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Bersani prepara il rush finale: «La sfida è tra noi e la destra» , di Simone Collini

Domenica a Milano con Nichi Vendola e Bruno Tabacci, la prossima settimana a Palermo insieme a Matteo Renzi e Rosario Crocetta. E poi il passaggio in Campania domani e in Puglia sabato, perché se Lombardia e Sicilia saranno decisive per la conquista del Senato anche in queste altre due regioni non si può abbassare la guardia. Pier Luigi Bersani va al rush finale della campagna elettorale chiamando alla mobilitazione militanti, simpatizzanti ma anche i sindaci del Pd, e soprattutto lanciando questo messaggio: «In Italia abbiamo avuto destre stataliste, populiste, demagogiche, qualche volta autoritarie, ma mai liberali. Io intendo fare una rivoluzione liberale. Un po’ l’ho fatta – dice ricordando i provvedimenti adottati da ministro su mutui, energia, treni, assicurazioni – e ora intendo riprenderla».
Bersani sa che la partita è sul filo di lana, che il vero avversario, Silvio Berlusconi, non ha chance di vittoria e che però a rischiare di mandare tutto all’aria è la presenza degli altri protagonisti in campo. Come Mario Monti, che pur sapendo quale intreccio ci sia tra regionali e politiche in Lombardia ha deciso di appoggiare Gabriele Albertini, col rischio che a conquistare la Regione sia il leghista Roberto Maroni. Per questo Bersani insiste sul fatto che la partita è tra centrosinistra e centrodestra, stigmatizzando chi propone invece quello che il leader Pd definisce un «voto semiutile».
In quest’ultima decina di giorni di campagna elettorale Bersani continuerà quindi a colpire a testa bassa Berlusconi: «Parla di donne come fossero bambole gonfiabili», dice riferendosi alle battute a doppio senso fatte dall’ex premier a un’impiegata della Green power durante una manifestazione. Ma il leader del Pd non risparmierà stoccate all’indirizzo dell’attuale presidente del Consiglio, che con la sua «Scelta civica» può condizionare a favore di Berlusconi le prossime elezioni: «Lo vedo un po’ suscettibile, ma non si può pensare di dare bacchettate e ricevere carezze, tante ne dai, tante ne prendi, sennò uno sta fuori dalla politica», dice all’indomani della battuta di Monti sull’uscita «infantile» di Bersani riguardo all’esito del vertice europeo sul bilancio («una vittoria di Pirro»). Il leader del Pd replica anche nel merito a quell’«infantile» pronunciato dal capo del governo, spiegando: «Non è una critica infantile ma adulta, perché io son ben contento se l’Italia spende un euro in meno e prende un euroinpiù,manoncistoadirechela prospettiva di bilancio europea va bene così. L’Italia così non va da nessuna par-te». Per il leader del Pd l’accordo siglato a Bruxelles la scorsa settimana è stato raggiunto «dando retta agli inglesi e a qualche alleato nordico» ed avendo tagliato la gran parte delle risorse destinate a crescita e sviluppo è tutto nel segno del «ripiegamento». Basta guardare a un dato: «Il bilancio federale degli Stati Uniti rappresenta il 22% del Pil Usa, quello europeo l’1% del Pil Ue».
Parole che Bersani pronuncia pro- prio nella penultima tappa che fa in Lombardia, muovendosi tra Vimercate e Bergamo insieme ad Umberto Ambro- soli. Il prossimo appuntamento sarà domenica, insieme anche a Vendola e Tabacci, a Piazza Duomo, perché il risulta- to regionale dipenderà in gran parte anche dalla capacità del centrosinistra di fare il pieno di voti a Milano. Ci sarà anche Giuliano Pisapia a lanciare la volata alla coalizione dei progressisti e democratici. E non sarà il solo sindaco che in questi ultimi giorni di campagna elettorale schiaccerà il piede sull’acceleratore.
SOTTO IL SEGNO DI BERLINGUER
Bersani ha scritto a tutti i sindaci del Pd una lettera in cui si sottolinea che l’Italia potrà salvarsi se torneranno al centro della scena le autonomie locali. Formalmente è un ragionamento su ciò che serve per superare la crisi e ciò che il Pd al governo intende fare per raggiungere l’obiettivo, ma è chiaro che l’iniziativa risponde anche all’esigenza di coinvolgere quante più risorse possibili per vincere le elezioni. Un’operazione che andrà avanti con lettere scritte ad altre categorie istituzionali e professionali, ma anche e soprattutto con l’invito a militanti e simpatizzanti del Pd a dare una mano nei prossimi giorni con campagne di porta a porta e volantinaggio nelle principali piazze italiane. Il messaggio che sta facendo girare per arruolare volontari è sotto il segno di Enrico Berlinguer, citato in queste parole: «Proseguite il vostro lavoro… casa per casa… strada per strada».
Bersani sa che la vittoria è a un passo, ma anche che non si potrà stare «seduti su una sedia», perché «l’Italia è suggestionata dai populismi, dalla demagogia» e «serve una battaglia di civilizzazione». Lo dice parlando a Bergamo, nel corso di un’affollata iniziativa insieme ad Ambrosoli: «Sono convinto che vinciamo, ma attenzione che saremo comunque in un’Italia che sarà suggestionata da populismi, demagogia. Serve una battaglia di civilizzazione, non si può star seduti su una sedia». Anche per questo, dice, i voti sono sicuramente «tutti utili», ma per «battere la destra» e voltare finalmente pagina dopo vent’anni di berlusconismo c’è una sola scelta possibile, il Pd e il centrosinistra: «Il meccanismo elettorale fa vincere chi arriva primo, c’è poco da discutere. Tutti i voti sono utili, ma se vuoi un voto per vincere, per battere la destra, ce n’è uno solo. È matematica, non è un’opinione».
E a Monti che insiste nel criticare i partiti e la «vecchia politica», Bersani prima di chiudere il tour lombardo lancia un paio di messaggi. Il primo, escludendo accordi pre-elettorali: «Non ho intenzione di far tavoli o tavolini». Il secondo: «Il governo tecnico ci ha tenuto fuori dal precipizio. Con il nostro aiuto. Sarebbe meglio che il Professore se ne ricordasse».

L’Unità 12.03.13

"Le forze di un Papa", di Claudio Sardo

Ci sono eventi che mettono i cronisti davanti a una storia più grande di quella che solitamente raccontano e commentano. Le dimissioni di Papa Benedetto dal soglio pontificio sono questo. E non tanto perché in duemila anni di vita della Chiesa di Roma i precedenti si contano sulla punta delle dita. Non è certo Celestino V il metro di L’impressione piuttosto è che il Papa teologo, rimasto ormai senza le forze che lui stesso ritiene necessarie per proseguire il ministero, abbia posto anzitutto alla Chiesa, e quindi al mondo, una domanda cruciale e drammatica sulla fede nella modernità, sulla comunione nel secolo dell’individualismo, sul ruolo delle istituzioni nel divenire della società. Una domanda posta con la libertà che nessuno pensava potesse prendersi un Papa. Peraltro un Papa che ha avuto non pochi problemi di comprensione con il mondo contemporaneo.
Da marzo Benedetto XVI non sarà più Pietro. Ma continuerà a pensare, a pregare, a vivere nella comunità dei cristiani, dunque a condividere la testimonianza e la fede. E il suo magistero non è svanito, anzi per molti aspetti resta incompiuto, e continuerà a vivere nella Chiesa-comunità mentre un nuovo Papa si affiancherà al vecchio. Non sarebbe stato possibile un gesto come quello a cui ieri abbiamo assistito senza il Concilio Vaticano II, senza la sua novità, senza che fossero abbattute le barriere di una sacralità separata che impedivano di guardare la sacralità del mondo. Forse le forze mancanti al Papa non sono solo quelle dovute all’età o alla malattia: forse le forze mancanti riguardano la capacità di tutta la Chiesa di procedere sulla strada del Concilio, di tenere insieme la Verità con le antenne e le sofferenze del mondo, di conservare lo spirito critico verso il moderno senza perdere la carità. Forse il Papa ha preso questa decisione perché ha percepito la straordinarietà del momento, e anche delle decisioni inedite che la Chiesa dovrà assumere per rinnovare se stessa e contribuire a rilanciare un umanesimo, nel tempo in cui i mercati, la finanza, le tecnoscienze sembrano aver conquistato il potere sull’uomo.
Viene persino da chiedersi se ciò che si sta aprendo in Vaticano è un conclave, o addirittura un Concilio. Viene da chiedersi se Papa Benedetto abbia colto la necessità di un confronto a questa altezza, arrivando alla conclusione che, per compiere il passo, è necessario appunto un nuovo Papa, un nuovo «pronunciamento dello Spirito». In fondo l’allontanamento dalla Chiesa di tante persone soprattutto nelle società più ricche e secolarizzate, lo scandalo della pedofilia in diversi continenti, persino il caso clamoroso del corvo vaticano – che ha portato al Papa sofferenze indicibili – sono fenomeni che alludono ad un conflitto irrisolto tra la Chiesa e un mondo dove le reti di solidarietà si stanno corrodendo, dove la politica rischia di essere solo immanenza (solo presente, senza passato e senza futuro), dove il valore e il desiderio dell’individuo si misurano con la ricchezza economica.
Ma la Chiesa cosa fa? Cosa riesce a testimoniare? Quanto è coerente? Che capacità di comunione, di carità, di fratellanza, di povertà esprime? Papa Benedetto per anni ha cercato di offrire alla società ormai multi- culturale e multireligiosa, e anche alla cultura laica, un terreno di confronto sulla ragione dell’uomo. Spesso è stato inseguito, ingiustamente, da un pregiudizio di anti-modernità. Ma il moderno non è subalternità alla vulgata dominante. Senza spirito critico non c’è l’uomo, né la comunità. La fede religiosa può essere un antitodo al liberismo dominante. E all’individualismo radicale che ne è l’essenza culturale.Queste dimissioni sono certamente un atto di libertà. Un gesto personale, che appartiene anzitutto al legame inscindibile tra la coscienza di un Papa e la Chiesa. Ma da oggi questo gesto è una sfida alla Chiesa e un interrogativo a quel mondo che intende ancora coltivare un pensiero critico. Tra i temi irrisolti del post-Concilio c’è sicuramente la collegialità dei vescovi e dunque il governo mondiale della Chiesa. Fin qui si è cercato di far convivere la centralità della Curia romana con il parziale coinvolgimen- to del Sinodo, con la relativa autonomia del- le Conferenze episcopali, con l’apertura ai laici nella gestione delle comunità locali. Qualcuno ha detto in questi anni – il cardinal Martini lo disse anche alla vigilia dell’ultimo conclave – che sarebbe stato necessario aprire un nuovo Concilio per ridare slancio evangelico della Chiesa. Non un Vaticano III, disse Martini, ma concili tematici. Compreso uno sulla famiglia e sui temi che riguardano la morale sessuale. La collegialità della Chiesa da marzo avrà un testimone che nessuno potrà dimenticare: il vecchio Papa dimissionario che vive accanto al nuovo Papa. È impossibile dire cosa accadrà. Certo, siamo davanti a un bivio storico. Che riguarda i credenti e l’attualità della loro fede. Ma che non può lasciare indifferente chi cerca un riscatto dell’uomo sulla povertà, la solitudine, l’ingiustizia, la sudditanza ai poteri che si ritengono indiscutibili.

L’Unità 12.02.13

"L'irruzione della modernità", di Ezio Mauro

L’irruzione della modernità in un’istituzione vecchia di due millenni avviene all’improvviso, con il coraggio dell’umiltà nel gesto solitario dell’anziano pontefice che rinuncia al potere del vicario di Cristo e a tutti i suoi simboli, confessando la sua fragilità davanti al peso della responsabi-lità, divenuto intollerabile per le sue forze in rapido declino.
È una notizia universale, che fa il giro del mondo e lo stupisce, perché cambia radicalmente lo status del pontificato romano. ambia l’iconografia che lo rappresenta come strumento del cielo e la liturgia che lo circonda consacrandolo. Sotto i paramenti sacri («come Papa lei dovrà ogni ora del giorno indossare la bianca sottana», disse subito a Ratzinger uno dei segretari di Wojtyla, accogliendolo dopo l’elezione nell’Appartamento) spunta l’uomo, con tutto il carico dei suoi 85 anni compiuti, la coscienza crescente del limite, il timore di non riuscire a far fronte alle necessità della sua missione suprema.
È l’uomo Ratzinger che il 28 febbraio alle otto di sera – un appuntamento mediatico e spirituale insieme, già fissato con la precisione di chi ha voluto disporre di ogni cosa in anticipo – il mondo vedrà uscire in automobile dalle porte vaticane per rientrare nel secolo, spettacolo inaudito di forza e di razionalità, nel prendere atto di una debolezza non più rimediabile, tanto da diventare pubblica ed esplicita.
Come il dubbio (in altri contesti) così la coscienza della propria fragilità è il segno del moderno che contagia l’eternità della Chiesa e i suoi rituali. Il Papa conservatore, dottrinario, anziano, si spoglia davanti al mondo di ogni potere, compresa la rappresentanza divina per cui era stato prescelto. È come un ritorno alle origini, quando i Papi morti venivano denudati sulla paglia, perché con la vita perdevano i paramenti simbolici della loro potestà. Ma questo Papa – ecco l’inedito – è vivo, e ha deciso dopo aver «ripetutamente esaminato» la sua coscienza davanti a Dio, in piena libertà.
Per la prima volta nella storia della modernità un Papa sceglie di restituire le chiavi di Pietro che lo facevano mediatore tra il cielo e la terra (“Lo ciel poss’io serrare e disserrare”) e la tiara, simbolo del potere pontificio che fu anche temporale, ma resta supremo. Privato anche dell’anello piscatorio, che lo rendeva pescatore di uomini come Pietro, a Joseph Ratzinger delle insegne pontificie resterà solo la mitra, simbolo della sacralità del semplice sacerdozio: quella mitra che per Innocenzo III veniva però prima di tutto, fondamento di ogni potere, anche quello imperiale.
Nel gesto che Benedetto XVI aveva anticipato al suo biografo c’è un’esaltazione implicita della missione papale, per la prima volta segnalata al mondo davvero come “servizio”, così pesante e così totale da risultare insopportabile con il procedere della vecchiaia. E c’è una conferma nei fatti di ciò che Ratzinger ha sempre detto, la preparazione ad un’età della pensione senza più incarichi, per studiare, l’elezione nel conclave come uno choc, il ruolo papale come una sottomissione alla volontà divina e una sorta di spossessamento, nella convinzione fin dall’inizio che la debolezza dell’umano pontefice potesse venir superata soltanto dal compiersi del disegno divino, che per realizzarsi doveva produrre un sostegno e una guida quotidiana.
Nella decisone presa da tempo in solitudine, deve aver pesato sul teologo e sull’uomo di Dio il timore della tentazione. La tentazione di scegliere il meglio per sé, la strada più comoda e più prossima alla vera, intima vocazione, quella dello studioso. La scorciatoia di azzerare con le dimissioni un potere curiale di vertice che non riusciva più a contrastare, pur percependolo come un ostacolo. Ma soprattutto la tentazione superba di ribellarsi alla volontà di Dio, che per la Chiesa porta attraverso lo Spirito Santo i cardinali in conclave a scegliere il Papa realizzando un disegno celeste. La razionalità e la fragilità, combinandosi insieme nella ragione che prende atto della debolezza, possono scombinare ciò che Dio ha disposto attraverso l’illuminazione dello Spirito?
Un laico, vede il dilemma dell’uomo costretto tra i doveri universali del suo ruolo e l’energia fisica e morale che declina e chiede requie, e capisce la difficoltà della scelta. Ma un uomo di fede vive anche un dilemma superiore, quello di chi si trova a mettere in discussione se stesso come strumento della volontà divina, di cui è il rappresentante sulla terra. In più, con l’esempio gigantesco di Giovanni Paolo II quando portò davanti al mondo come una testimonianza di martirio e una prova suprema di obbedienza i segni del male fisico che lo piegava.
La ragione, che nel messaggio culturale e teologico di Ratzinger è congiunta alla fede, ha infine prevalso, nella considerazione provvidenziale di uno specifico della fase in cui viviamo, che non si può eludere: le esigenze particolari del «mondo di oggi», come lo chiama il Papa, i suoi «rapidi mutamenti» pretendono «vigore sia del corpo che dell’animo» per governare la barca di San Pietro e annunciare il Vangelo. Soffrire e pregare è necessario, ma non basta. C’è qui il pessimismo teologico tedesco del Papa, l’angoscia della sfida dei tempi, il movimento circolare dell’umanità e degli orrori che produce, dunque l’Apocalisse, il ghigno di Mefistofele dietro la degenerazione dell’avere e del piacere che porta alla dissoluzione dell’autenticità nel nichilismo relativista, a quel Dio ritagliato da ognuno su misura dei propri bisogni e della propria disponibilità, un Dio comodo, persona-le, anche lui relativo. La battaglia sup rema, per il teologo Ratz inger, che Papa Benedetto XVI non ha vinto. Ma nell’abbandono, l’uomo prevale sul teologo. Spiega tutto con la sua umanità infragilita che i paramenti non riescono a mascherare, con la pubblica rivelazione che quel vigore necessario oggi «negli ultimi mesi in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato». Da qui nasce la suprema rinuncia, spezzando una tradizione che vedeva i Papi sul trono fino alla morte, anche se una volta il rito della consacrazione prevedeva che si bruciasse la stoppa davanti agli occhi del nuovo Pontefice, e mentre si consumava in un attimo gli si ricordava proprio in quel momento di gloria che “sic transit gloria mundi”.
Professore anche da Papa, Ratzinger non può aver certo ignorato la portata scandalosa, rivoluzionaria e dunque pedagogica del suo gesto. Se lo specifico della modernità chiede vigore e non solo saldezza di fede e di preghiera, il nuovo conclave non potrà non tenerne conto, nel valutare l’età dei candidati. Se l’istituto dell’abdicazione entra nei sacri palazzi, trasformando in una carica a tempo quello che era un regno eterno, non si può non pensare ad un Papa “politico”, nel senso di una scelta che tenga conto delle contingenze, delle esigenze dell’epoca. Se il Papa uscente misura se stesso con le regole mondane e materiali della forza fisica e morale, quelle regole varranno anche per il Papa entrante, per quelli che gli succederanno, e tutti da oggi sono legittimati ad usarle nei loro riguardi.
Infine, la portata simbolica. Per la prima volta c’è un Papa a scadenza, in carica ma con la data d’uscita prefissata, l’autorità intatta ma a termine. Per la prima volta, ancora, un conclave eleggerà il nuovo Pontefice di Santa Romana Chiesa mentre un altro pontefice da priore si è fatto abate, e vive in qualche palazzo romano. Per la prima volta, infine, due Papi cammineranno nel secolo, sbizzarrendo le profezie e moltiplicando i presagi, ma soprattutto coesistendo in una rappresentanza sdoppiata del divino cristiano su questa terra.
È impossibile che i reverendissimi cardinali riuniti tra poco in conclave non tengano conto di questo scarto senza precedenti, e non scelgano di adeguarsi con una scelta di innovazione che regga il passo di ciò che è infine avvenuto. Il grido di Giovanni Paolo II «non abbiate paura», suona adesso come un’urgenza di cambiamento. Il sacro è più umano e l’umano è portatore di contraddizioni, di fronte alla fissità dell’eterno. Guai a far finta di niente. Anche per la Chiesa da oggi nulla sarà più come prima.

La Repubblica 12.02.13

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“IL PASTORE E IL POTERE”, di EUGENIO SCALFARI

UN ATTO rivoluzionario le dimissioni del Papa. E certamente lo è. Non era mai accaduto, salvo con Celestino V che vi fu costretto dai francesi che poi continuarono ad esercitare il loro potere su Bonifacio VIII fino allo schiaffo di Anagni. E salvo un paio di Papi e anti-Papi eletti da contrapposti concili e conclavi medievali.
Il canone prevede le dimissioni e perfino papa Ratzinger ne ammise la possibilità in un suo libro-intervista di due anni fa; ma altro è il dire, altro il fare.
Dunque un fatto rivoluzionario. Ma qual è la natura e quali saranno le conseguenze di questa rivoluzione? La natura è evidente: la Chiesa si laicizza. Il Papa è stato finora considerato all’interno della Chiesa e della comunità dei credenti, come Vicario di Cristo in terra e, infatti, quando parla “ex cathedra” su questioni di fede la sua parola è infallibile come decretò il Concilio Vaticano I del 1870.
Questo punto è ancora l’ostacolo non superato che ha impedito l’unificazione tra cattolici e anglicani e tra cattolici e ortodossi della Chiesa orientale. Gli altri ostacoli erano in gran parte superati, perfino quelli della supremazia del Vescovo di Roma su tutti gli altri: il primate della Russia era pronto a riconoscere al Vescovo di Roma la primazia di “primus inter pares” ma non quella di Vicario in terra della Divinità.
Le dimissioni di Benedetto XVI cancellano questo ostacolo; il canone infatti pone una sola condizione: che il Papa prenda la sua decisione in piena libertà, cioè che non gravi su di essa alcuna ombra di pressione e di ricatto. Il volere di Cristo non è neppure citato né Ratzinger ne fa menzione nelle brevi parole con le quali ha comunicato la sua decisione al Concistoro convocato ieri mattina per occuparsi di tutt’altri oggetti. Viene dunque meno il rapporto diretto tra il Capo della Chiesa e il Figlio di Dio e l’autorità del Vescovo di Roma su tutta la cristianità non deriva da altro che dall’elezione in conclave da parte dei cardinali, una cerimonia del tutto laica salvo il luogo in cui si svolge (la cappella Sistina che è una chiesa consacrata) e il profumo d’incenso e il suono delle campane che accompagnano il “Veni Creator Spiritus”.
Le conseguenze di questa secolarizzazione e laicizzazione riguardano la distribuzione dei poteri all’interno della Chiesa: in parallelo con la diminuzione del ruolo del Papa aumenterà quella dei Concili e dei Sinodi, cioè delle assemblee dei Vescovi.
Questa è stata la richiesta implicita ma evidente del Vaticano II, ma fu per oltre trent’anni la tesi esplicitamente sostenuta dal cardinale Martini. La Chiesa come istituzione – disse e scrisse Martini in libri, prediche e dialoghi – si fonda su due autorità, quella del Papa e quella dei Concili e dei Sinodi. Il Papa partecipa agli uni e agli altri con funzioni di coordinamento e di indirizzo, ma le decisioni vengono prese dai Vescovi che sono i depositari del lascito degli Apostoli di Gesù.
Non si tratta di un fenomeno di scarso rilievo. Basti considerare che i Vescovi sono molto più interessati alla pastoralità che al potere della gerarchia curiale. La gerarchia curiale dovrebbe in teoria fornire alla pastoralità gli strumenti e i mezzi materiali per evangelizzare le anime e diffondere il credo. La Chiesa militante è affidata ai pastori di anime, vescovi, parroci, sacerdoti, Ordini religiosi. Ma questa è storicamente soltanto una parte della realtà. La Chiesa-istituzione avrebbe dovuto rappresentare la custodia della Chiesa militante e pastorale; invece è avvenuto il contrario. Per secoli e millenni l’Istituzione ha soffocato la pastoralità e ha promosso guerre, inquisizioni, corruzione, simonia. Non si è trattato di episodi ma d’una continuità storica il cui perno è stato il potere temporale. Ricordate le Crociate? Ricordate la guerra delle Investiture che ebbe Canossa come tappa essenziale? Ricordate l’esilio avignonese? Le alleanze, il nepotismo, le dinastie fondate dai papi: i Colonna, gli Orsini, i Caetani, i Farnese, i Piccolomini, i Borghese, i Della Rovere. E i Borgia?
La pastoralità ciononostante continuò e sparse il suo seme largamente e preziosamente e questo fu un vero miracolo. Ma il volto complessivo della Chiesa ne uscì largamente imbrattato. Le sue capacità di confrontarsi con la modernità furono fortemente ridotte.
Questa situazione avrebbe potuto migliorare con la fine del potere temporale propriamente detto, ma non è stato così. La Chiesa-istituzione ha mantenuto il sopravvento sulla Chiesa militante e pastorale, recuperando quel potere attraverso la politica e la fascinazione dello spettacolo.
Il pontificato di papa Pacelli fu il culmine della temporalità politica, non a caso preceduto dal concordato Pio XI-Mussolini; lo spettacolo ebbe invece la sua più fulgida stella nella figura di papa Wojtyla che usò affrontando sofferenze terribili perfino la sua agonia e la sua morte.
Ma questi miracoli (perché furono miracoli d’intelligenza
ed anche di fede e di dolore) non risolsero i problemi della Chiesa. Li evasero e li lasciarono ai successori.
Quei problemi, col trascorrere del tempo, si sono aggravati. Riguardano il recupero del Sacro, la dedizione dei fedeli alla carità, la Chiesa povera, la Chiesa missionaria, la fede nella vita, il contrasto fra la libertà dei moderni e la dogmatica dei tradizionalisti. E i cento e mille problemi che pone la bioetica, la psicologia del profondo, le diseguaglianze del mondo. Le differenze insanate e forse insanabili tra la Chiesa di Paolo, quella di Agostino, quella di Benedetto, quella di Francesco.
A noi non credenti piacerebbe molto che il futuro Papa e Vescovo di Roma in mezzo a tante proclamazioni di santi che non fanno più miracoli (ammesso che quelli del passato ne avessero fatti) proponesse quella di Pascal. Sarebbe il vero segnale che qualche cosa sta cambiando nei palazzi apostolici. Se fosse vissuto più a lungo forse papa Giovanni l’avrebbe fatta.

La Repubblica 12.02.13

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“LA COSCIENZA DELLA RINUNCIA”, di JOAQUIN NAVARRO-VALLS

LA GIORNATA di ieri è entrata già nella storia. Tutto ciò è apparso immediatamente evidente a tutti, non appena il Papa ha annunciato le dimissioni. Un fatto stupefacente, che si è inserito tuttavia in modo quasi normale nella trama consueta di una giornata di lavoro del Pontefice. Joseph Ratzinger ha scelto proprio un appuntamento ordinario, programmato, prestabilito per «dichiarare di voler rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro» che ricopre dalla primavera del 2005.
Benedetto XVI ha comunicato al mondo, insomma, che resterà Papa fino alle ore 20 del 28 febbraio 2013. Dopodiché inizierà il previsto periodo di Sede vacante che terminerà quando il Conclave eleggerà il suo successore.
La prima cosa da dire è piuttosto scontata: non si tratta certo di una cosa ovvia. Tuttavia, cosa sicuramente meno evidente, non si è davanti nemmeno a un atto indecifrabile, estraneo cioè a ogni logica e sottratto così a ogni gestibilità. Il Codice di Diritto Canonico, non a caso, lo annovera in un paragrafo specifico dedicato all’istituzione petrina (Can. 332). È, di conseguenza, tra le possibilità legali di un Papa il potersi dimettere. Nel libro Luce del mondo Ratzinger stesso aveva spiegato chiaramente che “se un Papa comprende di non essere più in grado fisicamente, psicologicamente e spiritualmente di assolvere i doveri del suo ufficio, allora ha il diritto e, in alcune circostanze, anche l’obbligo di dimettersi”. La cosa importante da tener presente è che quando ciò accade non è mai una decisione che è compiuta al cospetto degli uomini, ma unicamente “davanti a Dio, con certezza incrollabile, dopo aver ripetutamente esaminato la questione in coscienza”.
Non stupisce pertanto che Ratzinger si sia posto per primo tale dilemma in tutta la sua immensità, affrontando la decisione con responsabi-lità, pensando alla difficile convivenza che esiste nel Vicario di Cristo tra l’umano e il divino, ossia tra l’età avanzata della singola persona, con lo scemare delle sue forze naturali, e il costante impegno e l’imponderabile immensità dell’incombenza che cade perenne sul Vescovo di Roma e Sommo Pontefice della Chiesa universale. Tre Papi prima di lui, solo nel secolo passato, si sono indubitabilmente posti il problema in tutta la sua gravità, inviando lettere, lasciando informazioni sul da farsi, casomai cioè venisse meno la coscienza, la lucidità indispensabile o anche soltanto la prestanza fisica richiesta. Due di loro, Paolo VI e Giovanni Paolo II, hanno lasciato nelle mani di altri la decisione. Benedetto XVI no. Innegabilmente egli ha mostrato il coraggio di sapere a perfezione, forse in modo migliore perfino di altri, che l’avere tra le mani le Chiavi della Chiesa è un carico impossibile senza adeguate risorse spirituali. Ma egli ha compreso quanto sia indispensabile oggi più che mai avere un vigore adeguato, un’energia esistenziale intensa che l’allungarsi della vita consuma logicamente con il passare degli anni.
Questa scelta piena di dignità e veramente commovente mi fa tornare con la memoria al 1980, quando Giovanni Paolo II chiese al giovane cardinale Ratzinger di trasferirsi a Roma per assolvere il compito che solo l’anno successivo egli accettò. Anche in quel frangente egli preferì inizialmente il diniego. E, analogamente a ora, non lo fece senza valide ragioni, senza un esame approfondito, senza tener conto dei doveri fondamentali che tali richieste hanno insieme al prestigio degli incarichi assunti.
Forse questo precedente può rivelare meglio di altro come sia cresciuta in questi mesi tale preferenza del Papa, un’opzione a fare un passo indietro che non esprime debolezza ma grande distacco ed enorme comprensione del valore ultimo, autentico,
che impone essere Capo della Chiesa.
Mi ricordo personalmente che nel 2005, durante il periodo di Sede vacante dopo la morte di Giovanni Paolo II, dovendo far fronte alle mie responsabilità mi sono trovato quotidianamente a tu per tu con il cardinale Ratzinger. Il futuro Papa, allora decano del collegio dei cardinali, non soltanto si muoveva con quella lucida comprensione dei problemi e con quella sobria e serena concretezza che in seguito tutti avrebbero conosciuto, ma non si aspettava in nessun modo di doversi fare carico, dopo pochi giorni, delle immani responsabilità che gli sarebbero cadute addosso. Mi diceva con aria sincera: «Questo problema non riguarda noi, lo affronterà il prossimo Papa», pensando forse alla sua vita di studioso, molte e molte volte sacrificata con eroico senso del dovere. Dai settantotto anni in poi, nonostante tutto il resto, ha seminato un contributo impressionante di scritti teologici che sono un lascito immenso, una ricchezza culturale e religiosa veramente incalcolabile.
Mi ricordo che, meno di un anno fa, in occasione dell’ottantacinquesimo compleanno, il 16 aprile del 2012, davanti a coloro che gli auguravano lunga vita, pronunciando la formula “ ad multos annos”, egli rispose, con un filo di voce, «spero che Dio non vorrà che siano troppi …». Il suo non era un distacco sforzato, ma la consapevolezza piena della distinzione profonda che separa un uomo, con la propria intelligenza e volontà fragilmente umana, e l’istituzione, con la sua missione universale e il suo valore eterno, uniti in un abbraccio spirituale e materiale vertiginoso.
Non a caso, poco prima, nel breve Conclave, sono stati sufficienti pochi
scrutini a eleggerlo. Ed egli ha accettato in pochi minuti il dovere di una volontà che oltrepassa i confini del tempo e della storia. Oltre che naturalmente le volontà dei cardinali elettori.
Si può dire che niente che abbia a che fare con il Papa sia veramente normale: tutto è avvolto nel mistero. Anche se niente è realmente sganciato dalla normalità della vita di una persona, delle sue necessità, dei suoi bisogni, delle sue intime difficoltà. Questa scelta che la sua coscienza, il suo cuore, ha compiuto davanti a Dio, d’altronde, non è una dolorosa opzione, quasi una specie di struggente e tragico abbandono. Tutt’altro. Prima o poi, nella storia, qualcuno avrebbe dovuto compierla. Morire da Pontefice non è, infatti, un dato rivelato e men che meno una norma inviolabile: è una consuetudine che ha lo spessore del tempo non il valore della verità. Perciò questo gesto qualcuno avrebbe potuto compierlo soltanto avendo la precisa cognizione del significato che dopo San Pietro ha attraversato per un attimo almeno, come un brivido profondo della mente, tutti i suoi successori.
Sarò in grado fino alla fine dei miei giorni di rappresentare Dio davanti agli uomini? Sarò in grado di dare agli altri quello di cui hanno bisogno?
Nessuno più del teologo Joseph Ratzinger sa che è possibile fare ciò senza impazzire soltanto se si comprende fino in fondo la differenza essenziale che separa l’autorità che è posseduta dal Papa dall’impotenza umana del suo umano detentore.
Se qualcuno, dunque, dovesse per un momento soltanto pensare che forse Joseph Ratzinger abbia rinunciato perché non è mai stato in grado di sostenere il peso della Chiesa universale, ebbene egli stesso dovrebbe però ammettere che solo in tale consapevolezza è possibile sul serio essere un Papa all’altezza del proprio compito. Nessuno, infatti, può pensare di sostenere l’onere del Magistero senza perdere di vista che non c’è modo di essere in grado di soppesare fisicamente e psicologicamente nel tempo un potere eterno che scivola dentro la storia, entrando nelle vite di tutti gli uomini mediante la voce e i gesti che una singola persona compie.
Mi ricordo l’impressione che mi fece quando affermò nella sua prima messa dopo l’elezione: «Io, ma non più Io!».
È bello pensare, alla fine, che non c’è nessuno che sappia meglio di Benedetto XVI tutto questo, e quindi nessuno che meglio di Ratzinger possa dare valore supremo alla Chiesa e solenne maestà all’autorità dell’istituzione con un atto di rinuncia tanto grande e tanto sereno. La vera consapevolezza di un Papa è, infatti, il saper convivere continuamente e in modo umile con l’imperitura potenza dell’autorità che detiene, senza mai confonderla con le proprie capacità e il proprio potere, lasciandosi guidare con leggerezza spirituale dal soffio di vento della grazia.
L’atto ultimo, quindi, con cui egli si spoglierà tra pochi giorni consapevolmente del suo ufficio sarà la più alta affermazione della sovranità istituzionale che egli ha impersonato, un modo mite, raffinato e dolce di fare da parte se stesso, la propria frangibile umanità, facendo risplendere completamente il mistero della vita e il significato della presenza storica della Chiesa.

La Repubblica 12.02.13

“Più risorse e più insegnanti così il Pd cambierà la scuola”, di Pier Luigi Bersani

Caro Direttore, in questi giorni si parla molto di fisco ma troppo poco di lavoro, sanità, scuola. Se saremo chiamati a governare, restituire all’istruzione le risorse, la stabilità e la fiducia sarà il cuore del programma. Insieme, naturalmente, con occupazione e moralità. Dico questo nella consapevolezza che le ricette economiche non bastano a uscire dalla crisi: per fermare il declino è necessario rilanciare la formazione. In Europa, il nostro è uno dei Paesi con meno laureati, dove si legge di meno e si abbandona più precocemente la scuola. Questo incide nello sviluppo economico, sociale e culturale. Se dunque c’è un settore in favore del quale è giusto che altri ambiti della spesa statale rinuncino a qualcosa, quello è la formazione dei giovani. Dovremo investire in istruzione e diritto allo studio larga parte delle risorse rese disponibili dalla lotta all’evasione fiscale e alla corruzione, per riportare gradualmente l’investimento al livello medio dell’Ocse.
Se toccherà a noi governare, ci impegniamo ad affrontare tre emergenze.
Anzitutto la sicurezza delle scuole. Il 64 per cento degli edifici non rispetta le norme. Ricordiamo le tragedie di Rivoli e di San Giuliano. Non possiamo permettere il ripetersi di simili disastri mentre i nostri figli e nipoti sono seduti in un banco. Per questo, come proponiamo da tempo, lanceremo un programma per la messa in sicurezza di ospedali e scuole, finanziato con la riduzione della spesa per armamenti e con fondi strutturali europei. Occorre liberare risorse allentando il patto di stabilità interno per gli enti locali che investono per dotarsi di ambienti di apprendimento innovativi ed ecosostenibili. Nello stesso tempo, vogliamo approvare una nostra proposta, scritta con l’associazione Libera, perché i cittadini possano destinare l’8 x mille dello Stato all’edilizia scolastica.
In secondo luogo, è insieme con gli insegnanti che vogliamo cambiare la scuola per combattere la dispersione scolastica. Per dimezzarla entro il 2020, come chiede l’Europa, servono interventi mirati. Il tasso di abbandono scolastico in Italia è al 18 per cento, con punte del 25-30 per cento nel Sud e nelle periferie delle grandi città. La media europea è del 13 per cento e andrà ridotta al 10 per il 2020. Come sanno gli insegnanti, sono soprattutto i pre-adolescenti e gli adolescenti che lasciano la scuola, già alle medie o nei primi anni delle superiori, in particolare negli istituti tecnici e professionali. Se ne vanno non perché siano meno bravi o intelligenti, ma perché in quell’età una scelta immatura di indirizzo scolastico può essere fatale.
Molti non ce la fanno perché l’ambiente sociale e familiare di provenienza è disagiato, con povertà materiali e culturali che rendono difficile l’inserimento scolastico. In questo modo la scuola rischia di essere lo specchio di una società ingiusta, invece di un “ascensore sociale”. Il giusto riconoscimento del merito deve essere accompagnato dalla valorizzazione delle opportunità che ciascuno ha di accedere alla formazione, altrimenti diventa solo la certificazione di un privilegio di nascita o di censo.
Se toccherà a noi, ci impegneremo per affrontare questa situazione: formazione offerta ai docenti in servizio per innovare la didattica, nuove tecnologie, scuole aperte tutto il giorno, rilancio della formazione tecnica e professionale, necessaria anche per sostenere il Made in Italy e contrastare la disoccupazione giovanile.
Infine serve un nuovo sistema di formazione e reclutamento degli insegnanti. Dagli anni Ottanta, sono state approvate continue riforme, con una stratificazione di diritti, spesso lesi, e sistemi ingarbugliati di punteggio che hanno alimentato sfruttamento e frustrazione professionale, precarietà di vita degli insegnanti e precarietà dell’apprendere. Migliaia di studenti ogni anno salutano maestri e professori a giugno nella certezza di non ritrovarli a settembre. Quello che serve è un nuovo piano pluriennale di esaurimento delle graduatorie per eliminare la precarietà dalla scuola e offrire la continuità didattica agli studenti. Bisogna definire un sistema che leghi la formazione iniziale al reclutamento e sappia selezionare i migliori laureati per accedere alla professione di insegnante attraverso numeri programmati per dare una dotazione di personale stabile a ogni istituto.
In conclusione, vorrei che la scuola accompagnasse il cambiamento che ho in mente per l’Italia. Molti ricordano con affetto e riconoscenza almeno un insegnante che gli ha trasmesso uno spunto per mettersi in cammino col passo giusto. Nessun’altra figura incide così in profondità nel patrimonio morale di una nazione.
Deve tenerlo presente chi coltiva ambizioni per il futuro italiano, perché non si riforma la scuola se non si ha un grande progetto di ricostruzione civica del Paese.
Non smarrirò questa consapevolezza se toccherà ai democratici e ai progressisti governare l’Italia.

64%
EDILIZIA SCOLASTICA
In Italia il 64% degli edifici non rispetta le norme sulla sicurezza. Serve un piano per la messa in sicurezza di ospedali e scuole
18%
DISPERSIONE SCOLASTICA
Il tasso di abbandono scolastico nel nostro Paese è al 18%, con punte del 25-30 nel Sud e nelle periferie delle grandi città
FORMAZIONE INSEGNANTI
Sono 96mila gli aspiranti docenti per gli 11.542 posti messi a concorso dal ministero. Bisogna eliminare la precarietà

La Repubblica 11.02.13

Strasburgo, nuova bocciatura per la legge 40: "Deve consentire la diagnosi pre-impianto", da repubblica.it

Nuova bocciatura della legge 40: la Corte europea dei diritti umani ha deciso di non accettare il ricorso dell’Italia che aveva chiesto il riesame della sentenza con cui la stessa Corte, il 28 agosto scorso , ha rigettato la legge sulla procreazione assistita. Con questa decisione – giunta dopo quelle analoghe di tribunali regionali e Corte Costituzionale – i giudici della Corte europea rendono così definitiva la sentenza di agosto, emessa in merito al ricorso Costa-Pavan, che di fatto apre le porte alla procreazione medicalmente assistita, nonchè alle diagnosi preimpianto alle coppie affette o portatrici sane di malattie genetiche.

I giudici di Strasburgo hanno sancito “l’incoerenza del sistema legislativo italiano in materia di diagnosi preimpianto”. Secondo la Corte europea, infatti, la mancanza di coerenza è determinata dal fatto che da un lato si vieta, attraverso la legge 40 del 2004, l’impianto dei soli embrioni non affetti da fibrosi cistica; dall’altro, invece, con la legge sull’interruzione di gravidanza, si autorizzano i genitori ad abortire un feto affetto dalla stessa patologia.

Grande soddisfazione è stata espressa dagli avvocati Filomena Gallo e Nicolò Paoletti, rispettivamente Segretario dell’associazione Luca Coscioni e difensore della coppia Costa-Pavan, da cui era partito il ricorso. “E’ una vittoria della cultura laica e un’affermazione dei diritti delle persone che vorrebbero avere un figlio”, commentano. “Con la bocciatura del ricorso del Governo da parte della Corte dei diritti dell’uomo – proseguono – sede in cui l’Associazione Luca Coscioni è intervenuta con un amicus curiae, la legge 40 dovrà essere adeguata alla Carta europea dei diritti dell’Uomo, come previsto dalla sentenza della stessa Corte lo scorso 28 agosto, prevedendo l’accesso alle tecniche di fecondazione medicalmente assistita anche per le coppie fertili portatrici di patologie trasmissibili ai figli”.

La bocciatura, secondo i legali, “conferma l’orientamento delle Corti Internazionali che avevano già condannato l’Italia con decisione all’unanimità e della Corte inter-americana dei diritti dell’uomo che lo scorso dicembre ha stabilito che l’accesso alla fecondazione assistita rientra tra i diritti umani meritevoli di tutela”.

Attualmente solo le coppie infertili hanno accesso a trattamenti di Procreazione medicalmente assistita e possono chiedere di conoscere lo stato di salute dell’embrione; oggi, proseguono, “è stata eliminata una dolorosa discriminazione nell’accesso alle cure”, visto che “a tante coppie fertili sarà possibile accedere a queste tecniche e non trasmettere gravi malattie di cui esse sono portatrici”. Oggi, continuano, “e ancor più il futuro Parlamento non potrà più ignorare i diritti di tante persone e cancellare la legge 40”.

“Sono stati risolti i dubbi del ministro della Salute Renato Balduzzi . Strasburgo boccia il suo ricorso, la legge 40 è da riscrivere”, ha scritto sul suo profilo Twitter il sentore del Partito democratico Ignazio Marino.

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Bersani in Lombardia: «Solo noi contro la destra», di Maria Zegarelli

Il centrosinistra va alla sfida finale per conquistare i voti che gli consentano di avere la maggioranza sia alla Camera che al Senato. Bersani oggi sarà in Lombardia. Solo noi, dice, possiamo fermare la destra, il confronto vero è tra il centrosinistra e Berlusconi-Maroni. Il leader Pd non ha apprezzato i nuovi attacchi di Monti e ripete: guai a chi tocca la mia coalizione. Renzi a Novara: noi vogliamo vincere, dall’altra parte puntano solo a non farci governare.

«Quello che dovevo dire l’ho detto: la mia coalizione è questa e non permetto a nessuno di toccarla». Ieri Pier Luigi Bersani è rimasto a Piacenza, in vista del tour di oggi nella Regione dove si gioca tutto, la Lombardia e dove intende rilanciare il suo appello a non disperdere voti e a lavorare sodo perché «la vittoria è ad un passo e possiamo farcela». Ma non ha gradito l’ultima uscita di Mario Monti che gli ha dato dell’«infantile» per aver definito una «vittoria di Pirro» quella dell’accordo Ue siglato dal premier uscente. Né gli sono piaciuti gli attacchi, ormai quotidiani, a Sel e Stefano Fassina che sarebbero a detta del premierun ostacolo a qualunque possibile appoggio al Pd.
Come è probabile che sia Monti sia Casini che Fini non abbiano gradito l’ultimo spot che campeggia sul sito dei democratici dal titolo eloquente, «la solita minestra», con gli ingredienti tutti centristi: prezzemolo Casini, olio di ricino marcato Fini, cipolla da lacrimazione pesante Monti e via dicendo. Dunque clima freddo tra il centro e il centrosinistra, con l’affondo di Monti contro il voto disgiunto in Lombardia che montiani di peso sono pronti ad attuare per far vincere Ambrosoli e le repliche dirette e indirette dal Nazareno e via twitter con un Vendola supercinguettante.
Bersani ai suoi ha anticipato che domani tornerà alla carica durante gli incontri programmati in Lombardia ( nel pomeriggio incontrerà lavoratori e aziende dell’Hi techa Vimnercate, poi in serata si sposterà a Bergamo e a Merate) per invitare ingroiani e montiani a votare Ambrosoli alla Regione e centrosinistra al Senato perché «gli unici che possono battere Berlusconi siamo noi». I sondaggi che arrivano, ormai riservati, spingono ad essere ottimisti, «ma ha spiegato ai dirigenti locali e ai leader che in queste ore stanno battendo palmo a palmo l’Italia ce la dobbiamo mettere tutta. Dobbiamo lavorare dando il massimo perché stavolta possiamo vincere davvero». In Lombardia il voto disgiunto è una scelta che vede impegnati pubblicamente esponenti centristi e ingroiani, con lo scopo comune di sconfiggere Maroni (Albertini è considerato fuori gioco sin da ora) alla Regione e Berlusconi al Senato. Qui si eleggono 49 senatori, quelli in grado di fare la differenza, vincere anche al Pirellone vuol dire non lasciare il Nord, la parte più produttiva del Paese, in mano alla destra.
I PD BROTHERS IN SICILIA
Altra partita complessa ma fondamentale è quella della Sicilia, 24 senatori in palio, dove Bersani ha ottenuto la presenza del sindaco di Firenze, Matteo Renzi, per un comizio a due a Palermo il 21 febbraio che punterà a convincere i moderati ancora indecisi su Monti o Bersani. Iniziativa alla quale parteciperà anche il governatore Rosario Crocetta, che porterà il suo saluto e la cui lista, invece, ha l’obiettivo di portare un pacchetto di voti che potrebbe risultare decisivo.
«Noi vogliamo vincere le elezioni, dall’altro lato vogliono pareggiare o farci perdere ha detto ieri Renzi a Novara, platea di duemila persone e invito a Bersani a «rappresentare tutti» e «portare avanti le istanze di tutti», anche di quelli che alle primarie non lo hanno votato. Quella fascia più moderata, appunto, che oggi potrebbe essere attratta da Monti nelle cui liste è finito Pietro Ichino, il giuslavorista che aveva lavorato al programma di Renzi. E proprio con Ichino e le sue riforme sul lavoro, polemizza Cesare Damiano, rispondendo anche agli attacchi del professore a Sel, Fassina e Cgil che sul tema avrebbero posizioni conservatrici: «Monti si scordi che il Pd posso sottoscrivere sui temi del lavoro le teorie di Pietro Ichino, già contestate dal suo compagno di partito Alberto Bombassei. Noi non intendiamo dare continuità alla linea contenuta nelle riforme del ministro Fornero sul tema delle pensioni e del mercato del lavoro: sono stati commessi degli errori e noi intendiamo correggerli, a partire dai lavoratori rimasti senza reddito a seguito della riforma previdenziale».
Rivedere quella riforma, senza gettarla totalmente nel tritacarte, è anche l’intenzione ribadita dal segretario: su esodati, pensioni e mercato del lavoro il Pd intende mettere mano per colmare le lacune del testo Fornero e per prevedere misure che incentivino davvero le imprese ad assumere e regolarizzare gradualmente soprattutto i giovani. Temi su cui si giocheranno gli ultimi giorni di campagna elettorale.

L’Unità 11.02.13