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"Occupazione e sviluppo, partire da qui", di Cesare Damiano

Mano a mano che la campagna elettorale procede e giugne alla sua prossima conclusione il confronto si fa sempre più aspro e senza esclusione di colpi. Persino l`algido Monti ha assunto toni e contenuti demagogici, lontani mille miglia dalle scelte improntate al rigore esclusivo che hanno caratterizzato il periodo del suo governo. Il Partito democratico ha le sue proposte sui temi dello sviluppo e dell`equità sociale che debbono essere il cuore di questa sfida elettorale.

Dobbiamo rendere incisivo ed efficace il nostro messaggio facendo emergere il tema dell`occupazione, soprattutto di quella giovanile. La parola chiave, a mio avviso, deve essere «sviluppo». Da essa si ricavano le soluzioni a tutte le questioni che sono sul tappeto, perché non ci sarà nessuna risposta al tema dell`occupazione se non si esce dall`attuale situazione di recessione economica. Il primo punto è quello del reperimento e della destinazione delle risorse.

Dobbiamo proporre una discontinuità con le politiche liberiste volute dalla finanza europea ed internazionale che hanno imposto scelte di eccessivo rigore o, meglio, di rigorismo. Le conseguenze devastanti, sotto il profilo economico e sociale, sono sotto gli occhi di tutti. La nostra scelta per la crescita deve guardare in primo luogo al lavoro ed all`impresa. La vittoria del Partito democratico potrà consolidare una svolta politica in Europa, dopo la vittoria di Hollande ed in attesa delle elezioni tedesche, per affermare una precisa direzione di marcia capace di accompagnare al rigore, sviluppo ed equità sociale. Per investire risorse occorre in primo luogo reperirle. Le nostre indicazioni sono precise: lotta alla corruzione ed all`evasione fiscale e contributiva; dismissione graduale del patrimonio pubblico immobiliare; tassazione delle transazioni finanziarie e speculative; taglio dei costi della politica e della spesa pubblica corrente.

Le risorse così reperite dovranno essere destinate non solo al risanamento del debito, ma anche al sostegno dell`impresa e dell`occupazione. Proviamo a dare qualche indicazione: una nuova politica industriale di sostegno all`innovazione di prodotto, di tecnologia e di processo produttivo. In questa chiave occorre fuoriuscire dai soli settori strategici tradizionali e compilare un nuovo «catalogo delle produzioni», (materiali ed immateriali): manifattura, agricoltura, servizi, cultura e turismo di qualità; una diminuzione strutturale del costo del lavoro a tempo indeterminato e, di conseguenza, un piano straordinario per l`occupazione giovanile; il pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni nei confronti delle imprese; lo sblocco del patto di stabilità per consentire ai comuni virtuosi di investire nella messa in sicurezza delle scuole, per le infrastrutture locali e per il welfare di prossimità; il rafforzamento del potere d`acquisto delle famiglie.

Per i lavoratori dipendenti occorre rinnovare alle scadenze naturali i contratti nazionali di lavoro dei settori privati. Un governo che si rispetti può sollecitare le parti sociali all`accordo per evitare che ritardi di anni colpiscano il valore delle retribuzioni; per i lavoratori pubblici è necessario riprendere la strada del rinnovo dei contratti di lavoro fermi da più di quattro anni. Per quanto riguarda la contrattazione aziendale o territoriale occorre utilizzare i due miliardi di euro stanziati dal governo per stipulare accordi di produttività; infine, per quanto riguarda le pensioni occorre, già da quest`anno, sbloccare l`indicizzazione oggi ferma fino a tre volte il minimo (circa 1.400 euro lordi mensili). In molte occasioni di dibattito viene formulata la solita domanda: cosa farete al primo Consiglio dei Ministri se andrete al governo?

La mia risposta è che dobbiamo intervenire a favore di chi ha meno e di chi ha subito i maggiori colpi inferti dalla crisi. I primi interventi di emergenza non potranno eludere lo stanziamento di risorse per la cassa integrazione in deroga e per ripristinare gli incentivi a vantaggio delle imprese che assumono lavoratori dalla mobilità; affrontare il problema dei cosiddetti esodati, alimentando il fondo che si è costituito con la legge di Stabilità; presentare un piano straordinario per l`occupazione giovanile che abbia come strumento essenziale l`abbattimento strutturale del costo del lavoro a tempo indeterminato per i nuovi assunti.

Per il Pd si tratta di due temi che devono essere il cuore della sfida negli ultimi giorni di campagna elettorale.

L’Unità 18.02.13

"Prodi: un patto di legislatura con al centro il PD", di Riccardo Barlaam

Spero che dal voto venga fuori una netta affermazione del Pd e della coalizione di centro-sinistra così da assicurargli la responsabilità di governo». Romano Prodi, 73 anni, è appena tornato nella sua Bologna dopo un tour de force di una settimana che lo ha portato in Senegal, Burkina Faso, Mauritania e Niger. Ogni giorno incontri con capi di stato, primi ministri, politici e società civile. Da quando, l’ottobre scorso, è stato nominato inviato speciale dell’Onu per il Mali e il Sahel, continua a girare come una trottola. Anche per superare l’emergenza in Mali, Prodi vuole lanciare un Fondo internazionale di aiuti per lo sviluppo del Sahel, la lunga fascia di sabbia che attraversa l’Africa, dalla Mauritania alla Somalia, area tra le più povere e instabili al mondo. «E una umanità dolente. Per questo bisogna girare il mondo a chiedere la carità». In queste settimane non è mai voluto entrare in quello che ha definito il “chiacchiericcio” della politica italiana. Ma stanco come molti italiani – di ascoltare promesse che hanno preso a volare come gli asini ha deciso di rompere il suo silenzio con questa intervista al Sole 24 Ore.

Professore, come giudica questa campagna elettorale?
In conseguenza dei fuochi d’artificio di Berlusconi, la campagna elettorale è precipitata in una fase di promesse incredibili alle quali non potrà essere dato alcun seguito concreto.

Rispetto alle ultime elezioni c’è qualcosa di diverso?
La dose di aggressività e di vaghezza delle proposte attuali è superiore a quella delle elezioni precedenti.

Tuttavia la campagna di Berlusconi sembra stia dando i suoi frutti stando agli ultimi sondaggi…
Berlusconi ha posto sul tavolo mirabolanti e irrealistiche promesse di vantaggi a breve. Pure questa volta le sue promesse, pur esercitando una forte presa sugli elettori, si trasformerebbero in tragedie dopo qualche mese.

Anche nelle elezioni politiche del 2006 aveva usato la molla del taglio dell’Ici per attirare gli indecisi.
Il gioco è sempre lo stesso. Ripropone una misura fiscale – l’abolizione dell’imposta sugli immobili – che anche se nel 2006 non fu sufficiente a dargli la vittoria, gli fece guadagnare oltre cinque punti nell’ultima settimana. Questa volta, dato che il divario da recuperare è ancora maggiore, ha rincarato la dose promettendo non solo l’abolizione dell’Imu ma anche la restituzione dì quanto pagato in precedenza.

È possibile realisticamente adottare simili misure?
Come sette anni fa, Berlusconi sa benissimo che l’Imu (Imposta municipale unica) è necessaria. I Comuni con questi soldi pagano la mensa dei bambini, lo scuola-bus, la pulizia delle strade. Insomma, finanziano le attività ordinarie dei servizi pubblici più vicini al cittadino. L’Imu – anche se doverosamente rimodulata, com’era nel mio governo – dovrebbe entrare totalmente nelle casse dei Comuni.

Lei pensa che gli italiani crederanno a Berlusconi?
I vantaggi a breve, ancorché necessariamente seguiti da conseguenze disastrose, sono molto attraenti per gli elettori, tentati dal preferire l’uovo di oggi alla gallina di domani. E questa volta è ancora più grave perché gli italiani sanno benissimo che il pollaio oggi è vuoto. Il Paese è esausto, con una progressiva, paurosa, caduta di reddito, di investimenti, consumi e occupazione. In questo momento l’Italia ha bisogno di altro. Di fatti, programmi, cose concrete. Non si può infatti negare che la sofferenza sia altissima e che sia ulteriormente aumentata nell’ultimo anno. Il declino degli anni precedenti è continuato, portando i numeri della nostra economia indietro di venti anni.

Vuole dire che anche la cura di rigore del professor Monti non ha dato gli effetti sperati?
Riflettendo su quanto è avvenuto lo scorso anno dobbiamo distinguere due fasi. La prima, in cui la necessità di riprendere velocemente la credibilità perduta con il governo Berlusconi era prioritaria rispetto a ogni altro obiettivo. Il giorno in cui cadde il mio governo entrò nella mia stanza Tommaso Padoa-Schioppa. Ricordo ancora che disse: «Sai quanto è oggi lo spread? È a 34, un sogno per l’Italia». Con Berlusconi al governo lo spread tra BTp e Bund è arrivato fino a 575 e, conseguentemente, gli interessi sul debito schizzati sopra al 7%. Come si fa a sostenere che lo spread non conta nulla? In quella situazione, era assolutamente prioritario imporre una politica di drastico aggiustamento dei conti. Monti ha fatto un lavoro eccellente per salvare l’Italia dal fallimento. Non è bastato.

È mancata la fase due, pare di capire.
A partire dall’estate la politica del governo tecnico avrebbe dovuto essere accompagnata da una politica di rilancio, dato che diveniva chiaramente inutile bloccare la crescita del deficit se continuava a calare fortemente il Prodotto interno lordo. Ne scrissi in luglio anche perché proprio in quel periodo cominciavano a uscire i risultati di accurate ricerche internazionali che dimostravano che un prolungato avvitamento verso il basso del Pil rendeva impossibile il risanamento del debito pubblico, qualsiasi fosse stato il livello di austerità applicato.

In questo scenario ci si sarebbe aspettati una campagna elettorale incentrata sui temi dell’economia reale. Nessuno parla della competitività.
È da sempre la mia grande preoccupazione. Partendo da questa situazione si doveva aprire una campagna elettorale attenta ai temi dello sviluppo e del lavoro in un quadro controllato delle spese che, almeno in buona parte, aveva già tranquillizzato i partner europei. Ricordiamo che quando si parla di lavoro non si può parlare solo di leggi sul lavoro ma di sviluppo per creare occupazione.

E invece è partita la gara a chi la spara più grossa?
È triste ammetterlo ma è partita una campagna che, ignorando strategie e impegni precedenti, si è interamente concentrata su impossibili riduzioni di imposte. La gara fra un rigorista a oltranza e un consumato scialacquatore non può non vedere quest’ultimo fortemente avvantaggiato. Nessuno dei due vincerà il campionato. Intanto però i mercati internazionali sono di nuovo entrati in fibrillazione. E i mercati hanno purtroppo una memoria più lunga di quella degli elettori. L’Italia non può permettersi un nuovo periodo di instabilità. Credo tuttavia che il centrosinistra sia in grado di impostare una strategia di sviluppo di lungo periodo pur tenendo i conti in ordine.

Insomma ci vorrebbe un Prodi-tris?
Non scherziamo. Bersani sarà un ottimo primo ministro, nel solco tracciato dai precedenti governi di centro-sinistra. In passato avevo battezzato questa politica come la “politica della formica”, che deve lavorare con pazienza, riorganizzando la pubblica amministrazione per contenerne le spese e aumentarne l’efficienza, ma investendo nello stesso tempo nelle risorse umane, dalla scuola alla ricerca, in una politica industriale vera, assente ora nel Paese.

Ripartiamo dalla politica industriale. Mi spieghi meglio la sua visione…
Non è solo mia. Ne parla Squinzi un giorno sì e un giorno sì. Ne parlano le forze sociali. Il presidente Napolitano in più occasioni, negli ultimi anni, ha insistito con forza sulla necessità di investire in ricerca e sviluppo. Parole inascoltate. Solo con un’innovazione applicata in tutti i campi in cui abbiamo ancora possibili vantaggi possiamo salvarci. Vi è ancora spazio per le “specialità italiane” nel mondo globalizzato ma queste specialità debbono essere mantenute e valorizzate da una incessante tensione a innovare.

Ha in mente qualche modello in particolare a cui ispirarsi: la Silicon Valley californiana, la Germania, la Cina…
Da tutte le storie di successo c’è qualcosa da imparare. Noi abbiamo ottime mani, ottimi cervelli. Dobbiamo ritrovare solo un po’ di orgoglio. Il sistema deve sostenere chi cerca di fare e di fare bene. Non ostacolarlo. Tanti sono gli esempi a cui far riferimento. La Corea del Sud si avvicina molto all’Italia per dimensione e, come noi, non possiede materie prime. Ebbene, investendo ogni anno più del 3% del Pil in ricerca e sviluppo, è ora prima al mondo in 7 tra i grandi settori produttivi. Pensate che i tre colossi Samsung, Lg e Hyundai ogni anno investono dall’8 al io% del fatturato in R&D. Il problema principale, anche per far ripartire il lavoro, è la produzione. E lì la chiave di tutto. In Italia manca da tempo una politica industriale credibile. Di questo ha bisogno il Paese. Di questo hanno bisogno le imprese e i lavoratori. È una strategia faticosa e a lungo termine, proprio l’opposto di quanto emerge dalla maggior parte delle tuonanti dichiarazioni di questa campagna elettorale.

Lei è l’unico che è riuscito a battere Berlusconi due volte. Gli italiani le hanno dato credito ma i suoi governi non hanno tenuto. Non è riuscito a portare a termine il suo lavoro. Chi assicura che non succederà ancora?
Mi auguro per l’Italia che le forze riformiste riescano dopo le elezioni a stringere attorno al Pd un patto di ferro che duri una legislatura. L’unità della coalizione è la priorità delle priorità. Come per un marinaio che naviga in mare aperto, in un mare in tempesta come è quello attuale, l’unità è la stella polare che deve guidare il cammino del governo. L’interesse del Paese deve prevalere. Io sono ottimista. Vendola non è Bertinotti: ha un forte senso delle istituzioni e in Puglia ha ben governato. Posso però dirle ancora una cosa?

Dica…
Volevo ricordare a proposito di chi afferma che il centro-sinistra non è una forza di governo ma il partito della spesa, che non è affatto così. Questo è dimostrato dai numeri dei due esecutivi dei quali ho avuto la responsabilità. In entrambi i governi la quota del debito pubblico è diminuita di oltre dieci punti senza rallentare il trend di crescita.

Quali sono questi numeri?
Alla conclusione del mio ultimo governo, a maggio 2008, il rapporto deficit/Pil era al 2,6%, il debito pubblico era di 1.654 miliardi di euro, il rapporto debito/Pil a 106,1. Il 16 novembre 2011- quando Berlusconi ha lasciato il governo – il rapporto deficit/Pil era salito al 3,8%, il debito pubblico a 1.912 miliardi – ben 258 miliardi di euro in più in soli tre anni. Ora esso ruota attorno ai
2mila miliardi, con il rapporto debito/Pil salito al 120,7%. Gli italiani avranno anche la memoria corta ma i dati restano questi.

Nel merito, che cosa ha fatto il suo governo per le famiglie e le imprese?
Le nostre parole-guida erano tre: equità, sviluppo, risanamento. Dopo pochi mesi di governo abbiamo introdotto gli sgravi Ici sulla prima casa per le classi medie, lasciando la tassa intera solo alle case di lusso. Abbiamo aumentato le pensioni basse. Rilanciato i programmi di edilizia sovvenzionata. Introdotto la completa portabilità dei mutui, la liberalizzazione in diversi settori dell’economia, abbiamo introdotto la class action, le azioni collettive risarcitorie a favore dei cittadini. Introdotto i bonus per gli incipienti, le misure fiscali per le donne lavoratrici, il piano-nidi e i bonus per le famiglie numerose.

E per le imprese?
La Finanziaria 2008 prevedeva che l’extragettito della lotta all’evasione, io miliardi di euro, venisse utilizzato per ridurre le imposte alle imprese e la pressione fiscale sul lavoro dipendente. Il tutto cercando di costruire un delicato equilibrio fra le imposte e le spese. Una politica faticosa, poco “sexy” a livello mediatico ma che, se fosse proseguita, avrebbe visto l’Italia oggi con un rapporto debito-Pil al di sotto della media europea e con un livello di reddito procapite di certo superiore a quello attuale.

Il contesto internazionale è molto cambiato dopo la crisi dei mutui Usa e quella dei debiti sovrani. Comunque vada, chi oggi è chiamato ad assumere una responsabilità di governo si trova a operare in un quadro molto complesso.
Non siamo solo noi italiani i responsabili del triste stato delle cose. Non dobbiamo mai dimenticare il ruolo funesto giocato dalla finanza internazionale (soprattutto americana) e dalla dottrina economica che ha dominato dal1980 in poi, producendo in tutto il mondo un progressivo aumento delle disuguaglianze.

Gli americani continuano a sostenere la loro economia con il debito, con politiche espansive. Noi europei siamo obbligati dalle regole del pareggio di bilancio.
Cosa vuole che le dica…Ci troviamo di fronte a un’Europa guidata dalla Germania che impone una politica recessiva anche in presenza di crescita zero, di un enorme attivo della sua bilancia commerciale e di una totale assenza di un qualsiasi pericolo di inflazione.

Ci vorrebbe più Europa e meno Germania. L’accordo al ribasso appena raggiunto a Bruxelles sul bilancio europeo 2014-2020 sembra andare in un’altra direzione.
Ha vinto Cameron. Vincono gli euroegoismi. Non è una cosa buona. La riduzione del bilancio europeo messa in atto nei giorni scorsi contiene un messaggio preciso: ogni Paese dell’Ue deve solo curare i propri interessi. Ogni euro speso per lo sviluppo o la solidarietà europea è semplicemente buttato via.

Verrebbe da dire che manca un autentico spirito europeista. I padri fondatori, che avevano vissuto il dramma della Guerra, avevano il coraggio di guardare lontano senza badare al consenso o agli interessi di bottega.
Mi duole ammetterlo ma da allora l’Europa non è andata molto avanti. Sappiamo che il futuro del nostro Paese è strettamente legato all’Europa. Sappiamo che l’Unione europea non si dissolverà ma, anzi, proseguirà nel cammino della propria costruzione. Ma fino a quando non emergerà una vera leadership europea, nessun Paese, Italia compresa, potrà trovare un sostegno sostanziale da parte dei suoi partner.

Che ruolo può avere l’Italia in questo scenario di euro-egoismi, come lei lo definisce?
Per rilanciare l’Europa e avere un ruolo decisivo in questo processo, l’Italia deve riprendere per i prossimi anni un lungo cammino da “formichina”, una ” formichina ” capace però di preparare il futuro. La strada è chiara. Non è facile spiegare tutto ciò in campagna elettorale ma è necessario fare capire agli italiani che questa è l’unica via d’uscita.

Il Sole 24 Ore 17.02.13

«A Milano il 25 aprile sarà fra una settimana», di Oreste Pivetta

Piazza Milano. Passa molto di qui, da piazza del Duomo. Passano i leader politici (Maroni e Berlusconi scelgono in verità il chiuso di un teatro), passa di qui la via di un cambiamento, tra Parlamento e Regione, dopo tanta infinita televisione, la piazza con la gente, come una volta e probabilmente da sempre, con le bandiere, con la musica. Con le facce e le emozioni. E con i discorsi, con i comizi. Piazza del Duomo ne ha viste tante di pagine di storia.
Umberto Ambrosoli, il candidato del centrosinistra a guidare la Lombardia, ha concluso richiamandone una, tra le più gloriose, il 25 Aprile: «Cambiare si può. Questa volta il 25 Aprile arriverà a febbraio, arriverà la settimana prossima». A Grillo non importerà nulla della Resistenza, della Liberazione, dell’antifascismo, ma è ancora ai valori espressi da quelle giornate di lotta che si richiama la migliore politica, la buona politica, la politica che si sente responsabile per il Paese e per tutti, che si candida a governare perché quei valori abbiano ancora vita. Paradosso di queste elezioni italiane: sembra che solo il centrosinistra ambisca a governare, gli altri sperano solo di impedire un governo, Berlusconi da sempre perché è convinto di poter solo lui governare; Grillo per spazzare via tutti, non si sa poi per far che cosa, perché si sente l’unico onesto al mondo, un giustiziere; Maroni per impadronirsi del suo «granducato del Nord» e mettersi di traverso; Ingroia, chissà, forse solo per testimoniare il suo malumore; Monti per fare l’ago della bilancia e pesare, senza avere i voti e il consenso… Nel segno tutti della divisione, della contrapposizione, destra contro sinistra, nord contro sud, liberali modernisti contro socialdemocratici chissà perché passatisti. Bersani ha usato più volte le parole giustizia, solidarietà, comunità. Ha detto più volte «insieme», che è il contrario di «divisi». La piazza lo ha applaudito con calore, quell’entusiasmo che non è facile sentire in giro quando si parla in modo serio di problemi gravi, quando non ci sono solo promesse e proclami, quando si presentano le cose per quello che sono, con i soldi che mancano, il lavoro che sparisce, la fiducia degli altri Paesi che si incrina.
«Solidarietà», «comunità», «insieme», sono voci di quella tradizione che sta nella Resistenza ma sono anche le condizioni perché il Paese riparta, perché si riaccenda la speranza. Come lo sono state ed è ancora la storia che parla sessant’anni fa, dopo la guerra, nella stagione della ricostruzione. Ambrosoli a un certo punto ha invocato il dovere della carità, la virtù teologale che va assieme a fede e speranza. Di fronte alla chiesa che fu di Martini e che è stata, fino a poco tempo fa, di Tettamanzi, dire di amore disinteressato nel bene degli altri è richiamarsi all’insegnamento di quei vescovi, al carattere forte della chiesa ambrosiana, minoritaria e sociale per vocazione, ribadire la necessità e soprattutto la possibilità di stare «insieme». Ricordare la carità cristiana ha la sua forza polemica di fronte ai tradimenti di chi di quella stessa chiesa si vantava interprete e rappresentante. Tabacci, che è un democristiano ed è un cattolico, ha confessato d’aver provato una stretta al cuore leggendo dei casi della fondazione Maugeri e di quelli dell’ex presidente Formigoni: barbari sognanti e lestofanti nella Lombardia degli scandali, delle tangenti, degli inquisiti, dove sono nati la Lega e Berlusconi, luogo simbolico e decisivo per cambiare qualcosa o molto, la Lombardia una volta «locomotiva dell’Italia verso l’Europa», che con Maroni rischierebbe semplicemente l’isolamento, dall’Europa e dall’Italia.
Mai forse, come questa volta, ascoltando, in mezzo alla piazza, s’è percepita la convinzione di un successo. Non sarà questione di sondaggi, è soprattutto la voglia di cambiare, di «rigenerare la politica» (espressione di Ambrosoli), di chiudere una pagina, pure il desiderio di normalità, quella di un Paese normale, capace ci affrontare con raziocinio i guai che l’opprimono, consapevole delle proprie virtù: Grillo potrà riempire le piazze, ma i voti si contano nelle urne e l’unica alternativa a Berlusconi e a Maroni è questo centrosinistra. Che si è mostrato compatto, unito, solidale. Vale la foto di gruppo: il sindaco Pisapia, che la «rivoluzione» la vinse due anni fa, Tabacci, Ambrosoli, Vendola, Bersani e, a sorpresa, Romano Prodi, il leader di una volta che sale sul palco e riprende il discorso interrotto. Un discorso che continua nel segno della ragionevolezza e della concretezza, senza mai promettere la luna, ma impegna in una dura battaglia di rigore, di responsabilità. Un esempio di concretezza: il disegno di salvaguardia della risorsa «terra», di città in città, di paese in paese (disegno fondamentale in una regione come la Lombardia inondata dal cemento della speculazione).
Sul palco ancora, alle spalle dei leader, c’erano molti giovani, in piedi, accovacciati. Probabilmente erano anche loro scenografia di un rinnovamento. Ci sono nelle liste come ci sono tante donne (altro bel segno, quando Formigoni e la sua giunta sono stati persino richiamati dagli organi amministrativi regionali per la eccessivamente scarsa presenza femminile). Però lo stesso valeva dentro la piazza: giovani e donne. Mi ha colpito l’immagine di una famigliola cingalese che ascoltava e sventolava la bandiera del Pd. Un altro tema posto da molti del centrosinistra: quello dei diritti (e in questo caso dei diritti degli immigrati).
Piazza del Duomo ha uno stretto rapporto con la storia: non solo il 25 Aprile, tanti altri 25 Aprile, i funerali di piazza Fontana, le manifestazioni sindacali, i grandi comizi.
Ricordo la conclusione di una campagna elettorale. Sul palco teneva il suo discorso Enrico Berlinguer. In piazza si gridava: «È ora, è ora di cambiare, il Pci deve governare». Non andò così. Moro fu assassinato dalle Brigate rosse. Tornarono Andreotti, Cossiga, Forlani, arrivò Spadolini, arrivò Craxi. Il Pci non esiste più. Bersani ha rincuorato la sua gente: «Noi siamo più forti di quel che pensiamo».

L’Unità 18.02.13

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“Da Milano la scossa per l’Italia Bersani: con noi fuori dal buio. Il popolo di centrosinistra ci crede: ora si cambia”, di Laura Matteucci

La sorpresa in piazza Duomo è Romano Prodi, inatteso, applauditissimo ospite. Parla da un palco dopo quattro anni «non per nostalgia», dice, «non alla ricerca di un ruolo», «ma perché oggi ne vale la pena». Perché, come dirà di lì a poco Ambrosoli, «quest’anno il 25 Aprile cade in febbraio». Da Milano per la Lombardia e per il Paese, sotto il titolo «L’Italia giusta»: non ci sono nemmeno più posti in piedi sotto la madonnina per ascoltare tutto lo stato maggiore del centrosinistra, Pier Luigi Bersani, Nichi Vendola, Bruno Tabacci, naturalmente il sindaco Giuliano Pisapia, insieme per tirare la volata al candidato alla Regione Umberto Ambrosoli, oltre che per il voto nazionale. «La Lombardia è sempre stato il luogo da dove è partita la svolta, sia nel bene che nel male attacca Bersani Qui è partito il motore delle forze di liberazione e della ricostruzione, da qui chiuderemo questa lunghissima fase ventennale di leghismo e berlusconismo: tireremo fuori dal buio la regione e tutta l’Italia». Mentre parla si agita sotto di lui lo striscione «Siamo tutti smacchiatori di giaguari» portato da alcuni milanesi (ma forse sono lombardi, perché in piazza Duomo ieri pomeriggio sono arrivati da tutta la regione), le metafore del segretario del Pd sono diventate pure quelle un «bene comune». E lui, sia chiaro, non manca l’appuntamento: «Tra sette giorni dice smacchieremo il giaguaro».
C’è anche la musica, a Milano (Paolo Jannacci, Roy Paci), ma la gente è arrivata a migliaia soprattutto per sentire le parole, per un’overdose di buona politica, e perché no? di ottimismo, perché questa volta si può vincere davvero. Sarà anche la partita decisiva, ma la Lombardia «non è l’Ohio d’Italia», ricorda Tabacci in un intervento particolarmente appassionato: «Non ci può essere incertezza, non si può nemmeno vincere di misura, noi lombardi dobbiamo caricarci sulle spalle la responsabilità di tutto il Paese: ci vuole un cambiamento etico e morale, non solo politico. L’Italia non è solo un problema di tasse, come qualcuno ci vuole far credere, è un problema di cuore e di coscienza». Aggiunge Pisapia: «Fino ad oggi, andando in giro ci ricordavano il bunga bunga, in Lombardia ci ricordano altro che non so se sia meglio o peggio. Con Ambrosoli saremo orgogliosi di essere lombardi e con Pier Luigi non ci vergogneremo di essere italiani». Dal palco il richiamo forte è alla massima mobilitazione per quest’ultimo scorcio di campagna elettorale: «Noi dice Bersani siamo in giro per l’Italia per risvegliare la nostra arma atomica, che è la partecipazione della nostra gente. Qui non c’è l’uomo solo al comando, qui ci sono milioni di protagonisti della nuova politica».
Parole chiave degli interventi di tutti, il lavoro, la giustizia sociale, la legalità, l’onestà. «Al primo giorno a Palazzo Chigi è Bersani che parla chiamerò la Caritas, l’Arci e i Comuni a far dire agli italiani che c’è un sacco di gente che non riesce a mangiare, e partiamo da lì». Parole come pietre per una Milano Lombardia, Italia che arranca nella crisi e nella precarietà, e che se ancora non se ne fosse accorta prima sta capendo ora fino in fondo dalle cronache giudiziarie il modo con cui Formigoni e le sue giunte Pdl-Lega hanno mantenuto per anni il potere. «Noi siamo quelli che amano le regole dice Ambrosoli Non abbiamo bisogno di continuità col passato, ma di nuove prospettive. È il momento di alzarci in piedi, il momento dell’indignazione». E Bersani, lo dirà in chiusura, promette una «grande lenzuolata di norme contro la corruzione. È ora che si premino gli onesti, non i furbi. E qui in Lombardia le ronde padane non hanno nemmeno fermato la ‘ndrangheta». Giustizia sociale, lotta alla povertà e alla precarietà sono i temi intorno ai quali ruota anche l’intervento di Vendola, che ricorda una volta di più: «Non sarò l’elemento di disturbo per il governo Bersani, ma la garanzia di governabilità e di stabilità». Si parla molto di donne, anche. Proprio qui, nella stessa piazza in cui solo qualche giorno fa migliaia di persone si sono ritrovate per manifestare contro la violenza alle donne, la dignità femminile diventa un tema centrale, come mai prima nelle campagne elettorali. «Liberiamoci di questo maschilismo patetico invita Vendola di questa volgarità. Riprendiamoci la politica alta, non quella che parla al basso ventre».
Il passaggio chiama automaticamente in causa Grillo, che si appresta, domani pomeriggio, al suo bagno di folla proprio qui, in piazza Duomo a Milano. Per lui che tra l’altro ieri sera ha disdetto un confronto su Sky, «perché lì qualcosina gliel’avrebbero chiesta» Bersani ha alcune domande, destinate pure queste a restare senza risposta: «Come fa chiede il leader Pd a parlare di Berlinguer, come ha fatto a Bologna, e poi a Roma a stringere la mano a quelli di casa Pound? Come fa a dire che i figli degli immigrati nati in Italia non sono italiani?». Populismo, non-politica, il «tanto sono tutti uguali».
Il palco di Milano sa benissimo che la tentazione per tanti può essere forte, dopo anni di corruzione e tangenti e mafie, persino. Ed è anche per questo che, lo ricorda Bersani in chiusura, «è fondamentale ricostruire un rapporto vero, sentimentale tra politica, istituzioni e cittadini».

L’Unità 18.02.13

"Gli studenti contro il decreto Profumo", di Mario Castagna

Dopo le critiche delle regioni e le proteste nelle facoltà, arriva lo stop anche dei rappresentanti del Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari. Il decreto di riforma del diritto allo studio del ministro Profumo sembra essere destinato ad uno stop quasi definitivo. Giovedì l’organo di rappresentanza degli universitari, eletto direttamente dagli studenti nelle elezioni del 2010, ha espresso il proprio parere negativo allo schema di decreto proposto dal ministro. Alla riunione hanno partecipato solo gli studenti delle liste di centro destra e gli studenti di Comunione e Liberazione, mentre gli studenti delle liste democratiche e di sinistra hanno addirittura disertato la riunione per esprimere con maggior forza la propria contrarietà al decreto. Lo stop è comunque ormai trasversale e gli studenti di tutti gli schieramenti hanno chiesto al ministro Profumo profonde modifiche. «La maggioranza del Cnsu ha approvato il parere necessario, nel tentativo di non risparmiare critiche, ove necessario, al ministro Profumo, ma sottolineando il proprio auspicio che si possa presto giungere all’approvazione delle riforma – ha dichiarato Marco Lezzi, componente del Cnsu, aderente al Coordinamento Liste per il Diritto allo Studio, l’organizzazione studentesca di Comunione e Liberazione – se corretto così come richiesto, il decreto costituirebbe un notevole passo avanti». Venerdì è arrivata anche la notizia chela conferenza Stato-Regioni, convocata per il 21 febbraio anche per discutere del decreto sul diritto allo studio, è stata posticipata al 28 febbraio, accogliendo in parte le richieste degli studenti. Ed in quella seduta sarà ancora più difficile per il Miur procedere con l’approvazione della contestata riforma. Infatti le elezioni avranno decretato una nuova maggioranza che potrebbe anche voler modificare lo schema di riforma ed anche i rappresentanti della regione Lombardia e della regione Lazio, chiamati ad esprimere un parere, dovranno probabilmente aspettare qualche settimana per sapere chi saranno i nuovi assessori competenti. Ma le regioni sono indispettite anche dal fatto che, per il 2014 ed il 2015, il ministero abbia stanziato per il diritto allo studio solamente 13 milioni di euro l’anno. Un taglio del 90% rispetto al 2013 che impedisce agli enti locali qualsiasi politica integrativa per gli studenti universitari. Se rimanesse il taglio, per garantire l’attuale copertura delle borse, largamente insufficiente, le regioni sarebbe obbligate ad un esborso inaccettabile. Già oggi esse sono costrette a coprire i mancati stanziamenti dello stato centrale. Ma se il taglio avesse questa consistenza, per loro non sarebbe possibile garantire alcun servizio. La strada si fa quindi talmente in salita che gli studenti chiedono al presidente Errani, coordinatore della conferenza Stato-Regioni, di togliere dall’ordine del giorno della riunione del 28 febbraio la discussione sul diritto allo studio. «Chiediamo al Presidente Vasco Errani un segnale: rinvii la discussione sul diritto allo studio in modo da far partecipare il nuovo ministro – chiedono ad esempio gli studenti della Rete Universitaria Nazionale, vicina ai Giovani Democratici – il 28 febbraio infatti, a rappresentare il governo ci sarà ancora il ministro Profumo, oggi dimissionario e per quella data non più legittimato politicamente a prendere decisioni importanti. L’università è un corpo fragile, non si faccia del welfare studentesco uno strumento di campagna elettorale. Sia il nuovo governo, con un processo di partecipazione e confronto, a indicare le linee di una riforma necessaria al diritto allo studio». La palla quindi passa ora al presidente Errani, che dovrà decidere se il decreto dovrà essere discusso il 28 o qualche settimana dopo con il nuovo ministro.

L’Unità 18.02.13

«Università al capolinea Sei interventi per salvarla», di Mariolina Iossa

Poi si parla di fuga dei cervelli. E ci si stupisce del crollo delle immatricolazioni. Oppure si guarda con ansia alle migliaia di studenti che rinunciano a laurearsi. Ultima fermata, per i nostri atenei, arrivati al capolinea prima del disastro. «Se vi fosse una Maastricht delle Università, noi saremmo ormai fuori dall’Europa». Eppure ovunque ci si volti, dice il presidente della Conferenza dei rettori, Marco Mancini, da nessuna parte si offrono ricette per i mali dell’università e della ricerca italiane, non ci sono soluzioni nelle agende politiche di chi si candida a governare il Paese. Proprio per questo, la Crui ha scritto una lettera aperta al prossimo presidente del Consiglio con 6 proposte per il futuro dell’Università. «Serve una forte discontinuità con il passato — spiega Mancini —, la politica ci ha messo fra parentesi e parla di futuro? Per noi, sia chiaro, l’università è un aspetto fondamentale del futuro».
I rettori stavolta sono decisi, non si tireranno indietro. Che non si dica poi che sono rimasti a guardare o che si sono limitati a lamentarsi. «Fino ad oggi — prosegue il presidente della Crui — ci siamo molto lamentati, ma questo non ha prodotto alcun effetto, abbiamo offerto un quadro apocalittico senza riuscire a smuovere i governi. Ora suggeriamo una terapia, alcune misure essenziali: si dovrebbe fare molto di più, ma vogliamo almeno evitare il collasso». Terapia d’urto, risposte all’emergenza. Ma quali sono le emergenze? Il calo costante delle immatricolazioni, per esempio, che è il tema di più stretta attualità. Meno della metà (47 per cento) dei diplomati sono attratti oggi dall’università, mentre 8 anni fa erano il 54 per cento. «Aiutiamo le famiglie a pagare le tasse e i contributi — dice Mancini —. Diamo ai giovani qualche chance in più nel percorso dell’istruzione superiore. Altrimenti saremo sempre più lontani dall’Europa, dove invece aumentano immatricolati, iscritti, laureati e “cervelli” arruolati nei loro Paesi e non costretti a fuggire».
Gli studenti meritevoli, chi cerca la migliore università per puntare all’eccellenza, devono essere sostenuti. Ovunque è ancora così, eppure la crisi economica non ha colpito solo l’Italia. Chissà perché questo però non vale, o vale poco, per lo studente italiano. Le borse di studio negli ultimi tre anni sono diminuite, i fondi nazionali nel 2009 coprivano l’84 per cento degli aventi diritto, nel 2011 solo il 75. In sostanza accade che a migliaia di studenti (ai quali pure spetterebbe) non viene erogata la borsa di studio. «Questa è una cosa che grida vendetta — s’infiamma Mancini —. Quando invece dobbiamo garantire la formazione e incoraggiare gli studenti a scegliere le migliori università».
Altra nota dolente, l’età dei docenti universitari che cresce mentre il loro numero diminuisce. Non c’è una sola situazione uguale in tutta Europa. Oltre il 22 per cento dei docenti ha più di 60 anni, contro il 5,2 per cento di Gran Bretagna, il 6,9 di Spagna, l’8,2 della Francia e il 10,2 della Germania. Solo il 4,7 dei professori universitari italiani ha meno di 34 anni, contro il 31,6 per cento in Germania, il 27 in Gran Bretagna, il 22 in Francia e il 19 in Spagna. Cervelli in fuga? È una emorragia: i giovani dottori che abbandonano l’Italia erano l’11,9 per cento nel 2002 e sono stati il 27,6 nel 2011: più del doppio in appena dieci anni.
Le Università vogliono anche vedersi restituita maggiore autonomia. Perché? «Non per fare quello che ci pare, rispondo all’obiezione più comune. Ma per valorizzare gli atenei in relazione al tessuto produttivo su cui lavorano». I soldi? Inutile nascondersi dietro un dito, dai finanziamenti non si può prescindere e non basta fermare l’emorragia, bisogna recuperare un po’ del terreno perduto. Le cifre parlano chiaro: in soli 4 anni l’Università ha perso il 13 per cento dei fondi. Oggi più del 95 per cento della spesa complessiva serve soltanto a pagare gli stipendi. «Noi chiediamo che ci venga restituito almeno il livello di fondi del 2009 — sottolinea Mancini —. Da allora ogni anno c’è stato un taglio e per il 2013, con la spending review, ci sono stati sottratti altri 300 milioni di euro».

IL DOCUMENTO

Sgravi fiscali, fondi e autonomia

Lettera aperta della Crui al prossimo Presidente del Consiglio. La Conferenza dei Rettori delle Università italiane (Crui) rivolge un appello ai candidati premier e chiede da subito un impegno pubblico per salvare le Università italiane, luogo di formazione delle giovani generazioni e motore dello sviluppo del Paese.
Se vi fosse una Maastricht delle Università, noi saremmo ormai fuori dall’Europa. C’è bisogno di una scossa che metta istruzione e ricerca tra le prime priorità dell’agenda-Paese del futuro Governo. La Crui propone sei misure urgenti per affrontare le emergenze più gravi, con l’impegno poi a verificarne puntualmente l’attuazione:
1)defiscalizzare tasse e contributi universitari per aiutare le famiglie a non dover abbandonare l’Università a causa della crisi economica;
2)assicurare la copertura totale delle borse di studio erogate da Regioni e Atenei per garantire la formazione e la mobilità studentesca;
3)abbattere l’Irap sulle borse post-lauream e defiscalizzare gli investimenti delle imprese in ricerca per favorire la competizione nei settori ad alta intensità tecnologica;
4)finanziare posti di ricercatore da destinare ad almeno il 10% dei dottori di ricerca e togliere i vincoli al turnover per impedire l’espulsione dei giovani migliori dal Paese e il progressivo invecchiamento della docenza;
5)restituire l’autonomia responsabile all’Università rimuovendo gli attuali appesantimenti normativi per valorizzare le scelte di qualità e le vocazioni dei differenti Atenei;
6)incrementare i fondi per l’Università all’1% del Pil, ristabilendo in particolare il finanziamento statale ai livelli del 2009 e innalzando la premialità fino al 50% per ridare slancio agli Atenei, promuovere le eccellenze nei processi di valutazione, favorire la competitività a livello internazionale.
Il Corriere della Sera 18.02.13

"La sfida dell'educazione permanente", di Fulvio Fammoni*

Finalmente in una campagna elettorale in cui si discute davvero troppo di merito e pochissimo del ruolo della formazione, è stata avanzata da parte di Bersani una proposta concreta. Basata su investimenti, sicurezza delle scuole, ruolo degli insegnanti, interventi sulla precarietà. È esaustiva? No, sicuramente serve anche altro. Ma almeno si sfugge a insopportabili banalità e luoghi comuni e si comincia ad entrare nel merito. La differenza eclatante con gli anni del centrodestra è passare da tagli a investimenti e affrontare temi drammatici come la dispersione scolastica non con slogan, o ancora peggio abbassando di fatto l’età per il lavoro minorile. Partiamo allora da un concetto di fondo: se la piena realizzazione della persona è l’unità di misura della legittimazione dell’agire economico e della sua equità sociale, la conoscenza non può che essere un tratto fondamentale del lavoro e della società. I dati dimostrano la nostra arretratezza: ad una quota di analfabetismo strutturale si aggiunge l’analfabetismo di ritorno; è sotto la media europea la diffusione e l’uso di internet; troppo alta la quota di abbandono scolastico; basso il numero di iscrizioni all’università, ma nonostante questo troppa precarietà per i neolaureati; la formazione per e nel lavoro è agli ultimi posti in Europa nonostante un fortissimo addensamento nelle qualifiche più basse. Non è un caso, sono dati che riflettono l’arretratezza del nostro sistema formativo ma anche della qualità del modello produttivo. È per questo e tanto altro che l’aspirazione a una migliore condizione sociale per effetto di una maggior scolarizzazione sta perdendo la «sua spinta propulsiva». Amarthia Sen ricorda che proprio un nuovo modello di sviluppo economico richiede anche una solida e diffusa cultura umanistica, capace di alzare il livello di civismo della società. Poco più di un anno fa, il Presidente del Consiglio ebbe a dire: «Il 54% della popolazione ha un titolo di diploma nel nostro Paese, contro una media Ocse del 73%. È troppo poco, dobbiamo studiare di più».La realtà è ancor più grave della segnalazione del Premier. Ma cos’è stato concretamente fatto, in particolare in quel settore dell’istruzione e formazione professionale, ancora lontano da un assetto in grado di offrire una chance di qualità a una larga fascia di giovani? È cresciuta l’attenzione e gli interventi per l’istruzione tecnica ma questo indirizzo porterà buoni risultati se non sarà separato o peggio, pensato come alternativo, al settore di istruzione-formazione professionale. Tentazione questa troppo spesso ricorrente. Finalmente si apre una discussione vera a cui aggiungo almeno un tema: in Italia è non è stata ancora approvata una legge per l’educazione permanente. In queste settimane si è discusso molto di apertura delle scuole nei mesi estivi, senza neppure sfiorare il problema del loro funzionamento e della loro chiusura tutti i giorni in orario pomeridiano e serale. Quanto ci costerebbe tenerle aperte con il concorso di risorse pubbliche, private, del volontariato per avviare una formazione permanente degli adulti? Potrebbe essere una bella proposta e un sicuro vantaggio per il Paese.

*Presidente Fondazione Di Vittorio