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"La ricostruzione nazionale", di Claudio Sardo

L’impressionante serie di arresti, di inchieste giudiziarie, di accuse gravissime rivolte a uomini politici che hanno avuto responsabilità di governo importanti, di aziende di valore strategico per il Paese colpite da sospetti e da discredito, rende ancor più cupo lo scenario di macerie in cui si svolge questa campagna elettorale. Non era un’iperbole, e neppure uno slogan, dare il nome di «ricostruzione» all’impresa politica che ci sta di fronte. Serve davvero un’opera di ricostruzione, come fu quella del dopoguerra.

E serve una partecipazione collettiva, una grande capacità di inclusione attorno a un progetto, ad una rigenerazione del senso delle istituzioni, e anche del senso del limite.

La corruzione è uno dei grandi mali italiani. Forse il più grande. È una questione morale, ma ormai anche una gigantesca zavorra per la società, per l’economia, per la nostra stessa possibilità di sviluppo. La legalità è la condizione per tornare a creare lavoro, per attirare investimenti esteri, per riattivare il circuito democratico e la mobilità sociale, per restituire ai giovani quella speranza di futuro di cui sono stati derubati. Per questo le parole di Berlusconi, anche quelle pronunciate ieri sulle tangenti, sono un danno per l’Italia. Come lo sono stati i suoi fallimentari governi nell’arco degli ultimi dieci anni. Non perde occasione il Cavaliere di strizzare l’occhio all’Italia delle illegalità: il condono, le tasse che forse si possono evadere, le tangen- ti. Le sue affermazioni lisciano il pelo a una parte del Paese, indicano scorciatoie illusorie a chi soffre le conseguenze sociali della crisi, talvolta contengono anche pezzi di verità, pur annegati in una filosofia che spinge l’Italia sempre più a fondo. Tutto il contrario del riscatto e della risalita. Del resto, l’obiettivo elettorale di Berlusconi è l’instabilità, non la ricostruzione morale e civile. Eppure, senza di questa, non ci sarà alcuna ripresa. E non ci sarà qualcuno che si salverà da solo dalle macerie nazionali.

La politica è chiamata compiere il primo passo. È vero che la lunga crisi, unita all’incapacità di riformare le istituzioni, ha prodotto paralisi e squilibrio tra i poteri. È vero che la crescita enorme dei «poteri neutri» – dalla magistratura alle authority, dalla giurisprudenza delle Corti costituzionali alla legislazione europea – sta ponendo problemi di sovranità, e dunque di democrazia. Ma tocca alla politica – anzi, ad una nuova guida politica – ridefinire con rigore il paradigma di un comportamento del potere pubblico degno di questo nome, e della fiducia dei cittadini. Questa è la premessa per le riforme. Questa è la condizione di una nuova stagione, in cui si possa ristabilire il confine tra i poteri e la loro necessaria collaborazione. Si può dubitare sulla tempistica di alcune decisioni della magistratura in questi giorni, ma l’atteggiamento di sfida che il Pdl ha mantenuto in questi anni nei confronti dei giudici, il suo com- pleto disinteresse per ogni seria riforma della giustizia sacrificata agli interessi personali di Berlusconi, hanno aggrovigliato il nodo e aumentato i rischi per il Paese. In ogni caso la cultura garantista, che la sinistra deve sempre rivendicare come proprio patrimonio, si deve coniugare con il rispetto delle autonomie istituzionali e con la percezione del limite. Limite della politica, limite della legge, e questo punto anche limite dell’azione giudi- ziaria, nel senso che non sarà mai il diritto penale da solo a riscattare il bisogno di giustizia di una comunità.

Per questo serve una nuova stagione. Un governo di cambiamento. La moralità e la legalità devono occupare il primo punto dell’Agenda. Anche a costo di qualche rinuncia personale, che può apparire di per sé ingiusta. In un tempo di ricostruzione la classe dirigente deve mostrare più rigore di quanto non chieda ai cittadini. Non è in gioco soltanto l’onore della politica, o delle istituzioni. È in gioco la società, la nazione. In questi giorni drammatici, dove il rosario di arresti ricorda i giorni più terribili della fine della prima Repubblica, sono in gioco anche imprese e banche dalle quali dipendono posti di lavoro, quote di Pil, possibilità di sviluppo. Non possiamo farne a meno. Non possiamo fare a meno dell’acciaio, non possiamo permetterci il fallimento di una banca come MontePaschi, non possiamo permetterci che Finmeccanica entri in una black list internazionale, perché in quell’azienda c’è un enorme capitale di lavoro italiano, di qualità tecnologiche e di capacità innovative. Chi ha sbagliato deve pagare. Chi parteciperà alla leva della ricostruzione deve assumersi una nuova responsabilità.

A tanto valgono le elezioni del 24 e 25 febbraio. Non è vero che tutti i partiti sono uguali. È vero invece che l’Italia è davanti a un bivio e la possibilità di imboccare la strada della catastrofe non è del tutto scongiurata. Abbiamo bisogno di un cambiamento profondo. Che avvenga nella sicurezza europea: perché l’alternativa è l’emarginazione, il commissariamento, in altre parole la parabola greca. L’Europa è in crisi ma resta la nostra speranza. Un governo di cambiamento in Italia può dare una mano al cambiamento in Europa. Anche la moralità degli affari può trovare sostegno in Europa: i protocolli per l’intermediazione internazionale devono avere una rigorosa regolamentazione continentale, per evitare concorrenze sleali e rendere ancora più difficile il rientro di eventuali tangenti.

L’Unità 15.02.13

"Il ballo e il sangue", di Michela Marzano

Sono milioni le donne scese ieri in piazza per danzare e dire basta a stupri e femminicidio. «Un miliardo di donne violentate è un’atrocità. Un miliardo di donne che danzano è una rivoluzione » si legge sul sito di One Billion Rising.
LA MANIFESTAZIONE è una di quelle rivoluzioni pacifiche al servizio della civiltà, affinché le donne cessino di essere trattate come semplici oggetti a disposizione degli uomini. Una rivoluzione capace di portare ad azioni concrete per la prevenzione delle violenze, l’educazione dei più giovani e la tutela delle persone più fragili. Azioni che purtroppo sono ancora troppo timide e inefficaci. In tutto il mondo, infatti, i dati delle violenze contro le donne sono terrificanti, anche se in misura variabile a seconda dei paesi. Come se, indipendentemente dai costumi, dalla cultura e dal credo religioso, le donne continuassero ad essere in balia delle pulsioni maschili. Pulsioni sessuali o brutali. Pulsioni distruttive, come direbbe Freud, che si scatenano quando vengono meno le dighe psichiche della civiltà e della cultura, e sembra normale e scontato che certe persone diventino il capro espiatorio di tutto ciò che non va.
Le violenze contro le donne, che si tratti degli stupri o del femminicidio, hanno origini profonde e mille diramazioni. Certe società le legittimano. Altre le tollerano. Altre ancora cercano di contrastarle. Ancora mai, però, si è cercato di fare veramente qualcosa perché si arrestassero, cercando di sradicare tutti quei pregiudizi che circondano ancora le donne. E che permettono ad alcuni uomini di sentirsi giustificati quando umiliano pubblicamente le donne — negando loro competenze e dignità — o addirittura se ne sbarazzano quando diventano scomode o inopportune. Come se, nonostante tutte le battaglie condotte fino ad oggi per promuovere l’uguaglianza, fosse ancora forte l’idea secondo cui le donne sono, in fondo, inferiori agli uomini. Retaggio culturale di un mondo in cui alcune persone — sempre le stesse, sempre gli uomini — avrebbero
il diritto di trattare altre persone — sempre le stesse, sempre le donne — come oggetti, come cose, come mercanzie, come prodotti.
Ironia della sorte, proprio questa notte si è consumata un’altra tragedia al femminile: con quattro colpi di pistola, Oscar Pistorius, il primo uomo
dalle gambe amputate a correre alle Olimpiadi, ha ucciso a Pretoria la sua fidanzata. Certo, Pistorius nega l’intenzionalità del proprio gesto. Avrebbe sparato convinto che fosse penetrato in casa un ladro. E fino a quando le condizioni esatte dell’omicidio non saranno chiarite, non possiamo aggiungere altro. Nonostante la polizia sembri poco convinta dalla versione di Pistorius e sia più incline a credere che si tratti di un femminicidio, viste anche le segnalazioni di precedenti violenze domestiche. Terribile coincidenza nel giorno di San Valentino, che Reeva Steenkamp avrebbe voluto festeggiare con il proprio fidanzato, dopo aver postato nel suo blog un’immagine in memoria di una diciassettenne stuprata e uccisa il 2 febbraio da una gang sud-africana. Terribile coincidenza che mostra a che punto è ancora difficile mettere un termine a questa violenza che si scatena contro le donne, proprio in quanto donne.
Speriamo che le immagini delle danze di ieri possano avere un impatto non solo simbolico su questo flagello contemporaneo. Sarebbe infatti opportuno che le immagini — insufficienti in quanto tali a debellare le violenze — si traducessero in azioni e che le azioni portassero ad un cambiamento culturale profondo. Il messaggio è semplicissimo: le donne sono esseri umani dotati di valore intrinseco, e nessuno dovrebbe osare negarlo, come accade invece ancora oggi. La loro vita non ha un prezzo, a differenza delle cose. Ha sempre e solo una dignità. La dignità delle persone, indipendentemente dal sesso.

La Repubblica 15.02.13

"La ripresa non si vede. Pil giù in Italia e in Europa", di Giuseppe Caruso

Crolla il pil italiano, ma anche il resto del mondo non se la passa tanto bene. Sono dati che confermano la crisi globale quelli circolati ieri sul prodotto interno lordo di molti dei paesi più sviluppati dal punto di vista economico. L’Istat ha reso noto che in Italia la stima preliminare sul pil del quarto trimestre ha fatto registrare una contrazione pari allo 0,9% rispetto al trimestre precedente, la maggiore flessione dal primo trimestre del 2009 (-3,6%). La contrazione è pari al 2,7% rispetto al quarto trimestre del 2011 e risulta la peggiore dal 2009 (-3,5%). Su base annua l’Italia ha fatto segnare un poco lusinghiero -2,2%. Sempre secondo l’Istat, la flessione nel quarto trimestre dell’anno appena passato, ha determinato un’entrata debole nel 2013: al momento la variazione acquisita è pari a -1,0%. Il pil dell’Eurozona ha registrato nel quarto trimestre una contrazione congiunturale dello 0,6% e dello 0,9% su base annuale. Secondo la stima preliminare diffusa da Eurostat. Le maggiori flessioni congiunturali tra i 17 paesi dell’unione monetaria, interessano il Portogallo (-1,8%), Cipro (-1%) e per l’appunto l’Italia (-0,9%). Le migliori performance sono invece per Belgio (-0,1%) e Slovacchia (+0,2%) e descrivono bene il momento di difficoltà. Su base annuale le peggiori performance sono invece per la Grecia (-6%), il Portogallo (-3,8%), Cipro (-3%) e Italia (-2,7%). In Germania nel quarto trimestre il pil ha registrato una contrazione pari allo 0,6% rispetto al trimestre precedente, mentre su base annuale la crescita è pari a +0,4%: si tratta di numeri inferiori alle previsioni degli economisti. Anche in Francia c’è stata una contrazione (0,3%) del prodotto interno lordo nel quarto trimestre, confermata su base annua. Per l’intero 2012 la contrazione del pil dell’Eurozona è pari a -0,5%, per l’Italia una flessione quattro volte superiore (-2,2%). Dati negativi anche per la Gran Bretagna, con una diminuzione dello 0,3%. Le cose vanno meglio per il Giappone, che dopo due anni di segno meno vede crescere il suo pil dell’1,9% nel 2012 e negli Stati Uniti, dove nel quarto trimestre del 2012 si è registrata una crescita dell’1,5%. Tornado alla difficile situazione italiana, il segretario confederale della Cgil, Nicola Nicolosi, sottolinea come ormai sia «molto difficile credere al professor Monti quando sostiene che grazie alle sue riforme il pil aumenterà del 6% in cinque anni. Le sue politiche recessive hanno aggravato le condizioni del paese. Nemmeno di fronte alla realtà di un paese impoverito, dove è sempre più difficile trovare lavoro, Monti fa autocritica. Occorre invece una drastica inversione di rotta sulle politiche del lavoro». Il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, spiega che «se non si interviene con urgenza sui fattori che ostacolano lo sviluppo, ci sarà un’ulteriore decrescita del nostro Paese. Bisogna reagire intervenendo sulle questioni che stanno provocando la recessione. Occorre innanzitutto abbassare le tasse sui lavoratori e sui pensionati, stimolando così i consumi e rafforzando di conseguenza le imprese e l’occupazione. Le risorse si possono trovare, riducendo le agevolazioni fiscali alle imprese e intensificando maggiormente la lotta all’evasione fiscale». Per il Codacons i dati dell’Istat dimostrano come «la stima di crescita per la fine del 2013 prevista dal Governo Monti è a dir poco sballata, per non dire che ha del miracoloso. Un miraggio, insomma». Coldiretti fa invece notare come i dati Istat evidenzio un calo congiunturale del settore agricolo nel quarto trimestre e sottolinea a riguardo che la campagna vitivinicola del 2102 è stata tra le più scarse degli ultimi decenni (-8%). Sarà un’annata in flessione anche per l’olio di oliva (-11,7% sul 2011), la frutta (-9,7%) e gli ortaggi (-7%). Confesercenti parla invece di «un calo atteso, ma non per questo meno allarmante, che sottolinea la necessità di una politica per la crescita che faccia riprendere anche il mercato interno. Il crollo dei consumi degli italiani (-35 miliardi di euro), dovuto alla crisi e alle misure di austerity fiscale, ha inciso su un’economia già debole, ed ha contribuito alla caduta del Pil nell’ordine di 0,6-0,7 punti percentuali».

l’Unità 15.02.13

"I peccati delle èlite", di Massimo Giannini

Quattro arresti in un giorno solo. Avvisi di garanzia a raffica, con capi d’imputazione che si moltiplicano. Scandali a pioggia, nelle ex partecipazioni statali e nella finanza privata. Come la Prima, anche la Seconda Repubblica muore sotto i colpi delle inchieste giudiziarie. Mentre l’Italia si consuma nella recessione più lunga degli ultimi cinquant’anni, con 104 mila imprese chiuse in un solo anno e una caduta del Prodotto lordo che ci riporta ai livelli del 1993, i magistrati scoperchiano un pozzo nero di denaro e di fango nel quale la politica e l’economia sprofondano insieme. A una settimana dal voto, i cittadini- elettori si incamminano verso le urne tra le macerie di una nuova Tangentopoli. Non c’è più Craxi, che davanti al Parlamento pronuncia un’arringa disperata chiamando in causa tutti i partiti dell’arco costituzionale. Ma c’è Berlusconi, che di fronte al malaffare non denuncia la corruzione che tracima, ma i pm che la combattono.
C’È UN filo sottile, che tiene insieme i due cicli della storia. L’uomo di Arcore, come l’esule di Hammamet, ragiona con la stessa logica deterministica: quella del Far West e del “todos caballeros”. Rubano tutti, e dunque non ruba nessuno. Le mazzette si pagano sempre, perché così va il mondo e perché così gira l’economia. Nella visione cinica e puramente mercantilista del Cavaliere, l’etica pubblica diventa «moralismo », e le tangenti diventano «commissioni». Se le toghe politicizzate fanno scattare le manette, o fanno un danno alle imprese o obbediscono ai comunisti. Se qualcuno azzarda qualche distinguo, o è un ipocrita o è un fesso. Come in quella di Hegel, anche nella notte della nuova Tangentopoli tutte le vacche sono nere.
È il vizio mentale (o il vezzo culturale) tipico di tutti i populismi. Una miscela esplosiva. Un po’ di Homer Simpson, che dice «certo il sindaco intasca qualche tangente, ma fa anche in modo che i treni partano in orario». Un po’ di Cetto Laqualunque, che di fronte all’avversario intenzionato a ripristinare la legalità si chiede «ma è legale ’sta cosa»? E non è un caso che, per ragioni uguali e contrarie, Berlusconi e Grillo adottano lo stesso giudizio di equivalenza. Il comico milanese sussurra «rubiamo tutti, quindi siamo tutti innocenti». Il comico genovese urla «rubate tutti, quindi siete tutti colpevoli».
DALLE RUBERIE DI “BATMAN” ALLA CONDANNA DI FITTO
La realtà è più complessa. Oggi, come nel ’92, l’Italia non è squassata solo dalla crisi economica, ma è anche schiantata da una deriva immorale che investe l’insieme delle sue classi dirigenti. La Prima Tangentopoli è stata costruita su un patto implicito: la politica taglieggiava l’industria per finanziarsi, l’industria foraggiava la politica per espandersi. La Seconda Tangentopoli è in parte diversa: politici e manager si arricchiscono insieme. I primi saccheggiano i finanziamenti statali, i secondi spolpano le finanze aziendali.
In questa chiave, gli scandali non sono tutti uguali, anche se sono tutti ugualmente gravi. Per capirlo servono la pazienza di approfondire e il coraggio di distinguere. C’è un primo filone, in questo momento il più inquietante, che chiama in causa direttamente la politica e i suoi protagonisti. Gli scandali nelle regioni, in questi ultimi anni, svelano un malaffare endemico che ha nomi e cognomi, e che è il frutto di un “modello” oggettivamente intrinseco al berlusconismo. Nessuno nega la serietà di inchieste che riguardano direttamente la sinistra, a partire dal caso Penati a Sesto San Giovanni fino ad arrivare ai rimborsi elettorali usati per comprare la Nutella a Milano.
Ma senza arrivare ai “maxi-processi” più clamorosi dello stesso Cavaliere (da All Iberian al Lodo Mondadori) o alle inchieste più scottanti sulle mafie (dal caso dell’Utri alla vicenda Cosentino) le corruzioni e le concussioni vere, in questi diciassette anni, sono state il pane quotidiano della destra. L’uso privato della funzione pubblica, che marchia a fuoco la biografia
politica del Cavaliere, è la costante più triviale che spiega le ruberie di Batman Fiorito e della giunta Polverini nel Lazio, le inchieste su Scopelliti in Calabria e le fresche condanne di Fitto in Puglia.
DAL “SISTEMA FORMIGONI” AI FURTI PADANI
Su scala infinitamente più vasta, e dunque palesemente più grave, c’è “l’associazione a delinquere” di Formigoni in Lombardia. Qui il culto della personalità del Celeste, che si può permettere il lusso di vivere a sbafo perché c’è sempre un Daccò che paga per lui, si somma al principio dell’illegalità che domina al Pirellone, dove i favori personali al governatore (dalle vacanze ai Caribi alle creme per il viso) si ricompensano con gli appalti per la sanità (dal San Raffaele alla Fondazione Maugeri). Qui la filosofia corruttiva è sistemica, pervasiva e decisamente più sosfisticata. Diversa da un altro scandalo lombardo, più pecoreccio anche se non meno devastante: quello che travolge la Lega e la famiglia Bossi, Trota in testa, colpevoli di aver distratto i soldi del finanziamento pubblico per comprare case, automobili e persino lauree false. È la nemesi del Carroccio, che arraffa urlando Roma Ladrona. Il Senatur, vecchio e malandato, se la può cavare con un rutto e un dito medio. Per Bobo Maroni la questione è assai diversa. Con questi furti tutti padani rischia di giocarsi la corsa alla Regione. C’è poi un secondo filone di scandali, al momento più “fecondo” sul piano giudiziario, che riguarda l’industria e la finanza. E investe allo stesso modo il pubblico e il privato. Qui, quello che colpisce è soprattutto l’avidità e l’infedeltà di capiazienda e manager senza regole e senza scrupoli, che lucrano fondi neri in proprio, nascondono documenti e informazioni al mercato, intralciano gli audit interni e le autorità di vigilanza. Il Montepaschi di Mussari, Vigni e Baldassarri è il caso più eclatante, per le dimensioni della banca (la terza in Italia) e la delicatezza del settore (il risparmio degli italiani). Ma l’arresto di Orsi in Finmeccanica, l’indagine su Scaroni all’Eni e quella sui vertici Saipem non sono da meno. Altrettanto si può dire, su un piano diverso, per le azioni di responsabilità contro la famiglia Ligresti sul dissesto Fonsai, per le malefatte della Bpm, o adesso per l’arresto del patron del Cagliari Cellino, del finanziere Proto e del solito Angelo Rizzoli.
LA “FRATELLANZA” IN MPS E LA “MANGIATOIA” FINMECCANICA
Qui si nasconde una zona grigia, dove il capitalismo di rapina e l’affarismo politico si annusano, si sfiorano e comunque si tengono. Si tenevano nel «socialismo municipale» di Siena, dove è accertata l’influenza storica della Fondazione in mano agli enti locali «rossi» e la “fratellanza” affaristica bipartisan instaurata dai vecchi sindaci senesi con Denis Verdini e il suo Credito Cooperativo Fiorentino, mentre non è affatto certa la presunta “maxi-tangente” da 2 miliardi che i giornali-cognati di Berlusconi continuano a spacciare per sicura (attribuendola genericamente alla sinistra) ma che i magistrati non hanno ancora trovato. In compenso, come dimostra l’arresto di Orsi e le inchieste su Lavitola, è più che certa la “manona” della solita Lega sulla nomina e sull’operato del manager appena trasferito in carcere a Busto Arsizio, così come è certo il tentativo compiuto a suo tempo dal Cavaliere e dai suoi faccendieri di trasformare Finmeccanica in una ricca mangiatoia aziendale, dalla quale attingere prebende e poltrone.
C’è con tutta evidenza, nel Paese, una nuova Questione Morale. Interroga la cosiddetta “élite”. Rivela i suoi peccati. Ma se oggi riesplode un’altra Tangentopoli, non si può pensare che ad essa sia estranea quella «cultura dell’impunità» di cui lo Statista di Arcore è stato, per quasi un Ventennio, un simbolo vivente. Oggi, di fronte alla bancarotta etica dell’establishment, serve un rinnovamento profondo delle regole e delle persone, che lo stesso centrosinistra finora non ha saputo produrre e di cui dovrà farsi carico nella prossima legislatura, se davvero avrà la forza di tornare al governo. Ma i processi sommari orditi in piazza dal tribuno del Movimento Cinque Stelle fanno solo danni. Nell’opinione pubblica monta un sentimento legittimo di indignazione, sale una sacrosanta domanda di giustizia. Ma il populismo anti-politico non è la risposta alla crisi di una Repubblica. Ci siamo già passati nel 1994. Ne stiamo ancora pagando le conseguenze.

La Repubblica 15.02.13

Bersani: "Superministero dello Sviluppo e una lenzuolata per la legalità", di Barbara Jerkov

Segretario Bersani, l`Europa frena sul rientro dal deficit per aiutare la crescita. E` il segnale che aspettavate per evitare altre manovre lacrime e sangue?
«Se si intende un allentamento che consenta di non conteggiare nel deficit le spese per investimenti, è proprio ciò che chiediamo da tempo. Vedremo».
Ma se fosse necessaria una nuova manovra, si impegna sin d`ora a farne una di soli tagli senza nuove tasse?

«Io non credo che ci vorrà una nuova manovra, voglio credere che i problemi che abbiamo aperti possano essere compensati da una dinamica di abbassamento dei tassi e da qualche altra sopravenienza. Certamente la tassazione mi pare arrivata a un punto limite».

La sua campagna elettorale così pacata non deriverà dalla difficoltà, avanzando proposte troppo forti, di contemperare le diverse esigenze di una coalizione che include Vendola e punta al dialogo con Monti?

«Abbiamo un profilo di serietà perché pensiamo di dover governare. Non è promettendo quattro milioni di posti di lavoro e neanche dicendo mille euro a tutti per tre anni che si arriva da qualche parte. Noi ci mettiamo verità e concretezza e un numero largo di proposte, nella convinzione che l`Italia ce la farà».

Tra le riforme del governo Monti, quali manterrete e quali si propone di riscrivere? La riforma Fornero sul lavoro che fine farà? E quella sulle pensioni?

«Non pensiamo a rinnegare questa o quella riforma, pensiamo però che si debbano apportare delle correzioni. Per esempio sulle pensioni c`è da risolvere subito il buco degli esodati e questo è un impegno serio. Dopodiché, con più calma, bisognerà riflettere anche su meccanismi in uscita che abbiano più flessibilità. In materia di lavoro pensiamo pure che il rapporto precarietà-stabilizzazione non sia ben risolto perché a volte, costringendo a stabilizzare un precario, finisce che a uno non danno nemmeno il posto da precario… Qualche aggiustamento, insomma, ci vuole, ma nessuna controriforma».

Ci spiega bene la sua idea di patrimoniale? E, soprattutto, rispetto alla ricetta Monti di rimodulazione delle imposte, lei quale ricetta propone?

«Per me patrimoniale significa parlare di immobili, l`abbiamo già una patrimoniale e si chiama Imù. Io sono per darle maggiore progressività: una fascia di esenzione significativa, 400-500 euro, anche per gli immobili strumentali. Quando si parla invece di ricchezza mobile, il problema è l`emersione. Se hai ottocento persone che dichiarano più di un milione di euro, non è che possiamo bastonare sempre quelle ottocento e lasciar perdere le altre ottantamila. Il ricavato della lotta all`evasione poi lo metti per ridurre Irpef ai redditi medio-bassi, Irap lavoro e a chi investe per dare lavoro. Dopo si può senz`altro riflettere pure su un sistema di riforme fiscali più ampie, riconsiderare tutto il sistema di deduzioni e detrazioni e così via».

Chi sarà a gestire tutto questo? Mancano pochi giorni al voto, è giusto che gli elettori sappiano qual è il nome del vostro candidato per il ministero dell`Economia.

«Ci vuole una personalità autorevole capace di avere una buona armonia con il resto del governo. Detto questo, le aggiungo anche che la funzione del Tesoro va messa in equilibrio con una funzione rafforzata sui temi dell`economia reale».

Sta preannunciando lo spacchettamento del ministero dell`Economia?

«Non necessariamente. Magari ripulire alcune competenze sì, sicuramente, di certo non gravarlo ulteriormente e alleggerirlo semmai un po`. Soprattutto si tratta di organizzare nuove competenze legate allo sviluppo, riequilibrando l`attenzione ai fatti finanziari con una maggiore attenzione ai temi dell`economia reale».

Un superministero dello Sviluppo, insomma?

«Se devo passare tre mesi per fare una legge che cambi nome al ministero, mi va bene qualunque nome. In Germania hanno un ministero che si chiama delle Finanze e un ministero che si chiama dell`Economia. Le Finanze curano il tesoro, l`Economia cura l`economia reale. Anche qui adesso dobbiamo pensare alla crescita, vedere con quali strumenti. Peraltro girando l`Italia capisco che la prima botta bisogna darla subito sui temi della moralità, della legalità, della sobrietà dei costi della politica. E lo deve fare il governo, non lasciando genericamente che ci pensi il Parlamento».

In concreto cosa ha in mente?

«Una lenzuolata sulla legalità e sui diritti. Lo dico sempre ai miei parlamentari: non c`è una ragione per cui i parlamentari debbano guadagnare più di un sindaco. Non c`è ragione per cui non abbiamo ancora una legge sui partiti. Non c`è ragione per cui non abbiamo norme più severe sull`anticorruzione o per tenerci le leggi ad personam. Non c`è ragione per cui non consideriamo i diritti della gente e il figlio di un immigrato nato qui non abbia la cittadinanza italiana, o le coppie omosessuali non abbiamo i loro diritti».

Quali saranno dunque i primi tre decreti del suo governo, segretario?

«Riguarderanno i costi della politica, i diritti civili e la crescita per dare liquidità alle imprese».

Con quali alleanze? Se non dovesse ottenere una maggioranza piena, è disponibile a una nuova grande coalizione?

«Pareggi non ce ne saranno. Nel caso, ho sempre detto, noi ci rivolgiamo alle forze alternative a Berlusconi e alla Lega. Se grande coalizione vuol dire far qualcosa anche con loro, non lo ritengo possibile».

In Parlamento sta per entrare un Ufo chiamato Grillo. Pensa possibile una collaborazione con il Movimento 5Stelle? La ritiene una formazione di sinistra?

«Non c`è dubbio che vi sia qualcosa nell` ispirazione originaria del M5S, quando parla di sobrietà della politica o di democrazia diretta, che interpella pure noi. Dopodiché chiunque vede che quel movimento si è caricato di una pulsione di stampo conservatore, populista. Quando dice che non c`è né destra né sinistra: questi sono ragionamenti che hanno sempre portato a destra».

Ma lei teme più Grillo o più Berlusconi?

«Il mio avversario sono Berlusconi e il leghismo. Dopodiché considero un pericolo anche tutte le altre venature populiste».

Monti ha affidato ministeri di peso a ministri donna. Lei farà altrettanto? E in quali ruoli?

«Noi porteremo in Parlamento il 40% di donne. Vedrete dov`è la novità guardando la sezione Pd del Parlamento: per due terzi sarà nuova. E` chiaro che farò un governo coerente con questa impostazione».

Pd: per il dopo Bersani alla segreteria immagina una sfida tra Renzi e Barca?

«E` possibile tutto. Stimo moltissimo l`uno e l`altro, Io dirò loro solo una cosa: ora ci si mette tutti a disposizione, ognuno ha le proprie aspirazioni ma le valuteremo insieme».

Il Messaggero 15.02.13

"Il vecchio paese degli spiccioli", di Barbara Spinelli

È un’Europa vecchia e svuotata, quella che ha visto i suoi leader accordarsi su un bilancio striminzito, figlio di dogmi rigoristi pieni di sonno, emanazione di un’Unione dove gli interessi degli Stati duellano senza produrre neanche l’ombra di un interesse generale. È un’Europa rattrappita («il mondo è divenuto così malvagio, che gli scriccioli predano dove le aquile non osano appollaiarsi», come in Shakespeare), e non a caso il rigetto nelle sue genti cresce. Il conciliabolo tra i finti suoi sovrani non poteva che finire così. Per la prima volta nella storia dell’Unione è prevista una diminuzione delle risorse comuni, come se la crisi semplicemente non ci fosse: un taglio di 34 miliardi di euro, rispetto al bilancio previsionale 2007-2013, e come tetto invalicabile meno dell’1 per cento della ricchezza prodotta. Questo chiedeva l’inglese Cameron, complice la Merkel e alcuni paesi nordici, e l’ha ottenuto: il Guardian registra il suo trionfo. Inutile tacciare di infantilismo chi, come Bersani, si adira. Le cifre parlano chiaro, i fatti hanno più forza delle propagande elettorali.
Sono cifre e fatti che hanno ormai una storia, una genealogia. Fino a quando l’Europa sarà una Confederazione di Stati abbarbicati a sovranità assolute (maschere utili in campagna elettorale, ma pur sempre maschere) le grandi scelte saranno intergovernative, dunque unanimi, e l’intesa difficilmente oserà vere scommesse sul futuro. La Confederazione, diceva Ernest Rossi, è fumo senza arrosto. Non è affare dottrinale, scegliere l’arrosto della Federazione. Se la crisi del debito ha lambito con tanta furia l’Unione e la sua moneta, dalla fine del 2009, è a causa di quest’architettura imprecisa, ignara dell’interesse generale, mantenuta in vita non solo da Stati potenti ma anche dai piccoli che esistono gonfiando le proprie taglie.
Cifre e fatti parlano da soli, per chi voglia esplorare le radici autentiche dei mali presenti. L’Europa non sta peggio degli Stati Uniti, né del Giappone. Se nella zona euro il debito inghiotte l’88 per cento della ricchezza prodotta, ben più alto è quello americano, giapponese: fino all’anno scorso, rispettivamente il 100% e il 226% del Pil. Ma nei due paesi non è in gioco, ogni volta, la vita o la morte della moneta, o della federazione, o dello Stato. In Europa invece sì, e questo vuol dire che la sua crisi è politica prima che economica. Dietro yen e dollaro ci sono Stati centrali che magari allarmano i mercati, ma non trasformano questi ultimi in padroni assoluti.
Dietro il dollaro, c’è un bilancio federale che copre il 22,8 per cento del Pil: capace non solo di annunciare ma di realizzare politiche di sostegno, in congiunzione con una Banca centrale sicura di avere di fronte a sé un interlocutore politico. L’1 per cento fissato come limite insormontabile nell’Unione, nessuno lo dice ma è una beffa. Non solo pesa pochissimo sui cittadini (si calcola che il costo è di 70 centesimi al giorno: più o meno un caffè al bar ogni mattina. Il 2 per cento reclamato dai più arditi costerebbe un caffè e cornetto). Neanche politicamente può funzionare, se permane il metodo, anch’esso datato, dei contributi versati dagli Stati: quando c’è crisi, è fatale che i negoziati degenerino nelle fiere della taccagneria che sono i vertici intergovernativi.
Occorre che l’Unione acquisisca un potere impositivo proprio, come Washington o Tokyo. Che l’Europa chieda direttamente al cittadino di finanziare l’avventura, perché solo in tal modo rende il secondo partecipe, e la prima appetibile e controllabile. È così che le democrazie nascono e diventano indipendenti, attive nel mondo: legando indissolubilmente tassazione e rappresentanza parlamentare. L’alternativa c’è e si chiama «giusto ritorno»: lo reclamò negli anni ’80 Margaret Thatcher, ed è oggi vizio ben condiviso.
Lo vediamo da anni: ogni capo di governo esige di ridurre i propri contributi o di ricevere in cambio giuste restituzioni, come se l’Europa non trascendesse mai la somma dei Ventisette. Quando il capo torna a casa dai conciliaboli ha in mano un trionfo personale, e un fallimento europeo. È il caso di Monti. Nella sostanza, venerdì, ha venduto per un piatto di lenticchie la linea più audace che pure gli era stata chiesta dal Parlamento: bloccare, minacciando il veto, un bilancio decurtato che condanna l’Europa all’irrilevanza. È per non perdere questo potere euforizzante ma sterile, che gli Stati s’ostinano a non affidare all’Unione poteri autonomi di imposizione: le tasse sulle transazioni finanziarie (Tobin tax) e l’imposta sulle emissioni di anidride carbonica (carbon tax), finita nei dimenticatoi nonostante l’effetto benefico che essa potrebbe avere su uno sviluppo diverso, meno inquinante per il clima.
Bastano le frasi ipocrite che suggellano i vertici (l’ultimo comunicato assicura che «il bilancio, guardando il futuro, ci farà uscire dalla crisi», e «dovrà essere un catalizzatore per la crescita e l’occupazione in tutta Europa») per svegliarci dal sonno dei dogmi. Merkel e Monti dicono che le elezioni nazionali non c’entrano, ma non è affatto vero. È per fingersi in patria sovrani possenti che difendono accordi fatti per screditare e abbassare l’Europa. Tra le righe fanno capire che un giorno si potranno correggere le cose: dopo le elezioni tedesche, comunque.
Ma i deputati europei hanno il potere e il diritto di reagire subito, e già lo fanno. Sorretti dal Presidente Martin Schulz, i capi dei principali gruppi del Parlamento (Daul del Ppe, il socialista Swoboda, il liberale Verhofstadt, i Verdi Cohn-Bendit e Harms) lo dicono in un comunicato: l’accordo «non rafforzerà ma indebolirà la competitività dell’economia europea, e non è nell’interesse prioritario dei cittadini europei». Non deve passare un «bilancio basato esclusivamente su priorità del passato», indifferente a promesse del futuro come ricerca, energie alternative, trasporti: «Non accetteremo un bilancio di austerità per sette anni».
Perché l’accordo sia bocciato dal Parlamento europeo, non c’è bisogno di aspettare le elezioni tedesche né una nuova Costituzione europea, anche se l’urgenza di quest’ultima è massima. Fin d’ora, la legge è inequivocabile: il bilancio pluriennale è deliberato all’unanimità dal Consiglio dei ministri «
previa approvazione del Parlamento europeo», prescrive l’articolo 312 del Trattato di Lisbona.
Questo significa che noi cittadini possiamo esigere dal nostro Parlamento a Strasburgo che voti contro l’accordo (e che nelle elezioni europee del 2014 dia battaglia sul bilancio). E possiamo chiedere ai governi di fare meglio quei «compiti a casa» che sono loro assegnati dai cittadini oltre che dalla Bce, e non concernono solo il rigore contabile casalingo ma gli investimenti dell’Unione e al contempo la sua visione d’un mondo in mutazione.
Non è detto che Schulz, meno coraggioso del previsto, abbia l’ardire di dire No. Vale la pena incalzarlo, e ricordargli l’appello personale che gli rivolse Helmut Schmidt, al congresso socialdemocratico del dicembre 2011: che promuovesse, appena eletto presidente dell’Assemblea, un’«insurrezione del Parlamento europeo» contro la sudditanza dei governi ai mercati. Essenzialmente, è quello che ha scritto su questo giornale Ulrich Beck, il 25 novembre 2012, sulla rabbia dei popoli contro l’Unione e le sue trojke. La questione sociale è diventata una questione non più nazionale ma europea, e «per il futuro sarà decisivo che questa convinzione si affermi. In effetti, se i movimenti di protesta prendessero a cuore l’imperativo cosmopolitico, cioè cooperassero in tutta Europa al di là delle frontiere e si impegnassero assieme non per meno Europa, ma per un’altra Europa, si creerebbe una nuova situazione ». Una situazione che Beck chiama Primavera europea.

La Repubblica 15.02.13