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"La storia dei condoni edilizi insegna che è meglio non farli", di Gian Antonio Stella

Allerta ai Comuni: fotografate subito i vostri territori, se ci tenete. La storia dimostra che appena spunta la promessa d’un condono edilizio c’è chi corre a tirar su nuovi edifici abusivi. E chi ci perde, oltre ai cittadini perbene, sono proprio i municipi. Costretti a farsi carico degli oneri d’urbanizzazione avendo in cambio una pipa di tabacco. Se proprio non è interessato al paesaggio o alla moralità fiscale e urbanistica degli italiani, il Cavaliere dovrebbe riflettere su questo: tutti i condoni agli abusivi sono stati un harakiri. Paesaggistico, burocratico, finanziario. E se quarant’anni di sanatorie varie hanno fatto incassare in tutto 123 miliardi di euro, quanto viene evaso in un solo anno, con quelle del mattone è andata ancora peggio: dalle casse pubbliche, alla fin fine, sono usciti molti più soldi di quanti ne fossero entrati.

Ma partiamo dal panorama d’insieme. Spiega un dossier Cresme per Legambiente che «sono non meno di 258.000 gli immobili abusivi sorti tra il 2003 e il 2011, per un fatturato complessivo stimato in 18,3 miliardi di euro». Tutti edifici praticamente al riparo dalle ruspe. Spiega infatti il Rapporto Ecomafia 2012 che le ordinanze di demolizione firmate dal 2000 al 2011 sono state 46.760 ma solo 4.956 sono state eseguite e solo in alcune porzioni del territorio. A Napoli gli abbattimenti sono stati 710 su 16.837 decisi, pari al 4,2%. A Palermo neppure uno su 1.943, a Reggio Calabria neppure uno su 2.989. E tutto questo in un territorio fragile, tra i più esposti del mondo ai rischi sismici e idrogeologici, colpito nella storia da decine di terremoti e inondazioni devastanti. Avvenute spesso in aree dove più alta è la presenza di case costruite senza alcun controllo e alcun criterio: il 19,8% delle abitazioni abusive italiane è in Campania, il 18,2% in Sicilia, il 12,8% in Puglia, l’8,8 in Calabria.

Sappiamo che non è facile raddrizzare una situazione piuttosto compromessa. Proprio per questo, però, occorre dire basta: non vogliamo più piangere nuovi lutti per i crolli di palazzine o intere contrade costruite là dove non si poteva. Non vogliamo più piangere e non vogliamo più pagare i costi stratosferici di interventi che arrivano sempre «dopo». Dice l’ultimo rapporto Ispra che mentre nel resto d’Europa è ricoperto dal cemento il 2,3% del territorio, da noi questa quota si impenna fino al 6,9%: il triplo. Nonostante proprio la difesa del paesaggio dovrebbe essere uno degli obiettivi centrali di un Paese che, come Berlusconi non si stanca mai di sbandierare, «è il più bello del mondo».

Bene, la storia dice che la sola promessa di un condono edilizio scatena la corsa a fare nuove porcherie cementizie fingendo di averle fatte «prima» del varo della legge. Gli abusi commessi a Roma «dopo» la sanatoria berlusconiana del 2003 e spacciati per vecchi, stando ai rilievi della società che gestiva le pratiche comunali del condono, furono 3.713. Tra i quali, per esempio, l’aggiunta di un attico terrazzatissimo di un’ottantina di metri quadri sul tetto di un elegante palazzo accanto alla Fontana di Trevi. Numeri che lasciano pensare come in giro per il Paese, e soprattutto nel Sud, gli abusi «retrodatati» siano stati almeno dieci volte tanti. Almeno.

Oltre ai danni al paesaggio e al vivere civile, perché quell’abuso a Fontana di Trevi offende tutti i cittadini per bene, ci sono poi come dicevamo i danni economici. È frequentissimo, infatti, il caso di chi paga solo il primo acconto per bloccare le inchieste giudiziarie e le ruspe e poi se ne infischia di portare a termine la pratica nella certezza che nessuno verrà mai a disturbare. Tanto per dare un’idea, quando Totò Cuffaro cercò di smaltire gli immensi arretrati dei tre condoni con una «sanatoria delle sanatorie», gli abusivi siciliani che aderirono furono l’1,1% a Palermo, lo 0,37% a Messina, lo 0,037% a Catania.

A Roma, denunciava qualche mese fa il Sole 24 Ore, restano da smaltire «210 mila pratiche, circa il 37% delle oltre 570 mila presentate fra tutte e tre le sanatorie». Compresi fascicoli che oggi hanno 28 anni. «Ogni volta che c’è un condono lo Stato si ritrova in cassa pochi milioni, relativi agli anticipi pagati dagli abusivi e una moltitudine di incartamenti che gli uffici comunali non riescono a smaltire», accusano Paolo Polci e Roberto Mostacci del Cresme ipotizzando un milione di pratiche inevase, «Questo “sfasciume amministrativo” impegna centinaia di funzionari pubblici e dà un gettito di 10/20 milioni di euro contro gli 80/100 milioni di costi stimati». Autolesionismo. Dieci anni fa, ribellandosi alla nuova sanatoria della destra, lo stesso Comune di Roma fece i conti. E accertò di avere incassato 922 euro per ognuna delle 506.578 domande dei condoni del 1985 e del 1994. Pochissimo, in confronto alle spese per portare nelle nuove case condonate i servizi del vivere civile, dalle strade alle condutture. Perfino quelli che avevano usato il condono berlusconiano (meno generoso del craxiano) avevano pagato per regolarizzare un villino fuorilegge circa 10 mila euro di cui 5 mila al Comune. E portare l’urbanizzazione primaria e secondaria costava da un minimo di 22 mila a oltre 30 mila euro. Proprio un affarone…

Il Corriere della Sera 11.02.13

Candidati Pd “Giovanardi, il grande assente della ricostruzione”

E’ stato il paladino del deposito interrato del gas e del baratto con il condono campano. Giovanardi che, oggi, si erge censore delle ordinanze e del lavoro del commissario straordinario Vasco Errani è stato il grande assente della ricostruzione: si è distinto come paladino del deposito interrato del gas ad ogni costo e per la proposta di barattare le richieste fiscali dell’area del cratere con il condono edilizio per i campani. La dichiarazione congiunta dei candidati Pd al Parlamento Davide Baruffi, Manuela Ghizzoni, Giuditta Pini e Stefano Vaccari:

«Che questa campagna elettorale ci abbia abituato a sentire tutto e il contrario di tutto è un dato ormai assodato, ma che Giovanardi, il grande assente della ricostruzione, ora alla rincorsa della sua settima volta in Parlamento, si erga a censore dell’operato della Regione Emilia-Romagna è veramente al di là del bene e del male. I cittadini e gli imprenditori della Bassa sanno bene chi ha dato un contributo fattivo all’uscita dall’emergenza prima e alla ricostruzione ora. Giovanardi è quello che si è distinto per aver difeso a spada tratta il progetto del deposito di gas interrato a Rivara a dispetto di ogni evidenza: dopo le terribili scosse di maggio e anche in pieno sciame sismico continuava a sostenere che la zona individuata era idonea allo stoccaggio del gas. Giovanardi è anche quello che voleva barattare le richieste fiscali dei terremotati emiliani con il condono edilizio per i campani, come se la giustezza dell’una potesse giustificare la nefandezza dell’altra misura. Il sisma emiliano è arrivato in mezzo al vuoto normativo e a una grave scarsità di fondi: questo spiega la necessità di procedere a suon di ordinanze e il lavoro meticoloso fatto dai parlamentari del Pd per individuare nuove risorse da convogliare sulla ricostruzione. Mentre Giovanardi si attardava in sterili polemiche e vuote chiacchiere, la squadra del Pd riusciva a “portare a casa”, in favore dei terremotati, 640 milioni di euro aggiuntivi ai 2 miliardi e mezzo stanziati dal decreto legge 74. Proprio venerdì scorso, infine, il presidente del Consiglio ha firmato il decreto che riconosce il rimborso dei danni agli immobili fino al 100%, altro risultato faticosamente conseguito grazie al lavoro instancabile dei sindaci, della Regione, del commissario straordinario Vasco Errani e dei parlamentari Pd. Questi sono i fatti, che non negano le difficoltà in cui vivono e lavorano i cittadini dell’area del cratere, ma che vanno nella giusta direzione, quella di guardare al futuro della ricostruzione con maggiore ottimismo. Per questo continueremo a batterci anche nella prossima legislatura in Parlamento e ad ogni livello istituzionale, innanzitutto per una legge di sistema che possa essere utile a tutti coloro che, nel futuro, dovessero essere vittime di eventi calamitosi come è accaduto a noi emiliani: ancora una volta con misure e atti concreti, e non con le sterili polemiche».

Giorno del ricordo. Restituita memoria a infoibati ed esuli

“La vicenda degli esuli giuliano/dalmati è una delle pagine più drammatiche della nostra storia. Nel martoriato confine orientale, l’odio etnico e il furore ideologico determinarono, in una terribile concatenazione di eventi, la pulizia etnica e l’esodo di migliaia di italiani”. Lo afferma il Segretario nazionale del Pd, Pier Luigi Bersani, nella Giornata del ricordo.

“Questa Giornata – prosegue Bersani – restituisce all’Italia la memoria di un dramma per troppo tempo negato e permette a ogni cittadino di sentirsi parte di un’unica comunità.

Coltivare la memoria e la storia di quegli eventi è necessario per il rispetto dovuto ai 20 mila infoibati e alla dignità offesa di 350 mila profughi istriani, fiumani e dalmati. E’ fondamentale che in quel confine si sia lavorato, in questi anni, per sanare le ferite del passato e che si possa oggi guardare con fiducia a un futuro di convivenza e di collaborazione. Alle nuove generazione spetta il compito di impegnarsi affinché l’umanità possa emanciparsi dall’odio e dal pregiudizio. I giovani devono fare in modo che la democrazia, la libertà e il rispetto dei diritti dell’Uomo diventino un patrimonio comune di tutta l’Umanità. Gli orrori della guerra indussero uomini lungimiranti a pensare all’Europa unita come a un grandissimo progetto di pace e di prosperità per popoli che si erano combattuti per secoli. Quella fiaccola va ripresa e l’ideale europeo va perseguito con forza e convinzione. E’ l’unico modo per comprendere e onorare la storia che abbiamo alle nostre spalle e per perseguire un ideale comune di umanità, giustizia e libertà”.

www.partitodemocratico.it

Bersani: batterò Berlusconi «Monti? Vittoria di Pirro», di Simone Collini

Alza le braccia al cielo, con i pugni chiusi, che è un po’ un incitamento a combattere in queste due ultime settimane di campagna elettorale e un po’ già un gesto di vittoria. Solo che questa volta, di fronte alle migliaia di persone che riempiono il Teatro Regio di Torino, Pier Luigi Bersani non lo fa dopo aver finito di parlare, come è successo in tante altre occasioni. Lo fa invece prima di aprire bocca. Ma non è poi così strano. Fino a questo momento, all’iniziativa titolata «Renaissance for Europe», sono andati al microfono leader di partito, capi di Stato e di governo progressisti provenienti da tutta Europa. E tutti si sono schierati col Pd, auspicato la vittoria del centrosinistra, lanciato la volata a Bersani per la corsa a Palazzo Chigi. Era scontato? Forse no, se per mesi c’è stato, in Italia, chi sosteneva che all’estero si tifava per un Monti-bis. Il videomessaggio inviato da François Hollande, gli interventi di Martin Schulz, Gerhard Schröder, Harlem Désir, Hannes Swoboda e tutti gli altri descrivono un quadro diverso. Non solo perché esplicitano il loro sostegno a Bersani per la conquista della premiership, ma anche perché tutti esprimono un giudizio negativo sul vertice di Bruxelles dedicato al bilancio europeo, che secondo Monti ha invece avuto un «esito soddisfacente». No, dicono i leader progressisti, lì c’è stata la vittoria del fronte conservatore, e perché si arrivi a quella che tutti definiscono una «Europa più giusta» serve voltare pagina. Il che si può fare soltanto se nell’Unione aumenteranno i governi a guida progressista, dicono tra gli applausi della platea del Teatro Regio.
«Se alla fine del vertice europeo a festeggiare è Cameron significa che tutte le altre sono vittorie di Pirro», dice Bersani notando che l’esito dell’incontro di Bruxelles segnala che il «ripiegamento» dell’Ue è ancora in corso. «L’Italia
vince davvero se vince l’Europa e se l’Europa perde l’Italia non può vincere», è il messaggio che il leader del Pd lancia all’indirizzo di Monti. Il nostro premier può anche essersi battuto per 24 ore, ma resta il fatto che il rapporto di forze vigente in Europa è ancora a favore di Angela Merkel e di chi vuole continuare sulla strada dell’austerità. Per questo tutti i progressisti europei auspicano la vittoria di Bersani alle elezioni di fine mese, per questo hanno siglato insieme al leader Pd un documento, il cosiddetto «manifesto di Torino» (va ad aggiungersi alla «dichiarazione di Parigi» siglata prima delle presidenziali francesi) che propone una maggiore integrazione europea per poter realizzare quegli obiettivi di «pace, prosperità e progresso» che devono essere propri del progetto comunitario.
Obiettivi che oggi sono impediti da equilibri ancora sbilanciati verso il fronte conservatore.
Dice Massimo D’Alema aprendo i lavori e riferendosi proprio all’esito del vertice europeo sul bilancio: «Abbiamo il dovere di dire che non è accettabile il compiacimento dei leader conservatori, i sorrisi di Cameron e di Merkel, dopo che hanno tagliato gli investimenti per ricerca e infrastrutture, in un momento in cui l’Europa avrebbe bisogno del contrario». Il presidente della Fondazione europea per gli studi progressisti (Feps), che ha organizzato questa iniziativa (con il sindaco di Torino Piero Fassino che si è caricato sulle spalle la parte logistica) sottolinea il punto di fondo: «Occorre liberare l’Europa dalla morsa di due destre, una tecnocratica, conservatrice e avara, che domina a Bruxelles e le destre, nazionaliste, populiste e becere, di cui noi qui in Italia abbiamo un esemplare davvero singolare».
È praticamente inutile fare nomi. Non a caso Bersani, abbassate braccia e pugni chiusi, dice prima di tutto rivolgendosi ai leader progressisti: «Io so cosa volete, cosa mi chiedete. Io devo battere Berlusconi, un po’ per me e un po’ per voi». Una pausa. E poi, con una risata: «Smacchieremo il giaguaro». Perché poi in questa giornata si può essere ottimisti e ridersela, soprattutto insieme a Schulz, che quando gli raccontano che Bobo Maroni pensa di battere una nuova moneta in Lombardia subito sforna la battuta: «Si potrebbe chiamare il “marone”». E Bersani, ghignando: «Sì, un marone, dieci maroni…». Si può ridere perché l’iniezione di energia data da questa iniziativa torinese è forte e perché Berlusconi non deve veramente più sapere cosa inventarsi se ora propone alla sinistra un dialogo sulle riforme. «Ma si riposi», lo liquida con una battuta Bersani. Il leader del Pd non sottovaluta la destra: «C’è, esiste, ma noi la battiamo».
La platea del Regio dimostra di condividere con lunghi applausi. In sala ci sono molti militanti e simpatizzanti del Pd, esponenti dei Democratici per Portas, ma soprattutto numerosi torinesi incuriositi dall’iniziativa, al punto che qualche centinaio di persone non riesce ad entrare nel teatro. Un’analoga iniziativa era stata organizzata a Parigi la primavera scorsa, prima delle presidenziali francesi, e aveva portato bene a Hollande. Ora tutti sperano di fare il bis, perché la convinzione è che soltanto aumentando il numero dei governi a guida progressista e facendo fronte comune (prima delle europee del 2014 i progressisti presenteranno una candidatura unitaria per il prossimo presidente della Commissione Ue) si potrà realizzare una vera Unione. «L’integrazione non si può fermare alla moneta e alle banche», dice non a caso Bersani, «non basta un’Unione mercantilista che riduca il modello sociale, bisogna andare verso gli Stati uniti d’Europa e bisogna mettere a punto una lotta contro i paradisi fiscali perché la ricchezza scappa e la povertà resta».
L’avversario è la destra, è Berlusconi, ma il leader Pd critica anche la «demagogia» di chi, Monti compreso, ha messo il proprio nome sul simbolo elettorale e ha costruito un partito attorno a una persona. «L’Europa ci guarda, ma abbiamo visto oggi che non siamo soli e che abbiamo una responsabilità che va oltre noi stessi». Il prossimo appuntamento dei progressisti europei è a maggio a Lipsia, prima delle elezioni tedesche, e la speranza condivisa è che Bersani partecipi da presidente del Consiglio.

l’Unità 10.02.13

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Leader e premier progressisti: «Vinca il Pd, anche per l’Europa»
Da Hollande a Di Rupo, da Milanovic da Ponta a Schulz, il tifo per il centrosinistra
di S. C.

Deve vincere Bersani. In francese, tedesco, spagnolo, anche in inglese. La frase che risuona nell’affollato Teatro Regio di Torino è sempre questa. Perché in gioco c’è sì il destino dell’Italia, ma anche quello dell’Europa e quindi di tutti i Paesi comunitari. Come, dicono via via leader di partito e di governo, ha dimostrato anche l’insoddisfacente vertice di Bruxelles sul bilancio dell’Unione. I leader progressisti europei lanciano la volata al leader del Pd per le elezioni di fine mese, a uso e consumo di chi ancora, da noi, va dicendo che all’estero si fa il tifo per un Monti-bis.
Segretari di partito e capi di Stato e di governo si ritrovano a Torino per ripetere quel che già hanno fatto nel marzo scorso a Parigi, prima delle presidenziali che hanno portato François Hollande all’Eliseo. La vittoria del Partito socialista francese ha rotto quell’asse «Merkozy» che ha saputo soltanto battere sul tasto dell’austerità producendo più danni che benefici. Ma come è emerso anche dal vertice europeo di venerdì, che ha ridotto le risorse per gli investimenti destinati a crescita e sviluppo, ora va allargato il fronte progressista se si vuole l’Unione riesca veramente a voltare pagina. E tutte le speranze ora sono riposte in Bersani, che insieme agli altri leader progressisti firma il cosiddetto «manifesto di Torino», un documento comune per un’Europa che metta al centro la solidarietà, il progresso, la crescita.
«Hai brillantemente vinto le primarie», riconosce al leader Pd Hollande ricordando che anche lui ha guidato il Ps per diversi anni prima di ricevere l’investitura attraverso i gazebo e poi arrivare all’Eliseo. «Ti auguro lo stesso successo», dice il presidente della Francia nel videomessaggio che ha mandato all’iniziativa di Torino, perché «l’Europa ha bisogno di politici credibili» e l’Italia di «progressisti alla guida per il risanamento necessario», perché vanno sconfitti «i conservatori e i populisti, nostri comuni avversari» e perché l’Ue «ha bisogno di Francia e Italia unite, per agire insieme». E poi, tra gli applausi scroscianti della platea del Teatro Regio: «Contate sui vostri alleati. Io esprimo tutto il mio incoraggiamento a Bersani e la mia fiducia negli elettori italiani».
Ma non c’è solo la Francia a tifare per il centrosinistra italiano. Alla seconda tappa dell’operazione «Renaissance for Europe», che nella primavera scorsa ha portato bene a Hollande e che si concluderà con una terza tappa a Lipsia, prima delle elezioni in Germania, parlano quelli che già ce l’hanno fatta e quelli che sperano nell’effetto traino. Zoran Milanovic, che ha conosciuto Bersani tre anni fa a Piacenza e oggi è primo ministro della Croazia, il premier romeno Victor Ponta, che dice «non posso immaginarmi l’Italia con Berlusconi, sarebbe come immaginare la Romania con Ceausescu», il primo ministro del Belgio Elio Di Rupo, che punta il dito contro i «demagoghi» di casa nostra ma confessa di non vedere di buon occhio neanche un eventuale nuovo governo dei tecnici: «La politica non si gioca nei campi di football dice con evidente riferimento all’acquisto del Milan di Balotelli pane e partite è una formula vecchia ma gli italiani meritano un governo che sarà rispettato all’estero, un governo progressista guidato da Bersani, perché la politica non è tecnica, altrimenti basterebbe un computer, perché non si governa per i numeri ma per gli esseri umani».
Milanovic, Ponta, Di Rupo oggi sono alla guida dei loro Paesi e però sanno che finché non cambieranno gli equilibri a livello comunitario anche Croazia, Romania e Belgio faranno più fatica a fronteggiare la crisi economica che investe l’intero continente. E lo dicono anche guardando al vertice di Bruxelles sul bilancio europeo, che non ha prodotto un esito tale da definire quella che definiscono «un’Europa più giusta». Per questo sperano in una vittoria del centrosinistra italiano o, per dirla con il ministro per gli Affari esteri del governo francese Bernard Cazeneuve, invitano Bersani «a raggiungerci quanto prima alla nostra tavola».
C’è però anche chi tifa Pd guardando, oltre che all’immediato, al medio periodo. Cento giorni dopo l’Italia è la Germania che va al voto, e la Spd spera in un effetto traino da casa nostra, con una «Europa più forte grazie anche a un’Italia più forte”, come dice l’ex Cancelliere Gerhard Schröder. Martin Schulz non è soddisfatto di quanto deciso a Bruxelles anche perché, dice parlando in italiano, «l’Europa non è solo la somma di 27 interessi nazionali». Il presidente del Parlamento europeo sa che la decisione presa l’altro giorno dai capi di Stato e di governo difficilmente passerà indenne dall’esame di Strasburgo. Troppo poco c’è per la crescita, per lo sviluppo, per la solidarietà. «L’Europa ha fallito», non esita a dire. E ora bisogna voltare pagina, il fronte progressista deve reagire se non si vuole che l’Unione rimanga irrimediabilmente «sotto minaccia». La minaccia principale è quella rappresentata dalle forze conservatrici e dai diversi populismi. Che in Italia sono ancora rappresentati da Silvio Berlusconi. «Il 27 gennaio i nostri pensieri erano rivolti alle vittime dice ricordando l’uscita dell’ex premier su Mussolini proprio nel giorno della memoria altri pensavano ai dittatori, ai carnefici, e questi personaggi non sono degni di guidare il nostro futuro». Per questo sostiene Bersani, «un grande leader, una bellissima persona». E poi l’altra battuta che fa scattare l’applauso: «Come amico prova improvvisando in un italiano tifoso di calcio lo dico con molta difficoltà: viva l’Italia».

l’Unità 10.02.13

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“L’Italia snodo chiave per la rimonta socialista”
Hollande, Di Rupo e Schulz a fianco del leader del Pd «Basta mercantilismo, è arrivata l’ora di un’Europa solidale»
di Antonella Rampino

La Germania L’ex Cancelliere Gerhard Schroeder Nel suo intervento ha elogiato, tra l’altro, l’opera di Mario Draghi alla Bce: «Draghi ha fatto un lavoro dannatamente buono per mantenere forte l’Euro»
Il presidente Hollande ha inviato un video per Bersani. Era presente Elisabeth Guigou, presidente della Commissione Esteri dell’Assemblea Nazionale Martin Schulz, uno dei leader socialdemocratici tedeschi, è presidente del Parlamento europeo Elio Di Rupo premier del Belgio «La politica non si gioca sui campi di football. Gli italiani hanno bisogno di un governo che sia rispettato» Alfredo Pérez Rubalcaba, spagnolo, è il segretario generale del Psoe.
«Tra due settimane, votando in Italia, si vota per il futuro dell’Europa», dice il premier belga Elio Di Rupo di fronte ai duemila del Teatro Regio. Ma sarebbe un errore considerare alla stregua di una mera esibizione elettoralistica la due giorni «Renaissance for Europe» convocata da quattro fondazioni tra le quali Italianieuropei e che, tra i democrats italiani di rito non bersaniano, è stata quindi subito ribattezzata «le dalemeidi». Certo Bersani non si fa scappare l’occasione, concedendo qualcosa al sorriso e qualcosa al cuore, perchè «voi volete che noi battiamo Berlusconi, e perché «la notizia peggiore della giornata è un disoccupato che si suicida stringendo tra le dita la Costituzione, che all’articolo 1 fonda l’Italia sul lavoro». Ma il punto è che Bersani rivendica al Pd il ruolo di «infrastruttura della partecipazione contro il berlusconismo che è la punta spettacolare del populismo, e che ha finito per minare alle fondamenta il progetto dell’Europa». Al quale, dacché sono al potere le destre, semplicemente si è smesso di lavorare, se non per tagliare, e per tagliare con l’accetta.
Ce ne sarà poi, da parte di Bersani, per l’Europa che «deve diventare Stati Uniti d’Europa» e ribellarsi alla logica «mercantilista dei conservatori”, e per il Ppe e Monti che frequenta i suoi banchi, «dove si va a sedere a Bruxelles, vicino a Berlusconi? ». E per il recentissimo Consiglio europeo che Monti ha appena vantato come una «vittoria italiana», e sul quale invece Bersani fa notare che «se Cameron festeggia, vuol dire che per gli altri è solo una vittoria di Pirro», anche perchè «la materia prima dell’Europa è e resta la solidarietà». Del resto, era stato tranchant al mattino anche Massimo D’Alema, «è ora di finirla con i sorrisetti di Cameron e Merkel, felici che in Europa si sia fatto proprio quel che non si doveva fare, tagliare la ricerca».
La convention dei progressisti europei sciorina il sostegno a Bersani di tutti i leader del socialismo europeo, da Hollande in giù. La vittoria di Bersani sta tanto a cuore perchè è uno snodo cruciale nell’atteso rivolgimento nei rapporti di forza politici in Europa, in molte elezioni e fino a quelle per Strasburgo dell’anno prossimo. È quel che si chiama alternanza, ma la fisiologia è resa indispensabile per riavviare crescita e sviluppo, per battere recessione e disoccupazione, per tenere insieme il Continente Vecchio e dare futuro alle generazioni giovani. Lo dice Bersani, usando parole non sorprendentemente simili a quelle di Giorgio Napolitano, con il concetto di «Europa solidale», quella del Pse, contrapposta all’«Europa mercantile» del Ppe. Ma lo dicono tutti i leader europei. Per Francois Hollande si deve «battere quelli che vogliono utilizzare la collera popolare per fare ancora del liberismo». Per il premier belga Di Rupo «non si governa per i numeri, ma per gli esseri umani, la tecnica non è politica, altrimenti basterebbe mettere al governo un computer». Victor Ponta, il quarantenne premier romeno, in italiano: «Berlusconi per l’Italia è come Ceausescu per la Romania» (Berlusconi si è poi detto compiaciuto del paragone). Il potente presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz va all’attacco a testa bassa, «L’Europa esiste perchè è la patria dei diritti, e in un mondo globalizzato la democrazia non è competitiva perchè i diritti costano», e soprattutto il Ppe ha reso l’Europa uno di quei luoghi «dove si prendono decisioni a porte chiuse, e se non c’è trasparenza è ovvio che i cittadini non abbiano fiducia». Un coro, nel quale ovviamente ci sono anche i segretari socialisti, lo spagnolo Alfredo Rubalcaba e il francese Harlem Désir. Stretti, insieme a molti altri tra i quali il vecchio leone Gerard Schroeder, attorno al «Manifesto di Torino». Porterà bene, confida sicuro poi D’Alema mentre sgranocchia un rapido lunch offerto ai leader europei da Piero Fassino a Palazzo di Città, «la riunione precedente di «Renaissance for Europe» fu a Parigi, e poco dopo vinse Hollande. Ora questa per Bersani, e la prossima sarà a Lipsia, prima delle elezioni tedesche. Ma lì, la partita sarà più difficile… ». Forse ha ragione Giuliano Amato, che il giorno prima, quando il convegno era a porte chiuse, aveva segnalato due buone notizie. La prima è che «a sinistra, oggi siamo tutti d’accordo: appena riusciremo ad avere la maggioranza anche in Europa occorre fare subito alcune cose per la crescita». La seconda, è ancora migliore: «a un disoccupato, stavolta l’Europa non proporrà nè un nuovo Trattato, nè una nuova Costituzione».

La Stampa 10.02.13

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L’endorsement di Hollande per Bersani “No ai populisti, la Ue vuole credibilità”
A Torino i leader socialisti. Il segretario pd: batteremo la destra
di Diego Longhin

I big della socialdemocrazia europea sfilano a Torino per sostenere il segretario del Pd nel rush finale. A due settimane dal voto i leader progressisti, riuniti da Massimo D’Alema con la sua fondazione ItalianiEuropei e la Feps, dal palco del Teatro Regio hanno messo in fila tutte le ragioni per cui in Italia serve una svolta. Pier Luigi Bersani prima li ha ascoltati e poi ha chiuso la convention Renaissance for Europe: «So quello che mi chiedete, volete che batta Berlusconi, un po’ per me e un po’ per voi». E sintetizza: «Smacchieremo il giaguaro, anche se non so come si traduce», ma le risate non mancano. Poi si fa serio e promette: «Noi la destra la batteremo. E la nostra prospettiva sono gli Stati Uniti d’Europa».
Duri gli attacchi a Berlusconi. In testa il premier della Romania, il quarantenne Victor Ponta, che parla in italiano, ricordando i suoi studi a Catania. «Per noi l’Europa è un sogno più che per voi e Berlusconi non fa parte di questo sogno, è un incubo». Applausi. Poi va oltre: «Non mi posso immaginare l’Italia con Berlusconi, come non posso immaginare la Romania con Ceausescu. Ma il passato è passato, l’importante è il futuro. La vittoria di Bersani è importante anche per milioni di romeni che vivono in Italia».
Scroscio di applausi quando prende la parola il presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz. Lo stesso che Berlusconi voleva proporre per il ruolo di “Kapò”. Da Torino Schulz ricambia il pensiero del Cavaliere a distanza di tempo: «Il Giorno della Memoria noi abbiamo pensato alle vittime, altri ai dittatori. Questi ultimi non sono degni di guidare il nostro futuro». L’endorsement di Schulz è sentito: «Bersani è una bellissima persona, sono qui per sostenere un amico». Poi chiude con una battuta faticosa per un tedesco: «Come tifoso di calcio dico con molta difficoltà: viva l’Italia». Al football si ispira pure il premier del Belgio, Elio Di Rupo: «La politica non si gioca sui campi». E aggiunge: «Questo governo dei tecnici ha rimesso l’Italia in carreggiata, ma è un governo di transizione tra il governo catastrofico di prima e il governo che l’Italia si merita, cioè progressista ». Per Massimo D’Alema «l’Europa va liberata dalla morsa di due destre, quella conservatrice e tecnocratica che domina a Bruxelles e quella nazionalista, populista e becera, di cui in Italia abbiamo un esemplare singolare. Se vince Berlusconi è un danno per tutta l’Europa».
L’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroder è «convinto che per avere un’Europa più forte, serve un’Italia forte», mentre il presidente dell’Alleanza Progressista, Hannes Swoboda, chiede uno scatto in più: «Dopo la vittoria di Hollande — sottolinea
— abbiamo bisogno di un’Italia diversa». Il presidente francese non c’è, ma non ha fatto mancare il sostegno in un video messaggio. «I vostri avversari sono sempre gli stessi, sono anche i nostri — dice Francois Hollande — sono i conservatori, i populisti, chi utilizza la collera, lo smarrimento dei popoli per instaurare ancora più liberismo ». L’auspicio? «L’Europa ha bisogno di progressisti, l’Europa ha bisogno di Italia e Francia unite per agire insieme. Tutta la mia fiducia va in Bersani».
Il leader Pd, accolto sul palco come il prossimo presidente del Consiglio, convince la platea. Ricorda l’operaio che si è suicidato a Trapani: «Per me è una coltellata, senza lavoro non c’è dignità». E poi guarda all’Europa: «Noi sappiamo dove sederci in Europa e sappiamo di essere accettati laddove ci andiamo a sedere. Dicano gli altri, Berlusconi, Monti, Grillo e Ingroia, dove intendono sedersi e dove pensano di essere accettati». Scherza sull’idea di stampare moneta del leader della Lega e candidato in Lombardia, Roberto Maroni: «Ne parlavo con Schulz, suggeriamo un nome: marone. Un marone, dieci maroni ». E rimarca la promessa: «La destra esiste, ma noi la battiamo, archivieremo Berlusconi».

La Repubblica 10.02.13

«Violenza sulle donne, serve l’impegno di chi vuol governare», di Rachele Gonnelli

Il 14 febbraio l’evento mondiale contro il femminicidio. L’appello delle sostenitrici da Roma: «Investimenti e più informazione». Un miliardo di donne e di uomini balleranno per strada, nelle piazze di tutto il mondo il prossimo 14 febbraio contro il femminicidio. È l’evento globale One billion rising lanciato dalla scrittrice Eve Ensler, autrice di «I monologhi della vagina», gli stessi che furono letti dal palco di piazza del Popolo nella grande manifestazione «Se non ora quando» che segnò la fine culturale del berlusconismo. In Italia le donne continuano a morire per mano dei loro mariti, fidanzati o ex, a un ritmo vertiginoso di una ogni due giorni, ma il tema del femminicidio non ha neanche sfiorato la campagna elettorale. Perciò le donne, singole e in associazione, che sostengono la festa-protesta di One billion rising si sono ritrovate ieri alla Casa internazionale delle Donne a Roma per chiedere che questo vuoto, questo silenzio, venga colmato e la battaglia contro il femminicidio sia assunto come una priorità della politica.
«Siamo qui per chiedervi un patto di sangue», ha esordito Serena Dandini, rivolta alle molte candidate presenti nella sala strapiena dell’ex Buonpastore. Un «patto» e un impegno unitario contro le discriminazioni di genere, per i diritti delle donne, contro «la famiglia violenta», contro mistificazioni come la cosiddetta sindrome di alienazione parentale o pas «inventata dalla lobby dei padri separati, una patologia che magicamente smette di esistere al compimento del diciottesimo anno». «Serve l’adesione anche dei leader perché dobbiamo creare un’onda», «sensibilizzare, informare», dice ancora la conduttrice tv, spiegando di aver finora ottenuto la risposta di Antonio Ingroia e di Nichi Vendola. «Bersani ha i suoi tempi, arriverà», aggiunge. Tra le candidate che hanno lanciato l’appello ci sono, del resto, la deputata Rosa Villecco Calipari e Laura Puppato, l’unica donna tra i cinque sfidanti alle primarie del centrosinistra, ieri collegata in videoconferenza dal Veneto dove è impegnata come capolista Pd, più tutto il Forum delle donne democratiche. «Monti non ci ha mai risposto, ma magari ci riceverà per San Valentino e finita la scenetta con i cani ci regalerà una rosa o ballerà con noi al One Billion Rising, speriamo di no perché non mi sembra portato», scherza la Dandini. Per il centrodestra l’unico ad aver aderito finora è Gianfranco Paglia di Fli.
Il «patto» poi altro non è che la sottoscrizione della convenzione No More: una piattaforma lanciata a ottobre da associazioni come l’Udi o Giulia per le giornaliste, singole personalità, rappresentanti degli enti locali e dei sindacati, un manifesto-proposta che chiede una serie di impegni concreti al prossimo Parlamento e al prossimo governo, a cominciare dal rifinanziamento dei Centri antiviolenza di cui negli ultimi mesi si denuncia «una moria» a causa dei tagli di bilancio degli enti locali, luoghi dove le donne che denunciano percosse e abusi possano rifugiarsi e avere una adeguata assistenza. La ratifica della Convenzione di Istanbul, lanciata dal Consiglio d’Europa nel 2011 contro la violenza di genere è stata approvata tardivamente dal governo Monti ma non in via definitiva da Camera e Senato e le donne di No More sostengono che comunque non basta se mancano i concreti strumenti di attuazione. Come corsi di formazione sulla violenza di genere per poliziotti e giornalisti e una rilevazione sistematica, integrata e omogenea su tutto il territorio nazionale, dei casi di violenza domestica da affidare all’Istat, per una verifica dettagliata della situazione e delle carenze di servizi nel territorio.
La Dandini non è una semplice testimonial o madrina ma una delle promotrici di No More, e porta in giro per l’Italia l’appello insieme al suo spettacolo-denuncia «Ferite a morte», che tornerà a Roma all’Auditorium l’8 aprile. Nel frattempo le rappresentanti della piattaforma No More insieme a quelle del comitato Cedaw (Committee on the Elimination of Discrimination against Women) Italia, sotto l’egida dell’Onu, ai primi di marzo, cioè subito dopo le elezioni, parteciperanno a New York alla convention mondiale contro la violenza sulle donne. E lì fanno notare le donne l’Italia non potrà vantare una forte riduzione dello «spread» di civiltà. Visto che, come dice Rosa Calipari «in questo Paese siamo diventati tutti centri di costo, perdendo il profilo di persone», Serena Dandini prova a metterla così: «Ogni donna uccisa costa allo Stato un milione di euro, vediamo se ci ascoltano».
Le donne sono decise a «fare rete, lobby, quello che ci vuole». Intendono continuare a lavorare in modo unitario sulla base della piattaforma No More e sono decise a ricovocare le candidate che hanno aderito, una volta e se elette, subito all’indomani del voto. Da Rosa Rinaldi di Rivoluzione civile a Luisa Laurelli del Pd, da Celeste Costantino di Sel a Sara Vatteroni della lista Ingroia, da Titti Di Salvo a Ileana Piazzoni, sempre di Sel, a Puppato e Calipari del Pd. «Abbiamo ripreso la nostra voce negli ultimi due anni e a queste elezioni siamo aumentate perché siamo riuscite a ottenere l’alternanza di genere, anch’io per questo sono candidata, borderline al Senato ma ci sono», dice Ivana della Portella del Pd. «L’importante aggiunge è mantenere quest’intreccio forte, superare la visione in cui ognuno guarda al suo orticello, solo facendo squadra possiamo ottenere risultati».

L’Unità 10.02.13

"Berlusconi: insegnanti tutti di sinistra, bonus per cambiare scuola", da La Tecnica della Scuola

Ci risiamo. Puntuale come un orologio svizzero arriva la consueta requisitoria contro la scuola pubblica e contro i docenti, comunisti, da parte del coordinatore nazionale del Pdl, ministro dell’economia in pectore (se vince) e già presidente del consiglio per 8 anni negli ultimi dieci, Silvio Berlusconi.
Infatti aprendo la campagna elettorale nel Lazio il leader del Pdl ha detto: ”A scuola ci sono gli insegnanti di sinistra, dunque le famiglie devono avere un bonus per mandare i propri figli nelle scuole private cattoliche”.
La vecchia, perché varie volte ripetuta, tiritera secondo cui i docenti italiani siano “inculcatori” di idee nefaste e comuniste nella mente dei giovani si riaffaccia prepotente e così, per giustificare le proposte, presenti nel programma elettorale del Pdl, di consentire alle scuole di chiamarsi i docenti e di implementare il “modello Lombardia” in tutta la Nazione, si torna a sparare con la consueta disinvoltura contro i docenti e nel mucchio.
Ma aveva pure detto, nelle precedenti campagne elettorali, che i docenti erano dei poteri forti in mano alla sinistra, mentre tutti i mali della scuola e la impreparazione, rispetto agli alunni europei, dei nostri ragazzi era dovuta alla provenienza sessantottina dei docenti, definiti pure: fannulloni, ignoranti e paraculi.
Non si capisce il motivo di tanta acredine contro i professori italiani che finora hanno fatto, seppure pagati mali e seppure messi all’angolo e umiliati da una legislazione farraginosa, il proprio dovere con “onore e lealtà”.
Ogni partito, se il popolo gli concede di governare, ha diritto di implementare la sua idea di società e quindi di smantellare, nel nostro caso, perfino la scuola pubblica, ma da qui a definire gli insegnanti tutti dei pericolosi comunisti a causa dei quali bisogna fare scelte di questo tipo, e non per un principio ideologico ed economico, non ci pare eticamente corretto.

La Tecnica della scuola 10.02.13