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Bersani: “Da Milano parte la svolta ora tocca a noi, usciremo fuori dal buio”, di Alessia Gallione e Matteo Pucciarelli

Questa volta, l’arcobaleno che apparve dopo la pioggia due anni fa tra le guglie della cattedrale a salutare la vittoria di Giuliano Pisapia non c’è. Non ancora, dice Pierluigi Bersani. Ma arriverà. Ed è a quella manifestazione, a quel risultato strappato nella culla del berlusconismo e della Lega, che ha pensato il segretario del Pd. Lo ha fatto da lì, è da una (stessa) piazza Duomo gremita da almeno 30mila persone che il centrosinistra ha voluto lanciare la volata. Ancora una volta è questo l’epicentro politico della sfida. Ed è «da qui che partirà la svolta», ha esortato il candidato premier. Dal «luogo da cui, nel bene e nel male è sempre partito tutto, gireremo una pagina ventennale. Noi tireremo fuori dal buio la Lombardia e l’Italia ». E la foto finale è di gruppo. Tutti insieme, i leader della coalizione: Bersani, Nichi Vendola, Bruno Tabacci, insieme al sindaco Pisapia e al candidato al Pirellone Umberto Ambrosoli. Con un uomo in più a giocare quella che è diventata una doppia partita decisiva: Romano Prodi salito (dopo quattro anni) a sorpresa sul palco di Milano per chiedere di votare «uniti» per il governo del Paese e della Regione.
Prima Milano, poi la Lombardia e l’Italia. Eccola la scalata a cui punta il centrosinistra. E a tracciare analogie tra la manifestazione- concerto di ieri e la piazza Duomo colorata di arancione di Pisapia sono stati gli stessi protagonisti. A cominciare dal sindaco che è salito sul palco con lo stesso leggio del 2011, quello della vittoria alle Comunali. Scaramanzia. «E ho proprio le stesse calze rosse di allora», ha scherzato. «Dopo avere liberato Milano liberiamo la Lombardia per costruire l’Italia che vogliamo. Con Ambrosoli saremo fieri di essere lombardi e con Bersani non ci vergogneremo più di essere italiani », ha scaldato la piazza. E alla Liberazione ha fatto riferimento anche Bruno Tabacci. Il leader di Centro Democratico è partito proprio dal 1945, strappando applausi.
Ricordando Giovanni Marcora, il comandante partigiano “Albertino” che, ha detto, considera il suo maestro. Un’evocazione che, per il candidato al Pirellone, è stata invece l’appello finale. «Il 25 Aprile quest’anno arriva a febbraio. Non abbiamo bisogno di continuità ma di una nuova prospettiva. La Lombardia ha l’occasione di scrivere una pagina di storia come quella di tanti anni fa», ha scandito Umberto Ambrosoli.
Perché qui, nella regione degli scandali della sanità e della giunta Formigoni caduta dopo l’arresto di un assessore arrestato per aver comprato voti dalla ‘ndrangheta, il centrosinistra vuole il cambiamento. Vuole «smacchiare il giaguaro», per dirla con Bersani. E quando la cita, la sua famosa espressione, è uno sventolio
di bandiere. «Se in Lombardia si va al voto anticipato è perché le ronde padane non hanno fermato la ‘ndrangheta», ha attaccato. E ha anche stilato una sua classifica: «Al primo posto nell’hit parade di chi ha raccontato la balla più grossa metto Maroni. Ha proposto di stampare una moneta lombarda e io l’ho ribattezzata il “marone”, ma si ricordi che i soldi che deve darci indietro, 4 miliardi del condono tombale e 4 miliardi e mezzo delle quote latte, ce li deve dare in euro». E dopo Prodi (una sorpresa vera, assicurano dietro le quinte, organizzata dai Democratici lombardi e da quelli emiliani), che ha parlato della tenuta della coalizione, anche il leader del Pd ha puntato sull’unità. L’alleanza non salterà. «Ci siamo presentati con una nostra foto di gruppo. Non ho visto foto di Berlusconi, Maroni e Storace o Fini, Casini e Monti». Quegli accordi, è stata la sua previsione, «si frantumeranno ». Anche Vendola ha messo il suo sigillo: «Nel futuro governo non sarò un elemento di disturbo ma garanzia di governabilità e stabilità. Non sarò quello che rincorrerà Bersani per tirarlo per la giacchetta». Poi nel retropalco i due si fanno fare una foto insieme: «Siamo una coppia di fatto».

La Repubblica 18.02.13

"Lavoro e povertà. I veri problemi del mezzogiorno", di Guglielmo Epifani

Vista da Napoli la campagna elettorale appare davvero surreale. Con l’eccezione del Pd, e in parti- colare dello sforzo di Bersani, quasi tutto il dibattito ha preso una direzione totalmente rovesciata rispetto alla priorità dei problemi. I temi del lavoro, del- la crescita e della sua qualità, del Mezzogiorno, della coesione, della inoccupazione giovanile e della precarietà, avrebbero dovuto costituire il cuore del confronto dei programmi vista la pesantezza della crisi. E invece sono stati sostituiti dal fisco, dalla tassazione della casa, dalla fantasia delle promesse e dalla irresponsabilità diffusa. Sui problemi del Welfare, dalla sanità all’istruzione, su quelli della povertà e dell’esclusione sociale, sulla condizione dei pensionati, anche qui con l’eccezione del Pd, il confronto elettorale non ha registrato sostanzialmente nulla. Tutto questo naturalmente impoverisce la serietà e la qualità del confronto, allarga e non riduce il distacco tra cittadini e politica, finendo per alimentare ogni suggestione populista e antidemocratica. Insieme conferma l’anomalia tutta italiana dei partiti e dei movimenti personali che per definizione non sono in grado di produrre un credibile progetto di governo del Paese. E per converso non è un caso che solo il Pd mantenga il profilo di merito e la sobrietà che una campagna elettorale a un tempo difficile e fondamentale richiede. In un dibattito così il Mezzogiorno si ritrova poco. La caduta del reddito, confermata per ultimo dall’Istat, ne riporta la condizione sociale e produttiva indietro di decenni. A Napoli la inoccupazione giovanile è quasi al 50 percento, l’occupazione femminile al 16. Nelle mense della Caritas per la prima volta la presenza dei cittadini italiani supera quella dei migranti, una parte dei quali silenziosamente è ripartita in cerca di nuovi luoghi dove trovare occupazione perché qui è difficile recuperare un senso di speranza. E anche gli intellettuali sembrano fermi dopo le delusioni seguite a tante aperture di credito. Le difficoltà finanziarie del Comune, con i tagli a tutto il settore sociale, e l’assenza di un forte ruolo della Regione tolgono altri e importanti riferimenti. Si avverte l’assenza di un progetto da cui ripartire, e in questo vuoto si ampliano le solitudini e i drammi sociali e si fanno strada forme di ribellismo e di rifiuto delle regole e la ricerca irrazionale di vie di uscita affidate al Masaniello di turno. Nella crisi l’attività della criminalità organizzata diventa più forte, economicamente e socialmente. Cosa possiamo fare e cosa dobbiamo fare in questa situazione? Sicuramente non promettere cose che non si potranno mantenere passate le elezioni. Ma tenere ferme con decisione quelle scelte che sono in grado di rappresentare, soprattutto al Sud, delle risposte. Risolvere il problema degli esodati e quello dei crediti delle imprese verso le Pubbliche Amministrazioni: due temi che hanno il segno di ridare credibilità al ruolo dello Stato. Rifinanziare gli ammortizzatori sociali significa dare un po’ di sostegno a tanti lavoratori di aziende in crisi, pur sapendo che questo alla lunga non risolve né la prospettiva né la condizione di reddito. Allentare il patto di stabilità può sbloccare a breve investimenti, creare posti di lavoro e la ripresa di un’azione di messa in sicurezza del territorio. Investire le risorse possibili per l’occupazione giovanile e la stabilità del lavoro può invertire anche se di poco una pesantissima condizione giovanile. Fare ripartire il settore delle costruzioni, la riqualificazione urbana e l’edilizia a consumo zero di territorio, è una leva anticlica e di cambiamento di modello economico colpevolmente trascurato fino ad oggi. In più occorre aggiungere un aumento di risorse al sistema scolastico e universitario, al diritto allo studio, al rapporto tra innovazione, ricerca e impresa. Questo è quello che si può fare, insieme a una ridiscussione delle modalità di utilizzo dei fondi europei, in un quadro di forte insoddisfazione per un bilancio europeo che è troppo al di sotto del bisogno di crescita, di investimenti e di occupazione. Ma è evidente che si tratta solo di una prima e parziale risposta. La caduta degli investimenti in questa parte del Sud, compresi quelli pubblici in conto capitale, negli ultimi quindici anni racconta del divario infrastrutturale che è aumentato con il resto del Paese. Nella Regione più giovane dell’Italia tutto questo non può essere tollerato, perché è qui il cuore di una contraddizione che deve trovare un esito positivo, anche per ridare un senso, e quindi una speranza, al bisogno di coesione e di unità del Paese. Sì e No Tav, ex leghisti, Pdl e sinistra Lo strano popolo del capocomico … Non vedono diversità fra una storia e l’altra, fra la sinistra e la destra, fra padrone e sindacato

L’Unità 18.02.13

"In fuga dalle domande e dalla democrazia", di Ilvo Diamanti

Confesso di non averci creduto. Al ritorno annunciato di Grillo in tivù, a Sky. In un’intervista in diretta, dal suo camper. Infatti, nel pomeriggio il ritorno è stato rinviato. A mai più. Perché, ha scritto Grillo su Twitter, piuttosto che nei salotti tv, preferisce recarsi «nelle piazze, tra la gente ». Così si è servito, una volta di più, della televisione come
strumento di propaganda.
Ma senza andarci, direttamente. E senza accettarne le regole, anche le più elementari. Tra le altre: accettare il confronto con un giornalista, rispondere a domande, magari critiche.
Non ho mai creduto davvero che Grillo si sarebbe fatto intervistare in tv. Per alcune ragionevoli ragioni.
Anzitutto, perché non gli conviene. In una fase in cui tutti i sondaggi registrano la crescita impetuosa del M5S. Spinto dagli scandali che hanno scosso gli ambienti politici, finanziari ed economici. Hanno colpito a destra, a sinistra e al centro, alimentando il vento che gonfia le vele del vascello di Grillo.
In secondo luogo, andare in televisione, accettare un’intervista, avrebbe significato, per Grillo, contraddire il proprio programma politico e la sua strategia di comunicazione.
Quanto al programma politico, Grillo predica e insegue la democrazia diretta e deliberativa. Che ha due luoghi privilegiati e due nemici espliciti. I luoghi privilegiati sono la piazza e la rete. La piazza: icona e metafora della democrazia ateniese, al tempo di Pericle. La democrazia della Polis. Dove i cittadini partecipano a tutte le decisioni che li riguardano. Anche se si tratta di un “mito” difficile da realizzare quando le dimensioni della cittadinanza superano i confini della città. La rete: la nuova piazza, che permette di allargare il confronto anche oggi, nella società globale. E di renderlo costante, continuo, puntuale. In tempo reale.
La strategia di comunicazione di Grillo, peraltro, coincide con i luoghi del suo programma. Perché la sua campagna elettorale si svolge davvero di piazza in piazza, in giro per l’Italia. Attraverso il suo Tsunami tour. Con grande, grandissimo successo di pubblico. Dovunque, il pienone. Gente stipata ovunque. Attivisti, simpatizzanti e curiosi. Ad ascoltare il Capo. Perché la comunicazione di Grillo, in piazza, non echeggia la Polis, ma semmai, il teatro, il palcoscenico. In fondo: la televisione come l’ha interpretata lui in passato. Quando si esibiva, da grande uomo di spettacolo. I suoi recital: non erano confronti e discussioni nell’agorà. Ma monologhi. Come oggi, nelle piazze. Trasformate in teatri, dove egli si esibisce dal suo palcoscenico. Le piazze, dove egli tiene le sue orazioni, inoltre, riproducono con efficacia la relazione “diretta” fra il Capo e il suo popolo. Una comunicazione, però, a senso unico. Perché nelle piazze non si discute: si ascolta, si applaude, si acclama. Al più, si protesta.
La rete, evidentemente, è un’altra cosa. È uno spazio di comunicazione aperto, che permette a tutti di intervenire. Anche se poi, in realtà, nella rete non tutti sono uguali. Non tutti hanno la stessa importanza. Non tutti contano come Grillo. Anche perché non è la stessa cosa partecipare a un meetup definito su base tematica e locale o alla discussione in rete su temi generali, in ambito nazionale.
Per questo trovavo singolare la scelta di Grillo di abbandonare la Piazza e la Rete per andare in tv. Per sottoporsi al confronto con un giornalista, su quesiti e questioni “im-previste”. Di fronte a un “pubblico” ampio. Con il quale il Capo non sarebbe stato in grado di stabilire un rapporto “empatico”.
Anche perché, ultima e decisiva ragione, la tv è l’emblema della “democrazia rappresentativa”. Cioè, per citare un autore d’altri tempi, il marchese di Condorcet: la democrazia “indiretta”. Mediata dai “rappresentanti”, cioè i partiti e i politici. E, oggi, dai media e i mediatori. Cioè: la tv e i giornalisti. I due nemici, contro cui aveva organizzato i Vday. Il primo contro la casta dei “politici”, il secondo contro quella dei “giornalisti”.
Per questo, alla fine, Grillo si è sfilato. In fondo, l’effetto-annuncio l’aveva ottenuto e sfruttato. Tutti attendevano il suo ritorno. Il mancato appuntamento dell’ultima ora ha agito da ulteriore notizia “televisiva”. Gli ha permesso di marcare la sua distanza e la sua opposizione. Il suo messaggio antipartitico e antitelevisivo. Moltiplicato, per il cortocircuito comunicativo dell’informazione televisiva, proprio dalla tivù.
Il problema è che, in questa occasione, la tv si è “rivoltata” contro chi la vuole usare senza prestarsi al gioco. In altri termini: Sky non si è limitata a prendere atto dell’intervista rifiutata all’ultimo momento da Grillo. Ma ne ha fatto motivo di sfida “democratica”. Ha, cioè, incalzato Grillo. Sollevando il dubbio che il rifiuto sia dettato dall’indisponibilità a rispondere alle domande, anzi: a “domande”. Dal timore del contraddittorio. Certo, nella democrazia mediale che abbiamo conosciuto, con l’avvento di Berlusconi, la televisione è stata sempre utilizzata in modo strumentale. Il Cavaliere, in particolare, l’ha usata per “monologare”, fin dalla “discesa in campo”. Ha accettato il confronto aperto, in campagna elettorale, solo quand’era sfavorito. Come nel 2006, per colmare il distacco da Prodi. Mentre l’ha rifiutato nel 2001 e nel 2008, quando i sondaggi lo davano in largo vantaggio. E oggi vorrebbe, di nuovo, confrontarsi. Ma da solo, con Bersani. Per sfuggire alla competizione multipolare di questa fase e riproporre (meglio: imporre) uno schema bipolare – e personalizzato – che, nei fatti, non c’è.
Grillo, invece, ha diviso e divide il mondo in due. Lui e gli altri. Lui contro gli altri: i partiti, i politici, i media e i giornalisti. Per questo rifiuta i partiti, non solo la partitocrazia. Non solo la “cattiva televisione” ma la tv in quanto tale. E caccia le telecamere dal palco anche quando cercano di riprendere “il popolo” del M5S nella sua Piazza.
Tuttavia, i principi della democrazia (come ha osservato Bernard Manin) prevedono la libertà dell’opinione pubblica. E richiedono, per questo, il confronto – critico e aperto — tra posizioni e idee diverse e alternative. Espresse da candidati diversi e alternativi. Nelle piazze e nella rete. Ma anche in tivù. Dove l’80% dei cittadini si informa quotidianamente.
L’intervista accettata – e poi rifiutata – da Grillo a Sky rischia, per questo, di apparire un segno di debolezza. Più che una sfida: una fuga. Dalla democrazia.

La Repubblica 18.02.13

"Bersani: unioni civili entro un anno. Il leader Pd annuncia anche la legge contro l’omofobia entro i primi sei mesi", di Simone Collini

L’impegno ad approvare una legge sull’omofobia in sei mesi e una sulle unioni civili entro un anno, la conferma che non romperà l’alleanza con Vendola, che anzi vede come «uomo di governo», e poi l’offensiva contro un Berlusconi che «si sente minacciato se si parla di regole» e contro una Lega «che con le famose ronde padane non ha fermato la ‘ndrangeta, che anzi è si è infiltrata nella giunta regionale in Lombardia». Bersani va al rush finale della campagna elettorale senza cambiare registro, deciso a «non raccontare favole» e però annunciando quel che sicuramente farà una volta a Palazzo Chigi. Intanto, per quel che riguarda le alleanze: «Vendola sta governando una Regione, a differenza di quello che pensano tanti altri, io penso a lui come un uomo di governo», dice il leader del Pd a uso e consumo di Monti e soci. «Inutile che mi dicano “con Vendola no”, perché allora vuol dire no con Bersani, punto».
Ma soprattutto, il candidato premier del centrosinistra mette in chiaro che non mancherà di fedeltà ai suoi valori e convincimenti quale che sia la maggioranza che si verrà a creare in Parlamento dopo il voto di domenica e lunedì. In un messaggio inviato alla convention organizzata a Roma da Agedo, Arcigay, Arcilesbica, Equality Italia, Famiglie Arcobaleno, Bersani si è impegnato a estendere, entro sei mesi, la Legge Mancino anche ai reati di omofobia e transfobia e ha dichiarato che entro un anno dall’eventuale elezione a Palazzo Chigi prenderà «la legge tedesca sulle unioni omosessuali» per «tradurla nella legislazione italiana», compreso «il nodo del riconoscimento del diritto del bambino che cresce all’interno di un nucleo famigliare omogenitoriale a vedere riconosciuto dalla legge il legame affettivo con il genitore non biologico, soprattutto nei casi di malattia o morte del genitore biologico» (nel messaggio Bersani ha anche ricordato come sia necessaria una legge sul divorzio breve e una seria revisione della legge 40).
Diritti civili, norme su lavoro e occupazione, misure per la legalità sono i tasti su cui il leader Pd continuerà a battere nei prossimi giorni. A Grillo, che se ne esce con la proposta di «una commissione d’inchiesta sui vertici Pd», Bersani chiede di «rispondere di alcune cose», a cominciare da questa: «Visto che va dicendo che non ci sono più destra e sinistra, gli chiedo io: ma il figlio di un immigrato, nato qui, che studia con i nostri ragazzi, è italiano o no? Io penso di sì, lui è sempre convinto di no?».
Ma l’obiettivo principale rimangono Berlusconi e la Lega. Al primo che dice di essere «minacciato» da Bersani perché vuole una legge su conflitto di interessi, anticorruzione, falso in bilancio,
il leader del Pd replica: «È curioso Berlusconi, io non minaccio nessuno però prendo atto che tutte le volte che si parla di regole Berlusconi si sente minacciato». All’ex premier, che fa sapere di avere il «sogno prima di morire» di passare sul Ponte sullo Stretto di Messina, Bersani fa anche presente che ormai è ampiamente dimostrata una cosa: «Il ponte sullo Stretto è una di quelle cose che porta fuori strada, fa discutere, spendere soldi per niente. Senza risultati». Mentre alla Lega manda a dire: «Non dimentichiamo perché in Lombardia si va al voto anticipato. Le famose ronde padane non hanno fermato la ‘ndrangheta, che anzi è arrivata fino alla giunta regionale in Lombardia».
Parole dette ieri dalla Puglia ma che oggi Bersani ripeterà a Piazza Duomo, all’appuntamento a sostegno di Umberto Ambrosoli a cui il leader del Pd parteciperà insieme anche a Giuliano Pisapia, Nichi Vendola e Bruno Tabacci. La sfida in Lombardia è doppiamente importante, per ottenere la maggioranza al Senato e per impedire che a riconquistare il governo della Regione sia l’asse Pdl-Lega. Ironizzando sulla promessa di Berlusconi di restituire i soldi dell’Imu e sull’annuncio di Roberto Maroni di coniare una nuova moneta in Lombardia in caso di vittoria, Bersani dice polemicamente: «Ora vuole coniare il “Marone”, ma sappiano che i 4 miliardi e mezzo delle quote latte li devono restituire in euro, non in “Maroni”».
L’iniziativa di oggi a Milano sarà importante, ma per avere la maggioranza al Senato sarà decisivo conquistare il premio di governabilità anche in Sicilia. Non a caso, mercoledì Bersani sarà a Palermo insieme a Matteo Renzi e Rosario Crocetta. La giornata di venerdì, per la chiusura della campagna elettorale, sarà invece dedicata soprattutto agli appelli al voto in tv.

l’Unità 17.02.13

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Il «pacchetto giovani» del Pd: sgravi mutui, tempo pieno, salario minimo. Pronte le misure per rilanciare il lavoro con incentivi alle nuove assunzioni e contrastare la precarietà,
di simone Collini

Al quartier generale del Pd lo definiscono «pacchetto giovani». Sono due pagine, frutto della selezione e sintesi delle proposte messe a punto dai diversi dipartimenti del partito: Economia e Lavoro ma anche Scuola, Ambiente, Cultura. Alcune Pier Luigi Bersani le ha già annunciate nei giorni scorsi, altre le lancerà in quest’ultima settimana di campagna elettorale. Come ripete infatti il candidato premier del centrosinistra in pubblico come in privato, primo (con obiettivo polemico Berlusconi) «da questa crisi si esce non raccontando favole ma presentando proposte concrete per creare lavoro» e, secondo (differenziandosi da chi come Monti parla ancora di correzioni da apportare allo Statuto dei lavoratori) «maggiore occupazione si crea non con nuove regole per il mercato del lavoro ma rilanciando l’attività economica». E il documento che via via sta illustrando Bersani parla proprio di questo.
In cima alla lista c’è una misura per immettere liquidità e permettere alla Pubblica amministrazione di pagare i debiti arretrati alle piccole e medie imprese. Nella proposta messa a punto dal Pd si parla di 10 miliardi l’anno per cinque anni che possono essere trovati mediante emissioni di titoli del Tesoro sul modello dei Bpt Italia e che consentirebbero un rafforzamento finanziario delle imprese e quindi un’incentivo per innovazione e nuove assunzioni.
Ma siccome per superare la crisi è anche necessario rilanciare i consumi e favorire la stabilità, le nuove assunzioni non dovranno essere sotto il segno della precarietà. Per questo nel pacchetto preparato in vista della sfida del governo c’è una parte corposa dedicata a come incentivare i contratti a tempo indeterminato e a come realizzare una rete di tutele per i lavoratori assunti con contratti a tempo determinato. Nel documento si parla di una «graduale convergenza» tra quanto versato per chi ha contratti a termine e chi ha un lavoro stabile («un’ora di lavoro a tempo determinato non può costare meno di un’ora a tempo indeterminato», è la battuta a cui ricorre spesso Bersani). Una misura, si precisa nel testo che dovrebbe diventare operativo in caso di vittoria alle elezioni della prossima settimana, «da considerare come primo tassello di una complessiva riforma del sistema fiscale per alleggerire il carico sui redditi da lavoro ed impresa». Il paragrafo dedicato a come «superare la precarietà» prevede anche l’«introduzione di un salario o compenso minimo, determinato in riferimento agli accordi tra le parti sociali, per i lavoratori e le lavoratrici escluse dai contratti collettivi nazionali di lavoro», la definizione di «una base di diritti comune a tutte le forme di lavoro: dall’indennità di disoccupazione alla universalizzazione dell’indennità di maternità all’indennità di malattia» e il sostegno ai contratti di apprendistato «attraverso la semplificazione delle procedure autorizzative, la ridefinizione dei requisiti formativi e la revisione degli incentivi alla stabilizzazione».
Un’altra proposta su cui punta molto il Pd riguarda un piano di riqualificazione per scuole e ospedali da finanziare con i fondi strutturali europei e con quanto recuperato da una riduzione delle spese militari. Secondo i calcoli effettuati dai dipartimenti del partito, le operazioni per la messa in sicurezza, l’efficienza energetica, la manutenzione e la bonifica da amianto dovrebbero ammontare a 7 miliardi e mezzo da investire nell’arco di tre anni. Cifra che verrebbe trovata, oltre che attingendo ai fondi Ue, lavorando su una diminuzione delle spese militari: il bilancio della Difesa ammonta per il 2012 a 19,96 miliardi di euro, pari all’1,2% del Pil, e in prospettiva dovrebbe aumentare a 20,93 miliardi di euro per il 2013, ma per Bersani si tratta di spese ingiustificate, tanto più a fronte della crisi in corso.
Per quanto riguarda l’occupazione femminile, il pacchetto di proposte prevede una serie di incentivi fiscali per le mamme che lavorano e anche un ampliamento dell’offerta degli asili nido. Nel documento si parla di una detrazione fiscale di 100 euro al mese per le lavoratrici con figli minori di 6 anni (che si andrebbe ad aggiungere alle detrazioni per figli a carico già vigenti). «Alla copertura delle minori entrate Irpef, circa 1,2 miliardi di euro all’anno si legge nel testo si provvede mediante la riduzione delle tax expenditure relative alle assicurazioni private».
Il pacchetto prevede anche un piano di piccole opere che possano realizzare gli enti locali con una deroga al Patto di stabilità interno, il rilancio dell’economia verde, lo sviluppo della banda larga e aiuti alle imprese attraverso il credito d’imposta per la ricerca e l’innovazione. Nel documento si parla però anche della necessità di ripristinare un adeguato numero (40 mila) di borse di studio (nel testo si sottolinea che il diritto allo studio è garantito solo al 9% della popolazione studentesca, mentre in Francia e Germania si registra una percentuale del 25) e di un’operazione con la Cassa depositi e prestiti (per una somma di 2 miliardi) per favorire l’accensione di mutui per l’acquisto della prima casa da parte delle giovani coppie.

L’Unità 17.02.13

"Matti da slegare. L’inferno", di Adriano Sofri

Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) Ci avviciniamo al Terzo Reparto, e uno grida, rivolto prima al direttore, poi a tutti noi: «Me lo merito? Non me lo merito! Non me lo merito! ». Abbiamo già visitato il Primo Reparto, il direttore ci ha avvertiti: «Al Terzo è più dura». È il vecchio Reparto Agitati. Non ci sarà nessun atto inconsulto, solo facce e gesti gentili e ansiosi e tristi. C’è un giovane chiuso, con lui bisogna stare attenti, avvertono; è lui stesso a sbattere la porta blindata della cella addosso al cancello già chiuso. Le altre camere sono aperte, grandi e luminose, sei persone, niente letti a castello. Pochi stanno in branda: meno di quanti se ne troverebbero, a qualunque ora, in una galera “normale”. Sta passando il carrello del vitto, portato da due giovani signore dall’aria cordiale. Gli internati (si chiamano così) raccontano di sé succintamente, devono aver fatto l’abitudine ai visitatori e imparato a usare il minuto che può toccar loro. «Venivano come al giardino zoologico».
Dicono il nome, l’età, gli anni che hanno trascorso lì, e una frase essenziale o due. Giovanni, 37, di Benevento, da dodici anni negli Opg di Secondigliano e di Aversa prima di qui, mostra una pancia rigonfia da un lato, «un accoltellamento, devo essere operato». Francesco, 33 anni, «mi sono impiccato, volevo smettere di vivere, invece ho ricominciato a fumare». Un altro Giovanni, «faccio 82 anni il 29 dicembre, ma sulle carte legali a febbraio», qui da due anni, «spero di restarci, a Messina un inferno, in nove in una cella». Vincenzo, di Palermo, è qui da diciassette anni. Salvatore è di Comiso, è giovane, si mette a piangere: «Mi manca la mia mamma». Gli Opg chiudono il 31 marzo, «ma è domenica!», dice allarmato. Già. Mi abbraccia, ha voglia di abbracciare, molti qui ce l’hanno. Carlo è più riservato all’inizio, poi cambia. «Trentasei anni, sono arrivato a trentatré, sto invecchiando qua dentro. Ho preso due anni per oltraggio, ho picchiato uno perché non volevo i farmaci, sono già alla seconda proroga. Mio padre lavorava all’Ilva a Taranto, è morto di tumore. Io scrivevo canzoni, guardate la mia poesia su Youtube, Catene». L’ho guardata, poi. Domenico, 40, ha fatto un anno di carcere, dieci di manicomi. «Non chiedo licenze perché non ho i soldi. Sono in dialisi da quando avevo diciott’anni. Non ce la faccio più, sono tutto consumato». Uno mi invita in disparte, è quello che gridava: «Me lo merito? Non me lo merito!», vuole dirmi qualcosa. Mi sussurra, che gli altri non sentano: «Non me lo merito!». Penso che non se lo meriti. Tutti nominano le proroghe. Chi viene qui non è imputabile, ma è dichiarato socialmente pericoloso. Alla scadenza dei due anni, viene prorogato di altri due (o cinque o dieci). All’infinito. Nella maggioranza dei casi, perché non ha dove andare fuori, e nessuno vuole accoglierlo. Un obbrobrio.
Il letto di contenzione è in una stanza bianca e linda. In verità tutto il reparto è ristrutturato di fresco, imbiancato: pavimento lustro, servizi igienici puliti, refettorio comune. È un letto normale, con una cinghia da passare sul petto, la “fiorentina”. Ce ne sono tre in tutto. Quando arrivai, dice il direttore, Nunziante Rosania, ce n’erano ventisette. Di quelli in cui la persona denudata è legata ai polsi e alle caviglie, e al centro del pagliericcio lurido c’è un buco dal quale defecare, e la persona a volte veniva lasciata lì per giorni e settimane e mesi. Guardate su Youtube il documentario girato dalla Commissione parlamentare, se vi regge il cuore. Buona parte dell’Opg è sequestrata dalla Commissione presieduta da Ignazio Marino, e un paio di reparti sono già chiusi. Nel prossimo, un giovane, Salvatore, mi si avvinghia al collo e mi bacia con foga, e fa lo stesso col direttore, che è due spanne più alto di lui e di me. Poi si precipita ad allestire una performance per la giovane fotografa, combinando giacche e attaccapanni, giornali, disegni, dolciumi. Intanto gli altri ci fanno ressa attorno. Remigio, 34 anni di Brindisi, racconta convulsamente la sua epopea di figlio di buona famiglia, tossicomane, rapinatore, e molto altro. Giuseppe: «Mia mamma è morta nel 2011, ho sempre il pensiero di lei, lei mi ha nutrito, mi ha vestito ». M., 36, marocchino, «ho preso due anni perché ho spaccato una televisione alla stazione centrale di Milano, dopo sempre proroghe, da sette anni. A Milano ho due sorelle, i cugini, potrei almeno fare il colloquio». Peppino, 54 anni, li ha compiuti oggi, e ringrazia il direttore, perché sua moglie gli ha fatto la torta, «di pandispagna, buonissima». (Non era previsto che lo sapessimo, dunque lo annoto con piacere). Salvatore, 53, «ho passato quattro mesi in carcere a Catania, molto meglio qui, leggo, scrivo poesie», mi regala un libro che le contiene, L’altra libertà.
Antonio è di quelli che se ne stanno in branda, ma si alza: 75 anni, è successo a marzo, «è partito un colpo di fucile» — ha colpito una donna, quel colpo — finisco i miei giorni qui dentro, almeno fosse un vero ospedale.
Ci ha accompagnati un ispettore della polizia penitenziaria, deve averne viste tante. Chiudendo gli Opg finisce, dice, che quelli difficili da gestire li mettono semplicemente a marcire in galera. Non mi piace la demagogia, aggiunge. Ci esorta a chiedere a chi è stato anche in carcere dove si stia meglio. Gioco facile. Pasquale, 45 anni: «Non voglio che chiude». Sta molto male, mostra il braccio tutto tagliato, avverte: «Mi impicco stanotte». Ha girato tutti gli Opg: «Questo è il meglio». «Non riusciamo, con lui», dicono, e scuotono la testa. Torna sempre. Ho tanti appunti. Mi dispiace, capisco che non si intravedano nemmeno, dietro le due righe a testa, le persone in pena. Ci sono oggi a Barcellona centottantatrè internati, più diciotto detenuti “normali” aggregati per lavorarci. La maggioranza è qui per i più futili motivi. Una quarantina ha commesso uno o più omicidi, quasi tutti in famiglia. Non è vero che non ne vogliano parlare, o che mentano. Oggi questo resta un posto infame, in cui persone malate vengono tenute prigioniere, e persone innocue vengono sequestrate perché fuori per loro non c’è posto. Ma com’è possibile, chiedo, che, alla vigilia, finalmente, di una chiusura decretata da anni, questo luogo si mostri decente, e appena poco fa era un inferno di abiezione? Dal 1997 al 2007 le cose cambiarono enormemente, rispondono. Venne espulsa la genia dei grandi mafiosi simulatori. Dal 2008 tutto precipitò. «C’erano centosessanta internati, un anno dopo quattrocento. Altro che letti a castello. Ci scaricavano — alla lettera, furgoni pieni — persone in condizioni estreme. In due anni abbiamo perso sessantadue agenti, in pensione anticipata o riformati all’Ospedale militare: non ce la facevano più. Non riuscivamo a pagare i farmaci. Abbiamo cinquantottomila metri quadri, e diecimila euro per la manutenzione di un anno. Le comunità ce li rimandano indietro. Nel cinquanta per cento dei casi tornano per aver saltato la terapia. I servizi di salute mentale territoriali dicono di non avere le strutture. In Sicilia il passaggio dalla Giustizia alla Sanità non è mai avvenuto: confidiamo ora in Crocetta e nella Borsellino. L’Opg resta comunque un carcere, e per definizione non può curare e soprattutto riabilitare. Ma la chiusura secca è la soluzione migliore? Quando andiamo a Roma sentiamo solo la domanda: “Dove li mettiamo?”».
Ci sono grosso modo tre condizioni: i dimissibili senz’altro, la maggioranza relativa. Quelli che hanno bisogno di essere seguiti con progetti personali, in piccole comunità assistite per la salute e il lavoro legate al territorio di provenienza. Per i più gravi, il peggio è la prospettiva manicomiale classica: sono pazzi, non appartengono più alla società. Invece, anche nelle condizioni più severe, le relazioni contano quanto la protezione e i farmaci. Salvatore, infermiere caposala, un’esperienza di quarant’anni: «A volte devi insegnargli a mangiare con le posate, a vestirsi, a farsi una doccia. Le soddisfazioni a noi le danno solo loro. Grazie a Margara ci fu un concorso per infermieri, e i vincitori vennero assegnati agli Opg. Prima c’era solo un pronto soccorso, andavamo a dare la terapia con la lampadina tascabile».
C’è una bella nuova casa data in comodato dal Comune, per alcuni internati. E c’è la Casa di solidarietà e accoglienza di Don Pippo Insana. Ha 68 anni, la sua missione è di chiudere l’Opg, con un confratello, don Gregorio, e volontarie preziose. Prete a 23 anni, nell’84 diventò cappellano dell’Opg. In licenza andava solo chi aveva i soldi, allora lui li accolse a casa sua. Il nome dell’associazione lo scelse un internato: aveva buttato giù da un balcone la sua bambina, oggi è una persona risorta. «Abbiamo avuto dei pluriomicidi» dice, «ma anche un barbone arrestato per non aver mostrato la carta d’identità che non aveva». La cosa peggiore, dice, è l’abbandono: parenti che non li vogliono più vedere, tutori che li derubano delle pensioni. Racconta il modo atroce di farli portare ai letti di contenzione dai lavoranti; non bisogna giudicare all’ingrosso il personale, dice, ma la Commissione parlamentare è stata benedetta. Però certi trattamenti sanitari obbligatori esterni riducono peggio che dentro.
Quando usciamo dall’ultimo reparto, il cancello viene chiuso. Salvatore, che non ha smesso un momento di improvvisare cerimonie e giochi di accoglienza, ora si attacca alle sbarre e lancia baci frenetici con la mano, mentre ci voltiamo a ricambiare i saluti. Quando siamo a una sufficiente distanza di sicurezza — da mettere la sua timidezza al sicuro — sentiamo un grido straziante: «Amoreeeeeee».

Gli internati dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina). Oggi sono ottantatré, erano quattrocento fino a pochi anni fa. Secondo la legge voluta dalla Commissione d’inchiesta presieduta da Ignazio Marino, i sei Opg ancora funzionanti (Napoli, Aversa, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere, oltre al siciliano) dovrebbero chiudere a breve e gli ospiti essere trasferiti. In basso, nella seconda foto da sinistra, uno dei tre letti di contenzione dell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto.

La Repubblica 17.02.13