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"Tagli ai posti di contingente dei docenti statali all'estero: soddisfazione per l'impegno del PD Scuola", di Anna Rita Sordo

Come è noto, con l’approvazione del D.L. 95/2012 sulla Revisione della Spesa alcuni burocrati contabili del MIUR, hanno previsto di tagliare di più del 40% in pochi anni il contingente dei docenti statali da inviare all’estero, ragion per cui l’Italia dovrà rinunciare, di qui a poco, a quasi la metà del la propria presenza culturale nel mondo.

In precedenza il contingente all’estero era composto da circa 1.000 unità ed oggi, dopo l’applicazione della prima “tranche” di tagli, vi sono già ben 134 posti in meno, con la conseguenza che molti Lettorati e Corsi di italiano sparsi per il pianeta sono stati di fatto chiusi.

Il “dimagrimento” del 14% del personale avvenuto quest’anno (molto più del 10% totale imposto dal succitato D.L. alle altre amministrazioni) ha già quindi causato gravi scompensi nella rete delle Istituzioni Scolastiche Italiane all’estero, tuttavia se si dovessero tagliare anche i previsti 266 posti e si dovesse quindi malauguratamente arrivare ai -400 totali, allora rimarrebbe ben poco della Promozione della Lingua e la Cultura italiana nel mondo.

A più riprese i docenti del gruppo fb “Insegnare all’Estero” (che conta più di 7.000 membri, uno dei quali è la sottoscritta) hanno chiesto nei mesi passati ai vari partiti politici e più in particolare al PD di adoperarsi perché si ripristinasse il contingente estero a quota 1.000 o, in subordine e come male minore, che almeno ci si “accontentasse” del taglio già effettuato dai tecnici (134 posti su mille, appunto) e che quindi si lasciasse il contingente se non altro al livello odierno, fermando appunto in parlamento gli ulteriori tagli previsti.

Vi sono stati, in verità, alcuni tentativi in sede parlamentare da parte di alcuni onorevoli (on Bastico, on Ghizzoni) per venire incontro alle rimostranze di quanti tenevano e tengono alla diffusione della nostra lingua e la nostra cultura nel mondo, ma detti tentativi sono stati sempre bocciati dal governo Monti.

Vorrei perciò con questa lettera semplicemente esprimere il mio piccolo, umile e personale apprezzamento per le parole della Responsabile scuola del Partito Democratico F. Puglisi la quale, intervistata da Tuttoscuola in merito a quali provvedimenti un eventuale governo di sinistra prenderà se tra pochi giorni gli toccasse di guidare il paese, include, tra le altre cose, anche la questione degli irragionevoli e fin troppo drastici tagli al contingente dei docenti inviati all’estero.

Spero vivamente che il prossimo parlamento abbia la volontà e la capacità di evitare che la promozione e la diffusione della nostra meravigliosa lingua e cultura nel mondo non si riducano, in assoluta contro-tendenza rispetto a quel che accade nelle altre grandi democrazie europee, a mera testimonianza.

www.orizzontescuola.it

Modena – Volantinaggio davanti all'Università

I Giovani democratici e la candidata Pd alla Camera Manuela Ghizzoni, la mattina di martedì 12 febbraio, saranno in via Campi per un volantinaggio e per parlare delle proposte del Partito democratico in materia di scuola, università e cultura.
Un banchetto, volantini e la voglia di confrontarsi su temi che interessano la vita degli studenti, ma non solo: i Giovani democratici hanno organizzato per la mattina di martedì 12 febbraio un’iniziativa pre-elettorale davanti alla Bsi (Biblioteca scientifica interdipartimentale) di via Campi, a Modena, presente la candidata Pd alla Camera Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienze e Istruzioni della Camera dei deputati. Sarà l’occasione per presentare le proposte del Partito democratico in materia di scuola, università e cultura.

"Più parlamentari ma poche alla guida", di Valeria Fedeli

Grazie soprattutto alle scelte del Pd, che avrà il 40% di donne tra i parlamentari eletti, il prossimo Parlamento sarà rosa al 30%, il 10% in più che nella legislatura che sta terminando. Indubbiamente un risultato positivo, ma solo un dato di partenza. La crescita di pr senza femminile alla Camera e al Senato, infatti, non deriva da una generale consapevolezza dell’importanza del ruolo delle donne per il benessere economico e sociale del Paese.

Basta guardare alle liste per cogliere immediatamente che a fronte del Pd che, come detto, con il 40% di elette porterà in parlamento almeno 154 donne, gli altri partiti hanno percentuali e valori assoluti decisamente più limitati, talvolta risibili, come l’Udc che ha solo 2 donne eleggibili, o Rivoluzione civile che ne ha soltanto 4. I dati che ricorda Di Vico, e con lui sondaggisti e ricercatori, dicono inoltre che quando si tratta di eleggere con la preferenza le donne sono ancor più marginalizzate, anche perché non si è costruita in Italia una valorizzazione positiva e una abitudine affinché le donne votino donne.

Arriveremo dunque ad un risultato di crescita della presenza femminile in Parlamento, ma rischiamo che il Parlamento resti un’eccezione isolata. Le donne sono infatti ancora molto, molto indietro quanto a posti di comando e carriera, sia nelle istituzioni che nelle imprese.

Eppure le donne rappresentano una eccezionale risorsa: in termini di lotta alla povertà, per accrescere red- dito e stabilità delle famiglie; in termini economici, per contribuire alla crescita del Paese con competenze ed energie complementari a quelle degli uomini; in termini sociali, di riequilibrio dei ruoli e tempi di lavoro e famiglia e di più servizi di cura; in termini etici, perché è dimostrato che la presenza di donne ai vertici di istituzioni e imprese riduce corruzione e illegalità.

È questo il senso, questa la consapevolezza che ha portato Bersani ha scegliere proprio la «rivoluzione rosa», come lui stesso l’ha definita, come principale fattore di innovazione delle liste e quindi delle culture e delle proposte del Partito democratico.

La prossima legislatura sarà un banco di prova per il Paese, per tutto il Parlamento e in particolare per le donne che vi faranno parte. Se unite potremo avere, questa volta, la forza per agire concretamente nella direzione di una effettiva parità, una parità che valorizza le differenze e annulla ogni gender gap. Non dovremo essere élite che si limita a indicare ricette, dovremo lavorare concretamente e in modo fattivo per cambiare le condizioni reali dell’economia, del lavoro e della vita.

Attraverso misure concrete, che uniscano la leva fiscale della detassazione, l’intervento sui servizi, dagli asili a quelli per gli anziani, il sostegno alla maternità e il contrasto alle dimissioni in bianco. Riequilibrio di genere nei congedi parentali, poi, e flessibilità degli orari e incentivi al part-time. Ancora quote di parità nei consigli di amministrazione, insieme a misure per facilitare i percorsi di carriera, e un’Authority sulle discriminazioni. E misure per estendere i diritti a tutte le forme contrattuali, equilibrando alcuni difetti della riforma del lavoro.

Le donne e gli uomini che siederanno in Parlamento hanno poi un dovere civico e morale che è premessa di tutte le altre azioni: reagire alla crescente violenza, stoppare il femminicidio, costruire una società che rispetta le donne. Veniamo da anni in cui l’immagine e il ruolo della don- na nella nostra società hanno subito solo offese. E nei quali non c’è stata nessuna politica attiva per le donne.

Poi c’è stata la manifestazione del 13 febbraio 2011, che ha dato l’avvio alla riscossa civica del Paese. Il movimento Se Non Ora Quando? è riuscito a determinare l’imposizione in agenda dei temi legati alle donne, che sono decisivi anche in questa campagna elettorale, e propone oggi un’iniziativa di confronto tra le varie liste proprio perché l’agenda del paese dei prossimi anni non porti il nome proprio di un uomo, ma la forza collettiva delle donne. La campagna «Un paese per donne: le parole per dirlo», promossa da Se Non Ora Quando?, ha raccontato durante queste ultime settimane le storie di tante donne reali, con le loro difficoltà, le loro speranze, quello che si aspettano dal Paese. È a loro che dobbiamo rispondere, è per loro che dovremo governare.

É il momento di cambiare, di puntare sul valore femminile, di caratterizzare così l’azione del governo, il governo a guida Pd. Ma anche in questo sapendo di avere la responsabilità di proporre un’alleanza che coinvolga tutte le donne, e punti soprattutto alle giovani generazioni: quelle che conoscono meno i movimenti e le battaglie del passato, che hanno incrociato Se Non Ora Quando?, che hanno la testa nel futuro, che dobbiamo accompagnare verso un’Italia più giusta.

L’Unità 11.02.13

"Quanto è difficile valutare i docenti", di Pier Aldo Rovatti

Come è noto, stanno insediandosi le commissioni nazionali che dovranno stabilire liste di idonei nei vari raggruppamenti scientifici dell’università. Da queste liste gli atenei dovranno poi pescare i futuri insegnanti. Bisogna considerare che l’imbuto è strettissimo (conformemente alle misere risorse disponibili) e che a questa prima tornata si è presentato un vero esercito di aspiranti, ciascuno dei quali dovrà essere valutato.
È evidente che le commissioni svolgeranno con molta difficoltà il loro compito, con il rischio di esplodere di fronte a un lavoro immane. La macchina, comunque, è stata avviata. Bisogna, però, anche ricordare che il tutto è stato preceduto da una sottile e generale misurazione bibliometrica: da tempo, infatti, un’Agenzia nazionale ha avuto l’incarico di classificare i “prodotti” di questa imponente massa di candidati servendosi di indici numerici che hanno permesso di stabilire una linea “mediana”, in-
somma una soglia da superare per poter essere considerati idonei. Alle spalle del lavoro delle commissioni sta insomma un processo di valutazione, supposto oggettivo, che non ha mancato di suscitare un mare di perplessità e di critiche, esplicitate anche su questo giornale.
Una notizia che mi pare sintomatica è costituita da una nota ufficiale del ministero dell’Istruzione datata 11 gennaio 2013. Il ministro, evidentemente preoccupato dall’affollamento delle candidature e dal conseguente rischio di paralisi delle commissioni, propone espedienti dilatori per almeno alcune di esse e anticipa subito un nuovo bando per il 2014 con il dichiarato intento di invitare la folla dei candidati a distribuirsi anche sul prossimo anno. Ma la nota ministeriale dice inoltre qualcosa di decisamente più importante: rassicura le commissioni che esse saranno sovrane e avranno piena autonomia e completa responsabilità riguardo alle loro scelte: in breve, comunica ai commissari che potranno anche non tenere conto degli indici di valutazione predisposti dall’Anvur (cioè dall’agenzia sopra nominata). Se ne servano se lo credono opportuno, ma sono liberi anche di “discostarsene” e perfino di non considerarle per nulla.
Non è una notizia da poco e non riguarda solo il mondo accademico nel quale da troppi anni il reclutamento è praticamente bloccato. Si apre, infatti, una piccola ma sintomatica incrinatura nel tessuto spesso di una “cultura della valutazione” che ha radici ormai bene impiantate in un’idea di “conoscenza” di tipo produttivistico ed è intrisa da parte a parte dalla logica ormai dominante dell’“impatto”, cioè dalla quantificazione delle risposte suscitate dai prodotti della ricerca.
Che questo impatto si traduca poi nel numero di citazioni e in una scelta (opinabile) della rilevanza dei luoghi di pubblicazione (riviste di serie “A”, ecc.) e di chi ha il privilegio di legittimarli, manifesta con chiarezza dove si origini tale “cultura” e chi ha il potere di orientarla. Insomma qui, a dispetto della sbandierata oggettività o neutralità, emerge proprio quell’intreccio tra sapere e potere che si vorrebbe occultare, e di conseguenza diventa visibile che la cultura della valutazione è governata da un principio di produttività che si ingrana perfettamente con le logiche complessive del sistema neoliberale ma non ci azzecca per niente con le esigenze intellettuali di chi si avvia sulla strada della ricerca e mira all’insegnamento universitario. Per dirla con un eufemismo, c’è uno iato tra la cultura della valutazione tutta concentrata sui prodotti e quella libera cultura critica che ha caratterizzato la storia gloriosa dell’autonomia universitaria fin dalla sua nascita.
Tornando allo specifico, esiste ormai in Italia una diffusa opinione critica in proposito: ci sono siti molto frequentati (come Roars) che raccolgono utilmente materiali e documenti critici, si stanno moltiplicando interventi pubblici, saggi e libri (per fare solo un esempio, Valutare e punire di Valeria Pinto, appena uscito da Cronopio), e si ha in definitiva la sensazione che si stiano cominciando a fare seriamente i conti con una cultura che riduce ai prodotti e alla loro quantificazione un’“attività” intellettuale (di cui non siamo davvero privi) ben più ricca e fatta di esperienze che non si possono trasformare ipso facto in indici numerici.
La nota ministeriale alla quale mi sono riferito è certo solo un segnale, frutto peraltro di un’aspra battaglia (condotta dall’Associazione dei docenti di filosofia teoretica, Sifit). Ma è un segnale significativo perché rimette in circolazione parole come “autonomia” e “libertà”, che sono state troppo rapidamente evacuate dai discorsi dominanti e che è molto importante che vengano rimesse in campo e riattivate nelle pratiche, dato che poi è ispirandosi a esse che gli insegnanti universitari (e con loro tutti gli insegnanti di ogni ordine di scuola) si ostinano ancora a dare un riempimento di senso al loro mandato sociale e alla loro professionalità.

La Repubblica 11.02.13

"Scuole. Emergenza sicurezza in 3 su 4. Incendi, solo il 17,7% è a norma. Vecchie quasi tutte le strutture", di Alessia Camplone

Un’emergenza nazionale. La definizione è del sostituto procuratore di Torino Raffaele Guariniello che nell’ottobre scorso decise la chiusura di due grandi scuole, l’istituto Luxemburg e il liceo Copernico, perché i controsoffitti rischiavano di cadere addosso agli alunni. Cinque anni fa nella provincia, all’istituto Darwin di Rivoli, un crollo aveva ucciso uno studente di 17 anni. Ma Guariniello, che nei termini di emergenza nazionale si è rivolto al ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, sa che il problema non è solo piemontese. L’ultima fotografia l’ha scattata il Censis, nel suo rapporto sulla situazione sociale del Paese 2012. Risultato: il 33,5% delle scuole italiane non possiede un impianto idrico antincendio e la metà di esse (50,7%) non ha la scala interna di sicurezza, Degli oltre 36mila edifici scolastici censiti, solo un quarto è stato costruito negli ultimi trent’anni, quando è cresciuta la sensibilità sui temi della sicurezza e la normativa si è fatta più rigorosa.
IL CPI OBBLIGATORIO
Il Cpi, il Certificato di prevenzione incendi, è obbligatorio per le scuole con più di cento studenti: quasi tutte, quindi. Eppure – dati confermati anche dal Miur – appena il 17,7% degli istituti ne è provvisto. Dato più desolante nel meridione: in Sardegna meno di una scuola su 20 ce l’ha. E la maggioranza degli istituti in Italia è stata costruita prima del 1974, l’anno della legge antisismica. In Ecosistema scuola, indagine annuale di Legambiente che ha esaminato 7.139 istituti, tutti in capoluoghi di provincia, emerge però che pure le scuole costruite dopo il 1974 non sono state edificate con criteri antisismici. Solo l’8,22% supera l’esame. Meno di cinque scuole su mille (lo 0,47%) è costruita con i criteri della bioedilizia, ovvero il cosiddetto sviluppo sostenibile, che considera il benessere degli studenti, il risparmio dell’energia e il rapporto con la natura. Ma il rischio è di scuole che ti cadono addosso. Undici anni fa, nel terremoto che colpì il Molise, morirono 27 bambini e una maestra, nel crollo di una scuola elementare a San Giuliano di Puglia. La Cassazione ha confermato la condanna a 5 anni di carcere del progettista, del dirigente dell’ufficio tecnico comunale e di due costruttori. E dell’ex sindaco, a 2 anni e 11 mesi: nella tragedia aveva perso la sua figlioletta. La scuola di San Giuliano non aveva l’agibilità statica, secondo la Flc Cgil sono circa ottanta i plessi scolastici a rischio nel Molise, non solo per terremoti e incendi. Secondo Cittadinanzattiva ci sono lesioni strutturali in una scuola su 10, muffe e infiltrazioni in una su 4, distacchi di intonaco in una su 5. Dopo l’ultimo crollo, in provincia di Lecco, il garante per l’Infanzia, Vincenzo Spadafora, parla di «bollettino di guerra». E denuncia: «In Italia le scuole sono troppo vecchie. L’edilizia scolastica non è una priorità dell’agenda politica, ci ritroviamo a commentare un’assurdità come quella di un bimbo che va a scuola e torna a casa con un braccio rotto perché gli è caduto addosso un pezzo di tetto».
LA PROPOSTA
Nella sua relazione dell’anagrafe dell’edilizia scolastica il ministero dell’Istruzione premette: il 4% delle scuole è stato costruito prima del 1900, e il 44% in un periodo che va dal 1961 al 1980. E sostiene: mettere a norma gli edifici esistenti, costruiti secondo standard ormai superati, è del tutto inefficace. È necessario costruire edifici nuovi, adeguati alle norme di sicurezza e anche alle tecnologie più evolute. Ma costruire come, se i soldi non ci sono? Il ministro Profumo ha organizzato nei giorni scorsi un incontro in cui ha illustrato agli Enti locali una proposta di decreto che prevede la costituzione di un fondo unico per l’edilizia scolastica, da attivarsi anche con forme di partnership pubblica-privata. Fondi immobiliari che coinvolgono tutti, Comuni, Province, enti istituzionali sul territorio, e anche il ministero dell’Istruzione. «Può essere uno strumento utile di programmazione, se intesa a lunga scadenza – ha polemizzato Antonio Saitta, presidente dell’Unione delle province – ma l’emergenza sicurezza va affrontata subito». Ci sono due miliardi di euro bloccati dal patto di stabilità, protestano le Province, e la capacità di investire nelle scuole in 5 anni è scesa del 60%. Per il 2013 è previsto un taglio alle Province di 1,2 miliardi di euro. Taglio che si ripercuoterà su manutenzioni ordinarie e straordinarie delle scuole. Venti giorni fa sono stati sbloccati 111,8 milioni di euro sulle indicazioni delle commissioni Bilancio e Cultura della Camera, con le quali si potranno costruire istituti nuovi, demolendo i vecchi edifici o destinandoli ad altro. Ma con le procedure di verifica ci vorrà quasi un anno perché siano aperti i primi cantieri.

Il Messaggero 11.02.13

"Scuola, il Pd all’attacco dei programmi di Berlusconi, Lega e 5 Stelle", da Tuttoscuola

Offensiva mediatica del Partito Democratico contro i programmi degli avversari, specie per quello che riguarda la scuola. Ieri, la responsabile Scuola del Pd, Francesca Puglisi, ha attaccato Grillo e Berlusconi, colpevoli a suo dire di risanare i conti tagliando sull’istruzione: “Dall’aumento stellare delle rette dei nidi, al taglio di 84 posti nelle scuole dell’infanzia, il Movimento 5 Stelle sta dimostrando a Parma tutta la propria inadeguatezza quando viene chiamato alla prova di governo. Invece di fare come le famiglie per bene, che quando ci sono pochi soldi, stringono la cintura e pensano prima di tutto ai più piccoli e ai più deboli, i grillini – dice Francesca Puglisi – usano la mannaia dei tagli penalizzando i bambini e le famiglie. Governare per il bene del Paese e delle comunità locali è cosa ben diversa dallo strillare in piazza. D’ora in poi diremo anche noi ‘sono tutti uguali’: Grillo e Berlusconi quando è ora di risanare i conti tagliano la scuola”.

Oggi il sito del Pd, nello spazio ‘Non raccontiam balle’, prende di nuovo di mira i programmi di Pdl e Lega. Stavolta il gruppo di ‘fact checking’ democratico, coordinato da Domenico Petrolo, denuncia le contraddizioni sulla scuola ricordando che “il precedente governo Berlusconi con 132 mila posti di lavoro in meno ha fatto il più grande licenziamento di massa della storia della Repubblica”.

“Ma PdL e Lega Nord – sostiene il Pd – non si fanno problemi a rilanciare con enfasi le loro proposte per la scuola del futuro. Elenchiamo alcune di queste proposte e le loro contraddizioni: Autonomia delle scuole nella scelta degli insegnanti, negli organici e nella gestione efficiente dell’offerta scolastica e formativa (pag. 25 programma PdL, pag. 8 programma Lega). Peccato che con il Governo Berlusconi le risorse destinate a finanziare l’autonomia scolastica per la prima volta sono scese sotto i 100 milioni di euro, passando dai 269 milioni del 2001 ai 79 del 2011. In dieci anni, insomma, il finanziamento è stato ridotto del 71%”.

C’è poi la valutazione di scuole, docenti e università al fine di favorire la meritocrazia (pag. 25 programma PdL, pag. 8 programma Lega). “Purtroppo per il centrodestra – afferma il sito Pd – ad essere valutato negativamente fu proprio ‘Valorizza’, il progetto di valutazione messo in piedi dal ministro Gelmini ma bocciato da tutto il mondo della scuola. Gelmini proclamò che vi avrebbero aderito 300 scuole, alla fine ne aderirono soltanto 33”.

C’è poi l’idea del centrodestra di favorire il rapporto scuola-impresa anche sostenendo i percorsi di formazione professionale, sul modello delle scuole tecniche tedesche (pag. 26 programma PdL, pag. 8 programma Lega). “Deve essere con questo fine – ironizza il Pd – che i ministri Gelmini e Tremonti hanno quasi azzerato le ore di laboratorio e di pratica negli istituti tecnici e professionali e hanno dato un colpo mortale agli stage e all’alternanza scuola-lavoro”.

da Tuttoscuola 11.02.13

"Don Rodrigo e il professore", di Gad Lerner

Sia pure continuando a difendere, per lealtà, la candidatura minoritaria di Gabriele Albertini in Regione Lombardia, ieri Mario Monti l’ha finalmente riconosciuto: non è possibile, per un liberale europeista come lui, mantenersi equidistante nella sfida all’ultimo voto in corso fra un candidato civico di centrosinistra, Umberto Ambrosoli, e il segretario della “Lega Nord per l’indipendenza della Padania”, Roberto Maroni. Dunque per Monti l’avvocato Ambrosoli, espressione della società civile lombarda, è “persona apprezzabile e apprezzata”. Mentre “esiste indubbiamente un pericolo Maroni in Lombardia”. Si tratta di un piccolo ma essenziale passo avanti, in vista di una scelta che ieri su Repubblicauno dei suoi principali collaboratori, Pietro Ichino, aveva già ben formulato: Ambrosoli e Albertini “sono entrambi dalla parte giusta, che è quella legata alla strategia europea dell’Italia. È Roberto Maroni che è dalla parte sbagliata, incompatibile non solo con l’agenda Monti, ma con la stessa Costituzione italiana”.
Con logica politica inoppugnabile, che Monti per ora elude ma che finirà speriamo per ammettere, Ichino ha legittimato la possibilità di una scelta disgiunta fra il voto nazionale e quello regionale: “In Lombardia esistono, oggi, due opzioni sul piano regionale entrambe compatibili con una scelta politica sul piano nazionale per la Lista Monti”.
Siamo di fronte a uno snodo cruciale per il futuro dell’Italia, e non solo per la definizione dei suoi futuri equilibri di governo: risulterebbe arduo qualsiasi tragitto politico di riformismo europeista nella disgraziata ipotesi che il cuore produttivo del paese remasse contro, affidato alla guida di una classe dirigente separatista e retrograda, portatrice di una visione esasperata di individualismo proprietario, reduce da un ventennio di affarismo e corruzione.
Nella sua disperata lotta per la sopravvivenza Berlusconi ha rinunciato alla salvaguardia del suo stesso partito, finendo per candidare il leghista Maroni alla regione Lombardia e il fascista Storace alla regione Lazio. Cioè due espressioni di una destra italiana la cui vocazione estremista si manifesta nella sua stessa leadership, riducendo all’irrilevanza le sue flebili voci moderate.
La fragilità strutturale della borghesia italiana ha finito per ridimensionare l’ambizioso tentativo di Monti, il quale confidava di isolare questa destra estremista sottraendole una quota significativa dell’elettorato conservatore. Capisco che sia amaro prenderne atto — la destra che voleva normalizzare gli si rivolta contro più aggressiva che mai — ma il premier è chiamato subito a una scelta di responsabilità. Viste le circostanze, egli non può rinviare al dopo voto, per attendismo o per mere convenienze elettoralistiche, un chiarimento da cui dipende il futuro dell’Italia.
Se Maroni è un pericolo, come dice Monti, allora non si può ignorare che un voto di pura testimonianza simbolica per Albertini in Lombardia — dove non è previsto il ballottaggio, e quindi governerà chi arriverà primo anche solo di un soffio — potrebbe determinare conseguenze dirompenti sull’intero Paese. La scelta del voto lombardo disgiunto non si configura quindi come un favore alla sinistra, la quale peraltro è già stata a sua volta costretta a compiere una cessione di sovranità in favore dell’avvocato Ambrosoli: uomo nuovo, lontano dai suoi apparati, candidato alla guida di un patto civico per il ripristino della legalità anche perché pesa a sinistra il ricordo degli eccessi di consociativismo simboleggiati dalla vicenda Penati.
Non a caso si esprimono per Ambrosoli personalità interne al progetto Monti come Ilaria Borletti Buitoni, Savino Pezzotta, e domani forse lo stesso Ichino, che sottolineano la natura emergenziale di tale scelta: impedire che la locomotiva dell’economia italiana, la regione crocevia della modernità culturale aperta all’Europa, finisca nelle mani di un piccolo partito contrapposto agli interessi nazionali. E più in particolare che la regione Lombardia venga governata da un ex ministro dell’ Interno sotto la cui gestione hanno prosperato il malaffare, la corruzione e la penetrazione della criminalità organizzata, senza che lui se ne accorgesse neppure quando coinvolgevano la dirigenza del suo stesso movimento.
La necessità di una riscossa civica in Lombardia passa attraverso una netta rottura di continuità con la classe dirigente affondata negli scandali. Piacerebbe che Monti spendesse una parola sulla ricandidatura nelle liste della destra lombarda dei Formigoni e dei Bossi, cioè dei protagonisti del forzaleghismo, anziché indugiare a tutela di piccole convenienze. Il blocco di potere dei vari Don Rodrigo che hanno scorrazzato impunemente per le contrade lombarde è in via di disgregazione, ma spera di trovare in Maroni il suo nuovo uomo forte. Servirebbe una parola chiara per orientare l’elettorato a debellarlo. Uno statista, un borghese lombardo di matrice manzoniana, dovrebbe riconoscersi anche da questa capacità di visione. Dopo il primo, timido riconoscimento di ieri, aspettiamo fiduciosi che la voce di Monti si levi più nettamente.

La Repubblica 11.02.13