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"Interviste elettorali sulla scuola 1 / Berlusconi", di Aristarco Ammazzacaffè

Si sa che non tutte le interviste televisive che fanno gli aspiranti leader in campagna elettorale vengono trasmesse. Dipende ovviamente dai temi. Per esempio, ce ne sono state alcune sulla scuola, promosse da RAI 1, che, registrate 10 giorni fa, non sono ancora andate in onda, nè sono state messe in programmazione. Eppure gli intervistati sono tutti i big di questa campagna elettorale, da Bersani a Berlusconi, eccetera (unico assente: Grillo, impegnato a esercitarsi, con il suo coach, a chi grida e scazzotta di più e più a lungo).

I dirigenti RAI assicurano però che, data la rilevanza dell’argomento – la scuola nei programmi dei leader – verranno trasmesse, tutte e senza alcun dubbio, subito dopo le elezioni. Così. Quasi testuale.

Le registrazioni comunque ci sono tutte, una per ciascun candidato. Ve le proponiamo in anteprima quando capita, perché da esse emerge bene quello che gli aspiranti presidenti vogliono fare per la scuola nella prossima legislatura.

La prima intervista, che pubblichiamo oggi, è a Silvio Berlusconi, detto Silvio. La visione c’è tutta. E anche le visioni.

– Nel primo consiglio dei ministri – esordisce – mettereno all’ordine del giorno, e la prego di ascotare bene, l’abolizione del taglio degli otto miliardi alla scuola, deciso quattro anni fa e che ha ridotto gli istituti scolastici all’attuale stato comatoso. È una vergogna di cui abbiamo visto i segnali più allarmanti proprio sotto questo ministro tecnico, il sedicente Profumo, che non sa neanche parlare. A differenza della Gelmini che è un’altra cosa.

– Ma come farete, visto che i provvedimenti sono già in vigore da quattro anni – obietta l’intervistatore -. E poi: non l’avete presi voi quei provvedimenti?

– Una cosa alla volta. Annullare i tagli già fatti per uno come me è una bazzecola. Ho fatto ben altro. E lo sa anche la Magistratura che continua a perseguitarmi, ma per altre ragioni. Comunque ci ho già pensato e ho messo su una squadra a tre: Brunetta, La Russa e Gelmini, che ho chiamato “degli affidabili”, che ha già individuato la soluzione. Sulla seconda domanda – saremmo stati addirittura noi ad aver deciso quei tagli – non mi soffermo. È una insinuazione fatta di bassezze e volgarità. E se lo dico è perché di queste cose io me ne intendo. E lei, in mala fede e disinformato, sta ripetendomi esattamente, senza vergognarsi, le calunnie di Bersani e di Vendola che non sanno neanche dove sta la verità. Che comunque è sottochiave. Li rassicuri.

– Ma che c’entra? – cerca di obiettare l’intervistatore.

– Scusi, mi ha invitato e non mi fa neanche parlare? Lei comunque con Mediaset ha chiuso.

– Ma…

– Niente “ma”. Mi faccia finire e non cerchi di contrastare l’effetto sorpresa. Ascolti questa.

– Cosa …?

– Noi, sempre, nel primo consiglio di ministri, non solo aboliremo il taglio degli otto miliardi, ma restituiremo il mal tolto alle scuole nel giro di un mese, due mesi, al massimo. Il tempo di fare un po’ di conti e ci arriviamo. In ogni caso, prima dell’estate e dopo l’autunno.

– Scusi, ma comunque gli studenti in questi 4 anni hanno avuto un servizio peggiorato … – ancora l’intervistatore.

– Bella osservazione. Ma noi abbiamo pensato anche a questo. Agli studenti toccherà un risarcimento che andrà, pro capite, dai mille euro l’anno a tre mila, a seconda del tipo di scuola. Massimo, comunque, 2 mila euro a persona, aumentabili. Tutti i direttori dei servizi scolastici daranno agli studenti, un “buono scuola Berlusconi” che potranno spendere quando e come vogliono, anche in discoteca, in omaggio al principio di libertà che, come si sa, per noi è un’ invenzione che ci portiamo anche nel nome. Ho già fatto, al riguardo, delle convenzioni con case editrici come la Mondadori e produttori cinematografici come Medusa, solo per fare alcuni nomi che mi sono cari.

– Comunque i tagli di quattro anni fa li ha decisi il suo governo.

– Ci riprova con questa calunnia! Che è esattamente dello stesso tipo di quelle che utilizza chi mi accusa di aver depenalizzato il falso in bilancio o corrotto giudici o di essermi fatto delle leggi ad personam per sottrarmi alla giustizia e favorire le mie aziende. O, addirittura, di aver ridicolizzato l’Italia nel mondo e di aver fatto questo abominio di legge elettorale per i miei interessi… Dica la verità: voleva snocciolare lei questa ignobile litania? E aggiungervi magari: la ricostruzione fallimentare dell’Aquila, ancora tra le macerie, e il salvataggio dell’Alitalia che adesso dovremo svendere ad Air France? Lo dica che vuole allinearsi anche lei a quei diffamatori di mezza tacca, contro i quali hanno già sporto denuncia sia Ghedini che gli altri miei avvocati; tutti riconfermati, tra l’altro, per la prossima legislatura assieme ad altri 13 già condannati! Un record – me lo faccia dire – in linea con la mia storia personale e di cui vado orgoglioso.

– Ma…. – ancora l’intervistatore.

– Insiste? Contro queste accuse infamanti, solo due appunti. Primo: lei non sarà mai assunto in Mediaset. E neanche alla RAI la vedo bene. Si ricordi di Biagi, un nome per tutti. Secondo – e primo per importanza -. Se lo metta bene in mente… Lei è abituato a ragionare qualche volta? Ragioni allora: se queste calunnie fossero fondate, avrei mai potuto rimontare nelle preferenze elettorali così tanto in poche settimane e arrivare addirittura al sorpasso? E conquistare ancora una volta la massa degli italiani? Oppure anche lei pensa che gli italiani siano tutti degli allocchi smemorati e dei creduloni e che io non sia il pifferaio che sono? La vostra è la illibertà di chi non crede nel popolo sovrano. Noi comunque i provvedimenti annunciati sulla scuola li prenderemo tutti nel primo consiglio dei ministri. E mica solo questi. Sarà un fuoco pirotecnico. Ditelo a studenti e insegnanti. Per questi ultimi poi ho una sorpresa straordinaria che aumenterà il loro orgoglio professionale: siccome ho intenzione, sempre nel primo consiglio dei ministri, di dimezzare il numero di parlamentari, estenderò questa decisione anche al numero degli insegnanti. È una equiparazione che meritano. Adesso basta. Vuoi venire a lavorare a Mediaset? Ho già scritturato anche Santoro e Travaglio.

da ScuolaOggi 09.02.13

"Nicole e Rosy il solito volgare copione di Silvio", di Sara Ventroni

Nessuno sentiva il bisogno di tornare sull’argomento ma il cav vuole farci sapere tutta la verità sulle donne. Siamo già con la mano sulle maniglie antipanico, pronti per fuggire dall’aneddoto dell’attempato signore che attacca bottone sull’autobus. Il maliardo che millanta cospicui risparmi per irretire la preda. L’ex premier dall’occhio languido, che sorride davanti a un generoso décolleté e lancia un invito galante per pranzo, taxi incluso.
Questo è il senso di Berlusconi per le donne. Di più non può fare. Ma per fortuna il Cav non frequenta i mezzi pubblici e le sue vittime sono spesso consapevoli. Costretto dai sondaggi a cavalcare l’onda del rinnovamento, il satiro nazionale vernicia di rosa antico il solito copione machista per suggerire l’idea che lui ci tiene particolarmente alla questione dell’emancipazione femminile. Solo per questo nell’intervista mattutina a «Coffee Break» il cavaliere scarica in diretta Nicole Minetti, ma non resiste alla tentazione della battuta da palanca dell’ippodromo. Non si lascia sfuggire il lapsus volontario, da gigolò in brillantina che ammicca a notti da sogno ancora prima di mezzogiorno. Ma le palpebre cedono. La cravatta di Marinella tira il collo. Il fard si conficca nelle rughe come lo sporco sotto le unghie. E questo è un problema.

Noi donne rischiamo di passare dalla rabbia alla pietà. Per fortuna siamo scaltre abbastanza da sospettare che questa sia solo una mossa tattica. L’anziano non è più autosufficiente. Nella scheda personale registriamo i dati: il soggetto millanta un passato da latin lover. Può contare su una larga disponibilità economica.

Ha case di proprietà, una schiera di avvocati e una corte, ormai ristretta, di intrattenitori di fiducia. Questa volta, però, temiano che Silvio voglia muoverci a compassione. Gli uomini, più che le donne, devono resistere alla tentazione di un’immedesimazione postrema.

Mentre si scusa per l’impresentabilità di certe candidature, Silvia non manca di strizzare l’occhio alla giuria popolare di questo ventennio, per captare la benevolenza del maschio italiano, abbonato al bromuro allegro della camerata.

Se noi donne decliniamo senza difficoltà l’offerta del ruolo di badanti, ai maschi stavolta è chiesto di non farsi compari di briscola. Al massimo possono permettersi un buffetto in testa, senza doversi preoccupare di scarmigliare l’impasto colloso del riporto.

Per questo resta un mistero il nuovo attacco a Rosy Bindi. I maligni direbbero che chi disprezza compra. Effettivamente lo sanno tutti, ormai. Perfino le corsiviste dei femminili, che dovrebbero sconvolgere la morale dei borghesi: il Cav avrebbe quanto mai bisogno di incontrare finalmente una donna vera. Una che gli tenga testa. E se torna sull’argomento Rosy, cominciamo a sospettare che la battuta sia già un’ammissione di colpa.

Ma ora è inutile rinvangare. La faccenda ha già una sua cronologia. Siamo legittimati a parlare di una liason unilaterale. Silvio rincorre Rosy: la provoca, la stuzzica, ma Rosy gli dà picche. Sempre. Una volta, da Vespa, il Cav disse che di Rosy apprezzava l’intelligenza più che la bellezza. Non poteva essere una proiezione, per un uomo che non dispone di nessuna delle due qualità richieste. Ma Rosy è stata una signora, e non ha mai voluto rimarcare i termini contrattuali della questione.

La verità è che arriva per tutti il momento in cui bisogna rassegnarsi. In questo caso si tratta di un prolasso molto complesso. Qualcosa che non coinvolge solo le prestazioni meccaniche da Don Giovanni, ma i ritmi circadiani del sistema neurovegetativo.

Per salvarsi l’anima dalla cilecca di febbraio, Silvio addossa la colpa sugli altri. Anche sui morti. Ci racconta tutta la verità su Nicole Minetti. L’ha voluta Don Verzé perché la ragazza parlava bene inglese e poteva farsi carico, in Regione, dei problemi del Paese. Peccato, poi, se gli italiani non la amano. Ma Nicole è più popolare di Belen. A questo punto, da donna a donna, vogliamo toglierci uno sfizio. Ci basta infatti una citazione, già agli annali, per chiarire definitivamente quello che le donne pensano di Berlusconi. Noi no. Non siamo a sua disposizione.

L’Unità 09.02.13

"La produzione industriale torna a vent'anni fa", di Giuseppe Caruso

Crolla la produzione industriale. A comunicarlo è l’Istat, secondo cui nel 2012 c’è stato un calo del 6,7% rispetto all’anno precedente, il peggior dato dal 2009. Per quanto riguarda i volumi, cioè la quantità di beni prodotti, si tratta invece del livello più basso almeno dal 1990. I dati congiunturali dell’industria confermano la situazione drammatica in cui versa la nostra economia, e si aggiungono alle notizie della caduta dell’occupazione (abbiamo perso 100mila posto in un mese, a novembre) e della riduzione del reddito dei lavoratori e dei pensionati. Un’emergenza che viene denunciata da sindacati e imprese che sollecitano le forze politiche a una reazione forte, a una svolta netta di politica economica. DICEMBRE L’unico dato appena positivo arriva dal dicembre 2012, in cui l’indice destagionalizzato della produzione industriale ha fatto segnare un aumento dello 0,4% rispetto al novembre dello stesso anno. Ma se paragonato all’indice dell’anno precedente, è diminuito del 6,6% in termini tendenziali. Nel trimestre ottobre-dicembre la produzione industriale ha registrato una flessione del 2,2% rispetto al trimestre precedente. Gli indici corretti per gli effetti di calendario registrano, a dicembre 2012, variazioni tendenziali negative in tutti i raggruppamenti principali di industrie. Le diminuzioni più marcate riguardano i beni intermedi (-9,4%) e i beni di consumo (-7,7%), mentre flessioni più contenute si rilevano per l’energia (-3,7%) e per i beni strumentali (-2,5%). Nel confronto tendenziale si rilevano flessioni in tutti i settori dell’industria. Le diminuzioni più ampie riguardano la fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche, altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi (-16,8%), l’industria del legno, quella della carta e della stampa (-11,4%), l’attività estrattiva (-10,8%) e la fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (-10,7%). Sempre a dicembre si registrano variazioni congiunturali positive dell’indice destagionalizzato per i comparti dei beni strumentali,(+4) , del’energia (+1,5%), mentre il raggruppamento dei beni intermedi segna una variazione negativa (-0,7%). A dicembre il calo tendenziale dell’indice generale grezzo è stato trainato dai beni intermedi (-3,6%) e dai beni di consumo non durevoli (-3,2%) e dai beni strumentali (-1,7%). La produzione di autoveicoli in Italia ha subito una flessione del 26,5% rispetto al mese precedente. Il Codacons ha commentato i dati parlando di imprese «ormai strangolate come le famiglie, è necessario ridurre i costi delle aziende, perché il dramma è che questo crollo è solo l’ultimo in ordine di tempo. Le imprese sono sotto la soglia di sopravvivenza al pari dei consumatori, avendo già utilizzato tutti i fondi di riserva, essendosi già indebitare oltre il sostenibile con le banche, avendo già tagliato tutti gli investimenti possibili ed avendo già chiesto ai soci il massimo della ricapitalizzazione». SEGNALI Per Elena Lattuada, segretario confederale della Cgil, i datti dell’Istat sono «segnali inquietanti, come quelli drammatici sulla cassa integrazione di pochi giorni fa, perché fotografano un Paese che ha sempre tratto forza dalla sua caratura manifatturiera e che rischia di non farcela e di rendere irreversibilmente strutturale il suo declino». «L’urgenza» dettata dai numeri» continua la Lattuada «frutto di cinque anni di non governo della crisi, impone da subito lo sblocco delle risorse per la cassa in deroga e il rifinanziamento degli sgravi per i lavoratori licenziati da piccole imprese. Mentre al prossimo governo indicano il varo immediato di politiche che mettano al centro l’industria, anche e soprattutto attraverso azioni che possano determinare la crescita dimensionale del tessuto di piccole e medie imprese». Per Matteo Colaninno, responsabile finanza d’impresa del Pd, la ricetta per uscire dalla crisi è quella presentata dal suo partito: «Sblocco dei pagamenti per 50 miliardi in cinque anni del debito accumulato dalla pubblica amministrazione nei confronti delle imprese, un piano di interventi nell’ edilizia pubblica per 7,5 miliardi rivolti alle scuole e alla sanità e misure di politica industriale per favorire ricerca, innovazione e rafforzamento patrimoniale delle imprese»

L’Unità 09.02.13

Scuola/ Francesca Puglisi (Pd): precari, reclutamento, autonomia, ecco cosa faremo

Dopo il Pdl e Rivoluzione civile, è la responsabile scuola del Pd, Francesca Puglisi, a parlare di programmi con ilsussidiario.net. Va così avanti il confronto a più voci, realizzato sulla base delle stesse domande, che questo giornale ha proposto alle principali formazioni politiche candidate alle elezioni del 24 e 25 febbraio. Dai precari all’autonomia, dalla spinosa questione della valutazione di docenti e scuole al reclutamento dei nuovi docenti fino ad autonomia e parità: ecco le proposte del partito che candida Pier Luigi Bersani alla presidenza del Consiglio.

Francesca Puglisi, ci dica qual è l’idea portante del vostro programma di coalizione, quella che dovrebbe distinguervi dalle altre forze politiche.
L’idea chiave è, prima di tutto, di metodo politico: la scuola ha subìto tagli, insulti e riforme calate dall’alto. Se vogliamo restituire centralità al sistema nazionale di istruzione, allora non possiamo che ripartire dalla condivisione. Qualsiasi legge, prima di divenire tale, dovrà essere una proposta discussa e condivisa dalla più larga parte del mondo della scuola. I partiti devono fare un passo indietro per poterne fare uno avanti: più umiltà nel confronto con i vari soggetti che lavorano e vivono nella scuola, più capacità di ascolto, e anche più lungimiranza, più capacità di guardare oltre. Questa restituzione di fiducia deve essere accompagnata da una restituzione delle risorse e per farlo dovremo agire sul bilancio dello Stato. Non vogliamo raccontare favole, quindi niente promesse mirabolanti, ma l’impegno concreto a riportare gradualmente l’investimento almeno al livello medio dei Paesi Ocse. Taglieremo altrove, poiché consideriamo l’istruzione un investimento e non una spesa, e le prime tre urgenze che affronteremo riguarderanno l’edilizia scolastica, la dispersione e l’organico funzionale.

A proposito di docenti. Prima del governo Monti è stato avviato dal governo Berlusconi il Tfa basato sulla separazione tra abilitazione professionale e reclutamento del personale. Il Tfa transitorio si sta svolgendo, pur in mezzo a difficoltà. Il Tfa ordinario dovrebbe partire subito dopo, come pure i Tfa speciali. Andrete avanti sulla strada intrapresa? Cosa intendete fare?
Abbiamo esaminato il regolamento del Governo sui Tfa speciali e crediamo che sia una soluzione ragionevole, e comunque parziale, al problema che riguarda decine di migliaia di docenti che da tempo attendevano un riconoscimento del lavoro che da anni svolgevano nelle scuole. Sappiamo che questa soluzione non accontenta tutti, sappiamo che non è certo risolutrice del precariato, ma sappiamo anche che si tratta di una giusta risposta a giuste esigenze. Dopo di che, ben altra è la strada che intendiamo percorrere se dovesse toccare a noi governare il paese. Dobbiamo metter mano al più presto a un nuovo modello di reclutamento, equo e trasparente, che dia certezze ai precari delle graduatorie e un percorso che offra ragionevoli speranze ai giovani che desiderano dedicare la propria vita professionale all’insegnamento.

Profumo ha bandito un concorso. Al tempo stesso la legislatura si chiude senza che un nuovo regolamento per il reclutamento dei docenti sia in vigore. Qual è il vostro progetto in merito? Come deve avvenire l’assunzione degli insegnanti: a) per impedire la formazione di nuovo precariato? b) per selezionare personale che sia effettivamente capace di insegnare.
Senza rifare la storia del reclutamento del personale docente nella scuola italiana, sappiamo bene come dagli anni 80 in poi, per la formazione e il reclutamento, siano state approvate continue riforme, che non hanno fatto altro che stratificare diritti, troppo spesso lesi, e sistemi ingarbugliati di punteggi, che di fatto hanno alimentato lo sfruttamento e la precarizzazione di una categoria importante, fondamentale per la vita del Paese, quale quella dei docenti.

A chi pensa esattamente?
Si pensi ai “sissini” (coloro che hanno frequentato le Ssis, ndr) contro i precari delle graduatorie, e poi ai precari favorevoli all’inserimento “a pettine” contro quelli favorevoli all’inserimento “a coda”, e oggi ai Tfa ordinari contrari ai Tfa speciali: tutto questo fa male alle persone e al sistema dell’istruzione, perché alla precarietà del vivere degli insegnanti, va aggiunto il danno della precarietà dell’apprendere. Migliaia di studenti ogni anno salutano maestri e professori a giugno, nella quasi certezza di non ritrovarli a settembre, dovendo quindi iniziare il proprio lavoro daccapo. La nostra proposta prevede un piano pluriennale di esaurimento delle graduatorie per eliminare la precarietà dalla scuola (non costa un euro in più stabilizzare chi lavora su posti vacanti) e offrire la necessaria continuità didattica agli studenti. Occorre, poi, un nuovo sistema che leghi la formazione iniziale al reclutamento, selezionando tramite concorso i migliori laureati per l’accesso alla formazione iniziale, secondo numeri programmati al fabbisogno; anno di prova attraverso tirocinio e supplenze brevi accompagnati da un insegnante esperto, firma del contratto a tempo indeterminato. Se tocca a noi, questo sarà il nostro impegno.

Si è parlato in tempi recenti di assunzione diretta dei docenti da parte di scuole o reti di scuole, sulla base dei posti disponibili e dell’offerta formativa di ciascuna scuola. Cosa ne pensa?
Siamo contrari all’assunzione diretta, poiché inevitabilmente porterebbe a favoritismi, a un crescente nepotismo, soprattutto in un paese come il nostro dove, e lo si è visto spesso purtroppo, già si fa fatica a rispettare le regole che ci sono. Un meccanismo di assunzione diretta non premierebbe gli insegnanti migliori, ma quelli che hanno più santi in paradiso o magari una certa tessera di partito o sindacale o associativa in tasca o quelli residenti in una zona piuttosto che in un’altra. Basta ricordare gli appelli leghisti per avere insegnanti “padani” nelle scuole del nord, per immaginare ciò che potrebbe accadere.

Si può valutare un docente? Perché e chi deve presiedere a questo compito?
La valutazione non può essere il “premio o la punizione” per il singolo docente, e il fallimento di Valorizza, il progetto del ministro Gelmini basato sulla “reputazione” individuale è lì a dimostrare come altri debbano essere i metodi. Crediamo che nella scuola non serva maggiore competizione tra docenti, ma una migliore collaborazione. Lo testimonia la scuola primaria, la scuola eccellente prima dei tagli, dove il lavoro e la cooperazione di quei team didattici che la Gelmini ha rottamato permetteva ai bambini e alle bambine italiane di avere livelli di apprendimento tra i più alti d’Europa. Quella cooperazione tra docenti andrebbe incentivata nella scuola secondaria di primo e secondo grado.

Alla valutazione deve o no corrispondere una diversa retribuzione? Ritiene che scatti e anzianità siano la sola strada possibile?
Gli scatti di anzianità non sono l’unica strada possibile per differenziare le carriere degli insegnanti. A quelli si possono aggiungere percorsi di valorizzazione delle competenze dei docenti, svolgendo appieno quella libertà di organizzazione della didattica che è stata già da noi introdotta con la legge dell’autonomia. Questa discussione deve essere affrontata con il nuovo contratto nazionale, che deve permettere una approfondita e aperta discussione per restituire prestigio alla professione di insegnante.

Secondo lei è o non è necessario ipotizzare la definizione di un nuovo stato giuridico dei docenti?
Dal Regio Decreto Casati del 1859 a oggi, qualche passo nello stato giuridico degli insegnanti è stato fatto, e quando è avvenuto un cambiamento giuridico, esso è sempre stato collegato a una profonda riforma del mondo della scuola. Anche in questa legislatura, il centrodestra ha provato a far passare un nuovo stato giuridico, mentre Tremonti stava portando alla scuola il più feroce attacco della storia repubblicana. Verrebbe da chiedersi, allora, se la modifica dello status non sia direttamente collegata al tentativo di modificare il dna della scuola italiana, trasformandola da istituzione eminentemente pubblica a istituzione privata.

Veniamo alla valutazione delle scuole. Che ruolo deve/può giocare la valutazione dei singoli istituti per il miglioramento del nostro sistema scolastico?
Un sistema di valutazione è indispensabile, perché è il giusto contraltare all’autonomia scolastica. La valutazione deve essere uno strumento di lavoro utile agli insegnanti e alle scuole per permettere di guidare i ragazzi e le ragazze ad avere livelli di apprendimento, abilità e competenza paragonabili ai loro coetanei europei. Più che il meccanismo premio/punizione, ci sembra utile una valutazione efficace che indichi e imponga percorsi di miglioramento (formazione, risorse tecnologiche e finanziarie) alle scuole che mostrano gravi deficit nell’offerta formativa.

Questo cosa comporta?
Siamo convinti che nessuna misura singola può cogliere tutti gli aspetti del lavoro educativo: occorre quindi combinare osservazioni da punti di vista diversi. Inoltre, nessun sistema di valutazione esterno è in grado di individuare il contributo del singolo docente: quello che conta è il risultato del lavoro di squadra di tutto il personale della scuola. La valutazione deve servire a far raggiungere a ciascuna scuola il massimo del proprio potenziale, accompagnandola verso il miglioramento, con l’istituzione di un unico Istituto Nazionale per la Valutazione e la Ricerca Educativa. Quindi la valutazione deve essere riferita alla scuola nel suo insieme e basarsi su indicatori di apprendimento degli studenti, osservazione diretta di esperti, analisi dell’efficacia della scuola per gli sbocchi educativi o lavorativi successivi: il tutto ovviamente depurando dalle condizioni di partenza degli studenti e dal contesto socio-economico in cui opera la scuola.

Cosa pensa delle rilevazioni nazionali Invalsi sull’apprendimento degli studenti? Il suo partito cosa propone?
Non è con l’Invalsi che si alza il livello di apprendimento, ma le rilevazioni debbono essere uno strumento dato in mano agli insegnanti per capire se ciò che stanno facendo può essere migliorato. Crediamo anche che sia stato un errore utilizzare le prove Invalsi per dare voti ai ragazzi, e non si è investito abbastanza per aiutare il dialogo tra l’istituto e gli insegnanti, dialogo che va ripreso, sostenuto e migliorato.

La legge sulla parità scolastica (62/2000) comporta la distinzione tra scuole pubbliche e paritarie nel quadro di un unico sistema nazionale di istruzione e formazione. Secondo lei la parità può dirsi oggi realizzata? Cosa fare?
La legge di parità è stata votata da tutto il centrosinistra di governo, dai Comunisti italiani all’Udeur, ed è stata emanata perché in precedenza i fondi alle scuole private erano erogati senza alcun criterio. Ora possono ricevere fondi dallo Stato solo le scuole che svolgono una funzione di pubblica utilità. Sappiamo che i tagli del governo di centrodestra hanno danneggiato pesantemente sia le scuole statali, sia le paritarie. Oggi una contrapposizione non avrebbe senso: dobbiamo far sì che l’intero sistema nazionale, rispettando rigorosamente le leggi, faccia un passo avanti per il bene del Paese.

L’autonomia scolastica è da considerarsi già attuata? Secondo il suo partito, nel quadro di una autonomia compiuta (non solo funzionale ma anche giuridica e finanziaria) una scuola potrebbe ricevere direttamente risorse finanziarie? A quali condizioni?
L’autonomia scolastica è ancora tutta da realizzare, e con i tagli dei governi di centrodestra, con la concezione della scuola come specchio della società, anziché come ascensore sociale, ben difficilmente si sarebbe potuta attuare. Autonomia non significa, però, parcellizzare il sistema scolastico italiano in tante scuole dotate ognuna di un proprio status giuridico e finanziariamente lasciate ai propri destini. Dobbiamo tornare a rileggere con attenzione la nostra Carta Costituzionale: la scuola non è un “servizio” che lo Stato eroga ai cittadini, dobbiamo invece considerarla un vero e proprio organo costituzionale, cui è affidato il compito, dall’articolo 3 della Costituzione, di rimuovere gli ostacoli di origine economica e sociale che si frappongono fra i cittadini e la loro piena partecipazione alla vita economica e sociale del Paese. Pensare a una “scuola di mercato” significherebbe ingessare per sempre le differenze di censo e rinunciare a ogni prospettiva di reale mobilità sociale. I livelli di apprendimento che dobbiamo garantire dovrebbero essere uguali da Aosta a Lampedusa, dal centro di Milano alla sua periferia, e per far questo dobbiamo mantenere forte un sistema nazionale pubblico di istruzione. Autonomia significa meno burocrazia, meno centralismo verticistico ministeriale, più spazio alla innovazione didattica, più responsabilità per i vari attori della scuola, non significa che lo Stato detta le regole e poi fa da arbitro, significa anzi che lo Stato e gli enti locali, secondo responsabilità ben definite, sostengono le scuole, i docenti, gli studenti, i genitori, gli Ata, le istituzioni pubbliche e private, affinché il sistema funzioni meglio.

Quindi?
Credo che sia necessaria una forte collaborazione tra scuole, enti locali e imprese per rilanciare l’istruzione e la formazione tecnica e professionale e sostenere il Made in Italy nel mondo. Siamo stati un grande Paese industriale quando abbiamo avuto eccellenti periti industriali. Vogliamo investire nella costituzione di poli dell’istruzione e formazione tecnica e professionale dove si possano innescare virtuose sinergie tra scuole, enti di formazione, mondo dell’università e della ricerca, imprese, enti locali. È necessaria una strategia nazionale che preveda la piena realizzazione di “tutti i tasselli” delle filiera professionalizzante − percorsi di IeFp, Ifts, Its; apprendistato – individuando anche nella nuova programmazione comunitaria le risorse finanziarie necessarie.

http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2013/2/8/SCUOLA-Puglisi-Pd-precari-reclutamento-autonomia-ecco-cosa-faremo/361647/

"Lombardia, la truffa del federalismo amorale", di Tito Boeri

C’è una proposta shock che può essere raccolta solo da uno schieramento che vada da Monti a Vendola passando per Bersani. Perché è questa l’unica potenziale coalizione del dopo voto che avrà in Parlamento i numeri per farlo e che può essere credibile nel prendersi questo impegno. Si tratta di porre un freno all’autonomia irresponsabile di Regioni ed enti locali, spacciata per federalismo dalla Lega Nord, per tagliare davvero i costi della politica
locale. Eper impedire che scandali come quelli dei festini nel Lazio e dei rimborsi per la ristrutturazione della casa di Bossi in Lombardia possano ripetersi. Occorre permettere al Parlamento italiano di porre un tetto alle spese dei consigli regionali, provinciali e comunali in termini di compensi ai consiglieri, convegni, spese di rappresentanza e rimborsi ai gruppi consiliari. Oggi questo non è possibile. I principi del cosiddetto federalismo fiscale inseriti nella nostra Costituzione con la riforma del Titolo V sanciscono, all’articolo 119, che gli enti locali hanno piena “autonomia finanziaria di entrata e di spesa”. Dato che sono state decentrate le spese, ma non le entrate, questo significa che i politici locali possono spendere liberamente i soldi raccolti da altri livelli di governo senza temere di venire per questo puniti dagli elettori. Questo principio “federalista” impedisce che governo e Parlamento possano porre limiti alla spesa pubblica delle Regioni e degli enti locali. Si possono porre vincoli ai saldi di bilancio, come ad esempio stabilito nell’ambito del patto di stabilità interno. Si possono anche fissare per legge limiti massimi al numero di consiglieri, come fatto dal Governo Monti. Ma è incostituzionale imporre limiti di spesa complessivi o su voci specifiche, come, ad esempio, le spese degli organi elettivi, l’unico modo per porre davvero un freno ai costi della politica locale. Perché i tetti al numero di cariche elettive, fissati in base al numero di abitanti, non impediscono ai consigli di gonfiare i compensi o le spese per i gruppi consiliari. E stranamente moltissimi Comuni hanno un numero di abitanti appena sopra la soglia che permette di avere un consigliere in più, mentre sono pochissimi i Comuni al di sotto di queste soglie.
Questa autonomia irresponsabile è un’anomalia italiana, imposta dal federalismo della Lega Nord, che, non a caso, continua a non correggersi. Quando Maroni propone che “i territori si tengano una quota delle loro imposte”, quelle che in gergo si chiamano “compartecipazioni”, chiede in realtà agli elettori di firmare un assegno in bianco e di consegnarlo ai futuri consiglieri della Lombardia. Gli amministratori locali potranno, infatti, continuare a decidere su quanto concedersi come remunerazione, quanto dare ai propri gruppi consiliari, se rimborsare anche i festini, le creme da viso e i lecca lecca, senza che ci sia alcun vincolo imposto dall’esterno, cioè da chi non riceve questi soldi. Sono questi gli incentivi perversi del federalismo leghista, sostenuto con la spada sguainata e rivolta verso il cielo dalla coalizione che oggi propone Berlusconi a Palazzo Chigi.
Basterebbe tornare al vecchio articolo 119 della Costituzione, che poneva un argine alla discrezionalità dei politici locali stabilendo che l’autonomia finanziaria delle Regioni può essere esercitata “nelle forme e nei
limiti stabiliti da leggi della Repubblica”. Contestualmente si potrebbe fissare per legge un limite alle spese dei consigli regionali, magari azzerando quelle dei gruppi consiliari che hanno dimostrato troppa fantasia, per usare un eufemismo, nell’utilizzare queste risorse. Si limiterebbe così l’autonomia irresponsabile, liberando risorse per altri impieghi delle risorse pubbliche, dunque per l’autonomia locale vera, quella che serve ai cittadini anziché ai politici. Si dirà che le modifiche costituzionali richiedono tempo, ma il solo annuncio di questo intervento può essere immediatamente efficace quando accompagnato dall’impegno di tutti i governatori che ci stanno a rispettare fin da subito questi vincoli, nell’ambito delle intese previste dall’articolo 117 della Costituzione.
È una proposta contro “il localismo amorale”, contro gli sprechi, la corruzione e i clientelismi della politica locale. Al contrario delle altre proposte shock, è fattibile perché non comporta nuovi impegni di spesa, ma al contrario risparmi. Ed è a prova di imitazioni e rilanci, come quelli cui stiamo assistendo nella gara a promettere tagli alle imposte. Infatti, secondo le simulazioni del voto al Senato e alla Camera, una potenziale
coalizione Monti-Bersani-Vendola è l’unica che può avere i numeri in Parlamento per varare una legge di modifica costituzionale. Inoltre, sono queste formazioni quelle che possono vantarsi di avere fatto i maggiori sforzi per migliorare la selezione dei candidati, sia attraverso le primarie che con i filtri alle candidature imposti da Bondi. In effetti, come mostra l’analisi delle liste elettorali che verrà presto ospitata su lavoce.info, il Pd è il partito che ha maggiormente rinnovato le proprie pattuglie parlamentari, mentre Sel e Lista Civica non hanno candidati soggetti ad azione penale. Vero che le primarie hanno anche rafforzato il peso dei politici locali, tra cui molti ex sindaci e consiglieri regionali e comunali. Ma è nel loro stesso interesse prendere oggi un impegno di fronte a tutti gli elettori a limitare il localismo amorale, rappresentato ai massimi livelli in altre liste presenti a queste elezioni. Perché porre argini alla discrezionalità dei politici locali, farli rispondere del loro operato di fronte agli elettori, serve a porre argini all’antipolitica che altrimenti rischia di travolgere tutto, anche i bravi amministratori e gestori della cosa pubblica nei territori.

La Repubblica 09.02.13

"Vincono gli euroscettici con quell’accordo-beffa l’economia non ripartirà", di Andrea Bonanni

Il Parlamento europeo considerava inaccettabile scendere sotto la soglia dei 960 miliardi. Dopo 25 ore di negoziato ininterrotto, i capi di governo se ne sono usciti con un bilanciobeffa che prevede impegni di spesa per 959 miliardi e impegni di pagamento per 908. Lo spirito gesuitico del presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, questa volta ha superato se stesso. Ma certamente si è spinto oltre la soglia della credibilità.
Adesso tutti naturalmente parlano di «un buon compromesso », ognuno guardando alle cifre che gli fanno più comodo. Ma il senso dell’accordo raggiunto ieri è abbastanza semplice: ha vinto Cameron e ha perso l’Europa. Per la prima volta la Ue taglia i propri bilanci rispetto al passato e certamente rinuncia ai mezzi necessari per mettere in campo politiche efficaci di stimolo alla crescita, alla competitività, alla ricerca e alle nuove tecnologie. Questi settori-chiave restano più che mai affidati alle politiche (e ai finanziamenti) nazionali. I Paesi ricchi del Nord, che non a caso peroravano la necessità dei tagli in nome dell’austerità, ne ricavano un piccolo vantaggio competitivo in più.
Nell’amarezza per un cattivo accordo, l’Italia può trarre più di un motivo di soddisfazione. Restiamo uno dei Paesi che versano nelle casse europee più di quanto ne ricevano, nonostante il nostro indice di prosperità relativa stia ormai scendendo leggermente al di sotto della media comunitaria. Tuttavia Monti è riuscito a rimediare al disastroso accordo firmato nel 2005 da Berlusconi, che ci aveva portato, nel 2011, a un saldo passivo di oltre sei miliardi. Sulla media dei sette anni il nostro contributo alle casse europee scende da 4,5 a 3,8 miliardi annui: in percentuale del Pil, dallo 0,28 allo 0,23. Tra i contributori netti al bilancio Ue, siamo il Paese che più migliora la propria posizione, anche perché eravamo quelli che, in termini relativi, stavano messi peggio di tutti.
Ma la partita non è finita con la maratona di questi due giorni.
Per la prima volta, grazie al Trattato di Lisbona, il Parlamento ha poteri di codecisione anche sulle prospettive finanziarie. E sicuramente intende dare battaglia.
Schulz ha chiesto e ottenuto una clausola di revisione che tra due anni permetterà di rivedere le cifre decise ieri. E nei mesi che passeranno da ora al voto del Parlamento, previsto in giugno, gli eurodeputati cercheranno di colmare almeno in parte la voragine che separa gli impegni di spesa e gli impegni di pagamento.
Questa infatti è forse la principale fragilità dell’accordo raggiunto ieri. Una certa differenza tra impegni di spesa e pagamenti effettivi è fisiologica, visto che non tutti i programmi finanziati con fondi europei vanno a buon fine. E dunque ogni anno risultano cifre messe a bilancio ma non spese effettivamente. Tuttavia calcoli di opportunismo politico hanno portato a ingigantire questa discrepanza con risultati disastrosi.
In sostanza, con l’accordo di ieri, i governi si impegnano a spendere 960 miliardi, ma poi, al momento di pagare le fatture, i Paesi del Nord si rifiuteranno di superare la soglia degli impegni di pagamento, fissata a 908 miliardi. Già nei sette anni dell’intesa precedente, questa dicotomia ha fatto accumulare un deficit crescente in modo esponenziale. Alla fine del 2011 la Commissione, che gestisce il bilancio Ue, aveva impegni di spesa che superavano di tre miliardi gli impegni di pagamento. Nell’ottobre 2012 questa cifra era lievitata fino a 10 miliardi. A fine anno, secondo alcune stime, ha raggiunto i 15 miliardi. Nessuno è in grado di dire a quanto ammonterà alla fine del 2013, quando si chiuderà la contabilità del settennato precedente. Quello che è certo è che quel deficit si trasferirà alla nuova gestione, che dunque partirà con un onere negativo di almeno 15-20 miliardi. E, visto gli accordi sottoscritti ieri, l’Europa continuerà ad accumulare nuovo fabbisogno e a non pagare le fatture che pure i governi hanno accettato di sottoscrivere.
Se questa non è una truffa, è certamente una beffa ai danni dei contribuenti e soprattutto degli elettori europei, che vengono così ingannati sulla reale natura degli accordi sottoscritti dai loro capi di governo. L’importante, per i leader nazionali, è uscire dalla sala del Consiglio cantando vittoria. Ma l’importante, per i cittadini, sarebbe conoscere la verità. Se il Parlamento riuscirà a obbligare i governi ad un minimo di onestà, avrà reso un servizio all’Europa.

La Repubblica 09.02.13