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Beni Culturali: Necessario progetto organico di salvaguardia e valorizzazione

Rimettere cultura al centro delle politiche pubbliche
Sembra che in Italia non si riescano più a tenere insieme i pezzi per la salvaguardia del nostro patrimonio artistico e culturale: manca un progetto organico che ripensi le priorità e individui gli strumenti di programmazione – lo dichiara Manuela Ghizzoni, residente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati – Mentre a Pompei si dava, finalmente, l’avvio ai lavori nell’ambito del “Grande progetto Pompei”, alla Galleria degli Uffizi a Firenze – sottolinea Ghizzoni – crollava un pezzo d`intonaco affrescato. Il progetto avviato per il restauro di Pompei è frutto della sinergia tra enti locali e Unione Europea, ma, purtroppo – osserva la presidente Ghizzoni – questa non è la norma. In Italia c’è ancora il rischio di perdere 2 miliardi di euro dei Fondi regionali, che, attraverso progetti qualificati, potrebbero essere messi a frutto per la manutenzione e la valorizzazione dei siti archeologici e artistici, oggi a rischio. È indispensabile – spiega la Presidente della Commissione Cultura – attivare collaborazioni proficue tra gli enti regionali e le soprintendenze, che dovrebbero essere dotate di autonomia per lavorare efficacemente, nel rispetto di regole certe di trasparenza. Sarà compito urgente del prossimo Governo – conclude Ghizzoni – rimettere i beni culturali al centro delle politiche pubbliche, per poter cominciare ad intendere la cultura come un elemento di rilancio per il Paese e non come una zavorra economica di cui liberarsi.”

Manuela Ghizzoni è la deputata emiliana più operosa

Prima per indice di produttività nella XVI Legislatura
Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienze e Istruzione della Camera dei Deputati, è la prima deputata emiliana per produttività parlamentare nella XVI Legislatura. Lo ha registrato il rapporto “Camere Aperte 2013” redatto dall’associazione Openpolis per monitorare l’attività del Parlamento. Nel rapporto, che valuta l’attività di deputati e senatori attraverso lo studio di dati e statistiche, viene evidenziato l’Indice di produttività parlamentare, che propone la valutazione del lavoro dei Deputati e Senatori in base a criteri di efficacia: a contare non sono solo gli atti presentati, ma si verifica quanti di questi sono stati effettivamente discussi, votati o convertiti in legge. La deputata modenese del Partito democratico, su base nazionale, è risultata 17ª su 630 deputati, con un indice di produttività pari a 683,5

Scandalo Maddalene mea culpa di Dublino sulle ragazze schiave, di Enrico Franceschini

Forse le “sorelle di Maddalena” avranno pianto, un pianto liberatorio, ascoltando le sue parole. Perlomeno quelle che sono ancora vive, che non sono impazzite, che chiedono giustizia. Enda Kenny, primo ministro irlandese, ha presentato ieri le sue scuse formali, a nome del governo e delle stato, alle “Magdalene sisters”, come sono soprannominate le migliaia di donne rinchiuse in case di “rieducazione” della chiesa cattolica in Irlanda tra gli anni Venti e la metà degli anni Novanta, costrette a lavorare anche dieci ore al giorno senza ricevere un soldo, praticamente prigioniere, detenute pur senza avere alcuna colpa. Erano considerate ragazze “perdute”, in realtà erano spesso soltanto orfane o vittime di abusi familiari o di violenze sessuali, che invece di essere aiutate e difese venivano escluse dalla società, nascoste come se fossero portatrici di una infamante lettera scarlatta, sfruttate e di nuovo abusate. Ma per ora il governo non ha offerto altre riparazioni o indennizzi, e il pianto delle ex-lavandaie potrebbe anche essere di rabbia. L’ultima delle “Magdalene laundries”, le lavanderie di Maddalena, com’erano chiamate dal nome di uno degli ordini religiosi che le gestiva, ha chiuso nel 1996. Un film del 2002 (“Magdalene sisters”) ha svelato al mondo cosa succedeva in quei luoghi. Ma sono dovuti passare quindici anni affinché nel 2011 la Commissione delle Nazioni Unite contro la Tortura denunciasse questo crimine della Chiesa cattolica, commesso nel più cattolico paese d’Europa, con la connivenza delle autorità. E ne sono trascorsi altri due affinché l’inchiesta ordinata dall’Onu all’Irlanda fosse conclusa. Presieduta dal senatore John Macaalese, l’indagine ha prodotto un rapporto di mille pagine che è stato consegnato ieri al governo. Il premier Kenny ha risposto con un’immediata dichiarazione di scuse alle sopravvissute e ai familiari delle vittime. Il Parlamento irlandese discuterà il contenuto della relazione tra due settimane, prendendosi dunque il tempo per leggerlo approfonditamente. Ma intanto qualcosa sul corposo documento già trapela. Il rapporto afferma che circa 10 mila donne (altre stime parlano di 30 mila) passarono per le lavanderie degli ordini di suore, che lavoravano a pieno ritmo, avendo come clienti le forze armate, la polizia e altri apparati dello Stato, che non si sono mai chiesti chi puliva e stirava le loro lenzuola e le loro camicie, e con quale paga (nessuna, come sappiamo adesso). Quelle case di lavoro operavano «in un’Irlanda crudele e inflessibile», riconosce il primo ministro, pur negando che le prigioniere fossero sottoposte anche ad abusi sessuali. Sempre secondo l’inchiesta, il 10% delle giovani donne furono spedite dalle loro famiglie in quelle che erano in effetti delle prigioni, il 19% sarebbero entrate «di loro volontà» e le altre su indicazione di forze dell’ordine o della chiesa, di fatto condannate senza processo. «Che pena diabolica abbiamo patito», ricorda una di esse, Maureen Sullivan, oggi 60enne. «Io ci entrai a 12 anni. Mia madre era rimasta vedova e si era risposta, il mio patrigno abusò di me e come risultato mi spedirono dalle suore. In teoria doveva essere una scuola, ma non mi fecero mai studiare niente, lavoravo giorno e notte gratis e mi hanno fatto tanto male». Le superstiti chiedono ora un atto riparatorio da parte del governo e una compensazione economica. «Ma soprattutto – dice la Sullivan – vogliamo che sia resa nota la verità».
Da La Repubblica

L’arte della pace, di Adriano Sofri

A un certo punto è invalso l’uso del nome di “disabile” – e della sua variante, “diversamente abile”. Non è facile da definire; si può farlo alla rovescia, basta il lessico del vecchio servizio militare. Là una visita ti dichiarava “abile arruolato” oppure “scartato”. Si era idonei alla vita, cioè alla guerra, e se no si apparteneva allo scarto. Immagino che venga da qui il titolo che Massimo Toschi ha scelto per il racconto della sua vita, Un “abile per la pace”. La disabilità – nel suo caso, l’effetto di una poliomielite contratta nel primo anno di vita, nel 1945 – non gli impedisce di arruolarsi fra i costruttori di pace, e anzi agisce come un vantaggio. La sua prima terapia fu di pedalare su un triciclo, immaginandosi alla ruota di Bartali. Andò a Lourdes (l’avrebbe rifatto tante volte, accompagnando i pellegrini) e gli successe qualcosa che valeva un miracolo: si accorse dei tanti che soffrivano molto più di lui. Toschi è un viaggiatore. In conto proprio, o per la presidenza di Prodi, o da assessore regionale toscano. Non c’è luogo estremo, di guerre, di povertà e di malattie che non abbia visitato. Il record dei suoi viaggi è tanto più invidiabile per uno che ha mosso i suoi primi passi quando aveva undici anni, che sa camminare lentamente e per un tratto appoggiandosi a un bastone e a un braccio amico, e che per il resto si muove nella sua carrozzina. Viene da dire che è un così gran viaggiatore nonostante ciò. In realtà, lo è perciò. Se espressioni come “diversamente abile” suonano spesso ipocrite, eufemizzazioni di eufemismi, succede davvero che ci siano imprese debitrici di uno svantaggio. Una volta atterra in Sierra Leone, dov’è andato per conoscere la tragedia dei bambini soldato, il comandante dell’aeroporto lo indica con un’aria grave. Forse i documenti non sono in regola? In realtà quello sta chiedendo come mai abbia avuto la polio, che è una malattia dei neri e non dei bianchi, allora gli spiegano che si è ammalato in Europa, quando non c’era il vaccino, e che ora col vaccino si può sconfiggere la polio anche in Africa. Il comandante si congratula con lui: è il primo bianco con la polio che ha visto in Africa. In Sierra Leone va nel quartiere degli amputati: «E chi aveva le braccia e non aveva le gambe aiutava chi aveva le gambe e non aveva le braccia…». Un’altra volta è in Congo, a Goma, il centro della immane guerra di Stati di tribù e di bande che infierisce nel paese. Visita un campo profughi “spontaneo” di decine di migliaia di persone. «Non c’erano strade…, mi sono trovato spinto da un centinaio di bambini per i quali la carrozzina era una specie di grande giocattolo inspiegabile, perché i bianchi non vanno in giro in carrozzina». C’è chi viaggia per aiutare il prossimo, e chi aiuta il prossimo per viaggiare: Toschi le due cose. In Sudafrica, un Mandela incuriosito chiede che cosa spinga la Toscana a impegnarsi contro l’Aids nel suo paese. Alla fine degli anni Novanta l’Algeria è sconvolta da un terrorismo islamista e una guerra civile che costeranno forse centomila vittime in una decina d’anni. È come una staffetta tragica di “guerre”: dalla ex-Jugoslavia al Ruanda, all’Algeria, all’eterna Palestina. E di inerzie, omissioni, complicità. In Algeria, qui dirimpetto, vanno in pochissimi: c’entra una situazione torbida, ma soprattutto una viltà. Toschi va per la prima volta a Tibhirine, nel monastero dell’eccidio, e poi all’ospedale di Medea, e anche lì trova i bambini amputati. Uno, Ranì, ha perso una gamba su una mina. Una protesi lo rimetterà in piedi; una mutilazione mal curata l’avrebbe condannato. Toschi sa che cosa vuol dire rimettersi in piedi, e potersi muovere. «Mia madre – dice – non si è mai vergognata di me»: frase bella e terribile. Sua madre ha fatto sì che avesse la stessa vita dei suoi coetanei, nel paese della Lucchesia in cui è nato. La conquista più importante viene, imprevista e forse insperata, in una tavolata di studenti della Cattolica. Si fanno scherzi, il primo della fila versa acqua sulla tovaglia tenuta sollevata dagli altri in modo da farla scorrere fino a bagnare l’ultimo. Massimo è benvoluto da tutti, e gli scherzi così lo risparmiano. Però un giorno una ragazza del gruppo riempie una caraffa d’acqua e la versa sulla testa di Massimo, stupendo tutti. Anche lui, che è stato trattato alla pari degli altri. La ragazza diventerà sua moglie, la madre di sua figlia, la compagna dei suoi viaggi, la donna coraggiosa che per anni combatterà una propria inesorabile malattia. Ha un modo speciale di combinare i grandi ideali con gli episodi minimi, Toschi. Gli chiedono di venire in Consiglio in giacca e cravatta: me la metterò, risponde, quando avrete abolito gli scalini che impediscono a un disabile di entrare in carrozzina. Non sono cattivi, spiega, i responsabili che ignorano le barriere, sono semplicemente ciechi: non vedono gli scalini. In un’Aula Magna è invitato a parlare con ministri, rettori eccetera: c’è uno scalino che si oppone. «Si pensa che il disabile, oltre a essere disabile, è anche un po’ scemo. Quindi non gli toccherà mai di parlare dal palco… In quel convegno si voleva risolvere il problema del clima, e non si era neanche in grado di risolvere il problema di uno scalino». Si è diversamente abili, con gli scalini. Toschi ha calcolato che nei due anni di ginnasio, «che era al secondo piano, ho fatto ogni giorno per due volte 72 scalini a salire e 72 a scendere, in totale 288 per 200 giorni all’anno. Complessivamente circa 50mila scalini…». Ho conosciuto Toschi in galera, ho pensato che i detenuti contano i passi e i giorni come lui i giorni e gli scalini. Quando Giovanni XXIII al suo primo atto visitò i bambini malati e i carcerati, gli sembrò che si rivolgesse anche a lui. Andò, con altri di Lucca, a Barbiana da don Milani, che gli diede un posto d’onore al suo fianco, poi li interrogò sulla città, la sua tradizione “bianca”, loro farfugliarono e don Milani si sbrigò a metterli alla porta, «e aveva ragione».
Da La repubblica

Se anche Keynes è un estremista, di Barbara Spinelli

A differenza del Syriza greco le sinistre radicali non si sono unite (sono presenti nel Sel di Vendola, nella lista Ingroia, in parte del Pd, nello stesso Movimento 5 Stelle), ma un presagio pare accomunarle: la questione sociale, sorta nell’800 dall’industrializzazione, rinasce in tempi di disindustrializzazione e non trova stavolta né dighe né ascolto. Berlusconi sfrutta il malessere per offrire il suo orizzonte: più disuguaglianze, più condoni ai ricchi, e in Europa un futile isolamento. Sul Messaggero del 30 gennaio, il matematico Giorgio Israel denuncia l’astrattezza di chi immagina «che un paese possa riprendersi mentre i suoi cittadini vegetano depressi e senza prospettive, affidati passivamente alle cure di chi ne sa». Non diversa l’accusa di Paul Krugman: i governanti, soprattutto se dottrinari del neoliberismo, hanno dimenticato che «l’economia è un sistema sociale creato dalle persone per le persone ». Questo dice il graffito greco: se è per impoverirci, per usarci come cavie di politiche ritenute deleterie nello stesso Fmi, di grazia non salvateci. Non è demagogia, non è il comunismo che constata di nuovo il destino di fatale pauperizzazione del capitalismo. È una rivolta contro le incorporee certezze di chi in nome del futuro sacrifica le generazioni presenti, ed è stato accecato dall’esito della guerra fredda. Da quella guerra il comunismo uscì polverizzato, ma la vittoria delle economie di mercato fu breve, e ingannevole. Specie in Europa, la sfida dell’avversario aveva plasmato e trasformato il capitalismo profondamente: lo Stato sociale, il piano Marshall del dopoguerra, il peso di sindacati e socialdemocrazie potenti, l’Unione infine tra Europei negli anni ’50, furono la risposta escogitata per evitare che i popoli venissero tentati dalle malie comuniste. Dopo la caduta del Muro quella molla s’allentò, fino a svanire, e disinvoltamente si disse che la questione sociale era tramontata, bastava ritoccarla appena un po’. È la sorte che tocca ai vincitori, in ogni guerra: il successo li rende ebbri, immemori. Facilmente degenera in maledizione. Le forze accumulate nella battaglia scemano: distruggendo il consenso creatosi attorno a esse (in particolare il consenso keynesiano, durato fino agli anni ’70) e riducendo la propensione a inventare il nuovo. Forse questo intendeva Georgij Arbatov, consigliere di politica estera di molti capi sovietici, quando disse alla fine degli anni ’80: «Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico”. Quando nel 2007-2008 cominciò la grande crisi, e nel 2010 lambì l’Europa, economisti e governanti si ritrovarono del tutto impreparati, sorpassati, non diversamente dal comunismo reale travolto dai movimenti nell’89. È il dramma che fa da sfondo alle tante invettive che prorompono nella campagna elettorale: gli attacchi dei centristi a Niki Vendola e alla Cgil in primis, ma anche al radicalismo della lista Ingroia, a certe collere sociali del Movimento 5 stelle, non sono una novità nell’Italia dell’ultimo quarto di secolo. Sono la versione meno rozza della retorica anticomunista che favorì l’irresistibile ascesa di Berlusconi, poco dopo la fine del-l’Urss, e ancora lo favorisce. Il nemico andava artificiosamente tenuto in vita, o rimodellato, affinché il malaugurio di Arbatov non s’inverasse. Se la crisi economica è una guerra, perché privarsi di avversari così comodi, e provvidenzialmente disuniti? Quando Vendola dice a Monti che occorrerà accordarsi sul programma, nel caso in cui la sinistra governasse col centro, il presidente del Consiglio alza stupefatto gli occhi e replica: «Ma stiamo scherzando?», quasi un impudente eretico avesse cercato di piazzare il suo Vangelo gnostico nel canone biblico. Anche i difensori di Keynes sono additati al disprezzo: non sanno, costoro, che la guerra l’hanno persa anch’essi, nelle accademie e dappertutto? In realtà non è affatto vero che l’hanno persa, e che lo spettro combattuto da Keynes sia finito in chiusi cassetti. Quando in Europa riaffiora la questione sociale – la povertà, la disoccupazione di massa – non puoi liquidarla come fosse una teoria defunta. È una questione terribilmente moderna, purtroppo. La ricetta comunista è fallita, ma il capitalismo sta messo abbastanza male (non quello della guerra fredda: quello decerebrato e svuotato dalla fine della guerra fredda). Non è rovinato come il comunismo sovietico, ma di scacco si tratta pur sempre. È un fallimento non riuscire ad ascoltare e integrare le sinistre che in tantissime forme (anche limitandosi a combattere illegalità e corruzione politica) segnalano il ritorno non di una dottrina ma di un ben tangibile impoverimento. Prodi aveva visto giusto quando scommise sulla loro responsabilizzazione, e li immise nel governo. Fu abbattuto dalla propaganda televisiva di Berlusconi, ma la sua domanda non perde valore: come fronteggiare le crisi se non si coinvolge il malcontento, compreso quello morale? Ancor più oggi, nella recessione europea che perdura: difficile sormontarla senza il rispetto, e se possibile il consenso, dei nuovi dannati della terra. Forse abbiamo un’idea falsa delle modernità. Moderno non è chi sbandiera un’idead’avanguardia. È, molto semplicemente, la storia che ci è contemporanea: che succede nei modi del tempo presente. Se la questione sociale ricompare, questa è modernità e moderni tornano a essere il sindacalismo, la socialdemocrazia, che per antico mestiere tentano di drizzare le storture capitaliste – con il welfare, la protezione dei più deboli. Sono correzioni, queste sì riformatrici, che non hanno distrutto, ma vivificato e potenziato il capitalismo. È la più moderna delle risposte, oggi come nel dopoguerra quando le democrazie del continente si unirono. Non a caso viene dal più forte sindacato d’Europa, il Dgb tedesco, una delle più innovative proposte anti-crisi: un piano Marshall per l’Europa, gestito dall’Unione, simile al New Deal di Roosevelt negli anni ’30. Dicono che i vecchi rimedi keynesiani – welfare, cura del bene pubblico – accrescono l’irresponsabilità individuale e degli Stati, assuefacendoli all’assistenza. Paventato è l’azzardo morale: bestia nera per chi oggi esige duro rigore. L’economista Albert Hirschman ha spiegato come le retoriche reazionarie abbiano tentato, dal ’700-800, di bloccare ogni progresso civile o sociale (Retoriche dell’intransigenza,Il Mulino). Fra gli argomenti prediletti ve ne sono due, che nonostante le smentite restano attualissimi: la tesi della perversità, e della messa a repentaglio. Ogni passo avanti (suffragio universale, welfare, diritti individuali) perfidamente produce regresso, o mette a rischio conquiste precedenti. «Questo ucciderà quello», così Victor Hugo narra l’avvento del libro stampato che uccise le cattedrali. Oggi si direbbe: welfare o redditi minimi garantiti creano irresponsabilità. Quanto ai matrimoni gay, è la cattedrale dell’unione uomo-donna a soccombere, chissà perché. Non è scritto da nessuna parte che la storia vada fatalmente in tale direzione. In astratto magari sì, ma se smettiamo di dissertare di «capitale umano» e parliamo di persone, forse l’azzardo morale diventa una scommessa vincente, come vincente dimostrò di essere nei secoli passati.
Da La repubblica

La nostra vergogna, di Carlo Verdelli

Non è vero che il mondo è piccolo, non sempre. Non per i gay. Negli stessi giorni, nello stesso mondo, accadono cose opposte e lontanissime. E stanno accadendo tutte insieme. Tranne che in Italia, dove pure è in corso una campagna elettorale dove di tanto si parla, e si sparla, meno che di diritti civili, messi ai margini del dibattito per evitare, specie a sinistra, crepe nelle coalizioni. Eppure, altrove, la materia è incandescente. A tal punto che persino il Vaticano, proprio l’altro ieri, si è sentito in dovere di aprire uno spiraglio nel portale di San Pietro: il suo ministro della Famiglia, monsignor Paglia, ha detto che anche le coppie omosessuali hanno dei diritti. Diritti privati, bene inteso, in campo patrimoniale, per esempio, terreni limitati, comprensibilmente, che però “la politica”, esorta Paglia, “deve cominciare a percorrere tranquillamente”. Notare il verbo: “deve”.
In molti, indipendentemente dalle confessioni o dall’appartenenza politica, stanno già dando o hanno già dato. In Francia, il primo ministro Hollande (da sinistra) sta forzando i tempi per l’introduzione di matrimoni e adozioni gay. In Gran Bretagna, il primo ministro Cameron (da destra) sta sfidando il suo stesso partito per approdare allo stesso risultato e ieri alla Camera dei Comuni ha vinto il primo round. Per entrambi i leader, il peso di questa scelta è gravosissimo: piazze in rivolta, anatemi dei cattolici, costi politici imprevedibili. Ma il principio, evidentemente, prevale sul calcolo. E il principio è lo stesso evocato dal presidente Obama nel discorso per l’insediamento del suo secondo mandato: “Il nostro viaggio non sarà finito finché i nostri fratelli e sorelle gay non saranno trattati come tutti gli altri, per legge”. Una nuova frontiera, indicata con la potenza di parole, politiche e profetiche insieme, che si riannodano a quelle di Abramo Lincoln (1863) dopo la guerra di Secessione e l’abolizione della schiavitù (“Decidiamo qui, oggi, che questi morti non siano morti invano”) o alla storica perorazione, cent’anni dopo, di Martin Luther King: “Ho un sogno: che i miei quattro figli vivano un giorno in una nazione dove non siano giudicati dal colore della pelle ma dalla sostanza del carattere”. Il bianco come il nero. L’uomo come l’omo. Nelle stesse ore in cui Obama lanciava sul mondo, compreso quello musulmano, un’idea molto più esplosiva di una testata nucleare, il presidente russo Putin spingeva la sua Duma ad approvare una legge che vieta di fornire ai minorenni informazioni sui gay, mettendosi gagliardamente sulla strada di quegli 80 Paesi in cui l’omosessualità è considerata reato (e in 8 di questi, tra cui Iran, Arabia Saudita, Nigeria, punita con la pena di morte). Per un curioso gioco di specchi, sempre in concomitanza con la promessa epocale del presidente americano, il politico italiano forse più stimato
fuori dall’Italia, America compresa, e cioè Mario Monti, battezzava così la sua salita in politica, almeno per quel che riguarda i diritti civili: “ Il mio pensiero è che la famiglia sia costituita da un uomo e una donna, e ritengo necessario che i figli crescano con un padre e una madre”. Lo stesso concetto che Papa Ratzinger, poche ore dopo, ribadiva con più alate parole: “La reciprocità tra maschile e femminile è espressione della bellezza della natura umana voluta dal Creatore. No a progetti in contrasto con l’antropologia cristiana”. Sarà una coincidenza, ma più o meno nelle stesse ore la commissione Giustizia della Camera bocciava il testo per una nuova legge contro l’omofobia. In Italia, dal 1993, sono punite tutte le discriminazioni immaginabili (razziali, religiose, etniche) ma non quelle sessuali. I “peccati” da noi si espiano, non si legittimano. E i “peccatori” si rassegnino. Oppure, se ne hanno la facoltà, denuncino il clima non favorevole nel quale sono costretti a vivere, come ha fatto ieri Niki Vendola su “Il fatto”, dove ha confessato di aver paura di uscire la sera a Roma da solo: la sua omosessualità pluridichiarata lo mette in pericolo “di fronte a piccoli gruppi fascisti, sdoganati negli anni del sindaco Alemanno e dediti all’igiene della società”. Eppure Vendola è un bastione di quel centrosinistra che si candida a governare il Paese, con buone possibilità di riuscirci. E che idea ha, quel centrosinistra, a proposito del fermento egualitario che sta attraversando l’Europa? Per ora, una soltanto: il riconoscimento giuridico dell’unione omosessuale, al pari di quel che già c’è in molti Paesi tiepidamente progressisti come Germania, Finlandia, Svizzera. Altrove, sono avanti di un pezzo. Dall’inizio degli anni Duemila, sono già otto i Paesi europei che hanno superato la divisione uomo-omo, dando il via libera a nozze e adozioni; tra questi, le molto cattoliche Spagna e Portogallo. Persino in Albania si può, nonostante la maggioranza musulmana e un premier conservatore. Stessi pari diritti in Argentina, Canada, Sudafrica. Di fronte a questa accelerazione globale, a questo movimento che marca ancora di più un’aspirazione concreta all’uguaglianza anche in un terreno minato e delicato come quello della sessualità, e più in generale, dell’uguaglianza, l’Italia elettorale, nel migliore dei casi, prende tempo. Quando è possibile allontana il problema, come nel caso di Paola Concia, deputata uscente del Pd, lesbica sposata all’estero, solo a fatica candidata nelle liste del suo partito, grazie anche alle proteste di un’ampia area variamente liberal (dal giurista Guido Rossi alla sociologa Chiara Saraceno, a Mara Venier). Altra soluzione: riparlarne dopo il voto, come se quello dei diritti civili fosse un argomento da eventuali e varie. Per capire quanto non lo sia, oltre al finimondo che si sta scatenando da Parigi a Londra a Washington, basterebbe riflettere su una frase dal cuor sfuggita a Paolo Berlusconi, fratello di Silvio. Rivolgendosi a un gruppo di amici prima dell’esordio di Balotelli al Meazza di Milano, li ha sollecitati a seguirlo allo stadio con queste parole: “Andiamo a vedere il negretto”. Viene in mente l’immenso Mohammed Alì: “Allora il cameriere mi fa: noi non serviamo negri. Gli dico: comunque non li mangerei”. Una certa idea dell’Italia pretenderebbe una risposta così anche per i gay.
Da La Repubblica

L’alleanza possibile contro i populismi, di Claudio Tito

L’idea di normalità per un Paese abituato da quasi venti anni agli strappi istituzionali e alla finanza sgangheratamente creativa di Silvio Berlusconi spesso assomiglia ad una chimera. Eppure negli ultimi quattordici mesi l’Italia era faticosamente riuscita a riconquistare quell’idea. Ma sono bastate poche settimane di campagna elettorale e le tante sparate del Cavaliere per farla ripiombare nella spirale della inattendibilità e della confusione. Un Paese poco credibile per tutte le Cancellerie europee e assolutamente inaffidabile per i mercati finanziari. La possibilità che il Pdl possa di nuovo esserne la guida ha letteralmente gettato nel panico gli alleati e i grandi investitori, le banche d’affari e i piccoli risparmiatori. Di questo hanno dovuto prendere atto gli unici due veri avversari del centrodestra: Pierluigi Bersani e Mario Monti. Dopo le puntute incomprensioni dei giorni scorsi e qualche velenosa polemica, il segretario del Pd e il premier uscente hanno riaperto il canale di comunicazione interrotto subito dopo la “salita” in campo del Professore. È qualcosa di più di una semplice riconciliazione, si tratta di un percorso che i due saranno costretti a seguire insieme. Nei giorni scorsi gli interessi elettorali hanno avuto il sopravvento. Entrambi hanno forse preferito la strada della furbizia propagandistica proclamando una reciproca distanza e autonomia. Ma la forza degli eventi li sta costringendo a rimettere in piedi un discorso che fino a dicembre scorso sembrava sostanzialmente scontato. L’Italia non ha più le risorse per sopportare un’altra stagione di populismo e demagogia. Un’altra fase di qualunquismo e di fantasie leghiste. Sarebbe esiziale per gli italiani e probabilmente per l’Unione europea. Se il prossimo governo di Roma non fosse in grado di fornire tutte le garanzie dal punto di vista della tenuta economica e della solidità democratica, la risposta sarebbe esattamente quella sperimentata in questi giorni: una tempesta si abbatterebbe sulla nostra Borsa e sui nostri titoli di debito pubblico. E i primi a farne le spese saranno gli italiani. Una prospettiva che sta terrorizzando anche la principale istituzione monetaria continentale: la Bce. Un crollo italiano, infatti, metterebbe in ginocchio il resto dell’Europa. Dinanzi ai fronti populisti che si stanno materializzando, le prove tecniche di alleanza tra il centrosinistra e i centristi non potranno però che prendere corpo dopo il voto. Probabilmente, per evitare la dispersione del voto, Monti e Bersani continueranno a far finta – anche se sempre meno – di coltivare destini separati. Ma la forza degli eventi, appunto, appare già abbastanza inequivocabile. Basti pensare al tenore del colloquio che ieri c’è stato tra il leader democratico e il potente ministro tedesco delle Finanze Schäuble. Con quest’ultimo non solo allarmato dalle sparate berlusconiane ma anche interessato a sapere quale ruolo il Pd intende assegnare a Monti. L’Europa – e gli Usa – non possono insomma accettare di ritrovarsi di nuovo un interlocutore, come Berlusconi, considerato nel migliore dei casi folcloristico. Un’intesa tra Bersani e il Professore appare l’unica alternativa credibile nell’attuale quadro internazionale e per dare concreto sviluppo alle riforme che questo Paese reclama da tempo. Anche il leader di Sel Vendola, nonostante qualche resistenza, sembra pronto a non escluderla. E forse non è un caso che oltre a scambiarsi delle “promesse”, i due ieri siano andati ben oltre. I montiani sono arrivati a ipotizzare una forma di “desistenza” in Lombardia per evitare la vittoria di Maroni. Nella regione considerata centrale dal punto di vista elettorale, una mossa di questo tipo potrebbe rivelarsi determinante. Ma i populismi e la demagogia purtroppo non sono una prerogativa solo del centrodestra. Grillo è il portabandiera di un qualunquismo capace solo di distruggere in una sorta di luddismo istituzionale. E poi ci sono gli Arancioni di Antonio Ingroia. Cosa farà a questo punto l’ex pm? Insisterà su una linea che rischia di avere un unico sbocco, ossia la vittoria di Berlusconi? Se così sarà, per l’ennesima volta una certa sinistra populista dimostrerà – come è accaduto in passato – di coltivare un solo interesse: far perdere la sinistra riformista. Anche a costo di consegnare il Paese ad una destra irresponsabile, che non potrà cancellare in qualche comizio televisivo il disastro economico e culturale combinato negli ultimi diciannove anni.
Da La Repubblica