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"Tutti i motivi di chi rinuncia", di Chiara Saraceno

È possibile che tra le cause della drastica diminuzione delle iscrizioni all’università ci sia anche, come dichiarato dal ministro Profumo, lo sgonfiamento della bolla delle re-iscrizioni, ovvero di coloro che, già iscritti alla vecchia laurea quadriennale negli anni scorsi sono passati alla triennale. Possiamo anche mettere in conto un certo calo demografico nella coorte dell’età interessata. Forse, visto l’aumento delle tasse universitarie per gli studenti fuori corso, c’è stata anche una riduzione degli iscritti tra coloro che facevano una iscrizione di prova, ma poi non davano nessun esame.
Sgonfiamento della bolla e calo demografico, tuttavia, sono solo una parte del fenomeno. I modi e le caratteristiche di questa drastica diminuzione delle iscrizioni in un periodo di domanda di lavoro debole e alta disoccupazione giovanile costituiscono un segnale di problemi strutturali della nostra università e del loro intreccio con i meccanismi di trasmissione fra le generazioni di una disuguaglianza tra le più forti nelle democrazie sviluppate. Sono, infatti, soprattutto i diplomati degli istituti tecnici che hanno rallentato le iscrizioni alle lauree triennali, non perché attratti da una offerta di lavoro attraente sul piano economico, come avveniva in alcune aree del Nord-Est ancora negli anni Ottanta, quando molti giovani dei ceti operai e artigiani sceglievano un reddito subito, piuttosto che imbarcarsi in un processo formativo lungo che avrebbe
“pagato”, in termini economici, molto più tardi.
Piuttosto, questi giovani, che pure si trovano ad avere diplomi professionali non facilmente spendibili su un mercato del lavoro in affanno, nemmeno riescono a vedere nella laurea triennale un investimento valido, né sul piano della maturazione culturale né su quello professionale. Il fallimento della riforma tre più due è certificata dal cumularsi di aspetti negativi: l’ostilità e diffidenza con cui è spesso considerata dai datori di lavoro, inducendo a pensare che per avere qualche chance occorra proseguire nel biennio; la ridotta percentuale di chi termina nei tempi previsti (uno degli obiettivi principali della riforma), a motivo non solo dell’impegno insufficiente da parte degli studenti, ma di corsi farraginosi, spesso con una moltiplicazione del numero degli esami, con l’aggravante di piani di studio costantemente terremotati da circolari, riforme e controriforme, che fanno perdere tempo a docenti stressati e demotivati, disorientano gli studenti e pongono questioni di opportunità a genitori che comunque devono farsi carico sia del mantenimento che delle tasse universitarie.
Può non lasciarsi scoraggiare solo chi ha una fortissima motivazione personale, e/o è sostenuto da un contesto famigliare e culturale che fornisce chiavi di lettura che aiutino a muoversi in questa palude e consente di integrare il curriculum con esperienze all’estero o altro. Sono poche le risorse disponibili per orientamento e tutoraggio non puramente nominali. Probabilmente sono proprio coloro che ne trarrebbero maggior vantaggio ad autoescludersi per mancanza di informazioni, o inadeguate competenze relazionali per pretenderli e trarne frutto.
Così, mentre chi prosegue gli studi, pur rischiando di trovarsi comunque disoccupato o sottopagato, ha comunque occasioni di maturazione personale e di verifica durante il percorso delle proprie opzioni e preferenze, chi non li intraprende neppure rischia di rimanere con un pugno di mosche: sul piano delle competenze professionali e su quello della formazione culturale. Anzi, rischia di consolidarsi nell’idea che o gli studi universitari hanno un immediato esito sul mercato del lavoro o non hanno alcun valore.

La Repubblica 07.02.13

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“Così all’estero ci coccolano”, di Raffaele Simone

Anni fa partecipai a un incontro con giovani aspiranti a un dottorato della New York University. Per riunire i candidati, un collega li aveva invitati a pranzo nel faculty club in cima alla magnifica Bobst Library su Washington Square. Gli chiesi come mai un incontro del genere si tenesse in un ristorante. Mi spiegò che era interesse dell’università far buona impressione e ottenere che al dottorato si associassero i giovani migliori. Una storia del genere è inimmaginabile in Italia, dove non a caso gli studenti si allontanano silenziosamente dall’università, particolarmente da due ambiti: le umanità e le scienze. Il fenomeno in verità colpisce tutta l’Europa, ma ovviamente in Italia è più spiccato perché da noi alla crisi epocale di quei due ambiti si somma il fatto che nessuna università (salvo poche eccezioni) prende davvero a cuore i giovani che la frequentano (e finanziano). Non soltanto nessuno li invita a pranzo per far colpo, ma più in generale nessuno si cura davvero di loro. In nessuno dei passaggi chiave (orientamento, accoglienza, tutoraggio, instradamento al lavoro) la nostra università fa quel che deve. Quest’indifferenza verso i principali stakeholder dell’istituzione si osserva in una quantità di forme strutturali, in termini ancora più pesanti se si fa riferimento ai dottorandi, che sono per lo più del tutto abbandonati a sé stessi.
All’ingresso, per esempio. Prima dell’università, nessuno si preoccupa di riconoscere la vocazione del singolo. Ciò è alla base delle molte scelte sbagliate e dei moltissimi abbandoni nel primo anno. Non c’è invece paese d’Europa (almeno nell’ambito dell’Ue) in cui manchi una verifica delle predisposizioni. In diversi paesi è possibile anche cambiare indirizzo una volta riconosciuto l’errore della scelta. Inoltre, i paesi avanzati (Francia, Germania, Regno Unito, Olanda) hanno piani di borse internazionali per permettere ai giovani di sostenersi. In Italia il fondo per le borse di studio tra 2009 e 2011 si è tanto contratto che gli studenti con borsa sono passati dall’84 al 75 per cento degli aventi diritto.
La stessa indifferenza riguarda la vita quotidiana. Le maggiori università italiane (a partire dalla colossale Sapienza) dispongono di residenze solo per una quota insignificante di studenti. Chi non rientra si arrangia come può, cadendo nella trappola degli affitti in nero. In numerosi Paesi d’Europa (specialmente del nord, per non parlare del mondo anglosassone) le residenze sono uno dei fiori all’occhiello degli atenei. In Germania gli studenti
sono una tradizione antica; in Svezia, le regioni d’origine degli studenti finanziano le cosiddette Nationen,
case, spesso bellissime, in cui risiedono ragazzi provenienti dallo stesso posto; in Spagna, immobili storici restaurati ospitano studenti e professori in visita. È raro che un’università sia priva di mense, di impianti sportivi e di centri e iniziative per la vita collettiva.
Durante gli studi, poi, i giovani sono esposti al fatale rischio di disperdersi: lasciati a sé stessi, per lo più invisibili ai docenti e all’istituzione, possono cominciare ad andar male, smettere di dare esami e trasformarsi in fuori corso (specialità italiana). Non per caso il 33 per cento dei nostri iscritti finiscono fuori corso. Ho trovato in Francia e in Spagna soluzioni intelligenti a questo problema. Quando uno studente è in ritardo, viene identificato elettronicamente e invitato a un colloquio con persone esperte che cercano di capire che problema lo ha inceppato. Infine, la maggior parte dei sistemi universitari europei (e gli atenei americani importanti) mediano la temibile transizione di laureati e dottori di ricerca verso il mondo del lavoro mediante uffici di job placement.
In Italia è stato importato il termine, non il concetto e il metodo.

La Repubblica 07.02.13

"Matricole: il calo degli studenti universitari specchio dell’Italia in crisi", di Marco Revelli

Difficilmente un Paese impoverito può permettersi un buon sistema universitario. E difficilmente un Paese con un cattivo sistema educativo può sollevarsi dalla crisi. Sta in questa tenaglia il segno — uno dei tanti, purtroppo — della preoccupante situazione italiana, messo in rilievo dal recente documento del Consiglio universitario nazionale. Potremmo anche aggiungere che difficilmente un Paese poco acculturato può produrre una buona politica: un elettorato consapevole (lo vediamo in questi giorni quanto pesi il livello di istruzione sulle intenzioni di voto). Una classe dirigente all’altezza dei propri compiti. Un’amministrazione competente ed efficiente. E il cerchio si chiuderebbe.
Le 58mila matricole in meno nel 2011 rispetto al 2003 — il dato che ha scioccato perché equivalente alla popolazione di un intero grande ateneo — è in realtà solo la punta di un iceberg di proporzioni ben più ampie. Occorre aggiungere i 1.195 corsi di laurea eliminati negli ultimi sei anni, solo in parte cancellati per una sacrosanta razionalizzazione e sempre più costretti all’estinzione per assenza di fondi e di docenti. Il taglio feroce dei fondi alla ricerca libera, messa letteralmente in ginocchio dopo che già faticava a rimanere in piedi. La riduzione — davvero inqualificabile — delle borse di studio… D’altra parte noi siamo il Paese che destina al settore militare oltre 20 miliardi di euro all’anno e appena sei alla propria università. Il che ci colloca un buon 30 per cento sotto la media Ocse.
Sul Giornale di Berlusconi la notizia del calo delle matricole era stata salutata con gioia da un articolo, tanto sciagurato quanto rivelatore, del vice-direttore, intitolato Atenei, scappano in 60mila. Era ora: meglio pochi e buoni, nel quale, dopo aver liquidato l’“allarme” come «depravazione dell’egualitarismo » e «pianto dei fanatici dell’università per tutti e a tutti », si affermava che «questi dati non sono preoccupanti, no. Sono confortanti. Ci spingono più vicini agli altri Paesi civili». Non si diceva che la percentuale media di laureati nei Paesi dell’Ocse è quasi il doppio della nostra, penultimi, seguiti solo dal Portogallo. Né si informava che l’obiettivo di laurea stabilito dal ministro Gelmini per il 2020 ci copriva di vergogna di fronte all’Europa (che si propone di giungere a una percentuale pressoché doppia), collocandoci come fanalini di coda, al livello della Romania.
Non sono però solo le scelte dissennate dei governanti. Non basta un “ministero dell’ignoranza” a spiegare l’esodo. Dietro la grande fuga di questi anni c’è l’effetto congiunto di una pessima deriva economica e sociale e di una cattiva cultura dominante. In primo luogo l’effetto del progressivo, e negli ultimi tempi sempre più rapido, impoverimento del ceto medio e del lavoro dipendente, che avevano alimentato la lunga parentesi dell’università di massa. E soprattutto la crescita della diseguaglianza: quella che in termini sociologici si chiama l’“allungamento” della nostra composizione sociale, con una piccola porzione di popolazione che ha continuato a salire e in qualche caso è schizzata verso l’alto, nella sfera esclusiva del “lusso”, e una grande massa che è scivolata in basso, nella fascia maledetta dell’indigenza. I pochi possono permettersi la Bocconi, i master, la specializzazione negli Stati Uniti, e i troppi che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese, figurarsi a pagare una tassa d’iscrizione che è andata aumentando fino ad essere tra le più elevate in Europa. Una società duale, giustificata da un senso comune dominante che si focalizza sulle eccellenze — in molti casi sulla “retorica dell’eccellenza”, quasi sempre identificata con il “privato” — , sul primato delle pratiche d’èlite (come per i corpi militari), perché il resto è poco rilevante, sul piano del consumo, del riconoscimento sociale, e dei progetti di vita. Non vale neppure più la pena sostenerlo con i contributi al “diritto allo studio”.
Questo sul versante del deficit di “domanda” di istruzione universitaria. E poi c’è il problema dell’“offerta” (cosiddetta formativa, con termine riduttivo). Diciamocelo sinceramente: il passaggio alla “triennale”, tanto decantato, non ha aiutato a valorizzare la laurea. Ne ha alleggerito il contenuto di sapere. Ha contribuito a ridurne la complessità, con una falsa promessa di professionalizzazione e un’effettiva delimitazione del campo conoscitivo (altro che universitas!).
Forniamo un caleidoscopio di apparenti specializzazioni, in una fantasmagoria di titoli, che illudono sulla possibilità di una più facile collocazione sul mercato del lavoro, e che spesso ti collocano in un’area di parcheggio post-laurea sempre più lunga. Chi ha pratica di insegnamento lo sa bene.
Non sono choosy i miei studenti. Spesso si accontentano anche di lavori pagati al di sotto della decenza, e lontani anni luce dal titolo di studio acquisito. E tuttavia restano in apnea a lungo dopo la laurea: Alma-Laurea, nel suo ultimo rapporto, ci dice che dopo un anno meno della metà dei laureati trova un lavoro. E di quelli che l’hanno trovato, solo un terzo ha un impiego stabile. Se non si avvieranno robuste politiche di redistribuzione del reddito e di sostegno all’economia, da una parte, e se non si metterà mano a una sostanziale ristrutturazione dell’insegnamento universitario pubblico e della sua filosofia, dall’altra, è pressoché inevitabile che la spirale a scendere prosegua. Per i giovani. E per l’intero Paese.

La Repubblica 07.02.12

"Quel monito sui ritardi del Csm", di Vladimiro Zagrebelsky

Breve, secco, durissimo è il richiamo che il Presidente della Repubblica ha inviato al Consiglio Superiore della Magistratura. Il Presidente nota, ancora una volta, che molti uffici giudiziari rimangono molto a lungo privi dei loro magistrati dirigenti: presidenti di corte d’appello, procuratori generali, presidenti di tribunale e procuratori della Repubblica, presidenti di sezione delle corti e dei tribunali. Responsabile del ritardo è il Csm, nella cui competenza costituzionale ricade l’assegnazione dei magistrati alle diverse funzioni.
Il Presidente sottolinea che il ritardo del Csm contrasta con il dovere costituzionale di assicurare il buon andamento della amministrazione della giustizia ed è tale da avere pesanti ricadute sul prestigio della istituzione.

Per restaurare la prima e per ricostituire il secondo c’è da augurarsi una pronta, autocritica e concreta risposta da parte del Csm. Il rispetto che si è guadagnato il vice-presidente Vietti gli consente di agire per indurre il Consiglio ad operare in sintonia con i suoi doveri costituzionali e con il richiamo del Presidente.

Da tempo i ritardi del Csm sono noti e criticamente vissuti entro e fuori della magistratura. Lo è anche il merito delle scelte nelle nomine dei capi degli uffici, come è naturale che sia in un campo che richiede difficili valutazioni (previsioni) di attitudini direttive di magistrati che spesso non hanno ancora avuto modo di manifestarle. Ma ora è questione dei ritardi, che il Presidente connette anche “al trascinarsi di contrasti e/o di tentativi di accordo tra le diverse componenti della rappresentanza della magistratura in seno al Csm”. Non si tratta quindi di pigrizia o disorganizzazione, ma di un difetto che riguarda il metodo che produce le decisioni. Un metodo che incide sui tempi ed anche sul contenuto delle decisioni.

Quanto ai tempi, basta vedere l’ordine del giorno del Consiglio di questa settimana. Le deliberazioni sull’attribuzione di incarichi direttivi – tra cui quella di procuratore generale di Palermo – riguardano tutte posti che sono vacanti da più di un anno.

Il Csm è stato previsto dalla Costituzione per assicurare la autonomia della magistratura da ogni altro potere dello Stato e tutelare la indipendenza dei magistrati. Una missione che il Csm ha nel tempo garantito come effetto della sottrazione di competenze prima della Costituzione assegnate al governo e al ministro della giustizia. Ma tolta l’influenza governativa, incompatibile con i principi della separazione dei poteri e dello stato di diritto, si sono nel tempo manifestate derive negative di altro (ma talora simile) tipo. Il Csm è composto da due terzi di magistrati eletti dai loro pari e da un terzo di professori o avvocati eletti dal Parlamento. I magistrati sono eletti con metodo proporzionale su liste che nella loro quasi totalità sono presentate dalle varie “correnti” della Associazione nazionale magistrati. I componenti “laici” sono eletti per spartizione tra i partiti presenti in Parlamento. Gli uni e gli altri, i componenti “togati” e quelli “laici” operano nel Csm con maggiore o minore autonomia dal gruppo che ne ha sostenuto l’elezione, a seconda del loro carattere, del loro senso istituzionale, delle loro aspettative.

Per quel che riguarda la magistratura, a partire dagli Anni 60 del secolo scorso, i gruppi si sono formati ed affrontati sulla base di importanti e talora radicali differenze sulle concezione del ruolo della magistratura nel sistema disegnato dalla Costituzione. Nel tempo le differenze si sono affievolite. I gruppi si sono articolati e divisi. La loro identità o, come amano dire, le loro “sensibilità culturali” si sono diluite e mescolate. Ciò che rischia di rimanere è la gestione del potere, con l’avvertenza che non si tratta di una chiave di lettura univoca e da sola capace di spiegare tutto, oscurando l’area del funzionamento virtuoso dell’istituzione. E chi nel Csm è interessato a gestire il potere trova la massima occasione di impegnarsi nell’attribuzione degli incarichi direttivi (e di qualche altro incarico importante) negli uffici giudiziari. Naturalmente questa degenerazione non riguarda i soli componenti eletti dalla magistratura. D’altronde la parabola dei partiti politici non è stata molto differente. Basta vedere, tra gli esempi più recenti, come i partiti in Parlamento hanno creduto di poter adempiere al loro dovere di rinnovare la composizione delle varie Autorità Indipendenti.

Se il criterio di scelta del candidato da sostenere per l’assegnazione di un incarico direttivo è quello dell’appartenenza, allora la lottizzazione è la naturale conseguenza, indifferente o quasi al merito. E la ricerca dell’accordo, che spesso richiede che numerose pedine siano sul mercato, trascina le pratiche di rinvio in rinvio. Discutibili quindi i risultati ed anche tardivi.

Che fare? Nulla può pretendere il mondo della politica. La autonomia dell’ordine giudiziario e la indipendenza dei magistrati non è nella disponibilità dei partiti, né del Parlamento. E nella esperienza storica che viviamo, essi non offrono un modello cui si possa far riferimento. Ma nella magistratura cresce l’insofferenza. Il monito del presidente Napolitano, che avverte la caduta del prestigio del Csm, dovrebbe dar forza a una reazione del corpo stesso della magistratura. E’ la magistratura che elegge i componenti del Csm, che ne sono i rappresentanti. La scarsissima partecipazione dei giovani magistrati alla vita associativa e alla discussione sul ruolo del potere giudiziario è un segno inequivoco della mancanza di idee – e di ideali – per cui valga la pena dedicare tempo e energia. Per questo la nostalgia della vivacità dei primissimi decenni di vita della Costituzione repubblicana non è solo il frutto dell’avanzare dell’età di chi in quegli anni ha avuto la fortuna di iniziare il suo servizio in magistratura.

La Stampa 07.02.13

"Lo spirito elastico della Costituzione", di Nadia Urbinati

I diritti civili della persona, sacrosanti, non sono ancora diritti alle unioni fra le persone. La svolta della Chiesa di Roma sul riconoscimento dell’eguaglianza dei diritti civili degli omosessuali è indubbiamente un evento importante. Come ricordava Vito Mancuso su questo quotidiano, mai era successo che un prelato ammettesse che i diritti civili sono eguali per tutti in materia di convivenza. Lo ha fatto monsignor Vincenzo Paglia, il nuovo Presidente per il Pontificio Consiglio per la Famiglia. Il pronunciamento è importante perché centrato sull’eguale rispetto delle persone e la condanna della discriminazione che la criminalizzazione dell’omosessualità genera, come verifichiamo quotidianamente anche nel nostro Paese. Una battaglia di civiltà, sulla quale papa Benedetto XVI si è varie volte pronunciato mettendo in luce le sofferenze che ancora troppi governi infliggono a chi sceglie di vivere una relazione non eterosessuale.

Ma il riconoscimento che chi vive una “amicizia” omosessuale debba godere degli stessi diritti civili degli altri individui non significa riconoscimento della coppia omosessuale. Diritti sacrosanti della persona come tale e non dirittidi veder legalizzata la convivenza con una persona dello stesso sesso: un fatto di giustizia rispetto al quale è uno scandalo che anche Stati democratici avanzati, come il nostro, siano ancora tanto inadempienti. Trovare “soluzioni di diritto privato”, all’interno del “codice civile” per questioni legate al “patrimonio” (trasmissione ereditaria e comunità dei beni), è l’abc dello stato di diritto, soprattutto un coerente intervento in materia di diritto di proprietà. Ma diritti civili della persona, sacrosanti, non sono ancora diritti alle unioni fra le persone. Non si può pretendere che la Chiesa dia la benedizione a tutto ciò che vogliamo e desideriamo; ma sarebbe un errore di valutazione pensare che con questo pronunciamento la Chiesa si sia spinta fino al punto di dare la propria benedizione alle coppie non eterosessuali.

Monsignor Paglia spiega che il no della Chiesa al matrimonio gay è coerente alla legge perché “la Costituzione italiana parla molto chiaramente, ma prima ancora era il diritto romano che stabiliva cosa fosse il matrimonio”. Quindi la legge civile è la prima responsabile di questa discriminazione, non la dottrina religiosa. Si dovrebbe aggiungere che non tutti i codici sono quello italiano e che quindi la posizione della Chiesa è in linea non tanto con la legge civile, ma con la legislazione italiana – ci possono essere soluzioni diverse e tuttavia in perfetta sintonia con il diritto civile come si è visto in Francia. Ma è poi vero che la Costituzione italiana sia così esplicita e univoca nel respingere il matrimo-nio eterosessuale o meglio ancora nel definire il matrimonio?

Leggiamo l’art. 29 della nostra Costituzione: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”. Come si vede, la Costituzione non specifica l’identità sessuale dei coniugi o la composizione della famiglia. Certo, si potrebbe sostenere che questa non specificità linguistica fosse indice della mentalità dei costituenti, nella quale non rientrava molto probabilmente n’è l’opzione di coppia omosessuale né la fecondazione artificiale o l’adozione da parte di coppie non eterosessuali. Che senso aveva specificare ciò che era ritenuto naturale, normale, ovvio? Una costituzione è viva perché consente alle generazioni che verranno la libertà di farla propria, di interpretarla secondo le esigenze del loro tempo, con i diritti civili come bussola. Il silenzio della nostra Costituzione sulla definizione di matrimonio e di famiglia è un segno della sua saggezza più che una dichiarazione dogmatica su che cosa sia il matrimonio, ed è una garanzia della nostra libertà politica di decisione. La Costituzione ci orienta a interpretare che cosa sia “negoziabile” e assegna alla comunità politica (il governo democratico) l’autorità di dichiarare, nella legge civile, che cosa sia nonnegoziabile. Il tema della laicità (dell’autonomia della legge civile dalle credenze religiose) non sta

tanto nella separazione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, ma nel decidere chi stabilisce questa separazione e come la si negozia. In questa negoziazione consiste la vita democratica. Della quale la Chiesa è parte con la sua opinione e la sua libertà di partecipare alla costruzione degli orientamenti politici come tutte le altre associazioni della società civile.L’interpretazione della Costituzione riflette la lotta politica e le differenze di opinione che operano liberamente nella società. Le istituzioni non sono sigillate o rese impermeabili alla società civile (cosa che è non solo impossibile, ma sarebbe inoltre indesiderabile in una democrazia rappresentativa). L’esito di questo scambio, di questa tensione interpretativa, è la formulazione di leggi o decisioni che siano in sintonia con lo spirito della Costituzione, il quale è molto più elastico di quanto non appaia e, soprattutto, non sepolto nella mente dei costitutenti ma vivo nella nostra. E la definizione del matrimonio è una questione non chiusa come ci suggerisce monsignor Paglia, ma aperta a interpretazioni che non sono per nulla scontate o “non negoziabili”.

La Repubblica 07.02.12