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Soumaya Gharshallah: La donna che difende la Primavera nel museo di Tunisi, di Stefania di Lellis

Non si vedono neanche gli occhi, coperti da un paio di occhiali anni Ottanta. Solo un velo nero che ondeggia trasportato da ballerine color cuoio tra un atleta romano nudo e una Torah sottovetro. Baya non è l’unica visitatrice di stretta osservanza islamica nei corridoi del Bardo. Il museo fiore all’occhiello della Tunisia, ma anche cruccio della nuova minoranza rumorosa degli ultrà delle fede che assediano il paese, è punteggiato di donne in niqab accompagnate da uomini con barba d’ordinanza. E poi guide velate e studentesse con l’hijab, il copricapo delle musulmane un po’ meno intransigenti. «Vede, per me avere queste donne qui dentro è un successo», spiega Soumaya Gharshallah. Trentacinque anni, un bambino di tre, è l’unica curatrice di museo della Tunisia e una delle poche nel mondo arabo. La chiamano quella del ‘museo plurale’. Aggettivo che suona quasi blasfemo in un paese dove cresce sempre di più la voce di quelli che a chi reclama democrazia e dialogo rispondono con il pensiero unico di Dio.
La straordinaria collezione di mosaici romani, paleocristiani, ebraici e islamici ha appena riaperto le porte a Tunisi dopo un grande restauro che ha consentito il raddoppio della superficie espositiva e un restyling che ha consegnato il Bardo alla lista dei musei da vivere e non solo da visitare. Ma vivere un’arte che parla di quattro religioni diverse può essere anche una rivoluzione. Ed è questa la battaglia che
sta riuscendo a Soumaya.
Direttore, mentre voi inauguravate il nuovo Bardo i salafiti a pochi chilometri da qui, a La Marsa, assaltavano una mostra di arte ‘degenerata’. Avete avuto paura anche voi? Crede che le opere esposte qui dentro possano rischiare il destino dei Buddha di Bamyan distrutti dai Taliban in Afghanistan?
«Per un momento abbiamo avuto paura. Non per la sicurezza qui dentro: accanto c’è l’edificio della Corte costituzionale e non manca lo schieramento di polizia. E neanche per la mia sicurezza personale. Non è questo il punto. La paura è quella di vedere il mio paese trasformarsi
in un luogo dove non si ha la coscienza e l’orgoglio del proprio patrimonio nazionale. Se questo avviene è grave».
Sta succedendo?
«Gli scontri sul velo all’università, gli attacchi agli artisti e ai
giornalisti: sono segnali preoccupanti. Ma ci sono anche molti elementi che fanno sperare. Posso citargliene uno? Il 14 gennaio abbiamo celebrato i due anni dalla rivoluzione con una giornata ‘porte aperte’, biglietto
di ingresso gratis. Bene: siamo stati letteralmente invasi dai visitatori. Donne velate, i loro mariti. Bambini, ragazzi, vecchi. Guardi che non era scontato. Qui dentro ci sono opere romane, cristiane, giudaiche non
solo islamiche».
Arte pericolosa per i salafiti?
«Anche su questo dobbiamo lavorare. Stiamo organizzando percorsi tematici per le scuole. Leggiamo stupore negli occhi dei ragazzi, dei bambini quando
spieghiamo loro che certi valori, certe religioni non vengono solo dall’Occidente ma provengono dalla nostra storia, dalla Tunisia, dall’Africa. Rimangono sorpresi e affascinati. E lo sa che succede? Il giorno dopo tornano con le famiglie. Con le loro mamme velate, con i loro papà religiosi».
Una rivoluzione?
«Questo più che un museo archeologico è un museo di civiltà. Racconta il passato della Tunisia, che è sempre stato un mélange di culture, da sempre abbiamo vissuto insieme. L’importante è accettare le differenze. Questa è la democrazia e questo va insegnato ai giovani».
È difficile per una donna, per di più giovane, fare tutto questo?
«Abbiamo rovesciato Ben Ali, abbiamo fatto una rivoluzione per dare fiducia ai giovani. Ci sono ancora diffidenze, difficoltà. Ma credo che le cose andranno meglio quando si saranno risolti problemi pressanti per noi come per tutti i tunisini. Le difficoltà economiche ci strangolano. Difficile per noi muoversi tra le ristrettezze di budget e la burocrazia, difficilissimo vivere per tanti, troppi in questo paese. E la fame può essere una minaccia ».
Che rischi vede?
«La Tunisia sta ancora cercando la via giusta per avanzare. Non siamo abituati a libertà e democrazia e c’è chi vuole approfittarne per il proprio tornaconto. La strada è lunga».
Lei ha partecipato alle manifestazioni che hanno costretto Ben Ali a’ dégager’, ad andarsene?
«Ognuno fa la rivoluzione a suo modo. Sul web abbiamo manifestato tutti. In piazza alcuni. Io ho deciso di lavorare ogni giorno, freneticamente: cercavo di catalogare più opere possibile perché nessuno potesse approfittare del cambiamento per rubare l’anima del paese, perché si ritrovassero i beni trafugati dal dittatore e dalla famiglia. Anche questo è combattere. Perché il nuovo paese abbia la sua memoria. Perché la memoria può essere rivoluzione».
Lei non porta il velo. Che direbbe a una donna che accetta o sceglie di coprirsi interamente?
«Rispetto la tua scelta. Consenti anche a me di scegliere».

da La Repubblica

Le donne e il professore, di Chiara Saraceno

Una “detassazione selettiva del reddito (da lavoro) femminile per portare il tasso di occupazione femminile dal 46% al 60%”. È la proposta di Monti e della sua lista Scelta Civica per incoraggiare l’occupazione femminile. Non si tratta di una proposta nuovissima. La hanno più volte avanzata anche Andrea Ichino e Alberto Alesina, con la specificazione che, per non perder gettito,ilcostodell’operazionedovrebbe essere sostenuto da un simultaneo aumento, si spera selettivo, dell’aliquota dei redditi maschili. Avrebbe il vantaggio di aumentare il potere negoziale delle donne nella coppia rispetto alla partecipazione al lavoro (remunerato). Nella speranza che simmetricamenteciòincentiviinvece gli uomini ad assumere parte del lavoro famigliare, svolto di norma per la maggior parte, se non nella totalità, dalle donne con carichi famigliari — che abbiano o meno anche un lavoro remunerato.
Non è ben chiaro come questa proposta si concili con quella della riduzione del cuneo fiscale sul reddito da lavoro per tutti e ancor più con questioni di equità a livello individuale e famigliare. Un lavoratore maschio a basso reddito che sia l’unico percettore di reddito in famiglia sarà tassato di più di una lavoratrice nelle sue medesime condizioni o anche di una sposata con un professionista ad alto reddito?
Anche lasciando da parte le questioni di equità, è l’ipotesi di fondo, in puro stile economicista, che manca la sostanza del problema. I vincoli alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro in Italia sono essenzialmente tre.Inprimoluogo,c’èunabassa domanda di lavoro che non solo colpisce più le donne che gli uomini, ma più le meno istruite delle più istruite e più nel Mezzogiorno che nel Centro- Nord. L’inattività femminile, specie tra le più giovani, è fortemente concentrata al Sud e tra le donne meno istruite. Un reddito da lavoro irraggiungibile non può avvantaggiarsi di nessuna detassazione. Meglio sarebbe offrire vera formazione e vera occupazione, alternativa non solo al casalingato, ma anche al ricatto del lavoro in nero senza protezioni e in condizioni rischiose, come ha mostrato il dramma di Barletta. In secondo luogo, il 20% delle lavoratrici continua a lasciare il lavoro per motivi famigliari, perché gli orari di lavoro mal si conciliano con le esigenze di bambini piccoli o famigliari non autosufficienti, stante anche la carenza dei servizi e l’organizzazione degli orari scolastici (quotidiani, non solo quelli delle vacanze). Quelle che tengono duro, fanno i salti mortali e devono spesso affidarsi vuoi alle nonne, vuoi al mercato, sempre che abbiano le une o le risorse per l’altro. Da ormai un decennio sia il settore dei servizi che quello della scuola ha conosciuto un costante e radicale ridimensionamento delle risorse finanziarie disponibili. Anche il governo Monti ha proseguito sulla stessa linea (con conseguenze anche sulla domanda di lavoro, per lo più femminile, in questi settori). E non vi è nulla nella agenda Monti che richiami la questione. Infine, l’Italia è tra i paesi sviluppati quello in cui la divisione del lavorononpagatonellacoppia(quando c’è coppia, che non è sempre il caso) è tra le più asimmetriche, indipendentemente dal fatto che la donna sia occupata. Se è vero che nelle coppie in cui la donna è occupata gli uomini fanno qualche cosa in più, le donne complessivamente hanno un carico di lavoro pagato e non pagato di circa 9 ore settimanali più alto di quello degli uomini. L’alternativa non è tra fare la casalinga o la lavoratrice remunerata, come ha suggerito Monti a Milano presentando la sua proposta. È tra fare solo la casalinga o anche la lavoratrice remunerata. Non sarà la detassazione del lavoro delle donne ad incentivare gli uomini a ridurre il proprio orario di lavoro pagato per fare un po’ più di lavoro domestico, tanto più in un contesto complessivo di vulnerabilità nel mercato del lavoro, dove l’imperativo (condiviso da Monti) è che occorre essere flessibili rispetto alla domanda di lavoro, più che rispetto ai bisogni dei propri famigliari.
Se si vuole agire sul lato delle tasse, meglio agire sulle detrazioni per i costi dei servizi di cura, più sostanziose ed estese di quelle, risibili, oggi disponibili per il costo del nido. Per evitare di colpire le più povere, devono configurarsi anche come un’imposta negativa, fruibile anche da chi non ha un reddito capiente. Se sufficientemente generose farebbero emergere un po’ di lavoro nero. La priorità andrebbe tuttavia data allo sviluppo dei servizi di cura per l’infanzia e la non autosufficienza e all’estensione dell’orario scolastico nel ciclo dell’obbligo. Si sosterrebbe così la conciliazione, si amplierebbe la domanda di lavoro, specie femminile, e si investirebbe nelle nuove generazioni. Nel discorso europeo, questo si chiama welfare dell’investimento sociale. Forse l’europeista Monti non lo sa.

da La Repubblica

L’eterno show del candidato Silvio, di Filippo Ceccarelli

Nel Paese dei Balocchi, che di norma va alle urne insieme al limitrofo Paese di Acchiappacitrulli, nell’arco di vent’anni e di 14 campagne elettorali, l’infinita replica della promessa berlusconiana ha fatto in tempo a sedimentarsi con una sua inconfondibile espressività.
Per cui anche stavolta la voce è solenne, lo sguardo è fiammeggiante, ma il braccio non è più teso, e il Cavaliere non garantisce più il suo impegno puntando il dito indice verso le telecamere, bastone del comando, bacchetta magica, radar, antenna e connettore di consenso a buon mercato. Forse non ci crede più neanche lui.
Oggi il rimborso dell’Imu, e vabbè. Ma già prima delle elezioni del 2006, impostatosi con le consuete movenze, aveva assicurato l’abolizione dell’Ici, “Sì, avete capito bene!”, durante il duello con Prodi. Di lì a qualche giorno il leader del centrodestra fu sconfitto, sia pure di un soffio. Ma due anni dopo, di nuovo sfoderando quell’indice con l’accattivante sicurezza del presentatore di televendite, da vincitore l’Ici l’abolì sul serio, e subito. Dal che si deduce — e anche dai disastri dell’economia italiana — che purtroppo non sempre egli promette a vuoto, come la maggior parte dei politici. Lo specifico guaio, semmai, è che l’ottimismo elettorale berlusconiano è per natura temerario, per vocazione impudente e quasi sempre, nei suoi risultati, catastrofico.
Le tasse — non solo “meno tasse”, ma anche per “per tutti” — rientrano tuttavia nel novero del generico e prevedibile impegno, per quanto iscritto in giganteschi cartelloni che nel 2001 invasero le strade italiane. Così come all’insegna dell’ordinario miracolismo si può ormai storicamente collocare il “milione di posti di lavoro” che nel 1994 costituì il primo esperimento sociale di parola data e non mantenuta.
Berlusconi infatti non teme verifiche. Sia nel 2001 che nel 2008 le tasse, anziché diminuire, aumentarono. Studiosi e statistiche possono documentarlo.
Ma lui certamente saprebbe spiegare meglio di loro che questo non è vero: con lui diminuirono, o comunque non è questo il punto. La foga di enumerazioni e parole ha il potere di trasportare chi ascolta in una dimensione irreale. Per sfinimento, a quel punto, più per convinzione, si finisce per credere che tutto è relativo, e la politica lo è anche di più.
Così ieri Berlusconi ha potuto permettersi di fare perfino lo spiritoso. “Sei un mito!” gli ha gridato una fan dalla platea, e lui ha accolto l’invocazione con una specie di sospiro, facendo notare che c’è chi, al colmo dell’assurdità, lo ritiene un “contaballe”. In realtà si può considerare l’imperatore di quella diffusa categoria. Più che sulla pressione fiscale o sulle politiche dell’occupazione lo si capisce nelle promesse mirate, settoriali e a sorpresa di cui si perde facilmente la memoria. Il bonus bebè, per
dire, o la “Golden Card”.
E’ su questo terreno che il Cavaliere dà il meglio di sé lasciando credere ai prediletti vecchietti che con la sua vittoria non pagheranno il cinema, la partita, l’ingresso al museo, il viaggio in treno. A tali vani benefici nel 2006 si sommarono anche delle dentiere (“Operazione Sorriso”) e la possibilità, non meglio precisata, di acquisire un animale di compagnia. E se pure la campagna elettorale a volte assume i toni della commedia nera, è anche vero che l’ideologia berlusconiana, mutuata dalla cultura pubblicitaria, dispone di codici emotivi che con la scusa del sogno pescano nell’inconscio; ma a volte non ce n’è nemmeno bisogno, per cui prima del voto del 2008 il futuro presidente arrivò a promettere ai pensionati, dotati o meno che fossero di cani gatti e pappagallini, nientemeno che la sconfitta del cancro e l’allungamento della vita attraverso la
medicina predittiva.
Per il resto, al discount delle meraviglie trovano posto prodotti semplificati come le “tre i” (impresa, inglese, internet), misteriosofiche, ma risolutive semplificazioni delle procedure, la sempiterna abolizione del canone Rai, l’istituto del poliziotto di quartiere e anche un certo “modello universale” al quale, prima dell’inevitabile oblio, venne affidato il salvifico rapporto tra i cittadini e la Pubblica amministrazione.
Sotto elezioni, e a dispetto di un popolo che per secoli si è ritenuto orgogliosamente furbo, la Cuccagna e Bengodi erano sempre a portata di mano. Furono promesse e ri-promesse ad esempio le Grandi Opere: e agli automobilisti che ancora oggi percorrono imprecando la Salerno-Reggio Calabria vale senz’altro la pena di ricordare il Berlusconi che disegnava come sarebbe cambiata l’Italia del futuro; e a chi fa la fila a Messina i molteplici filmati mandati in onda per illustrare le virtù del Ponte sullo Stretto come se esistesse già.
Nel 2001, dopo un immane lavorio demoscopico, Berlusconi firmò sulla famosa scrivania di ciliegio di Porta a porta il “Contratto con gli italiani”, che poi disse di essersi appeso nel bagno di casa (di cui resta preziosa documentazione fotografica grazie alle amiche di Tarantini). Ma già nel 2005 una pensionata si era rivolta a un giudice perché alcuni dei cinque punti erano stati disattesi. Fu anche aperto un procedimento, poi archiviato. Di recente Berlusconi ha spiegato che secondo l’Università di Siena gli impegni erano stati realizzati per l’84 per cento. Ma poi nel Parlamento dei Balocchi e di Acchiappacitrulli si è capito che la percentuale riguardava disegni di legge presentati, ma non approvati.
E insomma: se vince, promette di rimborsare l’Imu. Poi si vedrà.

da La Repubblica

La suora di clausura “Noi donne sprecate anche dalla Chiesa”, di Michele Smargiassi

«Le lacrime, quante lacrime… », dice madre Ignazia col suo sorriso leggero, misurato, saggio. Quasi cinquant’anni trascorsi fra queste mura dell’abbazia hanno addolcito nel ricordo il pianto improvviso di quella novizia entusiasta ma umanamente spaesata. Le assegnarono un lettuccio nella camerata che era diventata questa nobile stanza della musica, nel vecchio edificio del Priore, fra gli antichi affreschi, qui, sotto il graffito Hic fuit Leonardusche potrebbe essere proprio di mano di quel Leonardo, ma per lei la magia di quel posto era poter intravedere anche di notte, dal finestrone, la facciata della chiesa, «consolazione nei momenti di smarrimento». Tanti? Risponde scegliendo le parole: «Siamo donne. Non siamo angeli misteriosi».
Clausura. Mito potente. Scatenatore di immaginari laici e credenti, romanzeschi e teologici, malevoli e benevoli, tutti fondati sul nulla. «L’icona della donna nascosta, velata, silenziosa e solitaria, in fuga dal mondo, è un mito che purtroppo fa breccia anche nell’immaginazione di tante giovani consorelle. Ma tutta questa idea della solitudine dell’uomo di fronte a Dio è un equivoco, viene dalla cultura romantica, e ancora prima dal pensiero plotiniano… ». Era studentessa di filosofia, nel Mondo, Ignazia Angelini. Prima di scegliere.
Il cancello sul parcheggio è aperto. Il luogo comune della clausura vacilla fin da qui. C’è pure un campanello. Un vialetto di ghiaia. Edifici bassi color ocra, senza pregio, attorno alla chiesa antica. È lei in persona, la badessa Ignazia, ad aprire il portone: «Siamo poche, dobbiamo fare tutto da noi». Dentro, arredi da linda parrocchia, vecchie tele di soggetto sacro, incongrui libri del Touring Club su un tavolino. Dalla cucina, rumore di stoviglie. Squilla a lungo un telefono. Suoni ordinari di qualsiasi comunità senza mistero. La navata romanico-gotica della chiesa risuona dei nostri passi. «Il libro che ha letto è nato qui. Passiamo ore e ore, in chiesa, tra Lectio Divina e Vespro…». Nella luce invernale fioca che cade dal rosone, indica: «Ecco, quello è il mio posto». Una seggiola fra le altre, nella navata sinistra, di fianco all’altare e di fronte all’affresco della Preghiera di Gesù nel Getsemani. «Lo guardo spesso, mentre preghiamo: vede, quei discepoli siamo noi, addormentati di fronte al mistero di Cristo che prega con grida e lacrime lottando contro la necessità della morte». Possiamo fotografarla qui, al suo posto? «No. Sarebbe una falsità. Io non sono mai sola, quando sono qui. Lei è venuto per conoscermi, non è così? Bene, deve accettare che io parli di me solo nella relazione con le sorelle. Lasci perdere quel che immagina sulla clausura: il cuore di questa scelta è vivere sempre, e solo, nella relazione. Costruire tra noi una relazione stabile, in questo mondo di rapporti mobili e smarriti, può essere molto faticoso. Noi non viviamo assieme perché ci troviamo simpatiche, per affinità elettive, ma per sostenerci nel cercare Dio». La monaca è un noi.
Le domande biografiche infastidiscono madre Ignazia. Avrebbe perfino voluto non firmare Mentre vi guardo, il libro che Einaudi le ha proposto e che lei, dopo qualche esitazione, ha scelto di scrivere. Per ribaltare il nostro sguardo confuso. Per far capire a noi, che guardiamo alla clausura, curiosi, alcuni anche morbosi, che invece è la clausura che guarda noi.
Madre Ignazia è una monaca, e viene pure da Monza. Ma la cupa storia del Manzoni nel suo caso si ribaltò da così a così. Fu lei, diciannovenne, una mattina nebbiosa del ’64, a insistere per farsi portare qui, fra i fossi e le marcite di un’umida campagna lombarda, «un luogo impossibile» per un convento. Alla guida della 600 rossa, suo padre non voleva proprio. «Quando scese la sbarra del passaggio a livello mi disse: ecco, vedi, è il Signore che ti manda un segno, torniamo a casa. Io dissi: papà, il Signore ha già scelto». Quei binari furono la soglia simbolica della sua nuova vita: non le grate di ferro. Le inferriate, simbolo stesso della clausura, alimento più che ostacolo alle fantasie dei laici, qui a Viboldone c’erano, almeno in chiesa, fino a otto anni fa. «In questo punto della navata. Impedivano ai fedeli, durante la messa, di vedere le monache. Le togliemmo per un restauro del pavimento. E non le rimontammo più…». Dimenticanza consapevole. «Le grate sono un simbolo equivoco e pericoloso. Il popolo di Dio non può essere diviso mentre prega, il Vaticano II ce l’ha insegnato. E la nostra separatezza, se non la costruiamo dentro di noi come un valore, non sarà difesa da barriere fisiche». A volte farebbero comodo, le grate. «Alla fine delle messe, quando vorremmo restare concentrate nella meditazione, la gente ci viene addosso, ci chiede, un po’ ci soffoca». In verità, il Mondo bussa sempre più spesso alla porta del convento. «La parrocchia non è più un riferimento stabile, i sacerdoti sono pochi e sempre in giro, le canoniche hanno orari rigidi e sono spesso chiuse». La porta del monastero invece si apre sempre. Sono storie, richieste di conforto, di aiuto materiale e morale, drammi di malati, di emarginati, di disperati, a volte duri, sempre umani. A volte invece sono provocazioni, sfide. «Vengono per dirci: ma cosa fate ancora chiuse qui dentro, uscite, vivete nel mondo, tra le sue sofferenze…». Atei irridenti? Il sorriso ora ha una punta d’ironia: «Anche alcuni preti…».
Il Mondo è ambiguo, oggi, col monastero. Lo idealizza, vi cerca conforto, ma ne ha anche fastidio, lo aggredisce. «Vivere nell’orbita di Milano è un grande rischio, si sente il peso di un modello di vita antitetico al nostro». Il convento ne è investito come da un vento del deserto. Bene culturale per le istituzioni, consumo da weekend per i turisti, esotismo intellettuale new age per annoiati, beauty farm dell’anima per coscienze depresse. Il Mondo ha armi destabilizzanti, seducenti. Internet, per esempio, rischia di sfondare là dove la tivù si fermò. «La televisione c’è da tempo, in monastero. Ma non la guardiamo quasi mai, qualche telegiornale mentre laviamo i piatti». Internet invece non si lascia tenere a cuccia. Qui è entrato come tecnologia di lavoro. Le monache benedettine di Viboldone adempiono il secondo corno dell’ora
et labora
restaurando libri antichi, sono diventate vere professioniste, la biblioteca Ambrosiana si fida di loro, hanno avuto per le mani i codici di Leonardo, digitalizzano le pergamene, sono straordinarie con Photoshop, e le mettono online. «Internet è comodo, utile. Sempre a disposizione, compiacente, seduttivo… Sembra governabile: una email che male fa? Posso leggerla quando voglio… E invece Internet è l’antimonastico per eccellenza. Monaco viene da monos, che significa unico, integro, autentico. Ma quando “sei su Internet” non sei né unico né autentico, sei solo una parte, una superficie, un’immagine virtuale. Se qualcosa può scardinare la nostra scelta alla radice, è questo strumento». Il Mondo sciaborda alle porte del convento, e il convento vacilla. «Eravamo una sessantina negli anni Sessanta, oggi siamo ventiquattro. Mettiamo nel conto di non esserci più, prima o poi». Rassegnate? «Consapevoli. L’esistenza del monastero non è garantita da nulla. In Cappadocia, culla del monachesimo, non ci sono più conventi ». Il monastero non serve più al mondo contemporaneo? «Ci sono monasteri fortemente identitari, molto legati a movimenti ecclesiali, o guidati da capi carismatici fortemente autoritari, che attirano molte vocazioni. Sopravviveranno meglio di noi. Ma intanto lasciano qualche maceria umana sul loro cammino, ne sappiamo qualcosa noi, che a volte le raccogliamo».
I monasteri degli uomini si sono «ormai clericalizzati », tra frati e preti non c’è più tanta differenza. Ma le donne nella Chiesa non hanno altra scelta. Il loro posto è solo qui. Custodi dello spirito più puro del monachesimo, ma a rischio di «farci trasformare in mummie» dalla «retorica dell’immolazione della donna a causa di Dio». Nel suo libro, madre Ignazia ha parole taglienti per la «tutela gerarchica maschile» sugli ordini religiosi femminili, per «lo sguardo indagatore dei signori di curia», per la condizione sempre più stretta dello «stare sotto i preti». C’è un fermento, nei conventi femminili, che i media interpretano come “femminismo nella Chiesa” ma forse è altra cosa. Madre Ignazia arriva a profetizzare che «le incongruenze esploderanno prima o poi». Ma al solito, quel che il mondo vede del monastero, come se ci fossero ancora le grate, è un’immagine parziale. «C’è dispiacere tra noi per il ruolo delle donne nella Chiesa, è vero. Per un ruolo
perduto.
Nelle prime comunità cristiane le donne erano importanti. Del resto, una donna fu scelta per dare l’annuncio della Resurrezione. Poi nei secoli qualcosa è successo, qualcosa non ha funzionato. A noi è rimasto solo il ruolo di “brave bambine” della Chiesa, il fiore all’occhiello dei chierici. Ed è stato un grande spreco». E dunque? «Dunque, se lei immagina cortei di protesta, rivendicazioni, manifestazioni, bene, non accadrà. Il nostro ruolo non è diritto, è grazia. Non si rivendica: si cerca. Il sacerdozio femminile, per esempio. La via è oggettivamente aperta, non vedo ostacoli prettamente teologici. Ma non mi par di vedere che lo avremo presto. Non ci sono le condizioni antropologiche ed ecclesiali. E poi, le donne per prime scadono continuamente nel gregarismo. Ci vorrebbero, radicate nell’oggi, donne coraggiose e appassionate al vissuto della fede, come la Chiesa ne ha avute e non sembra avere più, donne come Chiara d’Assisi, Ildegarde, Caterina, Brigida di Svezia, Teresa…».
Le mani intrecciate, esile, ferma, madre Ignazia fa strada verso l’uscita. Affrescati sotto un arco, volti medievali di donne. «Le hanno dipinte qui perché ammonissero le monache ogni volta che entravano in chiesa. Sono le vergini folli e le vergini sagge della parabola». Difficile distinguere a colpo d’occhio le une dalle altre: altere, severe, belle, si somigliano un po’. Ma solo una di loro ti guarda negli occhi, ferma, interrogativa, con un leggero misurato sorriso saggio, dal suo convento di pietra.

da La Repubblica

Maria Luisa Spaziani, di Antonio Gnoli

Una nuvoletta di fumo. La sigaretta che le pende dalle labbra, piccola sfida alle convenzioni. Così mi appare sulla porta di casa la poetessa, Maria Luisa Spaziani. La voce roca, e virile – al punto che con singolare autoironia il giorno prima al telefono mi aveva detto «non sono mio marito» – mi invita a entrare. Con inaspettata ammirazione penso a certi suoi versi:
se sei lontano, se pallidi suoni/dalla terra promessa mi raggiungono,/ ah, si gonfi la vela, prenda slancio/lei, la parola, l’unico mio Dio.
«Amo la parola, mi accompagna e a volte mi perseguita», dice appoggiandosi a un bastone a tre zampe. Fatica a camminare nell’ampio salotto colmo di libri e di carte. Si è da poco lussata tre dita di un piede. «Ero a Cortina, avevo appena finito di scrivere una poesia dedicata a un albero. Esco, passeggio e poi inciampo violentemente contro le radici di un abete ed ecco il risultato». Guardo il piede, avvolto da una comoda pantofola. Poi dico scherzando che forse l’albero si è vendicato dei versi che non ha gradito. Ridacchia. La vendetta non appartiene al mondo vegetale, replica.
E lei, si è mai vendicata nella vita?
«Non nutro un sentimento così basso anche se le confesso che ho provato un sottile piacere nell’immaginare come sia rimasta quella sfilza di poetesse che l’anno scorso ha assistito all’uscita del mio Meridiano».
Sta parlando di tutte le sue poesie che Mondadori ha raccolto?
«Proprio di quelle. So per certo che almeno cinque autorevoli personaggi, di cui non farò i nomi, si sono un po’ guastati la digestione».
Come si dice: schiatti l’invidia.
«Mi consegno alla sua discrezione. Di cosa mi vuole parlare?».
Beh, è lei a dire il vero che dovrebbe raccontarci questa vita così vasta e movimentata.
«Ho cominciato la scalata per i cento anni».
Arretriamo qualche gradino. Suo padre era pasticcere?
«Era un industriale di macchine dolciarie. Con un’azienda florida. Poi la guerra e un socio fetente ci hanno buttato sul lastrico. Giunsero gli anni duri. Cominciò così la mia lotta per la sopravvivenza. Lasciai Torino trasferendomi a Milano. Mi ero laureata su Proust. Ma ero anche un’eccellente stenografa e fui assunta in una ditta di import-export. Andai ad abitare in una stanza non lontana dal
Corriere della Sera.
E cominciai a frequentare Eugenio Montale che avevo conosciuto l’anno prima, nel 1949. Adoravo la sua poesia».
Solo quella?
«Sentimentalmente ero legata a Elémire Zolla».
Dove aveva conosciuto Zolla?
«A Torino. Abitava non distante da casa mia. Ogni tanto lo vedevo affacciarsi dalla finestra del palazzo di
fronte. Era un bellissimo giovane taciturno, introverso e dotato di grande intelligenza. Gli anni torinesi con Elémire sono stati fondamentali sul piano formativo. Poi io andai a Milano e lui decise di venire a Roma».
A quel punto fa il suo ingresso Montale.
«Ero lusingata dalle attenzioni di Eugenio. Con lui ho vissuto la grande stagione della cultura milanese».
La sento un po’ reticente.
«Non sono reticente, ho perfino scritto un libro sui rapporti tra me e Montale».
Dove non si capisce chiaramente se eravate o no innamorati l’uno dell’altra.
«C’era una forte suggestione da parte mia. Quanto a lui, credo, fosse ben più coinvolto. E comunque la nostra fu una forma di unione che non saprei definire».
Sapeva di Zolla?
«Tutti e tre sapevamo. E il saperlo non creò complicazioni. Almeno fino al momento in cui decisi di trasferirmi a Roma per raggiungere Zolla. Eugenio si disperò. Cominciò a dire che gli avevo rovinato la vita. Ma lui era legatissimo alla “Mosca”, il soprannome che aveva dato a Drusilla Tanzi».
E lei a quel punto sposa Zolla.
«Accadde qualche anno dopo. Cominciammo una convivenza che durò alcuni anni. Elémire era geniale, ma incapace di trovarsi un lavoro. Avevo stretto amicizia con Carlo Levi e Renato Guttuso e poi con Alberto Moravia. Parlai a quest’ultimo di Zolla e del suo talento. Moravia organizzò una cena con Silone e Chiaromonte che dirigevano
Tempo presente.
E fu così che Zolla divenne redattore di quella rivista. Poi ci sposammo, ma il bello del nostro amore svanì presto».
Vi contribuì la presenza di Cristina Campo?
«Di questa storia non vorrei parlare. Fui io a presentagliela. Chiuso».
Lo dice come se sia stato l’errore della sua vita.
«Non sono errori, è il caso. Con il suo inno alla perfezione Cristina credeva che tutto le fosse garantito da
esigenze superiori. Avrebbe dovuto semplicemente dirmi tutto quello che le stava accadendo. Ma non ebbe il coraggio. Si rese irreperibile».
E lei?
«Può capire come ci si resta. Bruciai le tante lettere che c’eravamo scambiate».
Mi dispiace evocarle dei dolori.
«Non sono più nulla. E poi avevo spalle forti. E una fantastica rete di amicizie tessuta in Italia, in Francia e naturalmente in America dove ero stata con una borsa di studio per alcuni mesi ad Harvard».
Quando andò all’università di Harvard?
«Nei mesi estivi del 1955. Ogni anno Henry Kissinger organizzava dei seminari con 40 allievi provenienti da tutto il mondo. Oltre a me anche Alberto Arbasino
aveva goduto di quell’invito».
E cosa facevate?
«Si assisteva a delle lezioni di politica internazionale, di economia e storia. E si incontravano personaggi autorevoli. L’idea di Kissinger era di preparare una nuova classe dirigente. Ero completamente disinteressata a questo genere di obiettivo perciò frequentavo pochissimo i corsi. Come me, del resto, si comportò Ingeborg Bachmann».
La scrittrice austriaca?
«Proprio lei. Facemmo il viaggio di andata assieme e nel campus condividemmo lo stesso appartamento ».
Che impressione ne ebbe?
«Era una donna intelligentissima, distratta fino al-
LA VITA
Maria Luisa Spaziani, nata a Torino nel 1922, è una della voci più importanti della poesia italiana contemporanea. Per breve periodo moglie di Elémire Zolla è stata anche “la volpe” di Eugenio Montale

Da La Repubblica

La Carica delle Élite Femminili ma l'Agenda Donna non scalda, di Dario di Vico

Nei Paesi scandinavi grazie a un welfare inclusivo molte donne sono state elette in Parlamento. In Italia finirà che seguiremo il percorso inverso: circa 285 donne saranno elette in Parlamento il prossimo 25 febbraio e dalla loro spinta forse potrà nascere un welfare più inclusivo. Sa di paradosso ma le cose stanno proprio così e non vale la pena fare gli schizzinosi. Le vie della modernità non sono rettilinee. Il dato certo è che siamo alla vigilia di una novità se non storica, quasi: tutte le stime sugli eletti ci dicono che avremo un Parlamento rosa almeno per il 30%. Nella passata legislatura eravamo rimasti a quota 193, il 20,33%. Il Pd, il partito che più ha aperto le liste al femminile, sostiene che il 40% delle candidate è in posizione eleggibile e quindi dovrebbe portare in Parlamento almeno 154 donne. Grillo ne dovrebbe eleggere 40, il Pdl attorno a quota 38, Scelta civica 17, Vendola 24, la Lega 6, Ingroia 4 e l’Udc 2. Ma — e la domanda è politicamente scorretta — la nascita di una consistente élite politica rosa corrisponde alla crescita di un vero movimento della società nel segno dell’inclusione? Oppure siamo davanti a un caso (raro) in cui la circolazione delle élite è più fluida della capacità di mettere in agenda i temi legati alla condizione dei rappresentati? E ancora: l’aumento delle parlamentari corrisponde anche a un significativo slittamento dell’opinione politica delle donne?
Cominciamo da qui. Secondo Renato Mannheimer non ci sono «differenze pazzesche» nell’orientamento di voto delle donne tra le politiche del 2008 e oggi e ciò nonostante l’ultima fase della legislatura si sia caratterizzata per le vicende legate all’esercizio del bunga bunga e Silvio Berlusconi, considerato un monumento vivente del maschilismo e della sottomissione femminile, alla fine si sia ripresentato ai nastri di partenza. Secondo Alessandra Ghisleri, direttrice di Euromedia Research, non siamo in presenza di una vera diaspora dell’elettorato femminile di centrodestra, il grosso delle elettrici sopra i 50 anni resta sostanzialmente con il Cavaliere mentre le donne dai 44 anni in giù si considerano in libera uscita. Sono indecise il doppio degli uomini loro coetanei e «si guardano attorno». Quindi se allontanamento c’è stato è di tipo selettivo, con il fattore età a fare da discriminante. La mossa con la quale il Cavaliere si è accasato con Francesca Pascale, con una tempistica ricalcata sul calendario dei comizi, è considerato un fattore ininfluente mentre non va dimenticato che storicamente il voto femminile in Italia si è collocato sempre più a destra rispetto a quello maschile. Tanto che la leggenda narra come nella sinistra italiana subito dopo il fatidico 18 aprile 1948 più di qualcuno avesse maledetto l’accordo De Gasperi-Togliatti per concedere il voto alle donne. «Lo spostamento del voto femminile da destra verso sinistra nei maggiori Paesi europei si verifica attorno agli anni 90, da noi solo a partire dal 2006 e si presenta come una secolarizzazione visto che dietro aveva la lunghissima stagione dell’egemonia della Dc e dei parroci come opinion maker» commenta Elisabetta Gualmini, prima donna a dirigere il prestigioso Istituto Cattaneo di Bologna.
Mannheimer non registra nemmeno la tendenza femminile a votare le donne o comunque a scegliere una lista in virtù di una determinata presenza femminile, e anche Ghisleri conferma che non esiste una corsia preferenziale di genere. La maggior parte delle intervistate dichiara di votare «il meglio», se poi coincide con una donna tanto di guadagnato ma il 68,3% delle donne è comunque convinto che una politica rosa migliora il rapporto con la gente perché apporta trasparenza e concretezza. Il Porcellum ovviamente non è un test significativo perché non è prevista la preferenza mentre qualche cosa in più capiremo grazie alle Regionali, dove si può scrivere un nome sulla scheda e la legge obbliga i partiti a candidare il 50% di donne. Francesca Panzarin, candidata in Lombardia con la coalizione Ambrosoli e animatrice del sito womenomics.it, ha lanciato una petizione «a pari merito vota una donna», slogan che risente del dibattito sulle quote rosa (molto vivace a Milano) e della contrapposizione tra merito e genere che ha lasciato più di qualche amarezza tra le donne più impegnate. «Penso sempre che alla fine la differenza la facciano le persone anche se elette con sistemi cooptativi», dice Panzarin.
Il dibattito sulle quote rosa e la legge Mosca-Golfo, che ha avuto un primo effetto di portare la presenza delle donne nei consigli di amministrazione dal 6 al 10%, sono stati sicuramente una prova generale della formazione di élite femminili. «La donna è tornata a parlare di se stessa — osserva Ghisleri — e le ricadute non hanno interessato solo i cda, lo si può tranquillamente vedere anche nella composizione dei panel di qualsiasi talk show o convegno, almeno una donna ora c’è sempre». Le quote rosa hanno rappresentato una svolta «ma non siamo riuscite ancora a incidere sulla cultura sottostante» dice Alessandra Perrazzelli, manager bancaria e presidente dell’associazione Valore D, «servono ancora almeno 10 anni prima che si innesti un circolo virtuoso tra rinnovamento della rappresentanza e vero cambiamento». L’Italia profonda resta ancora prigioniera del familismo e di una «visione ornamentale della donna». Gli standard europei «sono molto lontani». Perrazzelli rintraccia però una totale discontinuità rispetto a questo schema nelle giovani che escono adesso dall’università e che hanno una carica diversa, «sono portate ad azzerare le differenze sessuali ma leggono molto meno di noi e soprattutto non trovano davanti a sé altro che offerte di precariato».
Lo scollamento tra riequilibrio dei seggi in Parlamento e indicatori della differenza di genere, il gender gap, è sostenuto anche da Gualmini. «Basta pensare al tasso di occupazione o alla disparità nei salari. Le donne parlamentari dovranno impegnarsi a rimettere in moto dossier che sono rimasti fermi». E qui torniamo al nesso tra modernizzazione del welfare e inclusione femminile. Sostiene Maurizio Ferrera, autore del libro Fattore D, «quando si arriva al dunque inclusione vuol dire più soldi per l’assistenza e per le politiche di conciliazione e in Italia non c’è stato nessuno spostamento verso quelle voci di spesa che interessano le donne». Lo stesso tesoretto che doveva scaturire dalla maggiorazione dell’età di pensionamento delle donne e che avrebbe dovuto alimentare le politiche di welfare «alla fine è stato scippato».
L’abbandono dei dossier è dovuto, sempre secondo Ferrera, alla bassa capacità delle donne di aggregare/premere e dell’associazionismo di avere costanza nella mobilitazione. L’articolazione di quello che in gergo si chiama «femminismo di Stato» ovvero il ministero delle Pari opportunità più la presenza di una consigliera di parità per ogni livello di governo «è stato un enorme fallimento» e non una leva capace di invertire l’ordine di priorità dell’agenda politica. «Anche quando ai vertici di Confindustria e Cgil ci sono state rispettivamente Emma Marcegaglia e Susanna Camusso e al ministero del Welfare un’altra donna, Elsa Fornero, le tre non sono riuscite a fare squadra neanche un giorno». D’altro canto se è vero che nessun uomo politico direbbe mai che «il fattore D non esiste» è altrettanto evidente che la rivoluzione di genere mette in discussione un doppio ordine di privilegi: la presenza maggioritaria tra le élite e le pratiche/riti su cui si basa la stragrande maggioranza delle coppie/famiglie. «Gli altri Paesi tutto sommato ce l’hanno fatta, da noi gli uomini di fronte al doppio rischio di perdere le poltrone e rifare i letti hanno di fatto esercitato un potere di veto. E se altrove i movimenti femminili sono riusciti a smascherare il volto occulto del potere maschile, da noi non è avvenuto», osserva Ferrera. Forse anche perché non si è presentata sulla scena politica una donna con vere capacità di leadership. «Ci sarebbe voluta una Renzi, capace di collegare i mutamenti dall’alto con significativi spostamenti dell’opinione pubblica». O avrebbe dovuto confermare le attese Debora Serracchiani che al suo debutto alle ultime europee — conferma Ghisleri — aveva avuto un impatto eccezionale. In mancanza di tutto ciò resta comunque l’onda rosa che si riverserà a fine febbraio su Montecitorio e Palazzo Madama. «Può essere sicuramente un grimaldello per cambiare le cose e riscrivere il welfare italiano», commenta Gualmini. Ma non si corre il rischio che senza avere un retroterra sociale vivo si finisca per creare una sorta di notabilato rosa, capace di saltare dai cda alle aule parlamentari come niente fosse? «Può darsi che in qualche occasione ce la cantiamo e ce la suoniamo da sole e rischiamo di essere autoreferenziali — risponde la manager Perrazzelli — ma la causa è sempre una: parlare e convincere gli uomini è difficilissimo».

da Il Corriere della Sera

Bersani: Con noi si cambia. Basta promesse da chi ha fallito, di Simone Collini

«Serve un programma di ricostruzione, non battute propagandistiche. Quelle non ce le possiamo più permettere». Pier Luigi Bersani va al rush finale di questa campagna elettorale chiamando alla mobilitazione il popolo delle primarie («È la nostra arma atomica») e illustrando le misure che intende realizzare in caso di vittoria. Ci sono però anche un paio di messaggi chiari che il candidato premier del centrosinistra lancia all’indirizzo degli «inseguitori». Il primo, a uso e consumo di Silvio Berlusconi: «Non permetterò a chi ha fallito, a chi ha portato l’Italia sul ciglio del burrone di fare impunemente altre promesse». Il secondo, per Mario Monti, che dopo l’uscita sul Montepaschi ha datato la nascita del Pd al 1921: «Una battuta da Berlusconi con il loden. Monti non dimentichi dov’è il pericolo, se la prenda con il problema, non con l’unica possibile soluzione. Chi pensa in prospettiva di non escludere una possibilità di collaborazione oggi deve fare attenzione, perché alcune uscite possono rendere tutto molto difficile».

Si sorprende se in campagna elettorale si fanno promesse e si attacca l’avversario politico?
«Mi sorprendo se in una situazione come questa, in cui viviamo la peggiore crisi economica dal dopoguerra ad oggi, il tema al centro della campagna elettorale non è come ne veniamo fuori. Vedo invece che da parte degli inseguitori si cerca il colpo propagandistico. Grillo che promette a tutti mille euro al mese per tre anni, Berlusconi e Monti che assieme in una giornata hanno tolto più di 30 miliardi di tasse sul 2014».

Dice che non è possibile?
«Se lo fosse, ebbene il governo è ancora in funzione, può intervenire per alleviare almeno qualche situazione di maggiore difficoltà. Bisogna smetterla con questo modo di fare, la situazione è troppo difficile per continuare con le promesse. O con gli attacchi all’avversario, come sembra aver suggerito qualche guru americano».

A giudicare dalla reazione che ha avuto, sembra le abbia bruciato più la battuta di Monti sul Pd nato nel ’21 che quella su voi e M ps: è così?
«Guardi, su Montepaschi io sono perché si vada fino in fondo, perché sono certo che gli sviluppi della vicenda ci consegnerebbero una riflessione su tre questioni. E cioè come si regolano i derivati, come mai in Italia non esiste il reato di falso in bilancio e come si utilizza lo scudo fiscale per operazioni non lecite. Tre questioni su cui in questi anni c’è stato, tra la destra e noi, il più duro degli scontri. Quanto alla battuta di Monti sul Pd, francamente è deplorevole, da Berlusconi con il loden, una battuta che non si può permettere chi ha avuto un reale sostegno da parte nostra».

Ora il Pd per lui è un avversario politico, non crede?
«Il nostro avversario è la destra, è chi ora prova a portare avanti una cancellazione della memoria e dopo aver fallito continua con le promesse. Noi non permetteremo che chi ha governato dieci anni, in una situazione economica più semplice, e non ha abbassato le tasse, ora torni a promettere chissà cosa. E non permetteremo a Pdl e Lega, che hanno coperto gli evasori delle quote latte facendo così pagare ai contribuenti italiani 4 miliardi e mezzo di euro, di parlare ora di alleggerimento fiscale. Lo dico a Berlusconi: non azzardarti a promettere adesso quel che non sei mai stato capace di fare».

Per il Pd un abbassamento delle tasse non è un obiettivo?
«L’obiettivo è favorire consumi e occupazione, una cosa che si può fare abbassando il carico fiscale per i redditi medio bassi, i lavoratori, i pensionati, e sostenendo gli investimenti che danno lavoro».

Perché non sia anche questa una battuta propagandistica dovrebbe dire dove si trovano le risorse per farlo.
«Si trovano in una riqualificazione della spesa pubblica, in una riduzione dei tassi interesse, in un’alienazione del patrimonio pubblico, e soprattutto in un’operazione per aumentare la fedeltà
fiscale».

Anche qui: come?
«Facendo girare meno contante, rendendo tracciabili tutti i movimenti finanziari per far emergere la ricchezza, cominciando a chiamare evasione alcune delle cose che oggi si chiamano elusione, perché ci sono caroselli troppo facili su cui girano i soldi tra Italia, estero e di nuovo Italia».

Insomma meno tasse per tutti voi non lo direte?
«Meno tasse per chi ha bisogno di consumare e per chi ha voglia di investire. E bisogna rendere più progressive le imposte che ci sono, a partire dall’Imu, che non dovrebbe essere pagata da chi ha versato fino a 500 euro. E poi diciamo che va tolto il peso dai beni strumentali delle aziende e va caricato sui patrimoni più rilevanti. Operazioni che possono dare sollievo ai consumi per i redditi più bassi e sollecitare gli investimenti, e alle quali andranno affiancati una drastica operazione di
semplificazione per l’attività economica e l’allentamento selettivo del patto di stabilità per i Comuni, una ripresa delle politiche industriali in tutti i settori, una quota di investimenti pubblici e l’utilizzo dei fondi strutturali. Questo è un programma di ricostruzione, che non può essere la battuta propagandistica perché siamo già oltre questo tipo di possibilità».

Come giudica le proposte di Monti sul tema del lavoro?
«Stiamo perdendo posti di lavoro a ritmo di 250 mila l’anno. Credo che il problema oggi non sia quello di come si licenzia, ma di come si crea lavoro. E questo non è solo questione di regole, ma soprattutto e finalmente di rilancio dell’attività economica».

Come risponde a chi, in Italia, sostiene che all’estero si tifa per un Monti-bis?
«Che certe sollecitazioni di pareri esterni a fini interni sono decisamente stucchevoli. La discussione vera che c’è in Europa è che l’Italia è troppo grande per essere salvata, che deve trovare la strada per sé e per l’Europa, e che questo non può avvenire senza un rapporto tra governo e popolo. Il resto sono leggende metropolitane, come si vedrà anche dall’appuntamento che faremo nel fine settimana a Torino insieme a leader e capi di Stato e di governo progressisti provenienti da tutta Europa. Dopo Francia, Romania, Olanda, Repubblica Ceca, è chiaro che sperano possa venire dall’Italia un’ulteriore spinta verso politiche diverse da quelle perseguite negli ultimi anni a livello comunitario».

Diverse in che senso?
«Quella di stabilità è una politica di medio periodo, mentre un intervento sul lavoro è una politica urgente, da applicare immediatamente. I progressisti pensano questo. E non solo i progressisti ma tutto il mondo si aspetta che dal voto in Italia esca una risposta chiara, precisa, che porti stabilità. E la formula che uso io so che viene ben compresa: ci vuole qualcuno che abbia il 51% e che però si comporti come se abbia il 49%. All’estero vogliono un’Italia stabile, con una guida sicura, ma che sia in grado di suscitare anche una riscossa più ampia di quella che può esprimere il solo vincitore».
Hollande, in Francia, ha nominato un sottosegretario all’Economia sociale e solidale: pensa a qualcosa di analogo per l’Italia?
«Certamente sul piano di azione di governo, lo sguardo sui grandi temi sociali ci sarà. Ho già detto che nella Sala verde di Palazzo Chigi intendo ricevere non soltanto rappresentanti di Confindustria
e dei sindacati ma anche esponenti del mondo dell’associazionismo, del volontariato».

Il presidente della Cei Angelo Bagnasco dice che “la madre di tutte le crisi è l’individualismo”:
condivide?
«Alla grande. L’individualismo è l’elemento che ha portato a questo disastro, e non solo in Italia. Abbiamo perso la materia prima, l’idea che ci si salva assieme. Da noi abbiamo visto cosa ha prodotto il leghismo, anche a livello psicologico, sulla divisione dei territori, sull’azione di incoraggiamento delle corporazioni. Bisogna riprendere il grande tema della solidarietà, del progetto comune, dell’unità nazionale, bisogna dare una forte scossa da questo punto di vista perché l’atomizzazione, l’idea che ciascuno si salva da solo, è arrivata a livelli molto preoccupanti».

Il Parlamento francese ha approvato l’articolo 1 della legge sul matrimonio gay: prospettive per l’Italia?
«La legislazione tedesca ci indica la strada che consente di regolare le unioni civili delle coppie omosessuali senza provocare traumi».

Veniamo all’iniziativa che avete fatto insieme, lei e Matteo Renzi, venerdì: qual è il messaggio principale che lei vorrebbe rimanesse agli atti?
«Più che un messaggio, lì abbiamo raffigurato quello che siamo. Ho letto sui giornali titoli come pace, tregua. Macché. Anche nel corso della campagna per le primarie, anche nel confronto aspro, noi abbiamo lavorato per il Pd e quindi per l’unico rinnovamento politico vero che si è visto fin qui in Italia. Noi siamo l’alternativa ai partiti personali. Noi non siamo esposti alla domanda che invece si può rivolgere a tutti gli altri. Cosa c’è dopo Berlusconi? E dopo Monti? Dopo Grillo, dopo Ingroia? Noi siamo un partito unito, plurale e aperto. E siamo gli unici ad esserlo, in l’Italia».

C’è chi ha fatto notare che il principale partito della sinistra italiana non farà il comizio di chiusura in un luogo simbolo come piazza San Giovanni, da cui parlerà invece Grillo.
«Noi in questo rush finale non parleremo da una sola piazza. Faremo una grande operazione di gazebo, in migliaia di piazze, in tutto il territorio italiano. Noi siamo ovunque, le primarie ci hanno consentito di scegliere candidati in tutti i territori. A noi non servono conigli tirati fuori dal cappello, mettiamo in moto la nostra forza, che gli altri non hanno, e cioè il popolo delle primarie. Lanceremo questo tipo di offensiva perché è la nostra arma atomica, la nostra chiave, quella che ci farà vincere».

Qualche giornale ha titolato sul “patto” che avrebbe stretto con Renzi, visto che lei ha detto che fatto questo giro si riposa e il sindaco di Firenze ha tanta strada davanti.
«Ma no, nessun patto. Quello che dico è che dopo Bersani c’è il Pd. A me tocca un compito, ma tutti quanti devono sentirsi un carico sulle spalle perché noi siamo il partito riformista del secolo nuovo, e oltre a lavorare per il governo, per costruire l’alternativa dopo venti anni di berlusconismo, dobbiamo impegnarci per dare all’Italia un sistema politico stabile, che oggi non c’è. Il Paese andrà in rovina senza di esso. Il Pd rappresenta un presidio riformista nuovo, originale. Tocca alle nuove generazioni, nei prossimi anni e decenni, lavorare per costruire un sistema politico stabile».

da unita.it