organizzata, è affidata solo la regia del sistema di sfruttamento. I lavoratori diventano un parco macchine da usare a seconda delle esigenze. Nel dicembre del 2009, un ragazzo Ivoriano di 24 anni, morì per il freddo e le esalazioni di un braciere, in un casolare abbandonato di Arpinova. Il suo corpo tornò a casa grazie all’impegno del sindacato. E non è un caso isolato. Di qui l’importanza del nuovo contratto di 73 articoli, firmato da Confagricoltura, Coldiretti, Cia e le tre sigle sindacali confederali, tradotto in cinque lingue, scelte in base ai maggiori flussi di arrivo. Ma la versione multilingue dell’accordo non è l’unica novità importante dell’accordo. L’articolo 14, che riguarda in particolare i lavoratori migranti, dispone che per i lavoratori stagionali «le aziende provvedano a farsi carico di mettere a disposizione degli stessi il vitto e un idoneo alloggio» per tutta la durata del periodo lavorativo e «qualora sia richiesto, in base al credo religioso prevalente, sia destinato uno spazio al fine di poter adempiere ai loro rituali religiosi». Inoltre sono previsti, grazie a collaborazioni con gli enti pubblici, corsi di alfabetizzazione e formazione sulla sicurezza sul luogo di lavoro. A questi si aggiunge un aumento salariale per tutti del 2,4% netto in busta paga nel 2013, che nel 2015 arriverà al 5,3%. Per contratto, da tabelle minime provinciali, i braccianti agricoli adesso dovranno ricevere 44,62 euro per sei ore e mezza di lavoro al giorno e riceveranno 60 euro una tantum per il 2012. Altre misure migliorative generali riguardano vari indennizzi riconosciuti, come quello del 20% in più di salario per l’utilizzo dello strumento della banca ore (75 ore complessive di lavoro in tre mesi), o per il cottimo.

PRENOTAZIONI «Questo nuovo contratto è un importante passo avanti – spiega ancora Calamita – ma sappiamo che non è sufficiente. Il lavoro sommerso e il caporalato sono ancora una piaga fortissima. Perché se va bene ci sono dei contratti e delle buste paga, che nella realtà non sono mai rispettate. Magari è dichiarato un mese di lavoro, ma il bracciante intasca la metà del suo salario. Le aziende sono spesso responsabili della situazione. O socialmente irresponsabili, perché sono i veri mandanti del caporalato, non si preoccupano, per convenienza, di sapere come vengono reclutate le persone che prestano loro la manodopera. È ora che lo facciano, se si vuole cambiare”. Da ottobre, la Regione Puglia ha istituito la lista di prenotazione per i lavoratori in cerca di lavoro nelle campagne. Le aziende che attingono questa lista, ricevono degli incentivi, che vanno da 250 a 7mila euro, a seconda del tipo di assunzione. Ma fino adesso, in poche hanno utilizzato questo strumento.

L’Unità 20.02.13

"L'Ilva chiede la cassa integrazione per 6.500 operai", di Giusi Fasano

Saranno al massimo 6.417 a Taranto, 23 a Torino, 67 a Patrica (Frosinone) e 39 a Legnaro (Padova). Per tutti è stata chiesta la cassa integrazione straordinaria per due anni (a rotazione e a partire dal 3 marzo) per consentire all’Ilva di mettere a punto il risanamento ambientale previsto dall’Autorizzazione integrata.
L’annuncio è di ieri. I vertici dello stabilimento siderurgico hanno fatto due conti sulla produzione partendo «dall’assetto di marcia degli impianti nel corso della ristrutturazione». Risultato: si produrranno ogni giorno circa 18 mila tonnellate di acciaio nel periodo di fermata dell’altoforno 1. Circa 10 mila, invece, quando saranno fermi contemporaneamente gli altiforni 5 ed 1. Numeri decisamente inferiori alle 30 mila tonnellate al giorno realizzabili «in pieno assetto produttivo» e che giustificano, secondo l’azienda, il ricorso a una cassa integrazione così estesa.
Ed è proprio l’estensione dei lavoratori coinvolti il primo dei punti criticati dai sindacati di categoria, tutti concordi nel trovarli «esagerati». Donato Stefanelli, segretario generale della Fiom- Cgil di Taranto, mette in discussione lo strumento stesso della casa integrazione: «Non siamo d’accordo perché prima di parlare di ammortizzatori, l’Ilva deve dare conto del piano industriale e del piano di investimenti» dice. Cosimo Panarelli, segretario della Fim-Cisl tarantina parla di «numeri elevati, eccessivi». E aggiunge: «Vero che l’Ilva ci dice che quelle sono le cifre massime e quindi i cassintegrati potranno essere anche meno, però restano comunque imponenti». «Numeri eccessivi» anche per il segretario provinciale Uilm, Antonio Talò. Che annuncia di voler lavorare su tre punti chiave: ridurre drasticamente quella cifra («è ragionevole pensare alla metà»), garantire una «rotazione vera che divida il disagio fra i lavoratori» e trovare «una integrazione di sostegno al reddito» per gli operai coinvolti. «O si ragiona su queste tre cose o l’azienda non avrà il nostro appoggio» promette Talò che rappresenta circa 3.200 tesserati (il sindacato con più iscritti) nello stabilimento, dove oggi risultano assunti in 11.457.
Del futuro dei lavoratori alla luce dell’annuncio Ilva di ieri, i sindacati discuteranno in un incontro previsto per domani al ministero del Lavoro, appuntamento fissato inizialmente con un altro ordine del giorno ma che non potrà non tener conto degli sviluppi delle ultime ore. Non ultimo l’investimento che l’azienda della famiglia Riva annuncia di voler mettere sul piatto della bilancia nel suo piano di ristrutturazione aziendale, due miliardi 250 milioni di euro. E si chiederanno garanzie anche su un altro dettaglio messo a fuoco dalla stessa Ilva ieri: alla fine di questa cassa integrazione non ci sarà «nessun esubero di natura strutturale». Cioè non ci saranno licenziamenti, assicurano i vertici aziendali, certi che «si perverrà gradualmente ai livelli produttivi programmati e al richiamo in attività di tutto il personale sospeso».
Tutto questo mentre sono quanto mai aperti i tanti fronti giudiziari sul caso Ilva, sotto accusa per disastro ambientale. L’ultimo riguarda la vendita dei prodotti finiti e semilavorati che la procura aveva sequestrato il 26 novembre scorso. I quattro custodi giudiziari dei beni (un miliardo e 700 mila tonnellate) sono stati incaricati di venderli per evitarne il deterioramento ma l’incasso della vendita (dagli 800 milioni al miliardo) rimarrà, secondo la disposizione del giudice delle indagini preliminari Patrizia Todisco, sotto sequestro.
E c’è un possibile nuovo terreno di scontro fra l’Ilva e i magistrati di Taranto. Nei giorni scorsi gli avvocati dello stabilimento hanno presentato alla procura generale della Cassazione e al ministero di Grazia e Giustizia una segnalazione per far presente a Roma «forti anomalie» che riguardano il Tribunale del Riesame di Taranto. In pratica è la contestazione per alcune decisioni prese nei mesi scorsi ma senza nessuna richiesta specifica di intervento, anche se i legali sanno benissimo che una segnalazione come quella, di solito, è l’anticamera di un’ispezione ministeriale.

Il Corriere della Sera 20.02.13

"La televisione senza regole", di Giovanni Valentini

Alla vigilia di un’elezione politica, la vendita di qualsiasi giornale – anche regionale o di provincia – susciterebbe sospetti e polemiche.
Figuriamoci quella di una rete tv come La 7 che aspira a rappresentare un “terzo polo” fra due colossi come la Rai e Mediaset. E oggettivamente non c’è dubbio che di una procedura accelerata si tratti, nella logica frettolosa del fatto compiuto che ha distorto nel corso degli anni il mercato televisivo italiano.
Basterebbe già questa coincidenza temporale per avanzare legittime riserve sulla decisione con cui il Cda di Telecom ha dato il via libera a una “trattativa in esclusiva” con l’editore Urbano Cairo. Quasi che si volesse precostituire uno stato di fatto irreversibile, in vista di una prospettiva o di una svolta politica sfavorevole. Concludere l’affare, insomma, prima che possa arrivare qualcuno a cambiare le regole.
Eppure, è proprio questo ciò che occorre in primo luogo. Cambiare le regole di un sistema squilibrato, ancora dominato in gran parte del duopolio Raiset, per adottare finalmente una riforma anti-trust: contro la concentrazione televisiva e pubblicitaria che ha danneggiato il pluralismo dell’informazione e la libera concorrenza. E dunque, aprire a nuovi soggetti, nuovi mezzi, nuove iniziative e nuove idee.
Altro è la necessità di regolamentare il conflitto di interessi: cioè la commistione tra affari privati e incarichi pubblici, fra il business e il mandato parlamentare o di governo. Non solo nel campo televisivo. Ma tanto più necessaria in un settore nevralgico della vita democratica, dove diventa assolutamente intollerabile la sovrapposizione tra il ruolo politico e lo “status” di concessionario
pubblico, titolare di un contratto d’affitto con lo Stato e quindi in pratica controparte di se stesso.
Sono concetti che andiamo ripetendo da anni. Un conto è la concentrazione televisiva e un conto è il conflitto di interessi. Per una malvagità della storia, nel nostro disgraziato Paese le due questioni s’incarnano nell’inquietante figura di Silvio Berlusconi. Ma restano diverse e distinte, anche se molti non vogliono o fingono di non capirlo, confondendo i due obiettivi per trincerarsi nel baluardo del conflitto di interessi.
Ora è indubbio che Cairo – per quanto dica di aver rotto con il Cavaliere nel ’95, come s’è affrettato a precisare lui stesso – proviene da quella medesima “scuola di pensiero”. È stato il suo assistente, s’è formato a Publitalia. E ha applicato il “modello berlusconiano” perfino nel calcio, rilevando il vecchio e glorioso Torino. Un “follower”, insomma, come si direbbe nel gergo degli internauti.
È pur vero che nel frattempo è cresciuto. S’è messo in proprio, è diventato anche editore e possiede una batteria di periodici che macinano pagine patinate e pubblicità. Per cui bisogna metterlo e aspettarlo alla prova dei fatti, verificando sul campo se La 7 manterrà l’identità di tv indipendente che è riuscita a costruirsi oppure se si trasformerà nella quarta rete Mediaset. Un’emittente collaterale, fiancheggiatrice, vassalla.
Per il momento, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno, possiamo anche dire: mezzo pericolo scampato. Sarebbe stato molto più grave, infatti, se Telecom avesse accettato la “proposta indecente” presentata dal Fondo Clessidra che fa capo a un altro berlusconiano doc come Claudio Sposito, ex amministratore di Fininvest.
Non tanto per una questione di persone, per carità. Quanto per il fatto che l’azienda guidata da Franco Bernabè avrebbe svenduto, insieme alla televisione, anche i tre “multiplex” che comprendono le frequenze televisive ottenute in concessione dallo Stato per vent’anni. Quelle, ricordiamolo en passant, sono un bene pubblico che appartiene a tutti i cittadini. Ma in forza della distinzione fra operatori di rete e fornitori di contenuti a La 7 basterà affittare da Telecom un solo “mux” per trasmettere tutto quello che vuole.
Adesso è necessario, come ha detto ieri Pierluigi Bersani, disciplinare le posizioni dominanti, dirette o indirette. E perciò il leader del centrosinistra s’è attirato da Berlusconi l’accusa di lanciare “minacce mafiose”, quasi che le regole – a cominciare proprio dall’anti-trust – non rientrassero nella logica del capitalismo di mercato e della democrazia economica. Soltanto così, invece, si può favorire la formazione di un “terzo polo” televisivo, rafforzando nel contempo l’intero sistema dell’informazione a vantaggio di tutti i media, vecchi e nuovi.
La televisione è stata, insieme alla giustizia, la vera posta in palio nell’infausto ventennio berlusconiano. E ancor più, lo è stata la ricca torta della pubblicità televisiva. Ecco la “mission” del partito- azienda, il suo codice genetico. Fra pochi giorni, avremo l’opportunità di chiudere con il voto quella lunga stagione di abusi e di malversazioni.

La Repubblica

"Coppie di fatto, i paletti dell’Europa", di Vladimiro Zagrebelsky

La Corte europea dei diritti umani, decidendo un ricorso contro l’Austria, ha chiarito, con un’importante sentenza definitiva, alcuni aspetti dei problemi che sono discussi in materia di unioni omosessuali. La Corte, come d’abitudine, ha giudicato un caso concreto ma ha anche fatto il punto indicando alcuni principi tratti dalla Convenzione europea dei diritti umani. Convenzione che lega tutti i Paesi del Consiglio d’Europa, Italia compresa. Nei principi affermati non si tratta di una sentenza innovativa, ma anzi essa conferma e sviluppa posizioni ormai stabilizzate nella sua giurisprudenza: giurisprudenza che, come ha più volte affermato la Corte costituzionale italiana, esprime il contenuto dei vari diritti considerati dalla Convenzione che l’Italia si è obbligata a rispettare.

Il caso riguardava una coppia omosessuale stabilmente unita. Una delle due donne aveva un figlio, nato da una precedente relazione non matrimoniale con un uomo. Il figlio viveva affidato in via esclusiva alla madre, ma teneva contatti con il padre. La compagna chiedeva di poter adottare quel bambino, così da sottolineare il suo inserimento nella vita familiare instauratasi tra le due donne. Il padre del bambino si opponeva. La legge austriaca permette l’adozione congiunta da parte di persone non sposate, conviventi eterosessuali. L’adozione, mentre crea un legame genitoriale con l’adottante, fa cessare quello con il genitore biologico dello stesso sesso dell’adottante. Nel caso sottoposto alla Corte europea dopo il rifiuto opposto dai giudici austriaci, l’adozione richiesta dalle due donne congiuntamente, secondo la legge austriaca, fermo rimanendo il rapporto con il padre, avrebbe fatto cessare il rapporto giuridico tra il bambino e sua madre: conseguenza evidentemente per tutti inaccettabile, perché in contrasto con l’interesse del bambino ed anche con lo scopo che muoveva le due donne ormai stabilmente unite.

La Corte ha ritenuto che il rifiuto dell’adozione richiesta sia stato motivato esclusivamente sulla base del fatto che si trattava di coppia omosessuale. Tale argomento preliminare aveva escluso la necessità di esaminare nel caso concreto se quell’adozione fosse o meno nell’interesse del bambino (criterio sempre prevalente nelle procedure di adozione), in un caso in cui il padre era comunque attento a mantenere un rapporto con il figlio e si opponeva alla richiesta adozione. La Corte ha ragionato sulla base del principio di non discriminazione, affermato dalla Convenzione anche a proposito delle differenze di orientamento sessuale e ha constatato che la domanda di adozione era stata respinta solo per il differente trattamento che la legge austriaca riserva alle coppie omosessuali rispetto alle coppie eterosessuali (entrambe non unite in matrimonio). Donde la violazione del diritto al rispetto delle scelte di ordine familiare, che la Convenzione assicura a tutti, senza alcuna distinzione.

La Corte non ha detto che quell’adozione doveva essere accettata dai giudici austriaci; ha soltanto constatato che il rifiuto era stato motivato esclusivamente sulla base di un argomento discriminatorio, astratto e generale, legato all’orientamento omosessuale della coppia che quell’adozione richiedeva. Nel caso concreto, tenendo conto di tutte le circostanze, i giudici, come avviene per le adozioni da parte di coppie eterosessuali, avrebbero dovuto esaminare se quell’adozione era o non era nell’interesse del bambino e conseguentemente se l’opposizione del padre era o non era da superare.

Il caso a questo punto può interessare solo marginalmente, perché alla fine su quella adozione decideranno i giudici austriaci valutando il preminente interesse del bambino nel contesto specifico in cui vive. Ma l’occasione ha offerto alla Corte la possibilità di mettere in chiaro alcuni principi di ordine generale. Innanzitutto la Corte ha ricordato quanto già in precedenza affermato, che le stabili convivenze di fatto, etero o omosessuali, costituiscono una situazione di vita familiare che richiede di essere rispettata dalle leggi e dai giudici dello Stato. La Corte costituzionale italiana ha in proposito parlato di formazione sociale che merita rispetto e tutela. Ciò però non vuol dire che gli Stati siano obbligati ad ammettere nella loro legislazione anche il matrimonio omosessuale. Altre forme di riconoscimento delle unioni di fatto, etero o omosessuali, sono possibili e idonee a tutelare le esigenze di carattere personale e familiare di coloro che le compongono. E quelle forme, comunque si chiamino nella legislazione degli Stati, possono offrire alle unioni di fatto una regolamentazione diversa e più ristretta di quella conseguente al matrimonio; lo Stato ha una certa discrezionalità nel scegliere il contenuto della regolamentazione (in particolare per quanto riguarda la possibilità di adottare), con il limite generale della ragionevolezza. Ma si tratta di soluzioni per riconoscere e tutelare la vita familiare delle coppie di fatto, che non possono essere diverse a seconda che si tratti di unioni etero o omosessuali. Una diversità di trattamento – come nel caso austriaco giudicato dalla Corte – sarebbe discriminatoria per ragioni di orientamento sessuale e contrario alla Convenzione. La Corte ha constatato che la maggior parte dei dieci Stati europei che ammettono le coppie di fatto all’adozione congiunta, non distingue tra coppie etero e coppie omosessuali e ne ha tratto argomento per negare che vi sia un significativo consenso europeo che giustifichi la discriminazione.

Ai principi enunciati dalla Corte europea possono naturalmente e in vario senso essere opposte ragioni di dissenso. Non può però negarsi che il quadro complessivo si presenta articolato ed equilibrato. Lascia spazio a scelte legislative diverse nei vari Stati, cui impone solo di riconoscere legislativamente la realtà delle coppie di fatto etero e omosessuali, ammettere che esse danno corpo a una vita di famiglia che va rispettata e non imporre un trattamento diverso (discriminatorio) alle coppie omosessuali rispetto a quelle eterosessuali.

Il Parlamento italiano, nella nuova composizione che attendiamo, avrà di fronte a sé diverse opzioni possibili per adeguarsi ai principi europei che è tenuto a rispettare. Ciò che non gli è permesso è perseverare nell’inerzia.

La Stampa 20.02.13