presso l’azienda B.Braun, via XXV Aprile
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Università di Modena e Reggio Emilia – Intitolazione a Giuseppe Dossetti del palazzo universitario di viale Allegri a Reggio Emilia.
Intenso programma di iniziative a Reggio Emilia in occasione del centenario della nascita di Giuseppe Dossetti, partigiano, uomo politico, padre costituente, giurista e docente universitario, monaco e sacerdote animato da spirito riformatore e innovatore. A Giuseppe Dossetti l’intitolazione del Palazzo universitario di via Allegri, Sabato 9 febbraio 2013, a partire dalle ore 10.30.
“Per la città di Reggio Emilia, ma anche per Modena, – afferma il Rettore prof. Aldo Tomasi – Dossetti rappresenta una limpida figura di intellettuale a tutto tondo, alieno da pregiudizi, capace di schierarsi con decisione e fermezza dalla parte delle sue convinzioni, anche quando le sue idee non coincidevano col pensiero e la cultura dominanti. Questo tratto del suo carattere e della sua impronta scientifico-culturale ne fanno un esempio per i tanti studenti che avranno modo di calcare queste aule. Intitolando a lui questo spazio abbiamo la fondata speranza che l’evocazione del suo nome alimenti la curiosità di avvicinarsi alla sua conoscenza e stimoli la passione di approfondire il contributo morale che questo ha lasciato in eredità”.
Programma
Ore 10.30 scopertura della targa
Ore 10.45 in aula magna
Saluti
Aldo Tomasi, Rettore dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia
Graziano Delrio, Sindaco di Reggio Emilia
Sonia Masini, Presidente della Provincia di Reggio Emilia
Mons. Massimo Camisasca, Vescovo della Diocesi di Reggio Emilia e Guastalla
Apertura
Alberto Melloni, Università degli studi di Modena e Reggio Emilia
“Dossetti come problema storico”
Lectio Magistralis
Valerio Onida, Presidente Emerito della Corte Costituzionale
“Dossetti, la Costituzione, lo Stato”
Manifesto dell’ Associazione nazionale D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza
Cinque richieste politiche rispetto alla violenza contro le donne, cinque punti che non devono mancare nel programma politico del futuro governo! Lo chiede l’associazione nazionale D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza, che presenta il proprio Manifesto contro la violenza alle donne e chiede alle future e ai futuri parlamentari, alle donne e agli uomini del futuro governo, che siano assunti impegni precisi contro un fenomeno che in Italia ha numeri significativi ma scarse risorse per arginarlo.
Sono 124 le donne uccise nel 2012 e 14mila quelle che si rivolgono, ogni anno, agli oltre sessanta centri antiviolenza aderenti a D.i.Re. Dati che rappresentano solo una minima parte del fenomeno, in assenza di un osservatorio nazionale sulla violenza contro le donne e il femminicidio.
Gli oltre sessanta centri antiviolenza aderenti a D.i.Re affrontano il problema della violenza contro le donne forti di pratiche e metodologie e rappresentano luoghi di progettualità e di protagonismo femminile, di saperi e di speranze. Sono veri e propri “laboratori sociali” dove si produce sapere ed esperienza e dove, grazie alla sinergia tra le donne, si è costruita negli anni una cultura nuova.
Degli oltre sessanta centri aderenti a D.i.Re, solo un terzo ha finanziamenti adeguati per continuare la propria attività grazie a convenzioni con le istituzioni locali. Solo con enorme impegno volontario e
responsabilità politica gli altri Centri resistono per contrastare questo fenomeno gravissimo per tutte le donne
e la società intera.
D.i.Re rilancia l’ allarme sui tanti Centri Antiviolenza/Case Rifugio che rischiano di chiudere a causa dei tagli alle politiche sociali e al welfare che colpiscono maggiormente donne, aumentando le disuguaglianze di
genere. Disuguaglianze che incrementano la violenza contro le donne in Italia.
Cosa chiediamo al futuro governo
Da anni D.i.Re chiede politiche e interventi seri e duraturi su tutto il territorio nazionale e ora, in questi cinque punti, ne sottolinea le questioni più urgenti:
• immediata legge di ratifica della Convenzione del Consiglio d’ Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Istanbul 2011) con l’ adozione
delle misure prescritte e con interventi concreti e duraturi anche nel programma finanziario di Governo.
• rinnovo del Piano nazionale contro la violenza alle donne del novembre 2010, con garanzia di stanziamenti economici adeguati e costanti ai Centri antiviolenza/Case rifugio su tutto il territorio nazionale anche da parte degli enti locali e riconoscimento del livello essenziale di assistenza sociale (LIVEAS) per la violenza contro le donne.
• coinvolgimento di D.i.Re come referente nazionale e locale nelle azioni di prevenzione, di formazione e di contrasto sul tema della violenza maschile contro le donne.
• rilevazione dei dati sistematica, integrata e omogenea sulla violenza contro le donne su tutto il territorio nazionale e in sinergia tra i diversi attori pubblici e i privati specializzati.
• promozione di campagne di sensibilizzazione nazionali e locali per contrastare la violenza maschile contro le donne, rivolte a tutta la popolazione e in particolare agli uomini, vigilando su ogni forma di
comunicazione offensiva della dignità delle donne.
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Rispondiamo volentieri ed aderiamo al manifesto proposto dall’associazione Nazionale Di.re. che ci offre l’occasione di ribadire e rilanciare alcuni impegni che abbiamo assunto nel corso della passata legislatura.
La violenza contro le donne ed il femminicidio sono un fenomeno pervasivo e drammatico, che troppo spesso vengono affrontati come se fossero un’emergenza o un fatto di ordine pubblico.
Sono invece dati strutturali in una società in cui permane una intollerabile situazione di disparità tra donne e uomini che troppo spesso si traduce in relazioni fondate sul dominio e nell’incapacità’ di riconoscere libertà’ ed autonomia femminile che chiede sempre più’una piena affermazione.
Siamo convinte che per battere la violenza non esistano scorciatoie, ma sia necessaria una strategia complessa, che parta proprio dalla consapevolezza del ruolo e della soggettività’ femminile.
Proprio per queste ragioni condividiamo lo spirito e le proposte che Di.re sottopone ai candidati e alle candidate per le elezioni per il nuovo parlamento, così come abbiamo condiviso le proposte della convenzione No More.
A partire dal sottolineare che i centri antiviolenza in questi anni sono stati veri e propri laboratori sociali nei quali si e’ costruita una cultura nuova, raccogliamo l’allarme sul rischio di chiusura di molti centri e ci impegniamo affinché nella prossima legislatura si possa, attraverso strumenti di sostegno stabili e continuativi, scongiurarne la chiusura ed assicurarne il buon funzionamento.
Così come crediamo, avendolo ribadito in diverse occasioni anche attraverso il nostro impegno parlamentare, si debba ratificare la convenzione di Istanbul e dotare il nostro paese di politiche serie di contrasto, a partire dalla conoscenza e dal monitoraggio del fenomeno, formazione degli operatori, messa in rete delle istituzioni preposte, promozione di campagne di prevenzione. Una vera e propria strategia, appunto.
La prossima legislatura sarà molto importante per il futuro del paese, che vive una fase drammatica di crisi economica, sociale e politica. Il Pd ha candidato molte donne, autorevoli e competenti perché le donne rappresentano oggi una vera forza di cambiamento. Nuove leggi, nuove politiche ed un nuovo governo saranno decisivi per contrastare la violenza contro le donne, ma insieme – forze politiche, forze sociali e civili – possiamo fare molto perché e’ una cultura ed un senso comune che deve cambiare.
Roberta Agostini
Portavoce nazionale conferenza donne PD
Le cinque azioni del Pd per l’economia reale
Cinque azioni per rilanciare l’economia reale. Sono quelle lanciate dal segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, durante un incontro con il mondo del lavoro al quale ha partecipato a Torino con il sindaco Piero Fassino e con Cesare Damiano, capolista in Piemonte I.
Le 5 azioni per l’economia reale:
1. Liquidità per dare respiro alle imprese con un piano di 50 miliardi in 5 anni per il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione verso le imprese.
La misura sarà finanziata con l’emissione di titoli ad hoc sul modello dei Btp Italia
2. Investimenti con un grande piano di piccole opere: 7,5 miliardi di euro in tre anni per mettere in sicurezza scuole e ospedali. Con meno spese per i cacciabombardieri, fondi strutturali europei e sgravi fiscali per i privati che investono
3. Economia verde con lo sviluppo dell’efficienza energetica e delle energie rinnovabili e con la riqualificazione degli immobili, per rivitalizzare l’edilizia senza consumare territorio
4. Banda larga e Ict Una grande opera infrastrutturale per sviluppare un sistema di servizi che dia lavoro ai giovani
5. Industria 2020 Riprendendo il filo di Industria 2015, il piano Bersani che dava frutti ma che Berlusconi ha smantellato. Servirà a portare sviluppo tecnologico, internazionalizzazione e ricerca nei settori del saper fare italiano
www.partitodemocratico.it
Università: Ghizzoni, il nostro obiettivo è bloccare il precariato
“Eravamo facili profeti quando anticipavamo gli esiti negativi del disinvestimento progressivo nell’università e della riforma Gelmini. – lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienze e Istruzione della Camera dei Deputati, commentando i dati dell’indagine Adi, l’Associazione dei dottorandi. – Oggi sono arrivati i dati sconfortanti che denunciano la sconfitta definitiva di una modalità di reclutamento che non conduce ad alcuna soddisfacente carriera accademica. Sono solo qualche centinaia i contratti a tempo determinato che – osserva Ghizzoni – hanno prospettive di essere convertiti in contratti a tempo indeterminato.
Il nostro obiettivo – conclude la deputata Pd – sarà quello di bloccare definitivamente il precariato universitario per valorizzare il lavoro dei giovani di talento e dare prospettive di crescita, anche sociale e culturale, al nostro Paese.”
"Ogni secondo il cemento divora 8 metri quadri d’Italia", di Salvatore Settis
Otto metri quadrati al secondo, per ciascun secondo degli ultimi cinque anni: questo il ritmo del forsennato consumo di suolo che sta consumando l’Italia. Questo dato, che colpisce come una mazzata, emerge dagli studi dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) che ricostruiscono l’andamento del consumo di suolo in Italia dal 1956 al 2010. Siamo passati da un consumo di suolo di 8.000 kmq nel 1956 a oltre 20.500 kmq nel 2010, come dire che nel 1956 ogni italiano aveva perso 170 mq, nel 2010 la cifra è salita a 340 mq pro capite. Tra i divoratori di suolo trionfa la Lombardia, seguita dal Veneto e dal Lazio. Cifre impressionanti, che trascinano l’Italia fuori dall’Europa, dove il consumo medio del suolo è del 2,8%, a fronte di un devastante 6,9 % per il nostro martoriato Paese. È come se ogni anno si costruissero due o tre città nuove, delle dimensioni di Milano e di Firenze, e questo in un Paese a incremento demografico zero.
Dimensioni e natura del disastro non si colgono appieno senza un dato ulteriore: questa dissennata cementificazione si compie a danno dei più preziosi suoli agricoli (pianura padana, Campania un tempo felix, cioè feconda), colpendo al cuore l’agricoltura di qualità, coprendo i suoli con una spessa coltre di cemento (soil sealing) con perdita irreversibile delle funzioni ecologiche di sistema e fragilizzazione del territorio: cresce così la probabilità di frane e alluvioni, se ne rendono più gravi gli effetti. La morfologia del territorio italiano lo rende esposto a terremoti, eruzioni vulcaniche,alluvioniealtrecalamità,ilcuiimpattocresce quando si alterano i già precari equilibri naturali.
Per chi dunque costruiamo, e perché? Da cinquant’anni trova credito in Italia la menzogna secondo cui l’edilizia (comprese le “grandi opere” pubbliche) sarebbe uno dei principali motori dell’economia. È per questo che si sono succeduti, da Craxi a Berlusconi, irresponsabili condonideireaticontroilpaesaggio.Innomediuna cultura arcaica, l’investimento “nel mattone” continua ad attrarre investimenti, anche per “lavare” il denaro sporco delle mafie, stabilizzandolo nella rendita fondiaria. Sfugge a politici e imprenditori che la presente crisi economica nasce proprio dalla “bolla immobiliare” americana. Peggio,essi si tappano gli occhi per non vedere che la crisi che attanaglia l’Italia è dovuta, anche, alla mancanza di investimenti produttivi e di capacità di formazione. Si utilizza, invece, il nostro suolo come se fosse una risorsa passiva, una cava da fruttare spolpandola fino all’osso.
Che questo accada nel Paese che per primo al mondo ha posto la tutela del paesaggio fra i principi fondamentali dello Stato (articolo 9 della Costituzione) è un paradosso su cui riflettere. Se agli altissimi principi costituzionali corrispondono pessime pratiche quotidiane, è prima di tutto perché al boom post bellico, con la sua fame di benessere, non è corrisposta una crescita culturale (né mai vi sarà finché la scuola pubblica viene trattata come un fastidioso optional, secondo la filosofia delle destre). Ma è anche per il peccato d’origine della normativa prebellica: alla legge Bottai sulla tutela del paesaggio (1939) seguì infatti la legge urbanistica del 1942, ma non fu creato fra le due il necessario raccordo, quasi che fosse possibile chiedere alle Soprintendenze di tutelare un paesaggio senza città, ai Comuni di gestire città senza paesaggio. La Costituzione radicalizzò il contrasto, ponendo le competenze sul paesaggio in capo allo Stato e quelle sul territorio e l’urbanistica in capo alle Regioni (che di solito sub-delegano i Comuni), con una giungla di conflitti di competenza che coinvolge i ministeri dei Beni Culturali, dell’Ambiente e dell’Agricoltura, ma anche regioni, province e comuni. È negli interstizi di questa normativa deficitaria e barcollante che si insediano gli speculatori senza scrupoli, i divoratori del suolo, i nemici del pubblico bene.
Interrompere queste pratiche stolte, si sente ripetere, è impossibile perché vanno protette la manodopera e le imprese. Non è vero. Di lavoro per imprese e operai ve ne sarebbe di più e non di meno se solo si decidesse di dare priorità assoluta alla messa in sicurezza del territorio (il recente rapporto congiunto dell’Associazione nazionale costruttori edili e del Cresme-Centro di ricerche economiche e di mercato dell’edilizia fornisce dati impressionanti su necessità e inadempienze in merito). Se si decidesse di dare priorità al recupero degli edifici abbandonati, di abbattere gli orrori che assediano le nostre periferie sostituendoli con una nuova edilizia di qualità anziché catapultare grattacieli nel bel mezzo dei centri storici. Se si verificassero i dati sulle proiezioni di crescita demografica prima di autorizzare nuove edificazioni. È falso che vi siano da una parte i “modernizzatori” che cementificano all’impazzata e dall’altra i “conservatori” che non costruirebbero più una casa e condannerebbero alla disoccupazione gli operai. La vera lotta è un’altra: fra chi vuole uno sviluppo in armonia con il bene pubblico e la Costituzione, e chi vede nel suolo italiano solo una risorsa da saccheggiare a proprio vantaggio.
La Repubblica 08.02.13
"Universitari perduti, un giallo senza misteri", di Federico Orlando
Cosa sta succedendo fra quel milione e 700mila giovani iscritti (in corso, fuori corso o in semplice parcheggio) nelle università italiane? La domanda si è diffusa, ma non ha lambito il dibattito elettorale, per merito della Stampa, che l’altro venerdì titolava a tutta pagina: “Fuga dagli atenei – Persi in dieci anni 58mila studenti”. Erano i dati del Cun (Consiglio universitario nazionale) che valutava al 17 per cento il calo nell’ultimo decennio: «Come se l’intera statale di Milano non esistesse più». Il Corriere confermava la crisi con un intervento di Guido Fabiani, rettore di Roma Tre: la crisi c’è ed è particolarmente grave nel Lazio. Qui La Sapienza è scesa in dieci anni da 132mila a 110mila studenti.
Ma tre giorni dopo il ministro dell’istruzione Francesco Profumo risolveva a modo suo il giallo: non si può parlare di fuga, perché l’anno di partenza, 2003, pativa il problema della “bolla”, creata dal passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento universitario. Ma quale bolla, gli replicavano altri studiosi su Europa (vedi l’articolo di Paola Fabi pubblicato martedì 5 febbraio, “Ecco perché sbaglia”).
Se c’è il problema della disaffezione agli studi? «Certo che c’è – risponde Giacomo Marramao, filosofo della politica a Roma Tre –. Insieme a Luciano Modica, che fu vice ministro all’università nel secondo governo Prodi, e ad altri colleghi, abbiamo chiesto al governo Monti un intervento urgente contro il degrado degli atenei: fisico, organizzativo, didattico, di dispersione territoriale, di non coordinamento tra scelte didattiche dei docenti e future scelte professionali degli studenti. Nessuna risposta».
Salvo la proposta newdealistica di Bersani, di un piano di messa in sicurezza dell’edilizia scolastica e ospedaliera. Siamo il paese della scuola di San Giuliano di Puglia, del Policlinico Umberto I, e anche dell’accampamento di gazebo, a forma di igloo o di tunnel, montato nel recinto della Sapienza, per ospitare didattica e ricerca di Giurisprudenza, causa lavori in corso da cinque o sei anni. Bersani è stato anche l’unico (poi sono venuti Giannino e Ingroia) a rispondere con un corposo fascio di idee alle dieci domande ai candidati premier, poste da docenti e ricercatori (www.dibattitoscienza.it): provvedimenti generali per l’università e la ricerca pubblica, ricerca privata, politiche energetiche, ciclo dei rifiuti, messa in sicurezza del territorio dai rischi sismico e idrogeologico, Agenda digitale e proposte per la diffusione della banda larga, legge 40 sulla procreazione assistita, iniziative nella scuola contro l’analfabetismo scientifico e tecnologico, ricerca biomedica e uso degli animali. Anche alcuni candidati come Marino, Ichino, Ilaria Capua hanno risposto alle questioni formulate dal Gruppo 2003 (www.scienzainrete.it).
Insomma, mentre i buoi fuggono dalle stalle, si comincia a capire che bisogna riprendere il dialogo tra scienza e politica, università e società. Tornare alla concretezza dei problemi, ma anche alle culture concrete. Il gagliardo Franco Ferrarotti, di cui si festeggiano in questi giorni i primi 90 anni, denuncia la nuova sociologia come «la scienza allegra dove tutti dicono la loro». (Come Bauman, sottinteso, che pretende di creare la società sull’acqua). Il battibecco ad Agorà fra Nunzia di Girolamo (Pdl) e la capolista pd in Veneto Laura Puppato, «se il Veneto sia o no ancora terra di contadini», ha provocato inattese rivelazioni, come quella di un indignato Ferdinando Camon, che si dichiara da sempre orgogliosamente contadino. Può forse nascere, e non solo in certe aziende del Nord, il tanto atteso agricoltore col camice bianco? Una facoltà di agraria, c’informa Marramao, che l’anno scorso aveva 200 iscritti, quest’anno ne ha 800. Segno che, sotto la sferza della realtà, le situazioni deformate da abbandoni, baronie, crisi finanziaria, tendono ad autocorreggersi.
A Genova il rettore Giacomo De Ferrari, tagliando spese fino a ieri tabù, racimola 300mila euro da destinare in tre anni a “piccoli stipendi” per aiutare borsisti, ricercatori, studenti in flessione di risultati per sfiducia. Vien da piangere pensando che proprio oggi un decreto del governo taglierà l’importo delle borse di studio, specie nel Sud: dove ieri è stata occupata l’università di Cagliari, la prima a scendere in lotta. «La sfiducia e l’incertezza che si manifestano nel corso di laurea, dipendono pure – nell’analisi di Marramao – dalla perdita di ruolo e di definizione sociale di molti mestieri. La telematica ha aperto immensi campi nuovi, ma non producono adeguata occupazione, perché digitare di continuo senza acquisire un sistema di nozioni, cioè una cultura, serve a poco. Per servire, occorrerebbe incentivare la creatività, di cui i ragazzi hanno perso le tracce per strada, scuole medie, licei, università. Senza creatività, i nostri laureati applicheranno software creati da altri. La crisi dei brevetti si sa. I giovani percepiscono che spesso diamo loro una speranza che non crea futuro. Eppure chimica, fisica, biologia, medicina, genetica esprimono ancora personalità e maestri di livello internazionale: i protocolli di cura di Veronesi sono applicati in tutto il mondo, Usa compresi. Ma debbono autopromuoversi: le istituzioni, dalle scuole agli istituti di cultura all’estero, stanno ferme. Nella campagna elettorale non c’è un “progetto Italia”, ove si eccettui quello ricordato di Bersani. Ma non ho visto adeguato riscontro sulla stampa questi sforzi di ridarci un progetto. Così non è un “giallo” il calo degli studenti, fuggono perché l’università declina insieme alla società. E non si raddrizzerà fino a quando, come insegnano Francia e Germania in tempo di default, non faremo poderosi investimenti nella ricerca per far ripartire la crescita. Dalla ricerca elementare a quella più sofisticata. Al Dams, l’ottima creazione di Squarzina e Micciché, chi si laurea sa che teatro, cinema, danza si fanno mettendo insieme autori, scenografi, sceneggiatori, montaggio, regia, doppiaggio, colonna musicale, luce, costumi, eccetera. Così si acquisisce la flessibilità per potersi convertire in qualsiasi impegno professionale, con la rapidità richiesta. Vale per i computer, come per l’economia e la matematica. Gli strumenti econometrici acquisiti vent’anni fa – ne converrà anche Monti – non servono più, per fare il salto nel nuovo occorre che umanesimo scienza e politica suonino insieme».
da Europa Quotidiano 07.02.13
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“Quell’ateneo scomparso”, di Paola Fabi
Più di cinquantamila iscritti in meno in dieci anni. È stato il Consiglio universitario nazionale a lanciare, la scorsa settimana, l’allarme sulla grande fuga dalle università italiane. Dall’anno accademico 2003-2004 (anno in cui entrò in vigore la riforma del 3+2) gli immatricolati sono scesi da 338.482 a 280.144 (anno 2011/2012).
Un calo di 58mila studenti, pari al 17 per cento in meno. Come se in un decennio fosse scomparso un intero grande ateneo. Un trend che riguarda tutto il territorio nazionale e la gran parte degli atenei. E ai diciannovenni, il cui numero è rimasto stabile negli ultimi cinque anni, la laurea sembra interessare sempre di meno: le iscrizioni sono calate del 4 per cento in tre anni, passando dal 51 per cento nel 2007-2008 al 47 per cento nel 2010- 2011. L’Italia, inoltre, nel 2012, è risultata al 34esimo posto, su 36 paesi che aderiscono all’Ocse, per il numero dei laureati.
Solo il 19 per cento dei 30-34enni possiede una laurea, contro una media europea del 30 per cento (al 2009). Il 33,6 per cento degli iscritti all’università, infine, è fuori corso mentre il 17,3 per cento non è attivo e non fa esami.
da Europa Quotidiano 08.02.13
