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"Candidati sostenete la lettura", di Andrea Camilleri

Ho aderito alla lettera aperta del Forum del Libro ai candidati alle elezioni perché, malgrado tutto, credo che si debba dare una chance al ceto politico: queste occasioni è necessario darle, perché senza politica una nazione esiste, la politica è la ragion d’essere di ogni nazione. Si tratta di dare chances naturalmente alla buona politica, cioè alla politica intesa nel senso del lavorare per il bene comune. Certo, lanciare una proposta al momento della campagna elettorale è un’arma a doppio taglio. Durante la campagna elettorale i politici si distinguono per fare promesse. Si diceva una volta, da marinaio. Ma qui vedo fare promesse da ammiraglio, che poi puntualmente non si mantengono, neppure in minima parte. Questo è il coté negativo, il lato positivo è invece chiedere ai candidati di occuparsi della lettura… vuoi vedere che qualcuno poi mantiene l’impegno preso?

Bisognerebbe far capire ai politici che la lettura non è né un passatempo né un fenomeno di nicchia. Una volta, prima dell’ultima guerra, il teatro era veramente per pochi, per una élite, ma nel dopoguerra grazie all’opera di uno come Paolo Grassi o di Giorgio Strehler, il teatro riuscì a diventare un servizio pubblico, un po’ come sono le biblioteche. Bisognerebbe far capire che andare a teatro o leggere un libro non è un passatempo: in realtà è anche un passatempo se vogliamo, ma è anche qualche cosa di più, cioè a dire un crescere da uomini, da cittadini, un capire il mondo, un conoscere l’infinita quantità di cose che ignoriamo, cioè un continuo arricchimento. Le nazioni dove più si legge sono le nazioni più civili.

Se dovessi aggiungere una mia proposta, consiglierei di regalare a ogni famiglia italiana dei libri: si potrebbe organizzare una sorta di mini-biblioteca domestica. Per esempio, io ho una gran quantità di libri e mi succede di avere dei doppioni: allora li mando alle biblioteche del carcere per esempio o a piccole biblioteche di paese che so che sono sfornite o si trovano in difficoltà. Se si potesse organizzare una specie di collettore e inviare in dono alle famiglie italiane un po’ di libri, credo che faremmo una cosa molto utile. In una casa dove sono presenti libri si crea un incentivo alla lettura, naturalmente, perché in un bambino o un ragazzo può nascere la curiosità e basta che cominci a leggerne uno perché venga, come un pesce, preso all’amo della lettura. Una casa senza libri è una casa che non ha sviluppo, che non ha futuro. Mio padre non era un intellettuale, era impiegato alla capitaneria di porto, ma era un uomo di buonissime letture e avevamo tantissimi libri in casa: da bambino, io ho imparato a leggere da solo, per poter leggere i libri di mio padre e al primo libro che ho domandato il permesso a papà di leggere, chiedendogli “papà, quali libri posso leggere?”, papà mi rispose “i libri si possono leggere tutti” e questa già fu una grande lezione. Lessi libri per adulti e solo dopo, verso i 16 anni, dovetti leggere libri per ragazzi, per colmare un vuoto, perché altrimenti sarebbe venuto a mancare un tassello di crescita.

Oggi è diverso anche il rapporto con la lingua. Mentre io, da ragazzino siciliano, e i miei coetanei abbiamo imparato la lingua italiana con una certa difficoltà, perché in casa parlavamo solo il dialetto, oggi i bambini, come dicono a Roma, “nascono imparati”, perché guardano la televisione e imparano l’italiano in questo modo. Parlano un italiano che Pasolini direbbe omologato, ma comunque è un buon italiano. Nei primi tempi della televisione c’era il leggendario maestro Manzi, che insegnava a leggere e a scrivere, che fece prendere la licenza elementare a tanti analfabeti… bene, io non capisco perché oggi la tv deve trattare la lettura o parlare dei libri come se fosse una cosa di nicchia, parlarne solo in trasmissioni specialistiche, alle tre di notte e in una sorta di ghetto per malati, per quei poveracci che alle tre di notte sono ancora svegli e soffrono d’insonnia. E invece il libro va trattato come un oggetto di consumo, perché lo è, solo che è un oggetto di consumo che costa poco ed è di un valore immenso. La televisione avrebbe possibilità infinite per la diffusione della lettura, ma solo se si adottasse una formula po-po-la-re, perché fin quando si considera il libro una cosa a parte, riservata a pochi, si sbaglia. La televisione rappresenta la quotidianità e il libro può entrare nella quotidianità. Perfino nelle trasmissioni di cucina, oggi che c’è la mania della cucina, perché non si parla mai dell’Artusi e del suo italiano meraviglioso? Si può abbinare il libro al divertimento e all’informazione: quando si parla di un problema o di un qualsiasi episodio, perché non dire c’è un libro che parla di quelle cose? Così faremmo entrare il libro nell’uso comune, quotidiano, e non solo in una trasmissione sontuosa o pretenziosa…

Il libro è, o almeno può essere un oggetto popolare. Dicono che i libri in Italia costano molto, ma non è vero, io me ne accorgo dalle mie traduzioni, che in altri paesi costano enormemente di più. Bisognerebbe fare qualcosa per rendere il libro e la letteratura più popolare, ma senza pretendere troppo. Qualche anno fa andai a parlare in una scuola elementare frequentata da una mia nipotina, e mi invitarono perché avevo successo come scrittore. Dopo, la nipotina mi disse “nonno, però il papà di un bambino che faceva il pompiere ha avuto più successo di te”. “Si capisce” le ho detto, “e meno male…”. Altre volte va meglio. Ricordo che qualche anno fa ho vinto un premio che mi ha francamente emozionato, era il premio per il libro straniero più letto nelle biblioteche pubbliche di Parigi.

Il ruolo delle biblioteche è fondamentale. Nel ‘46 la mia famiglia si trasferì ad Enna, nel centro della Sicilia, a 800 metri d’altezza, dove faceva un freddo terribile, non avevamo il riscaldamento. Un giorno dovetti andare al municipio per qualche cosa, una pratica, ora non ricordo. Nel grande atrio, dopo il portone, fui raggiunto da una dolcissima ondata di calore che veniva da una porta aperta sulla sinistra, guardai e c’era scritto Biblioteca comunale: entrai, era una bellissima biblioteca, tenuta perfettamente in ordine, c’era un signore in maniche di camicia che alimentava due grosse stufe, mi guardò e disse “desidera?”. “Vorrei parlare col direttore”, si mise la giacca e rispose “sono io”. Era l’avvocato Giorgio Fontanazza, il suo nome non l’ho dimenticato più. La biblioteca aveva i lasciti di due scrittori siciliani, Nino Savarese e Francesco Lanza, le riviste letterarie dell’inizio del ’900, e tanti bei libri. Mi feci una cultura in quei tre anni, sono stato dalla mattina alla sera buttato in biblioteca… Fu la mia salvezza.

(Testo raccolto da Giovanni Solimine, Presidente dell’Associazione Forum del libro)

La Stampa 08.02.13

Il formale impegno del Pd per i lavoratori della scuola di “Quota 96”, di Giuseppe Grasso

Riceviamo da Giuseppe Grasso, tra i promotori del Comitato civico “Quota 96”, una nota esplicativa sull’impegno che il Pd ha ufficialmente assunto per risolvere, in modo definitivo e onorevolmente legale, la ben nota vicenda che ha coinvolto circa 3500 docenti. Da oltre un anno i circa 3.500 lavoratori della scuola del 1952, fra docenti e personale Ata, sono rimasti imbrigliati nelle strettissime maglie della riforma Fornero a causa di un errore tecnico, costretti a una brusca deviazione rispetto ai loro progetti esistenziali. Ad essi, infatti, è stato negato il diritto, acquisito già dal settembre del 2011, di accedere alla pensione. Per questo motivo stanno lottando con tutti i mezzi (e su tutti i fronti) per far sì che il loro diritto a pensione venga riconosciuto.
L’attuale esecutivo, infatti, nello stilare l’ultima riforma delle pensioni, non ha tenuto conto della specificità del Comparto Scuola – specificità riconosciuta da leggi mai abolite oltre che da precedenti revisioni normative in materia previdenziale – e ha assimilato del tutto improvvidamente le leggi speciali che regolano questo settore alle leggi generali di tutti gli altri settori della Pubblica Amministrazione.
Il Comparto Scuola gode da sempre, per esigenze di continuità didattica, di una speciale decorrenza per il collocamento a riposo: il 1 settembre (e non il 31 dicembre) di ogni anno scolastico. Un fatto certo non irrilevante di cui ha tenuto conto il giudice del lavoro di Siena, nel suo provvedimento dello scorso luglio, quando ha ribadito a chiare lettere questa peculiarità statuita da leggi dello stato tuttora in vigore. Più precisamente, a detta dello stesso, l’art. 24 del decreto salva Italia non avrebbe distinto, rispetto alla data del 31.12.2011, con particolare riguardo al settore scolastico, il «dies ad quem della maturazione dei requisiti pensionistici secondo la normativa previgente».
Anche il giudice Ferdinando Imposimato, Presidente onorario della Corte di Cassazione, ha recentemente preso posizione in tal senso, sia su Tecnica della Scuola che su affaritaliani.it, a favore di questa categoria ingiustamente discriminata con le sue dotte argomentazioni tecnico-giuridiche. Il valente magistrato ha fatto tabula rasa, nei suoi precisi interventi, di ogni fallace pretesto del governo che ha sempre addotto, per eludere ogni volta la questione, problemi di mera copertura finanziaria.
A nulla sono valsi, in passato, i fermi richiami da parte di Mariangela Bastico e di Manuela Ghizzoni, deputate democratiche da sempre attente paladine di questa causa.
Un segnale d’intesa in tale direzione è venuto dal Pd in questi ultimi giorni di concitata campagna elettorale. La responsabile Scuola di questo partito, Francesca Puglisi, oggi candidata al Senato, dopo aver incontrato una delegazione del Comitato Civico «Quota 96», ha difatti promesso formalmente di impegnarsi in prima persona per sanare la ben nota vicenda qualora il suo partito dovesse vincere le elezioni.
L’impegno assunto è considerevole, fanno sapere dal Comitato Civico «Quota 96», e metterebbe la parola «fine» a una storia estenuante fatta di continui e sordi dinieghi governativi rispetto a ciò che non può né deve essere considerato un privilegio. La rappresentante democratica, inoltre, per avvalorare formalmente quanto promesso, ha inserito nel programma elettorale del Pd il riferimento testuale ai lavoratori interessati, quelli che hanno maturato, nell’anno scolastico 2011-2012, la cosiddetta «Quota 96» utile ad uscire dal lavoro secondo le norme antecedenti alla riforma Fornero.
La responsabilità del contenzioso, ora, passa nelle mani della politica che fra l’altro non può dimenticare che mandando in pensione questi 3.500 lavoratori della Istruzione consentirebbe ad altrettanti precari di prendere il loro posto e di stabilizzarsi.

La Tecnica della Scuola 08.02.13

"Borse di studio, si ferma il decreto. Le Regioni frenano. Studenti esultano", di Salvo Intravaia

Scontro sul decreto sul diritto allo studio universitario. Il decreto super contestato è stato rinviato di due settimane. Le associazioni degli studenti che da mesi lo contestano e che anche oggi hanno dato vita a sit-in, parlano di una prima vittoria. Il ministro Profumo dice che “si farà”, ma poco dopo il presidente delle Regioni di fatto lo stoppa: “Va modificato” E’ la Conferenza Stato-Regioni che apre l’ultimo capitolo sul contestato provvedimento: riunita questa mattina lo ha rinviato al prossimo 21. Gli assessori all’Istruzione di diverse regioni italiane avrebbero bocciato per ben due volte le bozze “migliorative” presentate dal ministro. E comunque la sensazione è che in piena campagna elettorale nessuno vuole prendersi la responsabilità di avallare un provvedimento impopolare che potrebbe escludere dalle borse di studio da un terzo al 45 per cento degli attuali aventi diritto.

Una decisione che il ministro Profumo commenta spiegando che il decreto verrà varato il 21: “Si farà per dare più risorse al diritto allo studio. Lavoriamo ora ad una soluzione che sia equa e che tenga conto delle disuguaglianze”, dice il ministro. E cambiamenti serviranno, sottolinea lo stesso presidente delle Regioni Vasco Errani che spiega la decisione della Conferenza: “Quel decreto non ci convince, e per questa ragione è stato rinviato di due settimane. “Non condividiamo – dice Errani – i nuovi criteri di accesso alle borse, vanno modificati i fondi per il 2013 e vanno distribuiti con i vecchi criteri. Poi – conclude – si ragioni nei mesi successivi su come modificarli collaborando con regioni, università e studenti”.

Ma gli studenti parlano di “prima vittoria” col preciso obiettivo di fare desistere completamente la Conferenza dall’approvare il decreto in questione. “Il Ministro dimissionario Profumo – scrive in una Michele Orezzi, coordinatore dell’Unione degli Universitari – non è riuscito a stravolgere tutto il sistema di diritto allo studio nell’arco di una settimana. Questa volta – continua – l’abbiamo fermato. Questo decreto rischia di espellere migliaia di studenti dal sistema delle borse di studio lasciandoli senza alcun tipo di supporto”.

Il decreto approntato dal ministero, secondo gli studenti, riduce le possibilità di accedere alle borse di studio e fa leva su entrambi i criteri previsti: il merito e la condizione economica. Abbassa le soglie massime (Isee) di accesso alle borse di studio che vengono differenziate per regione e aumentano, fino a raddoppiare, i crediti minimi per mantenere – anno per anno e per tipologia di laurea – la borsa di studio negli anni a seguire. Ma non solo. Il decreto interviene anche sull’importo delle borse di studio, che contrariamente alla logica, subiscono un taglio (che varia dal 7 al 12 per cento) rispetto attuali per studenti residenti in sede e pendolari.

E per finire aggancia lo status di fuorisede non alla distanza chilometrica dell’ateneo dal luogo di residenza ma ai tempi di percorrenza dei mezzi pubblici. Una novità che non convince gli studenti perché in Italia i mezzi di trasporto – treni, pullman e autostrade – sono parecchio diversificati da Nord a Sud e, questa volta verrebbero penalizzati gli studenti settentrionali.

“Ci auguriamo ora che il ministro non tenti inutili colpi di coda a tre giorni dalle elezioni con il chiaro obiettivo di strumentalizzare un tema così importante come il diritto allo studio e il futuro degli studenti per meri fini elettorali – dichiara Luca Spadon, portavoce di Link coordinamento universitario – Pretendiamo la definitiva cancellazione del decreto e l’apertura di un reale dialogo con gli studenti”.

La Repubblica 08.02.13

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“Borse di studio, rabbia degli universitari Profumo costretto a fermare il decreto”, di Corrado Zunino

Dopo quattordici mesi di concertazione, il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo — a mani nude, con il suo premier in campagna elettorale e il Pd pronto ad assicurare nuovi fondi per l’università con il governo prossimo futuro — ha provato a riformare il capitolo piangente delle borse di studio universitarie. E, fin qui, si è dovuto arrendere. Le Regioni si sono dette «poco convinte» dell’ultimo suo decreto, cambiato quattro volte da quando, venerdì scorso, sono circolate le anteprime. Incassato lo stop, ieri pomeriggio il ministro ha chiesto al fido Daniele Livon, responsabile Università al Miur, di svuotare i sette articoli presentati e generare un quinto testo entro martedì prossimo. «Bisogna lasciare i criteri del 2012», gli aveva detto Vasco Errani, governatore dell’Emilia Romagna. E così Cappellacci per la Sardegna, la Marini per l’Umbria. Destra e sinistra insieme. Con il candidato Pd del Lazio, Nicola Zingaretti, che arrembava: «Bisogna pagare il cento per cento delle borse di studio, punto». Il problema è che si parte da una situazione fuori decenza: un terzo degli “aventi diritto”, oggi, non viene saldato. Diversi studenti fuorisede in questa stagione hanno abbandonato gli studi superiori perché su quei cinquemila euro contavano. Profumo, ministro riformista che nel suo percorso da tecnico deve già contare due cocenti sconfitte (il decreto sul merito e l’aumento delle ore degli insegnanti), dopo aver parlato a lungo con gli universitari a inizio febbraio ha presentato questa proposta: tassa unica studentesca sul territorio per finanziare le borse di studio (oggi varia fra venti Regioni), lieve aumento delle risorse da parte dello Stato (220 milioni), Regioni vincolate a un minimo finanziamento (70 milioni, oggi sono libere di scegliere se e quanto mettere a bilancio). Ancora, minimi di reddito scelti per macroregioni: al Nord limite di 21.000 euro, al centro di 18.000 euro, al Sud di 15.000 euro. Soldi ai fuorisede: più 20 per cento per chi si è trasferito negli atenei di Roma, Bologna, Venezia. Una barriera anagrafica, invece, per limitare gli “studi lunghi”: niente borse alle matricole oltre i 25 anni (nel triennio) e i 32 anni (nel biennio specialistico). Infine, una scelta di merito ( leit motiv profumiano): per avere l’assegno lo studente dovrà far crescere i crediti formativi dell’anno accademico. A una matricola oggi ne bastano 20, il ministro ha chiesto di portarli a quota 35. Le associazioni studentesche — Link e Udu su tutti — hanno visionate le bozze e iniziato a contestare: la platea dei beneficiati diminuirebbe, le gabbie territoriali sfavoriranno gli studenti del Sud, gli obblighi anagrafici renderanno difficile la vita ai “lavoratori” a basso reddito. Per dare forza ai concetti, rodati da quattro anni di piazza, gli studenti hanno invaso le università di Siena e Cagliari, occupato il rettorato di Pavia, sono saliti sui tetti dell’ateneo di Parma, a Firenze hanno stampato migliaia di tovaglioli anti-decreto, si sono smutandati a Venezia. I partiti in “campagna” hanno fatto propria la mobilitazione e i governatori hanno frenato. Profumo si è fatto forza: «Approverò comunque il decreto». E per martedì ha riconvocato in viale Trastevere presidenti di Regioni e giovani contrari e favorevoli. Dopo un consulto con il ministro Barca, proporrà di togliere l’Isee per macroregioni, lasciare alle Regioni la scelta del “reddito minimo” da applicare obbligandole, però, a saldare il dovuto. Il 21 febbraio, in Conferenza Stato-Regioni, lo show down. Ieri sera il Tar di Torino ha offerto una nuova sentenza in materia: la Regione Piemonte ha intascato tasse dagli studenti (destinate a finanziare le borse di studio) di 1,97 milioni superiori agli assegni poi erogati: quei soldi vanno rimborsati.

La Repubblica 08.02.13

"Operazione trasparenza", di Massimo D'Antoni

La proposta, lanciata alcuni giorni fa dal PD, di affrontare il problema dei debiti della Pubblica amministrazione verso le imprese con un’emissione straordinaria di titoli di Stato, affronta con coraggio e serietà un problema di grande rilevanza. Come è noto, la risposta di molte pubbliche amministrazioni, enti locali e non solo, alla stretta sulla spesa degli anni scorsi, è stata dilazionare i pagamenti ai fornitori di beni e servizi, fino ad accumulare debiti complessivi stimati ormai intorno ai 90-100 miliardi di euro. L’effetto è stato estremamente pesante per molte imprese, che hanno dovuto a loro volta indebitarsi per pagare dipendenti e fornitori. L’inadempienza del pubblico finisce per togliere credibilità a molti discorsi sulla necessità di ricostruire un rapporto tra amministrazione e cittadini, visto che alla richiesta di fedeltà fiscale e alla severità delle sanzioni non corrisponde eguale sollecitudine negli obblighi del pubblico verso i privati.

Il tema era stato affrontato mesi fa anche dal governo Monti, ma senza successo: il meccanismo prevedeva una certificazione del debito da parte delle pubbliche amministrazione, cui seguiva la possibilità per le imprese creditrici di chiedere un’anticipazione bancaria o una compensazione (limitata tuttavia alle sole imposte iscritte a ruolo). Una soluzione rivelatasi inefficace, perché da un lato gli enti locali avevano scarso incentivo ad esplicitare debiti che avrebbero inciso sul patto di stabilità, dall’altro le imprese si sarebbero ritrovate con un’esposizione ancora maggiore verso le banche.

L’annuncio di Bersani segna dunque un importante cambio di passo. Intanto per l’entità delle risorse in campo, finalmente proporzionata alla dimensione del problema: si parla di 10 miliardi all’anno per i prossimi 5 anni. E poi per la scelta di evitare soluzioni che, per così dire, continuino a nascondere la polvere sotto il tappeto.

Ma vediamo effetti e possibili controindicazioni. Il pagamento dei debiti darebbe immediato respiro alle imprese operanti con la Pubblica amministrazione, evitando in molti casi il rischio chiusura; la possibilità di rientrare nelle posizioni creditorie consentirebbe

loro di liberare risorse per investimenti, con effetti sul livello di solvibilità e quindi, indirettamente, anche sulla capacità delle banche di erogare credito. Aspetto forse ancor più importante, consentirebbe di ricostruire un rapporto corretto tra pubblico e privato, cosa tanto più necessaria dopo il recente recepimento della direttiva europea che fissa a 30 giorni i pagamenti tra privati. E ridurrebbe il rischio e i costi indiretti nei

rapporti di fornitura alla Pubblica amministrazione, con beneficio per la stessa spesa pubblica.
Quali le possibili controindicazioni? L’effetto diretto sarebbe un aumento del debito pubblico, pari a circa il 3% del Pil corrente. I vincoli europei escludono la possibilità di spesa in deficit di queste dimensioni, ma nel caso specifico si tratterebbe di debiti già contratti, seppure non contabilizzati nelle statistiche ufficiali. L’aumento del debito non avverrebbe cioè per effetto di una violazione dell’impegno all’equilibrio di bilancio, ma a fronte di spese già contabilizzate. In quanto esplicitazione di un debito pubblico esistente, sarebbe una sorta di operazione trasparenza, in cui creditori «involontari» (le imprese) sarebbero sostituiti dagli investitori sui mercati finanziari.

La legittima preoccupazione è se, al di là dei vincoli formali, tale aumento nello stock di debito ufficiale possa avere conseguenze sulla percezione della sua sostenibilità, e quindi sullo spread. Da questo punto di vista, è importante considerare che l’esistenza di un debito implicito verso le imprese è cosa ben nota, sia alle autorità europee che agli investitori, e dunque già in qualche modo metabolizzato nella valutazione sulla nostra solvibilità. Va d’altra parte considerato che l’immissione di liquidità a favore delle imprese avrebbe a sua volta un effetto espansivo sull’attività economica, e quindi consentirebbe, questa è la scommessa, di compensare il maggiore debito con un aumento del Pil.

È chiaro che molti dettagli vanno definiti. L’assunzione dei debiti degli enti locali da parte dello Stato non dovrebbe penalizzare gli enti locali più virtuosi, e dovrebbe escludere ogni incentivo ad usare opportunisticamente in futuro tale forma di indebitamento occulto: occorre chiarire il carattere una tantum dell’intervento e accompagnarlo con regole severe sui tempi di pagamento in futuro. Aspetti tecnici che non possono tuttavia offuscare il fatto che, con proposte come questa, dopo i diversivi mediatici delle scorse settimane, si sta finalmente affrontando uno dei veri nodi della crisi: quello del sostegno al mondo produttivo e della ridefinizione del rapporto tra Stato e soggetti economici.

L’Unità 08.02.13

Bersani: "Costruiamo un sogno che abbia le gambe per camminare"

“L’Italia è una parola bellissima e molto molto difficile, perchè sta vivendo acutamente l’incrocio tra crisi sociale e crisi democratica. La democrazia o si rinnova con queste elezioni, o diversamente dovrà arrendersi ad essere un simulacro di se stesso, e quindi cedere al populismo”. Lo ha detto Pier Luigi Bersani, chiudendo il seminario del PD sulle Parole dell’Italia giusta. “Siamo effettivamente di fronte a questo dilemma – ha aggiunto il leader democratico – un dilemma che prende corpo dentro una crisi sociale inedita che se non risolta può veicolare un’involuzione distruttiva”.

Oggi ribadiamo che la politica ha qualcosa a che fare con il pensiero, e lo dobbiamo fare testardamente, perchè è in controtendenza. Questo Paese ha assolutamente bisogno che le forze intellettuali si sentano in campo con un pensiero critico e un’ispirazione civica oggi e domani perchè c’è ricostruzione da fare che non è solo economica”.

Ha chiarito il Segretario democratico: “Quando noi diciamo prima di tutto l’Italia, questo ‘risuona’ e si sente. Perchè noi non possiamo inseguire la demagogia, che è un insulto all’Italia. E noi vogliamo bene all’Italia, non accettiamo che sia insultata, perchè gli Italiani sono persone intelligenti, e devono essere rispettati, dobbiamo rivolgerci al cuore e testa degli italiani, non alla pancia. Sono giornate che lasciano allibiti – ha proseguito – i problemi sono troppo seri, Questo qua dice 4 milioni di posti di lavoro… mentre aspettiamo ancora il primo milione… è veramente inaccettabile.

Bersani ha denunciato i disastrosi risultati del governo del centrodestra in questi ultimi dieci anni. “A noi è scomparso sia l’orizzonte europeo che quello nazionale. Siamo in un’assenza drammatica di credibilità delle prospettive. Bisogna ricostruire, e tracciare di nuovo la strada, uscendo dal dilemma tra tecnocrazia e populismi, senza lasciare in mano a loro le parole d’ordine. Arriverà il momento in cui dovremo decidere se andare verso gli Stati uniti d’Europa o tornare a 50 anni fa. Non possiamo lasciare passare delle idee velenose. E per noi il progetto si chiama Stati Uniti d’Europa”.

Chiudendo il seminario Bersani ha tuonato contro chi trova ragioni che giustificano il calo di circa 60mila studenti universitari: “Adesso sento addirittura delle teorie per cui se ci sono meno iscrizioni all’università, questo non è poi un cattivo segnale. Ma io voglio dire che la parola opportunità è una parola bella, ma viene distrutta se non ci metti dentro l’uguaglianza. Perchè chi non si iscrive all’università è perchè non ha i soldi, non perchè non coglie l’opportunità. Dobbiamo risalire la corrente della disuguaglianza come i salmoni e agganciarla perchè la forbice si è allargata e si rilegittima la politica accorciando la forbice della disuguaglianza, altrimenti la politica resta nel discredito”.

Bersani ha concluso incoraggiando la platea: “Dobbiamo guardare oltre la prospettiva del governo, a noi tocca indicare un sogno che abbia le gambe per camminare e questo – ha spiegato – vale anche per quanto riguarda l’organizzazione della politica, che deve puntare sulla partecipazione. Il sistema della personalizzazione è diventato contagioso noi siamo chiamati ad essere alternativi a questo sistema”.

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Le parole dell’Italia Giusta sono: diritti, libertà, pubblico, economia, scienza, differenza, legalità, lavoro, moralità, fraternità, cultura, Europa, civismo. Al seminario sono intervenuti: Gianni Cuperlo (Uguaglianza), Nadia Urbinati (Civismo), Alberto Melloni (Economia), Pietro Modiano (Differenza), Ritanna Armeni (Pubblico), Stefano Rodotà (Lavoro), Chiara Di Domenico (Fraternità), Gad Lerner (Europa), Massimo D’Alema (Diritti), Chiara Saraceno (Legalità), Walter Veltroni (Libertà), Hela Aloulou Ep Belkhodja (Globale), Adriano Sofri (Cultura), Philippe Daverio (Scienza), Elena Cattaneo (Potere), Mauro Magatti (Moralità), Pierluigi Castagnetti. Ha condotto il seminario, Corradino Mineo

"L'anno zero del capitalismo", di Massimo Giannini

È l’anno zero del capitalismo italiano. L’industria pubblica o para-pubblica è alle corde, schiacciata dai debiti e dalle tangenti. La finanza privata è allo stremo, macchiata dai trucchi contabili e dall’azzardo morale. Mettiamoci nei panni di un investitore estero: perché fare affari in un Paese del genere? È ancora nebuloso lo scandalo che investe l’Eni, e tutto da dimostrare. Ma era scontato che l’oscura vicenda degli appalti per i gasdotti in Algeria, già costata la testa ai vertici della controllata Saipem, avrebbe finito per coinvolgere anche il «ceo» della controllante. Paolo Scaroni giura la sua totale innocenza. Toccherà alla magistratura dimostrare il contrario, con prove certe e inoppugnabili. Ma è un fatto, dopo il terremoto di Tangentopoli e la maxi-tangente Enimont dei primi anni ’90, il colosso dell’energia italiana torna pesantemente sotto i riflettori di una Procura. È una pessima notizia, per un gruppo che ha 75 mila dipendenti, un giro d’affari di 110 miliardi e una capitalizzazione di Borsa di 62 miliardi.
Ma quello che colpisce, in questo sconfortante «sommario di decomposizione» del romanzo degli gnomi tricolori, è il quadro d’insieme. L’inchiesta sull’Eni precipita in un mercato domestico devastato. Restiamo nell’area delle ex Partecipazioni Statali. Il terremoto che ha squassato Finmeccanica, altro ex gioiello dell’industria nazionale che vale oltre 5 miliardi in Borsa, quasi 18 miliardi di ricavi e oltre 70 mila dipendenti, è ancora in pieno corso. Il presidente Giuseppe Orsi è indagato per presunte mazzette sulle forniture degli elicotteri Agusta-Westland. Il suo predecessore Pier Francesco Guarguaglini è stato prosciolto, ma nessuno può dimenticare le «gesta » della moglie, Marina Grossi, nella controllata Selex.
Il buco nero della Saipem, scoperchiato la scorsa settimana, non è meno grave di quello in cui ora rischia di sprofondare l’Eni: non si era mai vista una grande azienda quotata che dalla sera alla mattina lancia un profit warning in cui gli utili attesi crollano del 70%, mentre una mano misteriosa vende una quota del 2,2% un attimo prima che il titolo crolli di schianto e la società bruci un terzo del suo valore.
Il disastro dell’Alitalia è, alla lettera, sotto gli occhi di tutti. Plasticamente rappresentato dal relitto sbianchettato dell’Atr preso in leasing da Carpatair. Largamente annunciato dal 2008, quando Berlusconi in veste di biscazziere si giocò la compagnia di bandiera alla roulette russa del voto. Lui vinse le elezioni, noi ci abbiamo perso 4 miliardi. La difesa dell’«italianità» non è servita a niente. I «patrioti» radunati da Passera e da Banca Intesa sono in fuga. I francesi sono pronti a comprare, ma al prezzo simbolico di 1 euro (all’epoca avrebbero sborsato quasi 2 miliardi). Oggi l’azienda non ha cassa per pagare gli stipendi. O ricapitalizza, o porta i libri in tribunale. E che dire di Telecom, che si balocca tra rinvii sulla rete a banda larga e bluff sulla vendita di La7, mentre gli azionisti di Telco sono indecisi a tutto e i debiti corrono oltre i 30 miliardi?
La finanza privata offre di sé uno spettacolo persino più osceno. Il «groviglio armonioso» del Montepaschi è un verminaio pauroso, dove per cinque anni
una losca «banda del 5%» ha lucrato fondi neri, nascosto documenti, spalmato perdite. Indisturbata dagli ispettori di Bankitalia, o forse pilotata dai referenti politici. Fonsai è un pozzo senza fondo, che non finisce mai di far emergere le sue vergogne: la famiglia Ligresti l’ha spolpata fino all’osso, portandola al fallimento e lucrando consulenze per 42 milioni nello stesso esercizio in cui la compagnia perdeva quasi 1 miliardo, e ora il patriarca Don Salvatore giudica «abnorme » la richiesta di risarcivantaggio mento avanzata nei suoi confronti dal commissario. Bpm, più che una banca, si conferma un comitato d’affari, dove il «Metodo- Ponzellini» produce ancora i suoi danni e gli arresti per corruzione e mafia continuano.
Per fortuna l’economia industriale e finanziaria italiana non è tutta così. Ci sono imprese che ogni giorno combattono a viso aperto sulla frontiera della qualità e della competitività. Ci sono banche che non falsificano i bilanci, anche se lesinano gli impieghi. Ma senza cadere nel qualunquismo, l’immagine complessiva dell’establishment è purtroppo questa. Nella migliore delle ipotesi, un capitalismo di rendita, che accumula e non investe. Nella peggiore, un capitalismo di rapina, che depreda e non paga dazio.
Un sistema sempre più povero, debole e asfittico. Tendenzialmente corrotto o comunque corruttibile. La Grande Industria si va ormai estinguendo, e nessuno si interroga su quale sia il destino di un Paese che coltiva ancora il mito arcaico del «piccolo è bello» o si crogiola nel sogno patetico della «filiera del turismo». La Borsa è ridotta a parco buoi o a modesto saloon, dove non si va per reperire capitale di rischio a beneficio delle aziende, ma per fare speculazioni mordi e fuggi a dei soliti cowboy. Le regole vengono facilmente violate, le autorità di Vigilanza vengono sistematicamente aggirate. Consob e Bankitalia, cani da guardia del mercato, diventano loro malgrado cani da salotto del potere.
Dunque, torniamo alla domanda cruciale: se foste un investitore estero, oggi, investireste in Italia? La risposta la danno i fatti. L’indice Ftse Mib e lo spread che risale oltre quota 300. E poi le grandi multinazionali che si tengono alla larga dal Belpaese, alla faccia di Berlusconi che si ricandida promettendo i condoni tombali e a dispetto di Monti che aveva assicurato l’ingresso sicuro dei colossi stranieri dopo la riforma del mercato del lavoro. C’è un’intera «classe dirigente» che, se mai ce l’ha avuta, sembra aver smarrito la coscienza di sé, della sua missione, della sua responsabilità. La bancarotta etica che sconvolge il capitalismo è speculare alla questione morale che travolge la politica. Se mai vedrà la luce, un nuovo governo nato dall’alleanza tra progressisti e moderati potrebbe ripartire da qui. Basta con la danza macabra intorno al totem ideologico dell’articolo 18. Abbiamo già dato.

La Repubblica 08.02.13