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"Università. Crollano le borse di dottorato, gli assegnisti fuggono lontano dagli atenei", di Alessandra Migliozzi

Ricerca, crollano le borse di dottorato nelle universita’. Mentre aumentano, in parallelo, i posti senza copertura economica, soprattutto dopo che il governo Berlusconi ha tolto il limite del 50% del totale per i dottorati senza borsa. E che fine fanno gli assegnisti, i precari della ricerca che si formano nelle nostre universita’? Il 93% continua la propria carriera all’esterno perche’ nell’accademia per i giovani cervelli non c’e’ posto. È quanto rivela una indagine Adi, l’Associazione dei dottorandi, presentata oggi a Roma.

IL CROLLO DELLE BORSE – I sussidi segnano un -24,33% negli ultimi 5 anni passando dalle 5.045 del 2008/2009 alle 3.804 del 2012/2013. La media di borse per ateneo scende da 245,4 a 185,7. Sono i dati resi noti oggi dall’Adi che riguardano un campione di 21 universita’ statali e rivelano un calo molto brusco fra il 2009 e il 2010 con quasi mille borse in meno. Mentre negli ultimi due anni accademici c’e’ stato un leggero incremento. Il bilancio del quinquennio resta pero’ negativo. Guardando ai dati relativi alle singole universita’, la variazione percentuale va da un +3.6% della Sapienza di Roma (da 585 borse a 606), al -68.1% dell’universita’ di Catania (da 251 borse a 80). Per il 2013 risultano poi banditi 3.030 posti senza borsa che solo in alcuni casi vengono coperti da fondi supplementari. Ci sono poi atenei tra quelli del campione (Milano Politecnico, Pavia, Roma Tor Vergata) che hanno bandito per il 2012/2013 un numero di posti senza borsa superiore a quello di posti con borsa. Chi non gode del sussidio deve anche pagare una tassa di iscrizione che varia da ateneo ad ateneo ed e’ mediamente “in crescita”. Una tassa che per l’Adi “va eliminata”. In questo quinquennio la minore erogazione di borse, secondo i calcoli dell’Adi, “ha sottratto alla ricerca 202.680.00 euro”.

CERVELLI PRECARI IN FUGA DAGLI ATENEI – Dopo il dottorato per molti l’unica speranza per restare in ateneo almeno per un po’ e’ un assegno di ricerca. Ovviamente temporaneo. Poi il 93% degli assegnisti lascia l’universita’: il 78% dopo una serie di assegni di ricerca, il 15% dopo un contratto a tempo determinato. Solo il 7% viene reclutato per la ricerca a tempo indeterminato. “La gravita’ di questo scenario emerge soprattutto se si considera la specifica realta’ italiana- spiegano dall’Adi dove il titolo di Dottore di Ricerca e’ difficilmente spendibile e scarsamente riconosciuto nel mondo del lavoro, incluso quello pubblico”. Esistono pero’ anche oasi felici, come il Politecnico di Torino, quello di Milano e quello di Bari dove le possibilita’ di restare all’universita’ per fare ricerca sono nettamente superiori. Fanalino di coda l’universita’ di Macerata.

IN ITALIA BORSE PIÙ POVERE CHE IN MEDIA UE – E l’Italia resta indietro in Ue anche sugli importi delle borse di dottorato che da noi si aggirano attorno ai 1005 euro contro i 2.531 della Svizzera, i 2.252 della Norvegia.

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"Cancellati 480 posti al giorno uno su cinque è under 35", di Enrico Marro

Quattrocentottanta occupati in meno al giorno. Tanto ci è costata la recessione più grave del Dopoguerra. I conti li ha fatti l’ufficio studi della Confartigianato in uno studio sul mercato del lavoro dal 2007 a oggi di prossima pubblicazione. Gli occupati erano 23 milioni e 541 mila ad aprile 2008. Allora, giustamente, si diceva che una delle priorità dell’Italia era di aumentare il numero di persone che lavorano. L’aggiornamento degli obiettivi di Lisbona (Europa 2020) prevede infatti per l’Italia un target del 67-69% di occupati nella fascia d’età 20-64 anni da raggiungere entro il 2020. Eravamo al 63% nel 2008, cioè a meno quattro dall’obiettivo. Purtroppo la crisi mondiale ha cambiato il corso delle cose e la priorità è diventata un’altra: evitare la falcidia di posti di lavoro. Che purtroppo c’è stata. A dicembre 2012 gli occupati sono stati calcolati dall’Istat in 22 milioni e 723 mila: 818 mila in meno rispetto a quattro anni e mezzo prima, 480 posti persi al giorno, appunto. E il tasso di occupazione (20-64 anni) è sceso al 61%: il traguardo di «Europa 2020» si allontana. Ed è praticamente impossibile da raggiungere, secondo Confartigianato.
Infatti, se prendiamo a riferimento il tasso di variazione dell’occupazione previsto per il triennio 2013-2015 nel Def, cioè nel Documento di economia e finanza del governo, che è pari allo 0,6%, i livelli di occupazione pre-crisi verranno ripristinati solo nel 2025, cioè fra 18 anni. Insomma, è lo stesso governo a non credere in un rilancio a breve dell’occupazione. L’altro dato che colpisce analizzando il dossier ricco di tabelle è che in questi 5 anni a diminuire, di circa il 20%, sono stati gli occupati fino a 35 anni, scesi di quasi un milione e mezzo, mentre c’è stato un aumento di quasi 600 mila occupati con più di 55 anni. Abbiamo insomma molti più lavoratori anziani. Si tratta di una delle conseguenze dell’aumento dell’età pensionabile dovuto da ultimo alle riforme Sacconi e Fornero, certamente necessario, ma che evidentemente, avvenuto in coincidenza della grave crisi economica, ha tolto occasioni di lavoro ai giovani. E non c’è neppure da stupirsi se, sempre nel quinquennio, gli occupati a tempo pieno sono diminuiti del 5,1% mentre quelli a part-time aumentati dell’11,3%. I disoccupati sono raddoppiati: da 1,4 milioni prima della crisi a 2,8 milioni oggi.
Il poco lavoro che c’è è sempre più difficile da difendere. Spesso i dipendenti sono costretti ad accettare riduzioni di orario. Nelle situazioni più gravi intervengono gli ammortizzatori sociali, che negli ultimi 4 anni hanno raggiunto livelli record, per una spesa complessiva di 53 miliardi. L’artigianato ha sofferto molto perché più presente nei settori con maggiore cedimento dell’occupazione, dal manifatturiero alle costruzioni. Imprenditori e lavoratori in proprio hanno subito una sorta di decimazione, passando dai quasi 4 milioni del 2008 ai 3,6 milioni di oggi. Giorgio Merletti, presidente di Confartigianato, lancia un messaggio disperato alle forze politiche: «Le drammatiche cifre sul calo di occupati sono il risultato delle debolezze strutturali del nostro mercato del lavoro penalizzato da tanti vincoli burocratici e gestionali, da un cuneo fiscale troppo elevato, dalla distanza tra scuola e mondo del lavoro. Inoltre, le recenti misure introdotte sulla flessibilità in entrata rischiano di comprimere ulteriormente le opportunità occupazionali».

Il Corriere della Sera 10.02.13

"Cambiare l’Italia, sfida europea", di Claudio Sardo

La dichiarazione di Torino, con il sostegno a Pier Luigi Bersani di tutti i leader progressisti europei, costituisce uno degli eventi più importanti di questa confusa campagna elettorale. E proietta il suo significato oltre il voto del 24-25 febbraio se, come speriamo, il segretario del Pd vincerà le elezioni e avrà il compito di guidare il governo italiano.
Innanzitutto non è vero che l’Europa vuole Monti. Le cancellerie europee – come del resto ogni cittadino italiano dotato di buon senso – sanno perfettamente che la vera sfida da noi è tra la sgangherata e pericolosa destra di Berlusconi e la ricostruzione nazionale proposta da Bersani. Persino i leader conservatori, a partire da Angela Merkel, hanno voluto rendere pubblica la loro completa sfiducia verso il Cavaliere e l’accozzaglia Pdl-Lega, incoraggiando Monti ad entrare in gioco e contendere l’elettorato moderato, pur nella consapevolezza che oggi non è in grado di competere per il primato.
L’Italia è parte dell’Europa. L’Italia può risollevarsi dalle macerie della seconda Repubblica solo se collegata all’Europa migliore. E l’Europa non riuscirà a riavere il ruolo che le spetta nel mondo se l’Italia non tornerà ad essere protagonista dell’unità e dell’integrazione. Purtroppo l’ultimo vertice di Bruxelles, sul bilancio 2014-2020, ha scritto l’ennesima mediocre pagina di questo tempo di crisi. Per l’Unione europea è stato un altro passo indietro. Abbiamo bisogno vitale di investimenti sulla ricerca, l’innovazione, le infrastrutture: e invece il budget comunitario è stato ridotto. Si compiacciono gli euroscettici. Sorridono i realisti che ormai non credono più al cambiamento. Invece è necessaria una svolta nel senso dell’Europa, delle politiche comuni. Solo la dimensione europea può premiare lo sviluppo, il lavoro, l’economia reale e sfavorire la rendita, a cominciare da quella speculativa che gioca sul diffe- renziale dei tassi (cioè sullo spread).
L’Europa progressista sostiene Bersani, e ieri gli ha chiesto di riportare l’Italia nel ruolo che ha occupato con Prodi, con Ciampi, con D’Alema, con Amato. Anche tra i leader socialisti c’è chi vorrebbe che Monti partecipasse al governo di ricostruzione nazionale: è stato l’immagine dell’Italia nel dopo-Berlusconi, la prova che il Paese aveva risorse al suo interno per riscattare la vergogna del Cavaliere. Del resto, quest’Europa stanca e tuttora molto al di sotto delle nostre aspettative, quest’Europa che fatica a liberarsi delle ricette liberiste e dei paradigmi anti-sociali dell’austerità, può ripartire solo da una scossa, da un’intesa che coinvolga i grandi Paesi del Continente e le due maggiori famiglie politiche. Una consapevolezza, questa, che non manca neppure a Berlino, dove Bersani appunto è stato accolto con rispetto e attenzione. È possibile che in Germania, dopo le elezioni d’autunno, si formi una Grande coalizione tra Cdu e Spd: in Italia la sola Grande coalizione possibile arriva fino a Monti. Qualunque sia l’esito del voto, piuttosto che governare con Berlusconi, piuttosto che proseguire nella «strana maggioranza», meglio tornare alle urne.
L’Italia ha bisogno di un cambiamento profondo. Perché così va a picco. E così non serve all’Europa. È per questo che il 24 e 25 febbraio quelle italiane saranno elezioni europee. Come lo furono le elezioni francesi vinte da Hollande, le quali segnarono il primo cambio di marcia rispetto alle politiche di rigore. Gli occhi del mondo sono puntati su di noi. Anche fuori dall’Europa, dove ad esempio Obama non perde occasione per sollecitare il Vecchio Continente ad un nuovo sviluppo e ad una crescita qualitativamente innovativa.
Non c’è nulla di propagandistico nel dire che all’estero i più tifano per il centrosinistra. Anzi, è un carico di responsabilità sui progressisti italiani. Una tenaglia rischia di schiacciare il nostro Paese e, insieme ad esso, la possibilità di un rinnovamento europeo: da un lato c’è la destra tecnocratica e liberista, dall’altro la destra populista e localista. Da un lato c’è la conservazione, lo status quo, la continuità sulla linea degli squilbri interni all’Europa, della recessione, dello strangolamento dei Paesi indebitati. Dall’altro la demagogia peggiore, le promesse inverosimili, la protesta urlata, l’illusione del particolare: come se non bastassero le sortite anti-euro di Berlusconi e Grillo, ieri Maroni ha lanciato nientemeno che una moneta «padana». Tutte idiozie. Capaci però di trasformare il dramma sociale di oggi in una condanna senza appello.
Il centrosinistra deve spezzare questa tenaglia, anche perché è la destra liberista, con la sua linea, ad alimentare la destra populista e la sfiducia nella politica come chance di ripresa civile. Il lavoro di ricostruzione è un grande programma di lotta e di cambiamento: chi a sinistra pensa di buttare il voto sostenendo che Bersani, Monti e Berlusconi sono la stessa cosa, in fondo è complice di chi dice che destra e sinistra non esistono più. Il messaggio dei progressisti europei al centro- sinistra italiano è di affrontare con determinazione l’impresa del cambiamento. Ma anche con apertura. Deve cominciare una nuova stagione costituente in Europa e abbiamo bisogno di tutti i sinceri europeisti. La sinistra migliore è stata nella storia quella che ha favorito l’avanzamento di tutta la società. A quella dobbiamo ispirarci. Non per mediare, ma perché i cambiamenti siano davvero profondi e duraturi e producano, oltre al dato economico, un forte riequilibrio sociale e un recupero dello spirito di comunità.

L’Unità 10.02.13

"Il buono il brutto il bello e il cattivo", di Eugenio Scalfari

Mentre cominciavo a scrivere queste note mi sono arrivate due notizie: la prima è una dichiarazione effettuata da un gruppo di candidati nelle liste civiche di Monti che fa capo a Lorenzo Dellai, ex presidente della Provincia autonoma di Trento, che suggerisce agli elettori di votare Ambrosoli alla presidenza della Regione Lombardia anziché il candidato montiano Albertini; uno stesso suggerimento era già stato dato da Ilaria Borletti Buitoni, capolista montiano in Lombardia per la Camera dei deputati. La seconda notizia è che Monti ha da parte sua espresso un parere contrario rilanciando la candidatura di Albertini alla Regione, anche se non ha alcuna possibilità di riuscita e giova soltanto alla eventuale vittoria di Maroni.
Non è un bell’esempio di coerenza con gli interessi generali della democrazia e del paese. Ma veniamo ora ad un quadro più generale della situazione.
Mancano 14 giorni al voto e la gente si è stufata della politica e di questa campagna elettorale. Lo leggo su molti giornali, ma è proprio così?
A me non pare. Gli ascolti dei dibattiti televisivi sono alti; piazze e teatri dove parlano i protagonisti politici sono pieni; slogan, proposte, invettive, programmi, si incrociano; gli aspiranti a governare elencano i provvedimenti che intendono prendere nei primi cento giorni di governo. Le tifoserie sono mobilitate. Le persone che si incontrano si scambiano tra loro la domanda: come pensi che andrà a finire?
Epoi ci sono gli arrabbiati. La rabbia sociale non è un fenomeno soltanto italiano, c’è in tutta Europa, la rabbia, perché l’intero continente è in recessione, la recessione impone sacrifici, i sacrifici provocano sofferenza e rabbia, gli arrabbiati cercano i colpevoli, ma i colpevoli sono tanti e ciascuno sceglie il suo bersaglio.
Vi sembra che tutti questi fenomeni diano un quadro di indifferenza? Gli indecisi sono ancora molti ma negli ultimi sondaggi risultano in diminuzione. L’astensionismo è valutato tra il 20 e il 25 per cento, più o meno come da molti anni in qua. Quindi non è vero che la gente si è stufata. È vero invece che questa campagna elettorale è tra le più agitate e confuse dell’Italia repubblicana.
La conclusione è questa: il bipolarismo semplifica, il multipolarismo complica e la gente si disorienta. Non è indifferenza ma disorientamento, perciò la gente cerca a suo modo di semplificare. Il populismo è certamente una semplificazione. Avreste mai pensato un anno fa che sommando insieme Berlusconi e Grillo si arrivasse almeno al 40 per cento dei consensi registrati dagli ultimi sondaggi? Se non addirittura al 50?
Berlusconi ormai promette la luna a ruota libera; Grillo lancia il suo “vaffa” in tutte le direzioni, sui partiti, sulla politica, sull’Europa, sullo “spread”, sull’euro. Se sapesse che Aristotele enunciò la primazia della politica su tutte le altre attività dello spirito, il “vaffa” colpirebbe sicuramente anche lui.
È possibile che metà degli elettori possano affidarsi a questi Dulcamara? È una semplificazione del tipo “fai da te”; gli schieramenti in campo sono troppi, le differenze tra loro sono sofisticate, il “fai da te” sceglie i due populismi che, ovviamente, sono contrapposti tra loro.
Aggiungeteci la Lega che ha un solo obiettivo: conquistare la regione Lombardia e contrapporre la macro-Regione padana al resto d’Italia. Piemonte-Lombardia- Veneto detteranno legge al governo nazionale, quale che sia il suo colore.
Ma aggiungeteci anche Ingroia che guida una lista molto minoritaria ma che può essere determinante in alcune Regioni, tra le quali la Lombardia, la Sicilia, la Campania. Determinante non per vincere ma per far vincere Berlusconi e la Lega. Analoga in quelle Regioni è la posizione di Monti. A chi contesta ad Ingroia questo gioco a perdere per far vincere il peggiore, la risposta l’ha data Marco Travaglio venerdì scorso a “Otto e mezzo”: il risultato sarà un Parlamento ingovernabile e quindi una legislatura che durerà pochi mesi. Poi si tornerà a votare; forse allora saranno nate una nuova sinistra e una nuova destra, formate tutte e due da gente nuova, anzi nuovissima, alla politica.
Dopo 70 giorni di campagna elettorale che sta per chiudersi, queste belle menti auspicano altri cinque mesi di paese ingovernato e altri tre mesi di campagna elettorale. L’Italia resterà dunque senza guida fino al prossimo ottobre con la prospettiva che nasca a quel punto una maggioranza Ingroia-Grillo. Nel frattempo il mercato avrà messo in mutande la nostra economia e quello che avanza di industria e occupazione. Complimenti di tutto cuore. * * * Per completare lo scenario che sta davanti ai nostri occhi bisogna ora spostarsi dall’Italia all’Europa di cui siamo parte integrante.
Ci sono stati in questi giorni due fatti nuovi: il Consiglio dei primi ministri dei 27 Paesi aderenti all’Unione europea e il Consiglio d’amministrazione della Banca centrale (Bce).
Il Consiglio dei ministri e la Commissione si sono incontrati a Bruxelles e hanno discusso per 25 ore di seguito, senza dormire e mangiando qualche panino. Anche lì c’era molta confusione, ciascuno aveva i propri interessi da difendere, magari a scapito dell’interesse generale europeo. Alla fine è stato trovato un compromesso che si può riassumere così: gli interessi dei singoli Paesi membri sono stati tutti parzialmente soddisfatti e, infatti, le decisioni sono state votate all’unanimità come è previsto poiché ciascun Paese ha un diritto di veto e l’unanimità è quindi indispensabile.
Ma sono stati pagati due prezzi molto alti per ottenere questo risultato: il bilancio europeo, che avrebbe dovuto essere largamente aumentato, è stato invece tagliato rispetto al bilancio in vigore da sette anni.
Il Parlamento europeo, anch’esso quasi all’unanimità, si è però opposto a questo taglio e ha messo il veto a quel compromesso. La questione è dunque aperta ed è della massima importanza. Basteranno due cifre per dare l’idea concreta del problema: il bilancio federale degli Usa rappresenta il 22 per cento del Pil americano, il bilancio dell’Unione europea rappresenta invece l’1 per cento del Pil dei Paesi confederati.
Il secondo prezzo pagato a Bruxelles riguarda la politica di crescita economica, per altro da tutti auspicata a parole però, perché non un centesimo, non un provvedimento, non un’idea che rilanci la creatività è stata messa sul tavolo, se non la raccomandazione ad accrescere la flessibilità dei sistemi economici.
Monti è tornato a casa con un piccolo tesoretto di quasi quattro miliardi di euro. Non è molto ma nemmeno poco. Sul resto nulla poteva fare da solo e nulla ha fatto.
* * *
Mentre queste cose accadevano a Bruxelles, a Francoforte Mario Draghi ha messo a fuoco una questione della massima importanza. Riguarda il tasso di cambio euro-dollaro che ormai da molti mesi si è apprezzato a favore dell’euro toccando il suo massimo di 1,36 dollari per euro giovedì scorso. Ma il giorno dopo è intervenuto Draghi ricordando che la Bce non può intervenire sul mercato dei cambi perché il suo statuto non lo prevede. La Bce ha due soli compiti: garantire la stabilità dei prezzi e assicurare al sistema bancario la necessaria liquidità.
L’apprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro – ha detto Draghi – è un fatto positivo in questa fase di crisi economica perché è il segno che molti investitori acquistano euro dimostrando con ciò di avere fiducia nella moneta europea piuttosto che in altre valute. Tuttavia – ha proseguito – un eccessivo apprezzamento dell’euro potrebbe abbassare il tasso di inflazione al di sotto dell’attuale livello del 2 per cento che è ritenuto ottimale per la stabilità dei prezzi. Se da questo livello si dovesse scendere nei prossimi mesi verso l’1 per cento, ci si avvierebbe verso una fase di deflazione con un mutamento negativo nella stabilità dei prezzi. In questo caso, intervenire sul cambio estero rientrerebbe nei compiti statutari della Bce che è pronta a farvi fronte.
Risultato: dopo quell’intervento puramente verbale, venerdì il cambio è sceso all’1,33 rispetto al dollaro. Draghi ha confermato così la sua capacità tattica e strategica per salvaguardare il sistema dal punto di vista della politica monetaria, tenendo aperta la porta ai governi affinché prendano le necessarie decisioni per rilanciare l’economia reale. Purtroppo alla sagacia di Draghi non fa riscontro una altrettanto viva sensibilità dei governi per l’interesse generale dell’Europa.
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Mi permetto di suggerire ai lettori il film dedicato a Lincoln: racconta come e con quali prezzi la confederazione degli Stati Uniti d’America diventò uno Stato federale. Per realizzare quest’obiettivo, senza il quale la storia del mondo sarebbe stata completamente diversa, fu necessaria una guerra civile durata quattro anni con seicentomila morti, più della somma dei morti americani nelle due guerre mondiali del Novecento. E, come non bastasse, anche l’assassinio dello stesso Lincoln tre giorni dopo la vittoria e la firma della pace.
L’Europa ha già pagato un prezzo altissimo di sangue, versato in secoli di guerre tra gli Stati europei. L’ultima di esse ha fatto addirittura 41 milioni di morti tra militari, civili e genocidi orrendi. Da questo punto di vista abbiamo larghissimamente pagato e infatti da allora l’Europa ha trascorso quasi 70 anni in pace. Ma l’Europa federale ancora non è nata.
Non abbiamo molto tempo per farla nascere; l’economia globale prevede confronti tra continenti. L’Europa ha più di mezzo miliardo di abitanti, possiede un’antica ricchezza, un’alta vocazione tecnologica e scientifica, è bagnata da tre mari e confina con l’Asia e con l’Africa. Ha una forza potenziale enorme, l’Europa, ma diventerà del tutto irrilevante se continuerà ad essere sgovernata da una confederazione di Stati con una moneta comune usata da poco più della metà di essi.
Abbiamo a disposizione non più di una decina di anni di tempo per arrivare a quel risultato e, poiché si tratta d’un percorso fitto di ostacoli, occorre intraprenderlo da subito. Non è un obiettivo che viene dopo gli interessi nazionali perché è esso stesso un interesse nazionale e non può essere accantonato o timidamente sostenuto. L’Europa deve diventare uno Stato con il suo bilancio, un suo governo, un suo Parlamento, una sua Banca centrale. Per ora ci sono soltanto timidi abbozzi dai quali emerge soltanto un Consiglio intergovernativo che decide solo all’unanimità o con maggioranze altissime dell’80 per cento. Se resteremo in queste condizioni, tra dieci anni saremo solo una memoria nella storia culturale del pianeta. E nulla più.
P.S.
È stato detto tutto il dicibile sulla proposta berlusconiana di abolire l’Imu sulla prima casa rimborsandone entro un mese l’ammontare pagato dai contribuenti. Ma non è stato ancora ricordato un punto di fondo: l’Imu varata nel dicembre 2011 è un’imposta patrimoniale progressiva: i proprietari d’una casa di lusso, con più elevata rendita catastale, situata in quartieri di prestigio, hanno pagato con aliquote progressive. Su 3,9 miliardi di gettito l’abolizione prospettata da Berlusconi sarebbe un grosso regalo ai proprietari di reddito medio alto e altissimo e un’elemosina di pochi spiccioli alla massa dei contribuenti. L’imposta progressiva una volta abolita si trasforma in un beneficio “regressivo” che premia pochi ricchi e fa elemosina a molti poveri. Questo è il vero e maggior difetto della velleitaria proposta berlusconiana.

La Repubblica 10.02.13

"La sinistra non deve chiudersi", di Alfredo Reichlin

Non serve questo gioco di reciproci veti tra Monti e Vendola. Nichi consentirà a un vecchio amico di ricordare che la sinistra italiana (quella vera, quella che cerca di cambiare la storia) non ragiona così, non parte dai veti sui nomi ma dalle cose. Dalle situazioni in cui combatte e dagli obiettivi che si pone. Non sto a ricordare che se l’Italia non si lacerò in una sorta di guerra civile tipo Grecia e si trasformò in una Repubblica con questa straordinaria costituzione democratica fu anche perché Togliatti fece il governo Badoglio.
Consentendo così a noi, i giovani di allora, di prendere le armi non in nome di Stalin ma del Tricolore. Davvero i nomi non corrispondono alle cose. Così oggi.
Hai ragione, caro Nichi, che non ci servono gli «inciuci». Il Pd e il tuo partito si sono messi insieme per cambiare l’Italia e farla più giusta. E questo faranno, sapendo però che la cosa è impossibile se non salviamo il Paese dal degrado sociale e dalla regressione storico-politica che incombe sul suo destino. Questa è la «cosa». Ma noi una simile impresa la vogliamo affrontare sul serio? Come? Non credo che basti approfittare del fatto che l’attuale legge elettorale regala un largo premio di maggioranza a chi arriva primo e potrebbe quindi consentirci di governare da soli.
Ecco. Io vorrei dire la mia su cosa bisognerebbe intendere con questo «non da soli». Provo allora a dire qualcosa che va oltre il problema, certamente ineludibile delle alleanze politiche senza le quali sarà impossibile affrontare le grandi riforme. Ciò che vorrei aggiungere è che per affrontare questa dura prova dobbiamo dotarci di uno sguardo più vero e più profondo su ciò che è oggi il popolo italiano. L’interrogativo che mi pongo è questo. In un mondo in cui la potenza dell’economia finanziaria si è mangiata non solo l’economia reale ma ha distrutto larga parte delle funzioni pubbliche e delle capacità di governare utilmente gli interessi che sono in gioco, che cosa diventa il problema del riformismo? Tante cose, evidentemente. Ma nella sostanza e per dirla in breve io credo che il problema attuale del riformismo sia la costruzione di un nuovo potere sociale. Detto in altro modo, è il protagonismo della gente. Se guardo allora a questo Paese dove sono nato, sono cresciuto e ho lottato io non vedo solo la decadenza economica. Mi colpisce l’intreccio ormai inestricabile tra il collasso di larga parte delle strutture dello Stato e la precarietà del lavoro, la disoccupazione giovanile, la corruzione. Penso al Mezzogiorno e alla difficoltà da parte di tanta gente che conosco di impadronirsi della propria vita. Mi sembra chiaro che il Mezzogiorno non potrà risorgere se gli daremo solo un governo dall’alto. Non illudiamoci. Chiediamoci perché tanto popolo minuto e disperato non vota noi ma Berlusconi.
Noi dobbiamo ragionare così. Ed è alla luce di questi problemi che io non comprendo come si possa costruire un partito moderno del riformismo se si resta paralizzati dalla preoccupazione di non fare accordi con il partito di Monti. Il professore è troppo un tecnocrate e un conservatore? Può darsi, ma il problema che io mi pongo è capire il mondo fuori di noi. Io non capisco come la sinistra possa governare se non considera compito suo rimettere in gioco il mondo delle professioni e dell’impresa, del saper fare e dalla cooperazione, il mondo del capitale sociale e delle forze produttive. Le ricette degli economisti sono importanti ma, dopotutto, le conosciamo a memoria e in buona parte sono dettate dell’Europa. Ciò che mi serve è capire per fare un esempio perché l’Emilia è risorta così presto dal terremoto.
Ecco come io vedo i «compromessi» con il Centro. Il professor Monti può pensare quello che vuole, ma io parlo al suo mondo e noto che il suo partito va dal miliardario Cordero di Montezemolo alla gente straordinaria che lavora con la Comunità di Sant’Egidio. Perché allora il Pd non sarebbe compatibile con Nichi Vendola? Ecco perché mi è tornato in mente quel rapporto tra il movimento partigiano e il governo con Badoglio, senza il quale non so se avremmo potuto salvare l’Italia. E la conseguenza non è stata affatto quella di mettere acqua nel nostro vino.
La verità è che le dispute attuali restano molto al di qua dei problemi reali. Può essere giusto polemizzare con il sindacato ma con quale animo? Da un lato bisognerebbe prendere atto che è finita la «rappresentanza socialista del lavoro», cioè quella grande idea che è stata alla base del movimento operaio e socialista: lo sfruttamento del lavoro dipendente come base dell’accumulazione capitalistica, e quindi la liberazione del lavoro come via al socialismo (l’operaio che, spezzando le sue catene, prende il potere). Dall’altro lato la sinistra riformista non può pensare di declassare il tema del lavoro moderno a un problema sindacale, considerandolo solo come fattore più o meno flessibile dell’economia. Quelli che guardano solo alle regole del mercato del lavoro non vanno lontano. Il fatto su cui far leva è che la potenza sociale del lavoro un lavoro che presta sempre meno fatica fisica e sempre più intelligenza non è affatto diminuita. Io dico molto di più. In una economia che produce beni immateriali, conoscenze, reti, desideri, bisogni, e bisogni non più solo del corpo ma della mente, il lavoro crea ben più che un surplus per l’economia. Crea società, crea relazioni.
Il punto nuovo è questo. Su questa base poggia il nostro programma per l’Italia. Qui sta la debolezza di una certa tecnocrazia. Ma qui sta anche il ruolo storico dell’Europa, il luogo dove si affermò quella grande conquista del Novecento che abbiamo chiamato «civiltà del lavoro». Parlo di quell’insieme di diritti ma soprattutto del riconoscimento sia pure in linea di principio (ma non solo) di una pari dignità tra il lavoro e l’impresa. Finiva davvero il secolare rapporto tra padrone e servo, e questo dava alla democrazia politica il suo fondamento. Perciò io penso che si gioca qui, sui diritti del lavoro una partita decisiva non solo per la sinistra ma per la democrazia. E tuttavia per vincerla non basterà rimanere chiusi nei vecchi confini della sinistra. Perciò è così importante che tutti gli uomini che guardano alla sinistra e credono nel progresso lavorino per la vittoria di un partito come il Pd.

L’Unità 09.02.13

"La protesta: tutti contro i tagli al Fus", di Riccardo Valdes

Diminuiscono ancora nel 2013, con un raglio che è di 7 milioni di euro superiore al previsto, le risorse del fondo unico per lo spettacolo. Dai 411 mln del 2012 si scende a poco meno di 390. Una mannaia da 21 milioni di euro.
Come sempre, il 47 per cento va alle Fondazioni Liriche (ma per effetto del taglio si divideranno 10,1 milioni di euro in meno). Il cinema vedrà il 18,59% e i teatri 16,4% con 3,4 milioni di euro in meno. Alla musica andrà il 14,10% del Fus. Molte e dure le reazioni. A cominciare dalla nota di Silvano Conti, coordinatore nazionale produzione culturale Slc Cgil : «Il finanziamento statale così ridotto si somma a una riduzione generalizzata delle risorse pubbliche decentrate destinate al settore (Regioni, Province e Comuni). Ho espresso la netta contrarietà allo Schema di Regolamento riguardante le Fondazioni Lirico Sinfoniche definendo l’operazione «la via corta di una selezione darwiniana delle Fondazioni» senza nessun profilo riformatore, auspicando di converso che nella prossima Legislatura si riprenda con vere riforme di sistema a partire dallo spettacolo dal vivo in cui inserire organicamente il segmento delle Fondazioni».
Anche Matteo Orfini, responsabile Cultura e Informazione del Pd stigmatizza l’operato del governo: «Pochi giorni fa Mario Monti aveva dichiarato al Sole 24ore che tra le priorità di un futuro Governo avrebbe dovuto esserci l’adeguamento dei fondi del Ministero per i Beni culturali a un livello più prossimo a quello di altri Paesi europei. E inveceil governo Monti ha deciso un nuovo taglio del Fus di 21 milioni di euro: certo questa non ci pare una dimostrazione di coerenza». «Semmai continua Orfini ancora una volta si dimostra chiaramente che la cultura, lo spettacolo, il cinema non siano considerati settori strategici per il futuro dell’Italia e per questo si continua a disinvestire, lasciando le consegne sull’indispensabile reintegro del Fus al governo che verrà». Il Fondo statale per lo spettacolo dal vivo e il cinema spiega ancora Orfini «era già stato tagliato con la Legge di stabilità a dicembre scorso, passando da 411 milioni del 2012 a circa 399 milioni per il 2013: dunque l’unica coerenza che si può registrare è quella dei tagli delle risorse pubbliche per la cultura e per la produzione culturale e creativa. Il candidato Monti forse si sdoppia, auspicando l’aumento delle risorse per la cultura da candidato premier, mentre le taglia da Presidente del Consiglio in carica».
I rappresentanti Agis componenti della Consulta dello Spettacolo, hanno manifestato al ministro Ornaghi la loro preoccupazione nei confronti delle attività culturali dello spettacolo, testimoniato dall’ulteriore taglio subito dal Fondo unico per lo Spettacolo. «Con l’assenza di risorse – hanno affermato i rappresentanti Agis si mette in discussione l’attività di molte imprese e dei loro lavoratori. Lo spettacolo, inascoltato, richiede da anni un serio rifinanziamento del Fus, indispensabile per riformare tutto il settore con leggi e regole incisive che possano finalmente semplificare i rapporti con la pubblica amministrazione e facilitino la capacità gestionale delle imprese». L’Agis chiede a questo punto che i candidati alle prossime elezioni si esprimano, con proposte da mantenere, sui finanziamenti e sul sostegno alla cultura e allo spettacolo».
Per l’Arci «siamo alle solite. Come già accaduto due anni fa con il Ministro Bondi, quando si vogliono coprire i buchi di bilancio una delle vittime preferite delle scelte del governo è il Fus , decurtato anche quest’anno di 20 milioni di euro. In un momento in cui la crisi mette già a dura prova il mondo della cultura e dello spettacolo l’annuncio del ministro Ornaghi è una vera e propria condanna a morte per decine di imprese e mette a rischio migliaia di lavoratori. Una pessima notizia che va ad aggiungersi ai tagli agli enti locali, di fatto non più in condizione di continuare a garantire politiche attive per la cultura sui territori, con l’inevitabile sacrificio di tante esperienze innovative, spesso di carattere associativo e partecipato, che hanno rappresentato un’originale ricchezza per questo Paese. Un Paese come il nostro, che ha un patrimonio culturale e artistico di straordinaria importanza, non può permettersi politiche miopi che, anziché fare di questo patrimonio uno strumento di traino per la ripresa e per uno sviluppo qualitativamente diverso, si limitano a mortificarlo sottovalutandone le potenzialità», conclude il comunicato dell’Arci.
E come se non bastasse piovono pietre: il mese di gennaio del 2013, infatti, ha registrato il peggior risultato degli ultimi 5 anni per gennaio, per il cinema in sala. Rispetto all’anno migliore, il 2011, calo è del 47%. Per i film italiani la quota biglietti venduti passa dal 48% al 34%.

L’Unità 09.02.13

Bersani: «La ricchezza scappa, la povertà resta»

Dal palco del teatro Regio di Torino parla Bersani. Che parte dal suicidio di un operaio a Trapani con la Costituzione in mano per dire che bisogna cambiare. E che con il voto dobbiamo archiviare Berlusconi. “Siamo un partito, rivendico Prodi, Ciampi, D’Alema”.
LA DESTRA ESISTE MA NOI LA BATTIAMO
«La Destra esiste ma noi la battiamo», conclude. «Fatemi dire due parole da segretario del Partito democratico, perché come sapete gli voglio bene, è il primo partito in Italia ed è giovane giovane». «Sta così bene, molto bene, tra le famiglie delle forze progressiste europee».

SERVE SCOSSA SU MORALITÀ E CIVISMO
«Serve subito una scossa su moralità e civismo, moralità e rapporto tra politica e cittadini», dice il segretario.

MONTI? PERSONALISMO È PER FORZA DEMAGOGICO
Bersani torna a criticare i ‘personalismi’ in politica, compreso quello di Monti. «In Italia non abbiamo percepito il totale disassamento rispetto alle democrazie del mondo». Ma il personalismo «è rigido, occasionale per forza demagogico. Ormai tutti fanno demagogia», insiste, «qualcuno si è stupito di vedere un nuovo Monti. È il meccanismo. Quando non hai il collettivo e un meccanismo democratico, c’è la persona». «Io ho fatto le primarie e non ho messo il mio nome sul simbolo, loro che si sono scelti da soli hanno messo il loro nome sul simbolo», ricorda alla platea europea.

IN UE MONTI SIEDERÀ CON BERLUSCONI?
Solo il Pd ha una collocazione certa in Europa ed è accettato, mentre dove si collocheranno gli altri candidati alle elezioni in Italia? Lo chiede Bersani alla conferenza dei progressisti europei. «Noi siamo gli unici a poter collegare un sistema politico italiano a un sistema politico europeo. Noi non siamo soli, si è visto oggi, e sappiamo precisamente dove sederci in Europa e sappiamo di essere accettati laddove andiamo a sederci», premette. «Dicano gli altri qui in Italia dove intendono sedersi e dove pensano di essere accettati. Berlusconi dove vuole sedersi ed è accettato dove vuole sedersi?», domanda. «E Monti si siede vicino a Berlusconi e Orban? Per tacere di Grillo e Ingroia. Dove si siedono?». A parte il Pd, «tutti gli altri sono figli di un sistema politico organizzato sulle persone che è sconosciuto in Europa, tutto qua. È qua il segreto. Dopo Bersani c’è il Pd, non c’è problema. Dopo Berlusconi cosa c’è lì? Dopo Monti cosa c’è ? Dopo Grillo e Ingroia cosa c’è?».

LA RICCHEZZA SCAPPA, POVERTA’ RESTA
«Lotta contro i paradisi fiscali perché la ricchezza scappa, la povertà resta», afferma Bersani raccogliendo applausi e indicando questa battaglia come uno dei “passi da fare contro la crisi”.

UE, NON PARLINO SOLO GLI EUROSCETTICI
«Il nostro sogno sono gli Stati Uniti d’Europa, una vera unione politica e democratica», esclama da Torino. Osservando che «i sostenitori di un’Europa federale e politica non devono tacere ma alzarsi e combattere. Non è possibile che sul tema Europa solo gli euroscettici facciano sentire la loro voce».

IL RIGORE NON BASTA
Pier Luigi Bersani chiarisce che l’austerità non basta per rimettere i conti pubblici in ordine. «Non è in discussione la disciplina di bilancio, che deve essere ritenuta essenziale per l’Unione monetaria, e noi in Italia siamo impegnati al raggiungimento del pareggio di bilancio strutturale nel 2013 e alla riduzione del debito», dice ai progressisti europei. «Ma per questo obbiettivo nè il rigore nè le stesse riforme interne sono sufficienti – commenta – c’è bisogno di una politica economica comune, ci vuole un governo economico dell’euro che tenga in equilibrio crescita, solidarietà e democrazia».

SU BILANCIO UE VITTORIA DI PIRRO
Bersani critica l’accordo sul bilancio Ue raggiunto ieri. «Quella discussione sul bilancio europeo non ha mostrato la consapevolezza» dei problemi che ci sono e «l’esito del vertice ci dice una cosa chiara che il problema regressione e ripiegamento europeo è ancora in corso». «L’Italia vince davvero e vince di più se vince l’Europa», sottolinea, «se alla fine di una riunione del genere festeggia Cameron vuol dire che tutte le altre sono vittorie di Pirro».

IL PPE CACCI BERLUSCONI DAL PARTITO
Il Ppe rifletta sulla presenza di Silvio Berlusconi nel gruppo parlamentare in Europa. A chiederlo, dal palco del summit dei Progressisti europei, è il segretario del Pd. «La presenza di gente come Orban e Berlusconi sposta il Ppe su un profilo alquanto conservatore. Dicessero chiaramente se ritengono che Berlusconi debba ancora fare parte del loro partito, perchè sin qui non lo abbiamo ancora capito…».

BERSANI: ARCHIVIAMO IL CAVALIERE
«So cosa volete, devo battere Berlusconi un po’ per me e un po’ per voi. Ma smacchieremo il giaguaro». Così il leader del Pd Pier Luigi Bersani a Torino. «Queste elezioni – aggiunge – non sono una semplice sfida, possono segnare un nuovo corso italiano e mettere in archivio Berlusconi e i guasti che ha prodotto in Italia sul piano economico e sociale ma anche sul piano del degrado etico». «Il berlusconismo – osserva – è stata la punta più spettacolare di una regressione populista che ha finito per minare la radice, la spinta propulsiva del progetto europeo, ci ha buttato via la materia prima dell’Europa, che è la solidarietà e il progetto comune, e senza di questa l’Europa si è trovata balbettante e impotente di fronte alla crisi finanziria».

BERSANI: ORA B. VUOL DARE 4 MLN DI POSTI DI LAVORO
“Berlusconi ha buttato via la solidarietà dell’Europa. Ora – ironizza – vuol darci 4 milioni di posti di lavoro. Ma qui si vuol riscrivere la storia”. Il segretario Pd ricorda che il Cavaliere non era da un’altra parte del mondo.

BERSANI: MARONI CONIA LA MONETA “MARONE”
E su Maroni: «Ho letto che Maroni non esclude di battere una nuova moneta in Lombardia. Io e Martin Schulz ne abbiamo abbiamo discussione e suggeriremmo di chiamare questa moneta ‘marone’. Un marone, due maroni…».

D’ALEMA: BERLUSCONI DANNO PER TUTTA EUROPA
«Noi non abbiamo timore di nessuno, gli italiani dovrebbero avere una certa preoccupazione del fatto che un Paese alla fine non sia governabile». Lo ha detto Massimo D’Alema a Torino, a proposito dell’ascesa nei sondaggi del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Quanto ad un eventuale successo di Grillo, per D’Alema «avrebbe conseguenze molto gravi, sul lavoro, sui risparmi, sulla vita dei cittadini». «Noi siamo persone abituate da una vita a stare all’opposizione. Di che cosa ci dobbiamo spaventare?». E se vincesse Berlusconi sarebbe «un danno per tutta l’Europa, non solo per gli italiani».

L’esponente Pd e presidente della fondazione Italianieuropei partecipa all’iniziativa ‘Renaissance for Europe’ con Pier Luigi Bersani e Martin Schultz. «I nostri destini sono strettamente connessi fra di loro». «Occorre liberare l’Europa – aggiunge – dalla morsa e dalla prigionia in cui il progetto europeo è stato stretto da due destre: una avara e conservatrice a Bruxelles e quelle nazionaliste populiste e becere nei paesi europei, dove qui in Italia noi abbiamo un esemplare davvero singolare».

Quanto al vertice di Bruxelles di ieri, ha avuto un «esito deludente», commenta a margine della due giorni dei progressisti europei a Torino: «L’ Europa avrebbe bisogno di altro: di slancio di investimenti, di innovazione, di ricerca». «Siamo realisti, sappiamo anche capire la necessità dei compromessi, ma questo compromesso mi pare deludente». A chi gli chiede se la delusione riguarda anche il peso avuto da Monti, D’Alema risponde: «Il peso che può avere Monti è relativo. Sono la Merkel e Cameron che hanno dato un segno conservatore e regressivo a questo compromesso. Non è un segno di slancio verso la ripresa economica e il lavoro».

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