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Bersani: "azzoppando il Sud non si governa", di Simone Collini

Vincere, anche per ricominciare a parlare di Mezzogiorno dopo che Berlusconi e Lega l’hanno cancellato dall’agenda politica. Dopo la Lombardia, Bersani fa tappa nell’altra regione chiave per ottenere la maggioranza al Senato, la Sicilia. Il 61 a 0 a favore del centrodestra è ormai un ricordo lontano, soprattutto dopo il successo di Crocetta alle regionali dello scorso ottobre, ma il centrosinistra non può certo star tranquillo e l’appello al voto utile qui è d’obbligo. Non a caso, muovendosi tra Priolo, Catania e Messina, Bersani attacca Berlusconi non solo per il modo «malato» in cui vede le donne, ma per aver teorizzato insieme alla Lega, in tutti gli anni in cui è stato al governo, che una separazione del Paese tra Nord e Sud facesse bene alla nostra economia.
«La Sicilia e il Mezzogiorno sono da dieci anni fuori dal dibattito politico», denuncia il leader del Pd parlando in un’affollata sala del complesso fieristico “Le ciminiere”. «Io ovunque vada, sia al Sud che al Nord, dico sempre questa cosa che siamo un’Italia sola. Questo è l’oggetto di questa campagna elettorale. O andiamo avanti con il leghismo per altri 10 anni, dopo che abbiamo assistito all’aumento della recessione, allo sballamento della finanza pubblica e anche al record del distacco, della disarticolazione di questo Paese, oppure cerchiamo di prendere un’altra strada. Nessuno pensi che azzoppando il Sud, il Nord possa galoppare. Abbiamo visto che non è così. Adesso bisogna ricostruire».
PIÙ LAVORO CON L’ECONOMIA VERDE
Bersani si candida a guidare da Palazzo Chigi quest’opera di ricostruzione lanciando proprio dalla Sicilia anche un piano per creare occupazione con l’economia verde. «Ci sono dieci grandi luoghi industriali da bonificare e da rilanciare in questo nostro Paese secondo nuove normative», dice il leader del Pd incontrato gli operai dell’ex area industriale di Priolo Gargallo, nel siracusano, nella mensa dell’ente di addestramento Ciapi. «Pensiamo ad un piano di riqualificazione dell’edilizia esistente a fini di efficienza energetica ed ambientale, un rilancio delle rinnovabili con poche incentivazioni, molta semplificazione e la costruzione di una rete di distribuzione intelligente, e un ciclo di rifiuti da mettere a governo cercando di evitare in quel campo degli sprechi e creare invece delle risorse per dare lavoro. Su questi quattro punti siamo pronti ad operare una volta al governo».
BERLUSCONI E L’IDEA MALATA
È di questo che vuole parlare Bersani in questo finale di campagna elettorale, anche se non risparmia bordate a Berlusconi per i doppi sensi con cui si rivolge alle donne o per il modo in cui ne parla («come fossero bambole gonfiabili», aveva detto Bersani l’indomani della battuta dell’ex premier all’’impiegata della Green power): «Il Pd elegge in Parlamento il 40% di donne. A Berlusconi dovrei chiedere quante bambole elegge, visto come si esprime, come ragiona, per la malattia che ha in testa». E poi, dopo che Santanchè, Prestigiacomo e altre esponenti del Pdl si dicono offese: «Per me anche quelle del Pdl sono donne con la loro autonomia, intelligenza, dignità. È per Berlusconi che sono bambole».
Non è però su questo terreno che Bersani vuole sfidare Berlusconi. In quest’ultima decina di giorni prima del voto, il leader del Pd continuerà a sfornare delle proposte per far fronte alla crisi e creare occupazione. Risponde con un sorriso a chi gli fa notare che questa non è la strategia giusta per avere dei gran titoli sui giornali: «Io non sono uno che racconta favole». Dice che è «appassionato alla riduzione delle tasse per pensionati, lavoratori e famiglie a basso reddito e per chi investe per dare lavoro», ma sottolinea che a pochi giorni dal voto «si parla di tutto ma non del problema, che è il lavoro». E insiste ricordando il piano per le piccole opere lanciato la scorsa settimana, l’operazione per la riqualificazione di scuole e ospedali (7,5 miliardi in tre anni), la proposta di una emissione di titoli di Stato di 10 miliardi l’anno per cinque anni per pagare i debiti della Pubblica amministrazione nei confronti delle piccole e medie imprese.
Misure che darebbero ossigeno, dice da Catania, a un Sud che «soffre di più» la crisi: «Per l’Italia non c’è speranza se non c’è qualche segno più per il Mezzogiorno. È una certezza matematica. Intorno a questo concetto noi facciamo la nostra campagna elettorale. Perché non intendo seguire gli altri sul piano della loro demagogia. Gli italiani sono intelligenti, e noi puntiamo sulla loro intelligenza. Siamo alternativi al leghismo e alla destra berlusconiana. Ed ho fiducia che il giaguaro lo smacchiamo».
La prossima volta che tornerà in Sicilia sarà per andare a Palermo, la prossima settimana, per un’iniziativa in piazza insieme a Crocetta e a Matteo Renzi.

l’Unità 13.02.13

"L’Internazionale del ballo per difendere le donne", di Adriano Sofri

Dunque domani donne e uomini di tutto il mondo – “un miliardo” – balleranno nelle strade e nelle piazze per dire no alla violenza contro le donne. Mettiamo insieme qualche notizia recente. In India, dopo l’episodio atroce dello stupro di branco della studentessa “Amanat”, morta dopo tredici giorni di agonia, le donne che chiedono il porto d’armi per difesa personale si sono moltiplicate bruscamente. È entrato in funzione il primo tribunale composto di sole donne per giudicare crimini contro le donne.
In Italia, dove le uccisioni di donne sono pressoché quotidiane, le cronache hanno registrato due omicidi compiuti da donne, sul marito e sull’amante; nel secondo caso dopo anni di angherie. La cronista che ne ha riferito ha scritto, senza virgolette, “maschicidio”, a ragione (si può prevedere che il termine solo apparentemente neutro di “omicidio”, per non dire di “uxoricidio”, sia destinato a uscire dal lessico comune, e forse anche da quello giudiziario, quando si tratti di un uomo che uccide una donna o viceversa). Ancora, secondo le cronache, un uomo che ha tentato efferatamente di ammazzare la propria moglie avrebbe lamentato che non volesse lavargli la tuta del calcetto. Il disgraziato manifesto di un prete di Lerici menzionava l’abitudine delle mogli moderne di far arrivare in tavola la minestra fredda.
Il clou della denuncia era tuttavia nell’abbigliamento delle donne, tale da indurre i veri uomini in tentazione, di violenza se non di femminicidio. (Quando ha detto: “Ma lei è frocio? E se no, che cosa prova quando vede una donna mezza nuda?” il prete di San Terenzo stava confessando: “Io non sono frocio, e quando vedo una donna mezzo nuda…”). Nel piccolo Swaziland, dove il re sceglie ogni anno una nuova moglie fra le giovani a seno nudo, a Natale la polizia ha annunciato che avrebbe fatto rispettare più severamente il divieto di indossare minigonne e jeans a vita bassa “perché facilitano lo stupro”. Una analoga legge arcaica è in vigore ad Adelaide, Australia: il portavoce della polizia ha detto che “lo stupro è facilitato, perché è facile togliere il mezzo vestito indossato dalle donne”. Nel 1999 una memorabile sentenza di Cassazione italiana sostenne che è difficile togliere i jeans “senza la fattiva collaborazione della donna”. Bisognò aspettare il 2008 per leggere una sentenza correttrice.
Negli stessi giorni dell’affare di Lerici si discuteva dello stupro della ragazza indiana. La scrittrice Anita Nair scriveva, tradotta su Repubblica: “Mia madre mi ha sempre detto di guardarmi le spalle. Non prendere taxi e automobili se non sai che è un servizio sicuro. Non attirare l’attenzione su te. Chiedi a tuo marito al tuo fidanzato a tuo fratello di accompagnarti…”. E Mira Kamdar: “Mio nonno, urlandomi rimproveri per il vestito o il mio modo di parlare, mi fece capire che il solo modo per proteggermi dal pericolo continuo degli uomini era di comportarmi e vestirmi così da rendermi invisibile”. E così via, infinite testimonianze. “Nessuna donna a Delhi si avventura sola fuori di casa dopo le 5 di pomeriggio”. Colpiva l’apparente somiglianza fra i precetti del prete e le raccomandazioni delle donne indiane: solo che le seconde sono le vittime. Nel mondo si conduce una guerra di liberazione e di riconquista delle donne, non dichiarata, non riconosciuta. È la posta della stessa guerra in Afghanistan, incarnata nella quindicenne Malala, assaltata ferocemente da uomini perché difende il diritto all’istruzione per le bambine afgane. Era e resta la posta delle primavere arabe, e prima del-l’Iraq e della Libia. In Tunisia una giovane stuprata dai poliziotti è stata mandata a processo per attentato al pudore.
In Israele i rabbini ultraortodossi vogliono la separazione fra uomini e donne nei bus, nei negozi e sui marciapiedi, e un abbigliamento che copra le donne fino ai polsi e alle caviglie. Una bambina di 8 anni è stata insultata e sputata da uomini per un abito da loro ritenuto immodesto.
Nel gennaio 2011 un funzionario di polizia, Michael Sanguinetti, tenne una conferenza sulla sicurezza agli universitari di Toronto: “Sentite, qualcuno mi ha detto di non dirlo, e tuttavia, le donne dovrebbero smettere di vestirsi come troie (slut) per evitare di essere aggredite”. Le sue parole suonarono come la conferma del pregiudizio maschile per cui le donne stuprate sono sempre almeno corresponsabili della loro disgrazia. Ci fu una rivolta. Tremila persone tennero la piazza in aprile al motto: “Siamo tutte troie”. In maggio furono migliaia a Sydney e 2 mila a Boston. Gli slogan erano comuni: “La sola persona che puoi scopare quando vuoi sei tu”, “È una gonna, non un invito”, “Non dite a noi come vestire. Dite a loro di non stuprare”, “Sono una troia, ma non la tua”, “Look, don’t touch. This is a dress, not a yes”.
Holly Black (non è la scrittrice, lavora in un ospedale di Boston): “Vogliamo riappropriarci del termine troia, quando una troia è maltrattata o aggredita, non l’ha né desiderato, né meritato, e chi la aggredisce è almeno altrettanto colpevole che se avesse aggredito una non-troia. Lo stupro non è l’effetto di un desiderio sessuale, bensì un atto di violenza e di umiliazione. Lavoro al pronto soccorso e vedo arrivare vittime che non indossano minigonne ma jeans, jogging, pigiami, e perfino velate”. L’iniziativa si diffuse contagiosamente, con qualche problema di traduzione (il francese salope è più ambiguo):
Marche des salopes, Slut-walk, Marcha de las putas, o ancora das vadias, das vagabundas; “marcia delle charmoutot” a Gerusalemme. Erano cortei a volte di qualche decina, altre di centinaia e di migliaia di persone, donne e uomini, le donne prevalentemente in biancheria intima o abiti cosiddetti provocanti. A Londra sfilano in 5 mila, e un giorno dopo, il 12 giugno, a Edimburgo e a Brasilia, una delle città più colpite dagli stupri. Lima, Reykjavik (“la cultura dello stupro impregna anche l’Islanda”), Berlino, Cordoba… In India una diciannovenne che ha studiato in Canada, Umang Sabarwal, convoca a Nuova Delhi, la capitale delle violenze sessuali, una “marcia delle troie”, che dovrà rinviare e poi nominare diversamente, “marcia delle insolenti”, o “delle sfrontate”, rinunziando all’abbigliamento succinto, per le reazioni generali e anche di donne impegnate.
Il meccanismo di reazione è consueto, si prende l’accusa infamante e se ne fa una bandiera; nello slogan c’è anche una rivendicazione di libertà e gioia sessuale. Era successo dopo l’ignobile episodio Strauss-Kahn, “Siamo tutte cameriere d’albergo”. Dopo la nostra Lerici, a Carrara un gruppo di donne andò in chiesa in minigonna e
décolleté.
Da che mondo è mondo, controllare capigliatura e abbigliamento altrui (le reclute, per esempio, o i collegiali ecc.) e soprattutto delle donne, è la condizione decisiva del padronato maschile. La monaca di Monza sfidava i suoi padroni lasciando che una ciocca uscisse dal suo velo, come fanno le ragazze di Teheran, che i pasdaran assaltano e perquisiscono fin sotto il chador per accertare che non si siano truccate.
Dalle nostre parti, non si tratta solo né tanto degli immigrati poveri che arrivano coi loro costumi chiusi. Sono i ricchi che ci comprano, il Qatar, o che ci riforniscono, l’Arabia Saudita. Affaroni con dinastie che schiavizzano gli stranieri e tengono le donne prigioniere. Questa volta, sarà l’Internazionale di un ballo.

La Repubblica 13.02.13

Violenza sulle Donne Diciamo «Mai Più», di Gian Antonio Stella

«Le mogli leccano il pavimento della chiesa per dimostrare di non aver perduto l’onore». È passato quasi mezzo secolo da quel titolone su «Amica» che lanciava un reportage di Vittorio Lojacono sul tema: «Gli uomini continuano a considerare le donne esseri inferiori». Mezzo secolo.
Eppure, pezzi di quell’Italia ancora immersa nel passato, e peggio ancora compiaciuta di esserlo, ce li siamo tirati dietro. Lo capisci leggendo «Questo non è amore. Venti storie raccontano la violenza domestica sulle donne», 269 pagine, 16,50 euro, pubblicato da Marsilio. Un’opera collettiva messa insieme da giornaliste, giudici, psicologhe, docenti universitarie che ruotano intorno a «La 27ª ora», lo spazio di Corriere.it che prende il nome da una ricerca della Camera di commercio di Milano da cui emerse che, con la sovrapposizione di più ruoli e mestieri, «la giornata delle donne sembra durare 27 ore».
Non è una collezione di poverette assassinate, la trama del libro. Tranne quella di Veronica, uccisa con una pallottola alla nuca («o mia o di nessuno») dal suo ex fidanzato e ricordata dalla mamma Clementina Iannello che ha fondato in memoria della figlia un’associazione per aiutare le donne in difficoltà, le storie raccolte sono tutte storie di piccola, banale, ordinaria, barbarie quotidiana. Dove il tema è l’idea del possesso. La rivendicazione di tanti maschi, Dio ci perdoni, del diritto a usare una certa dose di violenza. Di più, maschi convinti che una bella sventagliata di ceffoni, come nel film di Lina Wertmüller, possa domare qualunque puledra ribelle.
Ed ecco Maria, che per proteggere le figliolette si è lasciata pestare per anni dal marito finché quello una sera spaccò, scagliandogliela addosso, la bambola della piccola Gaia: «Fu come se avesse toccato lei. La bambina lo guardò con terrore, ma anche con delusione. Era ferita. E io capii che avevo sbagliato, che non era possibile riuscire a tenerle fuori da questa storia. Che non sarebbe bastato chiudere le porte, non urlare quando mi picchiava, cercare di fare le lavatrici perfette o imbandire la tavola al meglio. No, loro erano colpite forse più di me. (…) Appena uscì per andare a lavorare, cominciai a fare subito di nascosto le valigie».
Ecco Sara, che era convinta d’aver sposato un uomo stupendo («mi avvolgeva di parole, mi affascinava, riusciva a farmi vedere bianca una parete nera») finché lui non cominciò a tirare di coca: «Una vigilia di Natale è entrato in casa con un manganello nero, come quello delle guardie: io non l’avevo visto mai, solo in televisione. Ha iniziato a darmelo sulle gambe, era un dolore tremendo. Poi ha preso mio figlio e mi ha lasciata sola a casa, il 24 dicembre, piena di lividi. La mattina dopo mi sono svegliata che avevo bagnato il letto».
E poi Giovanna, che era innamorata di suo marito e certa d’essere dentro una bella favola («Vivevamo a Londra in una bellissima casa affacciata sul Tamigi. Feste, concerti, vestiti firmati, vacanze in barca a vela…») finché una sera lui cominciò a riempirla di calci nonostante fosse incinta («Si è avventato su di me come una belva, non si fermava. Io cercavo di proteggere la pancia. E lui colpiva sempre più forte…») per riversare successivamente le sue attenzioni sulla figlioletta: «La baby sitter mi mostrò dei lividi impercettibili sulle cosce della bambina. Fu come una frustata sul viso, una picchiata d’acqua gelida in faccia. Feci le valigie immediatamente, mi trasferii da un’amica».
E poi ancora Emma e Greta e Antonella e Amal e Monika… E non c’è storia che non sia diversa e insieme uguale a quella delle altre. Così come i compagni, i fidanzati, i mariti. Tutti per mille aspetti diversi, tutti in troppe cose uguali. Francesco, uno degli uomini ascoltati dalle autrici per sentire l’altra metà, ha confidato il trauma di essersi scoperto incapace di controllare la collera: «Le ho messo le mani al collo e mi sono spaventato per la mia rabbia».
E pagina dopo pagina, storia dopo storia, umiliazione dopo umiliazione, emerge la sensazione netta e sgradevole che dietro i televisori a led e a schermo piatto e gli iPad e le webcam e i treni Frecciarossa che ti portano in tre ore da Milano a Roma riemergono rigurgiti di quell’Italia che credevamo sepolta. Quella dove La Stampa pubblicava titoli come «Nessun ballo esclude il rischio del peccato». Dove agenti e carabinieri consultavano «L’enciclopedia di polizia» di Luigi Salerno dove si diceva che «è indiscutibile come il danno che dall’adulterio della donna ricade sul marito, sia infinitamente più grave del danno che dall’adulterio del marito ricade sulla moglie». Dove Oggi spiegava come fosse «giunta l’ora di parlare del gallinismo» anziché del gallismo dei nostri playboy da spiaggia: «Quando i nostri oltrepassano il segno spesso la colpa è delle turiste». È la disperazione della mamma di Veronica: «Un bastardo mi ammazza la figlia e l’avvocato tira in ballo la minigonna».
Insieme, però, emerge anche un’Italia diversa. Migliore. Che consola. Dove sono sempre di più le donne che riescono a rompere le catene della rassegnazione, dei pregiudizi, della paura. Donne che denunciano. Che danno battaglia. Che si rivolgono ai centri di aiuto e sostegno (ce n’è un elenco di 60 pagine, città per città, nel libro) per tirar fuori dai guai sé stesse e magari quelle che non ci riescono da sole.
Quasi sempre, tuttavia, quelle che ce la fanno a uscire da certi gironi d’inferno casalinghi ce la fanno perché sono in grado di reggere da sole anche economicamente. Ed è lì che sono insopportabili i ritardi enormi dell’Italia. L’ultima in Europa per tasso di occupazione femminile. Trenta punti sotto la Danimarca, venticinque sotto la Svizzera, la Svezia, l’Olanda… Ed è lì che emerge uno dei nodi centrali: offrire alle donne opportunità di inserimento nel lavoro può voler dire strapparne tante alla schiavitù domestica di certi compagni-padroni.

Il Corriere della Sera 13.02.13

"Diritto allo studio, tagliato il 90 per cento dei fondi", di Mario Castagna

Un taglio del 90%. Non proprio la risposta che gli studenti si aspettavano dal ministro Profumo durante il negoziato che stanno portando avanti in questi giorni sul nuovo decreto sul diritto allo studio. A denunciarlo è Luca Spadon, portavoce del sindacato studentesco Link, durante l’assemblea che ieri Left ha organizzato per porre alla coalizione di centrosinistra alcune questioni cruciali per salvare la ricerca e l’università italiana. E Spadon, per dimostrare che l’apertura del ministro rischia di essere solo un bluff, ha portato le tabelle ministeriali con gli impegni di bilancio per gli anni 2013/2015.
E i dati parlano chiaro. Per il 2013 sono a disposizione sul bilancio Miur, per il pagamento delle borse di studio, quasi 103 milioni di euro. Per il 2014 ed il 2015 invece i milioni diventano poco meno di 13. Un taglio del 90%, una doccia fredda per gli studenti che solo ieri hanno incontrato il ministro per discutere del contestato decreto. Se i soldi rimanessero così pochi, il crollo delle iscrizioni denunciato pochi giorni fa dal Cun sarebbe destinato ad aggravarsi. Anche gli studenti dei Giovani Democratici hanno voluto denunciare il regresso che sta attraversando l’università italiana: «Senza politiche per gli studenti l’università é destinata ad un lungo ed inesorabile declino» ci dice Enrico Lippo della Run, che ieri faceva parte della delegazione che ha incontrato il ministro.
E c’è chi il declino lo vuole fermare, chi invece lo vuole accelerare, come il popolarissimo partito nato su Facebook. E ieri nell’affollatissima sala del Piccolo Teatro Eliseo la parola declino è risuonata molte e troppe volte. «È necessario assumere il dato del declino italiano come un dato strutturale, solo avendo questa consapevolezza si possono mettere in campo misure efficaci per invertire la rotta». Daniela Palma, economista ricercatrice dell’Enea ha le idee chiare in materia. Dalle pagine del blog keynesblog, ha provato a lanciare l’allarme più volte ma, come il grande economista inglese, l’ingiusta accusa di estremismo fa finire nel cassetto qualsiasi proposta di riforma.
Il mondo della conoscenza ha dimostrato però che è in grado di fare proposte per riformare il sistema e non per affossarlo. E di portare avanti queste proposte con una carica «ideologica» almeno pari a chi in questi anni ha attaccato senza sosta il sistema pubblico dell’istruzione. E i nomi di Alesina, Giavazzi e Zingales sono risuonati più volte ieri in sala: «Secondo Zingales non possiamo permetterci di essere un paese che si occupa di biotecnologie, dovremmo pensare ai cinesi e agli indiani che vogliono visitare Roma, Venezia e Firenze. Queste sono le idee che hanno affumicato l’aria negli ultimi anni». Così Giuseppe de Nicolao, dell’Università di Padova e redattore della rivista Roars, che combatte da mesi una battaglia culturale in difesa dell’università italiana.
Sono molti a chiedere che di queste materie non se ne occupi nuovamente un rettore, ma piuttosto chi in questi anni ha denunciato con forza i problemi da risolvere, così come sono in molti a ricordare che, tra tanti errori fatti, l’ultimo governo dell’Ulivo ha aumentato a livelli oggi inimmaginabili la dotazione finanziaria per questo comparto. La richiesta è quindi di ripartire da lì, riportando il finanziamento a quanto fu deciso dal presidente Prodi, non solo per salvare quel patrimonio di saperi, conoscenze e persone che è l’università italiana ma per invertire la rotta e riportare l’Italia al posto che le compete.
A rispondere alle sollecitazioni di ricercatori, sudenti e docenti c’erano ieri Umberto Guidoni per Sel e Walter Tocci per il Pd ma Left ha voluto invitare anche Stefano Fassina proprio per parlare del nesso fondamentale tra il sapere e lo sviluppo. E Fassina ha voluto anche prendersi degli impegni «Servono subito atti simbolici che invertano la tendenza e politiche di lungo periodo per aprire una nuova stagione. Non chiedeteci anche voi il programma dei primi 100 giorni. Tutte le categorie, dai pensionati minimi alle donne di Se non ora quando, ci chiedono un impegno per i primi giorni di governo. Al mondo della conoscenza serve un impegno che duri anche più di 100 giorni. Vi prometto il massimo impegno a correggere la rotta».

l’Unità 13.02.13

"Il miracolo del nulla alle spalle", di Barbara Spinelli

Nessuno può escludere che anche il Conclave da cui uscirà il nuovo Papa ci stupirà. Ma sorprese come quella di lunedì difficilmente si ripetono.
Il gesto di Benedetto XVI ha la potenza e la debolezza di un atto solitario, non del tutto consequenziale, comunque extra- ordinario. Alcuni l’hanno chiamato rivoluzionario, ma le rivoluzioni rovesciano ordini esistenti, politici o ecclesiastici, e neanche loro hanno la virtù della stabilità: sempre secernono controrivoluzioni, Termidori, perfino restaurazioni. Tuttavia hanno un’immediata vocazione a divenire l’anno-zero di una Storia in mutazione: nascono nuove istituzioni, nuovi sovrani, che della rivoluzione sono figli anche quando la disconoscono. Convocare il Concilio Vaticano II fu una rivoluzione, non meno contrastata di altre.
Non così le dimissioni del Papa. Ogni parola della sua dichiarazione ha un peso particolarissimo: è piombo e insieme calamita, preme e magnetizza, è forte della propria debolezza. Non perché dia inizio a mutazioni subito visibili dell’istituzione Chiesa: la svolta c’è ma è tettonica, avviene sotto la crosta terrestre, chi l’imprime non necessariamente l’ha voluta e la vuole. È quello che la rende così strana, sconcertante. Lunedì abbiamo visto il Pontefice ritrarsi come il protagonista dell’Habemus Papam di Nanni Moretti. Ma attorno a lui non s’accampavano che volti imperturbati, senza increspature.
Angelo Scola, sapendosi possibile successore, si concedeva a fedeli e giornalisti e già sopiva, troncava. Antiche abitudini erano lì, pronte a cancellare le rughe: «È per il bene della Chiesa… State tranquilli… Dio ci guida…». Pareva un assai ordinario democristiano. Anche questo non escludiamo: che la svolta tettonica venga presto minimizzata, sommersa. Quante volte diremo, negli anni futuri: quel che accade vanifica il graffio che fu la Grande Rinuncia. Polverizza la laicizzazione della Chiesa che il graffio in qualche modo e magari involontariamente presagiva.
È inevitabile che le acque si richiudano, sopra il folle volo che ha sigillato la navigazione papale: il folle volo di quel «le mie forze non sono più adatte», vires meas ingravescente aetate non aptas.
È fatale che la faglia sia ricucita, proprio perché intravista sotto forma di inaudito scoppio di verità. Forse ciascuno di noi si dirà, come Montale negli Ossi di Seppia: ho visto anch’io, andando in un’aria di vetro, «compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore di ubriaco». Ma siccome non dura, il vuoto, presentiremo anche il seguito: «Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto / Alberi case colli per l’inganno consueto. /Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto / Tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto».
L’inganno consueto è l’ipocrisia dei «sepolcri imbiancati» da scribi e farisei, nel Vangelo di Matteo.
Come potrebbe essere diversamente, se teniamo a mente la storia e le opere di questo Papa? È facile parlare di svolte, ma quella vera, che toglie al Vaticano il potere temporale e gli restituisce l’enorme suo peso spirituale, ancora non è avvenuta. Non avvenne dopo la rivoluzione francese della laicità, cui la Chiesa rispose con l’assolutismo, e infine con il dogma dell’infallibilità. Non a caso il cardinale Martini denunciava un ritardo di 200 anni. Il potere temporale sopravvive mutando forme, come Proteo. Oggi la forma è quella dei valori non negoziabili,
o supremi. E delle leggi naturali, di cui la Chiesa si erige a custode: come se esistesse un quid che trasforma la legge – il nòmos sempre rinegoziato – in physis immodificabile dall’uomo (la nascita, la morte, il matrimonio infine fra uomo e donna: un sacramento, per i cattolici, solo a partire dal 1439). Oppure il potere temporale s’afferma nella battaglia sulle radici cristiane d’Occidente e d’Europa, con effetti tragici sui cristiani in Medio Oriente.
Non è stata proficua questa lotta in favore della legge di natura o delle radici cristiane, per il trono petrino. La Chiesa precipita in Europa (nel solo ultimo anno: mille preti in meno, unitamente a un clero sempre più anziano). E perduta la Spagna non le rimane che l’Italia, ultimo bastione dove la laicità, chiamata laicismo per degradarla a dottrina, a credo, non ha da entrare. Per questo è difficile vedere nella rinuncia papale una laicizzazione della Chiesa di Roma.
Resta l’inaudito delle dimissioni, e di quelle parole che uscivano lente, come da un respirare ingombrato da commozione o stanchezza. Resta l’immagine di una solitudine che desta ammirazione ma inquieta, anche. Un
ultimo volo della nave di Ulisse, forse: di chi nel suo legno, solo, si getta per l’alto mare aperto. Un presentimento di pericoli non detti. Una serietà al tempo stesso molto spericolata, molto romantica, molto tedesca. Un Papa italiano non oserebbe questo: il nostro non è un Paese romantico.
Non sarà una rivoluzione, ma nulla sarà più come prima: una mossa simile, per la prima volta del tutto libera, non forzata da nemici esterni o interni, desacralizza per forza di cose il papato. Se ci si può normalmente ritirare e non essere più Papa, vuol dire che non c’è più identificazione totale e perenne, tra la persona e la funzione. Sommamente conservatore, Benedetto XVI inaspettatamente innova, quasi avesse intuito le insidie stesse del sacro. La desacralizzazione toglie il coperchio sul santo, sul vero. L’ammissione di estrema umanità, di fallibilità, è immersione-immedesimazione nella kènosis che svuota. Il sacro copre, non disvela. Distrugge l’idolo, e le vaste cupole, e le così
sfarzose, troppo imponenti mitre dei vescovi. Quel che l’atto papale lascia in eredità è il mistero di Nicodemo e del vento così come glielo racconta Gesù nella clandestinità d’un incontro notturno: non sappiamo da dove venga né dove vada, ma può darsi che ti faccia rinascere dall’alto.
Non appropriato (forse inelegante) è stato a mio parere il commento del cardinale di Cracovia Stanislaw Dziwisz. Citando Giovanni Paolo II, di cui fu segretario personale, ha stabilito, lunedì: «Dalla croce non si scende». Chi, e con quale autorità può dire una cosa del genere? Ammettere di «non farcela », fisicamente o esistenzialmente, non è meno eroico del martirio-testimonianza di Giovanni Paolo II. È un umanissimo grido d’impotenza, uno scendere i gradini del potere che sortisce l’effetto contrario: innalza. Enzo Bianchi dice che è un dono: «Una volta cessato l’esercizio del ministero, un altro può continuarlo e la persona che lo ha esercitato in precedenza scompare, diminuisce, si ritira». È quanto fece Giovanni Battista. Forse chissà, questo Papa si è sentito, nel maturare la scelta di diminuirsi, più che mai vicino al Battista.
L’invito a non scendere dalla croce non lo si rivolge neanche a Dio, se è vero che perfino Lui, prima del consummatum est, grida, si torce, e ha sete, e recita il salmo disperato di chi si sente abbandonato dal Padre che prometteva onnipotenza. Proprio Ratzinger, che sembrava impersonare il potere papale più arcigno, confessa di essersi trovato nella condizione più umana che si possa immaginare: quella della solitudine della coscienza, sola di fronte al Padre eterno, senza alcuna autorità terrena che potesse dirgli cosa doveva fare, e dove andava il vento.

La Repubblica 13.02.13

" Il Celeste al capolinea", di Gad Lerner

Giustizia a orologeria? Macché, Formigoni s’è dato la zappa sui piedi da solo. Giunge a due settimane dal voto lombardo la richiesta di rinvio a giudizio in quanto “promotore e organizzatore” di un’associazione a delinquere. Ma solo perché da oltre un anno il Celeste inventa una scusa dopo l’altra per evitare di presentarsi davanti agli inquirenti a spiegare quel lucrare potere e denaro dal suo incarico pubblico. Voleva assicurarsi l’immunità parlamentare, e difatti lo troviamo candidato nella lista Pdl al Senato, degno numero due subito dietro al pluri-imputato Berlusconi. Così, a furia di temporeggiare, si ritrova cucito addosso nel momento peggiore il capo d’imputazione che sintetizza plasticamente la natura del suo malgoverno, peraltro già ben nota ai cittadini: drenaggio di risorse pubbliche elargite con discrezionalità a favore di strutture sanitarie private, utilizzando delibere regionali scritte da funzionari sleali sotto dettatura dei suoi amici consulenti, che appartengono alla medesima consorteria. Questi ultimi, Daccò e Simone, intascavano decine di milioni dalle strutture beneficiate; e li adoperavano per finanziare l’attività politica del gruppo di Formigoni, oltre che per le sue vacanze dorate. Un andazzo perpetrato negli anni, una sorta di bottino addirittura teorizzato come se si trattasse di una logica conseguenza delle vittorie elettorali. Se agiva così la cerchia operativa del presidente Formigoni – figurano tra gli indagati il segretario generale della Regione e il direttore dell’assessorato alla Sanità – ovvio che il malaffare dilagasse poi negli altri settori del governo lombardo, dove ogni clan si sentiva autorizzato a compiere in proprio le sue scorrerie.
Non si contano gli attacchi di Formigoni a Repubblica, accusata di ordire una campagna mediatica per delegittimarlo dopo la caduta della giunta Moratti a Milano e poi del governo Berlusconi, proprio quando lui si riteneva pronto a ereditare la leadership nazionale del centrodestra. Smascherato nelle bugie plateali sulle vacanze ai Caraibi a scrocco dei consulenti foraggiati dalla Regione, sulle barche messe a sua disposizione in Sardegna, dove lui stesso ha “prestato” un milione al coinquilino Perego (anch’egli indagato) per acquistare dai soliti consulenti una villa che ne vale molti di più, il Celeste non si è reso conto che denigrare il giornalismo che cerca la verità condanna i potenti al discredito.
La sua tracotanza ha finito per accelerarne la caduta fino a condannarlo all’irrilevanza politica. La ramificata macchina del consenso che guidava con spregiudicatezza, cercando di limitare la voracità dell’alleato leghista, ora è in via di frantumazione. E lui, sconfitto anche nel tentativo di perpetuare attraverso la candidatura di Albertini la sopravvivenza della sua corrente, ha innescato lesto la retromarcia: soggiacendo a quel Maroni che solo pochi mesi fa osteggiava perché – parole testuali – “il nostro popolo non lo voterà mai”.
Ora gli elettori lombardi sanno qual è l’alternativa che li attende il 24 febbraio: da una parte il progetto di ricambio della classe dirigente corrotta, guidato dal candidato civico Umberto Ambrosoli; dall’altra il tentativo forzaleghista di conservazione di un potere che – secondo la magistratura – si è configurato come associazione a delinquere.
Formigoni pretenderebbe di trascinare nella subalternità all’egemonia leghista impersonata da Maroni il movimento di Comunione e Liberazione, imponendogli una svolta contronatura. «A che scopo guadagnare il mondo intero se perdi te stesso?», si era chiesto amaramente don Juliàn Carron, capo spirituale di Cl, di fronte al dilagare degli scandali. E pareva una domanda rivolta direttamente al leader politico che in modo così plateale aveva tradito i valori della sobrietà predicati a parole. Afflitto da narcisismo e vanagloria, Formigoni non è riuscito a fermarsi in tempo. Ieri sera vaneggiava ancora di manovre giudiziarie finalizzate a coprire lo scandalo Montepaschi, invece di rispondere nel merito delle accuse che da un anno e mezzo lo inchiodano. Ma la sua carriera politica, ormai lo sa anche lui, è giunta al capolinea.

La Repubblica 13.02.13