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Soliera, martedì sera Ghizzoni e Vaccari al Teatro Italia

“Ricostruiamo l’Emilia, ricostruiamo l’Italia: terremoto e ricostruzione, lavoro, fiscalità”: sono questi i temi su cui interverranno i candidati Pd Manuela Ghizzoni e Stefano Vaccari nel corso dell’incontro pubblico organizzato dal Pd di Soliera per la sera di martedì 5 febbraio. Sarà l’occasione per gli elettori di Soliera per incontrare e confrontarsi con due dei candidati che, nei mesi scorsi, per ragioni differenti, hanno maggiormente lavorato sul tema della ricostruzione: Manuela Ghizzoni, nel suo ruolo di parlamentare e presidente della Commissione Cultura e Istruzione della Camera dei deputati, e Stefano Vaccari come assessore provinciale alla Protezione civile. L’appuntamento è per martedì 5 febbraio, a Soliera, presso il Cinema Teatro Italia, a partire dalle ore 21.00.

da Pdmodena.it

Il festival delle promesse, di Pierluigi Battista

È efficace l’ultima «proposta choc» di Berlusconi, culmine di una campagna elettorale che due mesi fa appariva irrimediabilmente perduta? Dipende da qual è il punto di partenza. Si vuole partire dai sondaggi che negli ultimi mesi del 2012 davano il Pdl a poco più del 10 per cento? Allora la strategia di parziale recupero dei consensi perduti conosce con il pacchetto delle misure palesemente irrealizzabili — e con la promessa fantasiosa di restituzione cash dell’Imu versata l’anno scorso sulla prima casa—il coronamento di una campagna tambureggiante. Ma se si parte dal 38 per cento che il Pdl conquistò non un secolo fa, bensì nel 2008, allora Berlusconi può proporre le cose più fantasmagoriche, vagheggiare «restituzioni » più volte promesse e tuttavia mai mantenute per il loro evidente irrealismo, ma il successo è oramai solo un ricordo del passato: il centrodestra si è sgretolato e il suo leader può puntare solo su una sconfitta di misura. Che certo, confrontata col precedente stato comatoso, appare quasi come una miracolosa mezza vittoria. Ora però gli avversari di Berlusconi possono solo fargli un regalo: mettersi sulla scia delle sue fantasiose dichiarazioni e sciorinare da qui al giorno delle elezioni il solito repertorio di invettive contro il «venditore » che smercia promesse mirabolanti. Nell’opinione di sinistra, ora impaurita perché convinta che l’elettorato berlusconiano sia composto da rozzi creduloni eticamente inaffidabili e inebetiti dalla tv, la proposta di restituzione dell’Imu suona come una venefica dose di droga. Ai tempi delle primarie, il Pd e il centrosinistra sembravano una squadra invincibile, ma solo perché il centrodestra era sepolto sotto le macerie. Oggi temono il ritorno del 2006, del Berlusconi dato per sconfitto, ma che alla fine se la giocò per poche migliaia di voti. Negli incubi della sinistra quella rimonta ha un solo nome: la promessa dell’abolizione dell’Ici. Non si riflette mai sul modo confuso con cui si presentava lo schieramento guidato da Prodi. O su quel dire e non dire sui Bot che assomiglia in modo impressionante al dire e non dire di oggi del Pd su una non precisata «patrimoniale » (sopra o sotto il milione e duecento mila euro? Non si capisce). La colpa è sempre nella «credulità» degli italiani e della diabolica capacità di Berlusconi di spacciare sogni proibiti. Eppure, diversamente che nel 2006, Berlusconi si trova, stavolta per esclusiva colpa sua, in condizioni quasi disperate: solo gli errori e i terrori dei suoi avversari possono aiutarlo in un’impresa impossibile. Oggi la missione di Berlusconi, finora indubbiamente efficace, è quella di riportare ai seggi i milioni di voti del centrodestra che sono già fuggiti o intendono fuggire verso l’astensione. È il popolo vastissimo dei delusi, di chi si è allontanato, di chi si sente massacrato dall’oppressione fiscale e non crede più alla promessa di Berlusconi di ridurre le tasse. Berlusconi, a differenza delle altre volte, non deve convincere e portare a sé nuovi elettori, ma arginare la fuga dei «suoi» elettori che lo hanno abbandonato. Questo è il messaggio delle sue «proposte choc». Che la sinistra farebbe bene a non sottovalutare. Il richiamo della foresta della protesta antitasse è infatti, nel popolo del centrodestra, l’unico linguaggio comune che gli sia rimasto.

da Il Corriere della Sera

Critica al "nuovismo" di cui si vanta Monti, di Franco Monaco

Gli osservatori hanno abbondantemente segnalato le metamorfosi di Monti, la sua relativa, sorprendente berlusconizzazione. Sia nel suo stile comunicativo, sia nella sua repentina conversione a politico prodigo di facili promesse. Un mutamento dagli esiti francamente caricaturali. Come non rammentare l’enfasi sulla sua sobrietà e sul suo rigore calvinista, sul suo profilo di «civil servant» e di «riserva della Repubblica» alieno dalle miserie e dalle debolezze del politico tradizionale e agli antipodi del calco berlusconiano?
Un profilo che finalmente ci riabilitava agli occhi del mondo dopo lunghi anni nei quali il nome dell’Italia era stato associato ai peggiori luoghi comuni su di essa e sui suoi atavici vizi, semmai esasperati dal moltiplicatore e dall’unicità rappresentati dal Cavaliere? Ma preme, ora, isolare soprattutto un altro elemento: la leggerezza e il nuovismo di Monti.
Da quando egli ha fatto il suo ingresso in politica, ha rivendicato la novità della sua iniziativa in opposizione ai «vecchi partiti». Sostanzialmente quasi tutti gli altri. Più volte egli ha esibito con orgoglio la circostanza di avere allestito una offerta politico-elettorale nel giro di poche settimane. La stessa battuta sul Pd, che sarebbe nato’ ne11921, con palese allusione all’atto di nascita del Partito comunista, si inscriveva in quello schema di ragionamento, teso appunto a rimarcare la presunta, virtuosa differenza della sua creatura.
Dal Pd, giustamente, si è reagito con sdegno a fronte di una battuta effettivamente maliziosa e di cattivo gusto. Persino intellettualmente disonesta, che di proposito ignorava la novità del Pd e lo stesso travaglio dei suoi lontani antenati. Si pensi solo alla storica svolta della Bolognina e, su altro fronte, alla chiusurà di una formazione quale la Dc e al percorso seguito poi dai cattolici democratici. Una transizione niente affatto indolore se solo si pensa al dramma personale e politico di uno dei suoi protagonisti: Mino Martinazzoli. Per tacere dell’innovazione culturale e politica rappresentata dall’Ulivo di Prodi e di Andreatta.
Per farla breve: Monti rimuove d’un tratto le discontinuità coincise con alcune delle pagine più intense e più alte della democrazia italiana a cavallo della fine del 900. Ma è persino inutile evocare quelle pagine. Più semplicemente, basta replicare a Monti con la convinzione che ciò che egli rappresenta come una virtuosa novità è per noi un vistoso limite. Davvero si può andare fieri di una iniziativa elettorale improvvisata in due o tre settimane intorno a un uomo e a un’agenda concepita per gestire una congiuntura?
Davvero sta in questo metodo il nuovo e il buono della politica? Forse noi saremo un po’ all’antica, ma siamo affezionati all’idea esattamente contraria: in politica si fanno cose serie e utili se si percorre la sequenza opposta. Prima la visione di un certo respiro, che di sicuro trascenda una tornata elettorale; poi ci si dota di uno strumento non occasionale e precario come un partito politico (sì, un partito politico); poi ancora si elabora un programma e solo infine si appronta una offerta elettorale. Il Pd avrà pure mille difetti e non sarò io a tacerli.
L’ho fatto spesso e con spirito critico. Ma nei suoi cinque anni di vita ha provato a dotarsi di una qualche elaborazione ideale-politico-programmatica, di una organizzazione radicata sul territorio, di una classe dirigente al centro e in periferia. Lo ha fatto impegnando tempo e fatica, coinvolgendo centinaia di migliaia di militanti e milioni di elettori spesso chiamati a decidere con le primarie.
Lo ha fatto attraverso una miriade di incontri, di discussioni, di deliberazioni, persino con i riti propri (d’accordo, anche troppi) di un organismo collettivo a base democratica. Perché questa è la democrazia partecipativa. Comprensibilmente Monti si irrita se qualcuno rappresenta la sua compagine come «rotariana» e affollata di «notabili a disposizione», ma è un fatto che i suoi candidati siano stati tutti selezionati per cooptazione da lui, da Casini e Fini.
Non esattamente il nuovo, costoro. A sua volta egli dovrebbe portare rispetto per chi ha seguito un metodo opposto e, alla prova elettorale, si è preparato attraverso.cinque lunghi anni di lavoro collettivo e di coinvolgimento popolare. Pena dare ragione a chi – a proposito di altri – aveva coniato la tesi secondo la quale, pur senza essere ostili alla democrazia, si può essere estranei ad essa. Ancora un dettaglio. Confesso di avere osservato con un certo stupore l’espressione quasi compiaciuta del ministro Riccardi che stava a fianco di Monti a Napoli quando questi pronunciava l’infelice battuta sul Pd nato nel 1921.
Riccardi è storico di valore, allievo di Scoppola, fondatore e leader della Comunità di Sant’Egidio: possibile che non abbia provato imbarazzo nell’ascoltare parole tanto fuori luogo, che fanno torto alla verità delle cose e persino all’intelligenza di chi le pronunciava? Possibile che, appunto da storico del movimento cattolico, non avverta lo stridente contrasto tra la celebrazione di un’agenda e dí un uomo, e le grandi pagine del cattolicesimo politico da Sturzo in poi, tutte accomunate semmai dallo stigma della partecipazione popolare, l’opposto dell’elitarismo, del dogma liberale e del mito del leader salvatore della patria?
In una parola, più che la perfidia e la grevità di una battuta, mi impressiona e mi fa problema la leggerezza e il nuovismo di un uomo dal quale, effettivamente, non ce lo saremmo atteso. Ma evidentemente ci eravamo sbagliati nel giudizio: non di necessità un buon commissario, Ue è anche un buon politico e uomo di governo cui si richiedono altre e più rare qualità, a cominciare dalla visione e dal rispetto per gli altri.

da L’Unità

In pensione a 67 anni, ma con "Active ageing", di Anna Maria Bellesia

Pur rivolgendosi all’elettorato italiano, Monti ce lo dice in inglese. “Active ageing” fa molto più “Europe” (in inglese). Vuoi mettere rispetto a un banalissimo “invecchiamento attivo” nostrano che potrebbe perfino preoccupare gli elettori!
“È falso – dice – che per dare lavoro ai giovani sia necessario prepensionare gli anziani, ma è vero esattamente il contrario: i Paesi con tasso di occupazione degli anziani più alto sono anche quelli con tasso di occupazione giovanile più alto”.
Ecco la ricetta dunque: forti incentivi economici (sgravi fiscali e sgravi contributivi, sulla linea inaugurata con la legge Fornero) e normativi se si assumono cinquanta-sessantenni, maggiore flessibilità nella fase 62-67 anni, con possibilità di combinare part-time con mezza pensione. Veramente questa possibilità c’era già, ma in futuro sarà spostata più avanti negli anni.
Insomma i docenti italiani, la cui età media è fra i 50 e i 60 anni, si rassegnino all’“Active ageing”, invecchiando attivamente ancora per molti anni nelle loro scuole. Naturalmente aumentando la produttività e la flessibilità.
Immaginiamo come. La didattica sarà sempre più personalizzata, con attenzione ai bisogni educativi di ciascuno. L’insegnante dovrà farsi in 30-60-90 (tanti quanti sono gli studenti che ha in carico e con cui deve relazionarsi “produttivamente” in un giorno). Dovrà capire ogni minimo segnale di disagio dei suoi alunni, prendersene cura e ricorrere ad ogni sua risorsa professionale per farvi fronte. Dovrà padroneggiare le tecnologie e farsi “facilitatore” di conoscenze strutturate. Dovrà essere disponibile e aperto verso genitori sempre più aggressivi (v. le cronache recenti). Le classi diventeranno open groups in open space, si utilizzeranno open educational resources con la metodologia del bottom-up.
I docenti dovranno aprirsi alle novità, diventare flessibili dalle 8 di mattina alle 8 di sera, e guai a protestare per difendere “privilegi” da ancien regime e “interessi corporativi”. E chi è ancora abbastanza giovane non si dimentichi di “finanziare volontariamente una forma di previdenza complementare”, perché adesso funziona così, lavorare di più per prendere di meno.
Buon “Active ageing” a tutti.

da latecnicadellascuola.it

Letta: "Non è più credibile. Ci ha fatto quasi fallire", di Fabio Martini

Per «parare» l’ultima sortita di Berlusconi, il Pd ha deciso di puntare tutto sulla denuncia circostanziata dell’inaffidabilità del Cavaliere e della sua proposta. Ma anche potenziando un messaggio squisitamente politico, come spiega Enrico Letta, numero due del partito: «Dobbiamo marcare ancora meglio un concetto essenziale: l’alternativa è tra noi e Berlusconi, perché con questa legge possiamo vincere o noi o lui. Chi arriva terzo o quarto non cambia il destino del Paese. Chi fa perdere noi, fa vincere Berlusconi».
La proposta di Berlusconi è corredata di ipotesi di copertura, perché non dovrebbe essere credibile?
«No, non è credibile. Perché la fa Berlusconi. Perché è basata su premesse che non tengono conto della verità. Perché non si poggia sulla possibilità di realizzarla dal punto di vista della solidità politica».
Tra tante, qualche promessa Berlusconi l’ha mantenuta, a cominciare dall’abolizione integrale dell’Ici
«Berlusconi è l’uomo che ha fatto quasi fallire l’Italia e ora si ripropone, rovesciando la verità e facendo promesse irrealizzabili per il futuro. Contando sul fatto che, ogni tanto, gli italiani hanno la memoria corta».
Ma trovare la copertura per l’Imu è impresa complessa ma non impossibile, o no?
«Tanto per cominciare: perché Berlusconi non dice come si devono e si possono coprire gli 8 miliardi di euro che fanno parte dell’altra promessa, quella di far restare in Lombardia il 75% delle tasse dei lombardi? Ai non lombardi quella promessa costa 8 miliardi che nessuno ci ha spiegato come coprire. E per restare all’ultima promessa di Berlusconi: l’eventuale operazione da definire con la Svizzera non è altro che una “una tantum”. Non è certo un Bancomat. E le previsioni di entrate per i prossimi anni? Nulla. Con un giocoliere come Berlusconi, quasi non vale la pena mettersi a ragionare seriamente».
Il Pd, obiettivamente, ha rinunciato a lisciare il pelo degli elettori, promettendo l’abolizione integrale dell’Imu, ma solo una redistribuzione dei pesi: perché?
«Perché riteniamo che togliere completamente l’Imu, in questa fase, sia sbagliato. In una stagione nella quale si richiedono tanti sacrifici, riteniamo che chi ha una casa in via Montenapoleone debba pagare l’Imu e chi abita a Quarto Oggiaro no. E d’altra parte, Berlusconi dopo aver abolito l’Ici nel 2008, fu costretto a rialzare altre tasse. In troppi casi si rischia di avere la memoria corta».
In che senso?
«Nel luglio del 2011 Berlusconi fece approvare un provvedimento incardinato sull’aumento di due punti dell’Iva e il taglio di tutte le esenzioni fiscali (come assegni familiari o di accompagnamento) per un totale di 20 miliardi di euro. Un massiccio aumento fiscale. Bene, lo sforzo che fu successivamente fatto dalla maggioranza raccolta attorno a Monti, fu proprio quello di evitare – col Salva Italia – questo salasso che avrebbe colpito famiglie e imprese”
Non c’è un eccessivo allarmismo nell’ipotizzare un’impennata dello spread al solo riapparire di Berlusconi?
«Ma lo spread è la “tassa-Berlusconi! La tassa più salata pagata dagli italiani. Cento punti di spread in un anno equivalgono a cinque miliardi in termini di sbilancio dello Stato. E Berlusconi ha portato lo spread da 100 a 500 punti: in 18 mesi questo ha comportato un salasso di 15 miliardi».
Sul piano fiscale, la vostra proposta caratterizzante?
«Un intervento molto significativo di riduzione delle tasse sul lavoro, perché questo consentirà nuove assunzioni, buste paga più pesanti, ripresa dei consumi».

da La Stampa

Cosa c’entra la finanza con l’istruzione?, di Antonio Scurati

Assistiamo a un paradosso rivelatore. Non passa giorno senza che il mondo della finanza non si dimostri un perverso anti-modello, incline ad aggravare le nostre crisi economiche e a precipitare la nostra crisi morale. Eppure, quando finalmente l’opinione pubblica pare allarmarsi per il drammatico calo di iscrizioni alle nostre università, ecco che gli opinion maker corrono in soccorso dell’università applicando al suo caso il linguaggio della finanza. «Il rendimento del capitale per laurearsi è circa pari al 10%, molto maggiore del rendimento di un portafoglio medio di azioni e obbligazioni (3,6 %)». Frasi come questa ci hanno costretto a leggere nei giorni scorsi – accanto ai titoli sullo scandalo Mps – i grandi quotidiani nazionali di questo nostro bizzarro Paese.
A questo punto è necessario prendere posizione. La mia è la seguente: l’applicazione al mondo universitario di questa logica finanziaria, di questo linguaggio da mutui subprime e da derivati, non lo soccorre ma gli assesta il colpo letale. Anzi, proprio questa colonizzazione dei territori del sapere (e della vita) da parte di una logica basso mercantile e speculativa è all’origine della loro desertificazione. Vale lo stesso per la cultura. Tra l’affermare che «con la cultura non si mangia» e l’affermare che «con la cultura si mangia» non corre molta differenza: sono entrambe figlie della stessa visione e degli stessi errori strategici che portano i drammatici tagli dei finanziamenti pubblici perché non immediatamente redditizi.
Non si motivano i docenti costringendoli tutti, che insegnino fisica nucleare o filologia romanza, ad applicare improvvisate logiche di marketing al proprio lavoro. Soprattuttononsimotivanoglistudenti alla scelta universitaria dandone un’idea meramente strumentale, utilitaristica e mercantile. Si motivano, invece, ribadendo che in essa risiedono valori superiori,intrinseciefinalizzatiaséstessi: l’acculturazione, l’emancipazione dell’individuo, la conoscenza dell’uomo e mondo, l’intelligenza del proprio tempo. Che questi valori si declinino attraverso l’acquisizione di una cultura economica, scientifica o umanistica, poco importa. Dalla valorizzazione di questi valori discenderanno, poi, in via indiretta, grandi vantaggi economici – in termini di crescita e sviluppo – per l’individuo e la società.
Ma il sapere deve essere desiderato come premio a se stesso perché il sistema universitario possa prosperare. Gli studenti che vivono l’università come un vergognoso «parcheggio» sono proprio i delusi da una sua concezione meramente strumentale. Quelli che invece si appassionano allo studio di là di ogni calcolo, sono i migliori (e i più redditizi e profittevoli). Dovrebbe essere proibito per legge applicare all’università termini orribili e incongrui come «spendibilità». In un Paese povero di etica pubblica come il nostro, il dilagare linguistico del «market» evoca sempre di più la marchetta. Se tutto si riduce a «fare i danè», visti i modelli sociali dominanti, è molto probabile che i nostri potenziali studenti all’istruzione preferiscano lo spaccio, l’estorsione e la prostituzione. Sono conti sbagliati i conti della serva.
E veniamo alla bottega artigiana. Non sto qui riproponendo il divorzio tra la teoria e la pratica (quello c’è già), ma una nuova (antica) alleanza. I saperi teorici senza la pratica sono monchi, ma quelli pratici senza la teoria sono ciechi. Torniamo, allora, ai padri nobili. Un solo esempio. Il Rinascimento italiano nacque dalla sublimazione in arte dei secolari saperi coltivati nelle botteghe artigiane. Nella Firenze del ’400 tutti i grandi artisti che sono ancora oggi il nostro vanto impararono il mestiere in botteghe artigiane. Sandro Botticelli fece il suo apprendistato in quella di Filippo Lippi, ma rimase un ottimo facitore di Madonne finché non frequentò l’Accademia Platonica di Marsilio Ficino (finanziata da Cosimo de’ Medici, il più abile banchiere del suo tempo), aprendosi, così, a una conoscenza superiore che riscopriva le scuole dei millenni fondendole in un’unica, grandiosa visione dell’uomo e del suo posto nel cosmo. Dalla frequentazione di quella «università» scaturirono capolavori come «La primavera» e «La nascita di Venere». Sua e nostra gloria.

da La Stampa

Altro che giovani schizzinosi metà dei laureati cambia città, di Corrado Zunino

I laureati italiani non sono schizzinosi né indolenti. Ora è certificato: l’aggettivo choosy del ministro Fornero, che fece seguito all’ancor più perentorio “sfigati” del suo sottosegretario Martone, non trova riscontro nell’ultimo lavoro sul tema. Lo ha commissionato la Fondazione sussidiarietà, ci hanno lavorato il dipartimento di sociologia dell’Università Cattolica e il Consorzio AlmaLaurea, che da dieci anni monitora i percorsi formativi e professionali dei neolaureati italiani. Questa volta, chiedendo a 5.730 neolaureati se sono stati disponibili a trasferire la propria residenza in un’altra città o accettare lunghi trasferimenti casa-lavoro, il 53 per cento ha mostrato un’adattabilità elevata con picchi superiori alla media tra gli uomini (63%), gli ingegneri (60%), i residenti al Centro-Sud (60%, dieci punti in più rispetto al Nord), gli autonomi (60%) e i lavoratori precari (60%).
I più “adattivi”, le definizioni sono del dossier, alle esigenze del mercato oggi guadagnano 100 euro al mese in più. Nel concreto, il 54 per cento ha svolto uno stage in Italia, il 9 per cento all’estero. Nei programmi di studio fuori confine primeggiano, ovviamente, i laureati in lingue: uno su tre l’ha fatto. Poi gli agrari: uno su cinque. Decisamente più diffusi gli stage in patria, frequentati dagli psicologi (74%), gli architetti (62,7%) e gli autori di studi politici e sociali (il 60,8%). Fanno poche esperienze, sia in Italia che all’estero, i laureandi e laureati in Legge. L’attivismo universitario (stage nel periodo di laurea, master subito dopo) consente un guadagno netto superiore: 1.381 euro contro 1.263 (l’attivismo è ancora più importante della disponibilità a trasferirsi).
Il lavoro della Fondazione sussidiarietà prende in analisi, quindi, i “tipi” post-universitari. I due blocchi forti sono i “precari in cerca di gloria”, pari al 39,6% e gli “adattivi ma deboli”, il 34,8%. I primi sono stati intraprendenti durante la laurea e hanno un’elevata disponibilità ad adattarsi ai tempi e ai luoghi di lavoro. Sono laureati in atenei del Sud Italia in lingue, ingegneria, economia o statistica. Lavorano nel settore chimico, metalmeccanico, nelle telecomunicazioni, nell’elettronica. Hanno partecipato al programma
Erasmus e hanno contratti di lavoro a tempo determinato. I “precari in cerca di gloria” hanno già cambiato tre lavori e chiedono ampia autonomia. Provengono da famiglie di ceto medio-basso e oggi guadagnano 1.265 euro al mese.
Gli “adattivi ma deboli” sono stati poco attivi in facoltà, ma ora si mostrano molto flessibili. Sono in prevalenza donne che vivono e lavorano al Nord, nel curriculum non hanno stage né esperienze all’estero. Chiedono, più che stabilità, orari di lavoro adeguati. Occupati a tempo parziale nel commercio, le loro famiglie sono di ceto medio-basso. Guadagnano 1.212 euro. “Le élites intraprendenti” sono il 14,5% e al lavoro chiedono massima soddisfazione. Figli del ceto dirigente del Nord, sono laureati in materie politico-sociali ed economico-statistiche, in ingegneria. Hanno preso master o portato a termine dottorati. Il loro voto di laurea è sopra la media, conseguita presto. Guadagnano 1.352 euro. “I rassegnati”, infine, sono l’11,1%: per lo più donne del Nord, sentono la laurea poco efficace rispetto al lavoro trovato. Provengono da famiglie del ceto medio dipendente e vogliono sicurezza contrattuale. Si sono laureate tardi, e guadagnano 1.164 euro.

da La Repubblica