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Il nuovo bisogno di fratellanza, di Gad Lerner

Come aiutarci nel fronteggiare l’indigenza? La fantasia non ha limiti. Un anonimo filantropo milanese che agisce tramite la Fondazione Condividere, ha elargito nei giorni scorsi una donazione in soccorso ai dipendenti della famosa scuola di Adro: dieci di loro, non certo benestanti, avevano stabilito di autotassarsi per 30 euro al mese pur di non escludere dalla refezione scolastica quindici bambini di famiglie che non ce la fanno a pagare la mensa. Il tutto per via del solito sindaco Lancini, spendaccione quando si trattava di ornare la scuola con simboli padani, ma ostinato nel rifiutare un contributo pubblico a famiglie di immigrati (poco gli importa che fra i morosi ci siano anche degli italiani): a lui piace insinuare il dubbio che si tratti di finti poveri. Ora i pasti saranno garantiti per tutti.
Ecco un’applicazione concreta del principio (biblico? laico? poco importa) di fraternità. Prevale la fratellanza là dove una guerra tra poveri avrebbe potuto dar luogo a un fratricidio. Cooperazione spontanea, mutuo soccorso, spirito di comunità.
Sono faccende di cui la politica tende a disinteressarsi, impegnata com’è nella contesa per la leadership. A sinistra ci sarà chi critica il meccanismo di una filantropia che funge da tappabuchi al doveroso intervento dello Stato. A destra si accontenterebbero di defiscalizzare la beneficenza privata. Ma in mezzo c’è la società civile, c’è il bisogno quotidiano di rispondere alla minaccia concreta della povertà sempre più difficile da ignorare. Siamo sicuri che questa società civile, immersa in una crisi che si prolunga negli anni, non sia in grado di generare un sistema economico capace di garantire fratellanza, e non solo concorrenza?
Trovo suggestiva ma anche lungimirante, in proposito, la ricerca in cui s’è impegnato l’economista Luigino Bruni, editorialista di “Avvenire”, studioso della cooperazione nonché animatore del Movimento dei Focolari fondato da Chiara Lubich. Non occorre essere cattolici per seguire il filo del ragionamento storico esposto da Bruni nel suo originalissimo libro “Le prime radici. La via italiana alla cooperazione e al mercato” (Il Margine). Là dove egli ci mostra come dal Medioevo dei liberi comuni e del monachesimo, quando la nozione di cittadinanza si estese ai mestieri, alle arti e al commercio, per riproporsi dopo la controriforma nell’illuminismo e nel Risorgimento, la società civile in Italia ha trovato le sue basi nell’impresa cooperativa, e poi nel credito cooperativo e nelle cooperative di consumo. Una tradizione che ancor oggi è alla base della stragrande maggioranza dell’economia del paese, se è vero che il 97% delle imprese ha meno di quindici dipendenti, e se aggiungiamo l’8% dei lavoratori nelle cooperative e il 15% nella pubblica amministrazione. Bruni esalta questo modello in cui l’impresa per vocazione si fa carico anche di problemi sociali e familiari che non trovano posto nel mero “business is business”. Dove, cioè, la convenienza economica s’intreccia naturalmente con aspirazioni umanistiche, poco importa se di natura culturale e/o religiosa.
Perché “il confine tra società, famiglia, comunità e impresa da noi è sempre stato poroso e sfumato”.
Di fronte alla crisi del capitalismo individualistico-finanziario che oggi tende a retrocedere in una difesa tipicamente feudale delle sue rendite, pur di contrastare la condivisione della ricchezza, bisogna riprendere sul serio i capisaldi dell’economia sociale. Per scoprire magari il filo che congiunge i Monti di Pietà di origine francescana alle Casse rurali ideate a fine Ottocento da Leo Wollenborg, fino alle cooperative di mestiere del socialismo nascente. Per ritrovarsi oggi nel nuovo mutualismo dei Gruppi di acquisto solidale, delle Banche del tempo, del co-housing e del co-working.
Siamo proprio sicuri che si tratti delle ingenuità di un sognatore, devoto a Mazzini e al suo ideale di riunione nelle stesse mani di capitale e lavoro? Ci andrei piano, prima di liquidarle come tali. L’alternativa tra fratellanza e fratricidio si ripropone ogni giorno con la perdita di posti di lavoro e di quote di reddito, spingendo fasce crescenti di popolazione ai margini del mercato. Per loro l’associazione è la risposta, ben più che la concorrenza. E così torna d’attualità la critica dell’economia ridotta a matematica in cui si distinse il teorico italiano della cooperazione, Achille Loria.
Riuscirà la politica a nobilitarsi raccogliendo l’impulso spontaneo al mutuo soccorso e all’impresa solidale che va diffondendosi nei luoghi della sofferenza sociale? Le resistenze culturali sono ardue da superare nelle burocrazie dei partiti e dei sindacati. Perfino le strutture ufficiali del movimento cooperativo negli ultimi anni hanno mutuato la mentalità e i metodi del management finanziario. Eppure non ci vorrebbe molto per aprire tante sedi ridotte oggi a funzioni impiegatizie, trasformandole in punti di riferimento per i bisognosi.
Nonostante il permanere di diffidenze e pregiudizi, qualcosa si muove. Mi è successo di recente alla Camera del Lavoro di Milano di suscitare le critiche di un’assemblea di esodati cui suggerivo di far tesoro del loro tempo forzatamente libero, dopo che la protesta li ha riuniti. Per poi scoprire che già lo “sportello esodati” della Cgil fornisce supporto psicologico e consulenze pratiche a un numero crescente di miei coetanei. Basterebbe un passo in più per organizzare il mutualismo, nell’assistenza così come nell’impresa sociale su base cooperativa. Succede fra i giovani in cerca di lavoro, nelle proprietà confiscate alla mafia, fra gli sfrattati, fra le partite Iva del precariato. Ma succede senza che una visione politica organizzi in speranza collettiva questa via d’uscita dalla crisi. Quasi che il rancore sociale e l’isolamento personale fossero un destino ineluttabile.
In altre epoche di penuria la società civile ha saputo condizionare virtuosamente il mercato, la cui logica non deve essere per forza spietata. Per riuscirvi di nuovo avrebbe bisogno della sensibilità di una politica che non riduca i diritti di cittadinanza al solo diritto di voto. Le persone, le famiglie, le comunità si industriano nella ricerca dell’aiuto reciproco, qui e ora. La politica invece è salita troppo in alto.

Da La Repubblica

Ripartire dall'articolo 9 della Costituzione, di Matteo Orfini

Caro direttore, «la cultura non è al centro della campagna elettorale» è il lamento che in questi giorni si leva sempre più spesso. Una considerazione più che fondata, che purtroppo non riguarda solo la politica: quanto abbiamo dovuto aspettare perché il sistema dell’informazione si accorgesse della tragedia di Sibari? Per questo, la proposta-appello lanciata da Roberto Esposito e Ernesto Galli della Loggia per l’istituzione di un ministero della Cultura, in luogo dell’attuale ministero dei Beni culturali, va salutata con favore, se può servire a smuovere l’opinione pubblica. Certo, il problema non può essere ridotto a mera questione nominalistica: Esposito e Galli della Loggia osservano giustamente che l’Italia attraversa una crisi che è, nel profondo, una crisi culturale, e che c’è bisogno di ridefinire «un’idea di Paese». Questo però è un problema che investe la politica nel suo complesso, e da cui il Pd si sente investito in tutte le sue articolazioni. Ci vuol più di un ministero (e di un ministro, attualmente vacante), ci vuole un governo che ne sia consapevole, ed è il governo al quale il Pd sta lavorando. Per questo ormai da anni abbiamo guardato alla cultura prima di tutto come a un diritto dei cittadini, un bene comune da curare con amore, ma anche come a una possibile via d’uscita dalla crisi.
Investire sul sapere, sulla creatività, sulla cultura è indispensabile per rendere più forte non solo la democrazia italiana, ma un sistema industriale che ha bisogno di puntare sull’innovazione e non sulla ragionieristica riduzione di costi, da scaricare ovviamente sul mondo del lavoro. Non aver valorizzato i giovani formati dalle nostre università è la ragione per cui i loro padri, descritti come ipergarantiti, sono oggi anch’essi precari come i loro figli, perché precarie sono le mille imprese in crisi per cui lavorano. Imprese che per rilanciarsi avrebbero bisogno di un Paese che le aiuti a innovare. Per invertire questo declino serve dunque una scelta decisa. E servono politiche di riforma serie, che rimettano al centro la cultura e che consentano alla Repubblica di garantire l’applicazione dell’articolo 9 della Costituzione. Quindi interventi che interrompano il declino a cui il disinteresse ha destinato archivi e biblioteche statali, siti archeologici e patrimonio culturale. Esattamente quelle proposte che Stella nell’editoriale di ieri giustamente invoca e che avrebbe trovato già elaborate nel dettaglio, se solo le avesse cercate nel programma del Pd sulla cultura, o semplicemente utilizzando Google.
Certo, constatarne l’esistenza avrebbe smentito la sua tesi, per la verità ormai di scuola: quella del disinteresse dell’intera politica per questi temi. Ma per fortuna dell’Italia e della cultura, è una tesi infondata.

da Il Corriere Della Sera

Caro Prof, al lavoro non servono altri contratti flessibili, di Luigi Mariucci

Il documento su «Politiche di lavoro e welfare» presentato ieri da Monti merita una attenta analisi critica. Alcune parti hanno un carattere essenzialmente celebrativo della attività svolta dal governo tecnico e sono prive di ogni pur doverosa riflessione autocritica, ad esempio in materia di effetti imprevisti della riforma delle pensioni (leggasi esodati). In altre parti si apre qualche spiraglio nella impostazione autoelogiativa: così rispetto alla legge Fornero sul mercato del lavoro che viene ampiamente lodata, salvo l’accenno ad alcune criticità da riconsiderare, celate dietro il termine pudico di «monitoraggio». In tema tuttavia non si dice la cosa essenziale, cioè che quella riforma, al di là delle buone intenzioni, non ha prodotto alcun effetto positivo sull’occupazione, anzi ha determinato ulteriori problemi in ragione della ridondanza e complessità delle discipline introdotte. Altre parti del documento appaiono invece largamente condivisibili, specie negli enunciati: ad esempio quando si fa riferimento a piani straordinari per l’occupazione giovanile e femminile, si invocano maggiore efficienza della pubblica amministrazione e dei servizi pubblici per l’impiego, si sollecitano nuove politiche europee in materia di sostegno alla occupazione, e così via. Su ognuno di questi punti andrebbe aperto un confronto di merito sulle misure concrete da adottare. Ma su due questioni, in particolare, vanno dichiarate le più nette riserve critiche. La prima riguarda l’idea di introdurre un ulteriore contratto flessibile descritto con la formula criptica della «rimodulazione sperimentale del contratto di lavoro a tempo indeterminato». Di cosa si tratta in concreto? A quanto si intende viene abbandonata la formula illusoria, tanto cara a Pietro Ichino, del cosiddetto «contratto unico», che unico naturalmente non era perché si sarebbe aggiunto alle altre innumerevoli forme di assunzione precaria, e che consisteva nello scambio tra assunzione (in apparenza) a tempo indeterminato e sottrazione alla disciplina dei licenziamenti. Ciò non sorprende perché gli altri estensori del testo nelle loro precedenti cariche si erano espressi con grande forza contro quella proposta (Bombassei, già vicepresidente di Confindustria) e Giuliano Cazzola (già deputato del Pdl). Del vecchio «contratto unico» viene invece presentata una versione più blanda: si introdurrebbe un ulteriore contratto flessibile, incentivato con sgravi contributivi, non è chiaro se riferito solo ai giovani o alla generalità dei disoccupati, mediante il quale si potrebbe essere assunti, in apparenza, a tempo indeterminato salvo poi essere liberamente licenziabili, con modeste indennità nei primi 2 anni e con più rilevanti impegni di ricollocazione dopo 3 anni dalla assunzione. La proposta assomiglia terribilmente a ciò che chiesero i datori di lavoro agli inizi del secolo scorso e fu poi sancito dal codice civile del 1942: il rapporto di lavoro è normalmente a tempo indeterminato ma il lavoratore può essere liberamente licenziato salvo preavviso. Non sembra un grande progresso. Né si vede come tale contratto possa contrastare il dualismo tra occupati stabilmente e precari, dato che esso aggiungerebbe con evidenza un dualismo in più, tra vecchi e nuovi assunti. Ma l’obiezione di fondo è un’altra. Per quanto tempo ancora continueremo a inventarci contratti di lavoro flessibili, aggiungendo l’uno all’altro e a sommare leggi su leggi senza determinare alcun effetto sulla situazione reale? In questo modo la stessa legge-Fornero sul mercato del lavoro verrebbe modificata in peggio. Se quella legge aveva un merito, esso stava nell’investire decisamente sul contratto di apprendistato come strumento prioritario di accesso dei giovani al lavoro. Su questo si dovrebbe lavorare, mettendo mano agli strumenti più efficaci, in accordo con le Regioni che funzionano o surrogando quelle (molte) che non funzionano. Per il resto per favorire la buona occupazione gli strumenti decisivi sono altri, a partire dagli interventi per contrastare la recessione e riavviare uno sviluppo sostenibile. L’unica misura efficace di contrasto alla precarietà consiste nel portare a sistema robusti incentivi fiscali, per ridurre il costo delle assunzioni a tempo indeterminato. Il resto è acqua fresca. Anzi si rischia di fare danno ulteriore. L’altro punto di forte dissenso riguarda le relazioni contrattuali. Sorprende che il documento Monti contenga una esaltazione acritica di quella norma voluta dal governo Berlusconi in articulo mortis (l’art.8 della legge n.138/2011) che non ha precedenti in nessun Paese civile, la quale consente con contratti aziendali di derogare alle discipline previste dai contratti nazionali e persino dalla legge. Il tutto naturalmente in nome della buona flessibilità, anzi della mitica flexsecurity. Tale norma, che il semplice buonsenso riformista suggerirebbe di abrogare, viene addirittura definita «norma chiave» da sostenere «mediante guidelines». Ma per favore, anche qui lasciamo perdere. Certe idee bislacche sulla differenziazione territoriale dei diritti sociali di fondo meglio lasciarle alla Lega: si addicono più ai rutilanti leghisti che agli algidi tecnici montiani.

da L’Unità

La crisi dell’università è figlia di anni di tagli, di Francesco Benigno

In una campagna elettorale, come questa, attraversata da ventate di esasperato populismo esistono degli idola polemici, dei totem della comunicazione che attraggono tutta l’attenzione e impediscono di vedere approfonditamente le cose. È come se non fosse possibile, ad esempio, andare al di là del dibattito sull’abolizione totale o sulla rimodulazione dell’Imu: come se abolendo l’Imu o riducendola non si dovessero cercare i soldi da qualche altra parte, o come se, una volta abolita l’Imu questo Paese che adesso è fermo, culturalmente prima ancora che economicamente, fosse – con un tocco di bacchetta magica pronto a rimettersi in marcia. Attorno a questi totem si schierano spesso tifoserie disposte più a riconoscersi per slogan che ad accettare gli argomenti altrui e questo disporsi a falange impedisce di guardare in faccia i problemi molto seri che il Paese ha davanti. Lo stato dell’università italiana è un ottimo esempio di questa situazione. Il Consiglio Universitario nazionale (Cun) ha ora lanciato l’allarme sul calo delle iscrizioni (-17% dal 2003 all’anno scorso, e quest’anno non sarà certo meglio) facendo notare come l’Italia sia sensibilmente sotto la media europea per numero di laureati, così come d’altra parte lo è per gli investimenti nella ricerca. Nel commento ai dati, peraltro già noti, si tira in ballo da una parte il ciclo economico negativo e la contrazione delle risorse per il diritto allo studio, la riduzione dei corsi di laurea (1195 in meno), il crescente ricorso al numero programmato. Diciamo con più nettezza quello che il Cun non ha potuto o voluto dire a chiare lettere. Negli anni di governo di Berlusconi l’antica diffidenza nei confronti dell’università pubblica si è mescolata a nuove, presunte certezze, cui il ministro Tremonti ha dato voce: tra esse che una serie di ripetuti tagli lineari (5% l’anno) avrebbe miracolosamente migliorato la qualità del sistema dell’istruzione superiore. Come se a uno zoppo si tolga la stampella immaginando che così cammini meglio. A ciò si aggiungeva la convinzione che l’autonomia del sistema universitario fosse stata un completo fallimento e che solo una gestione dal centro potesse assicurare l’efficienza del sistema: da un lato sopravvalutando così le capacità delle strutture direttive del ministero e dall’altra evitando una riflessione sul tipo di autonomia che si è sperimentata, vale a dire un’autonomia senza responsabilità, una carota (peraltro piccola e povera) senza bastone. Il tutto entro una cornice di depotenziamento del ruolo dell’università pubblica, di mancanza di un progetto di competitività delle sedi italiane nel quadro internazionale e nel contesto di una campagna di stampa che prendendo spunto da una serie di casi di malcostume, dipingeva l’università italiana come l’epicentro dei mali del Paese (mentre ne era solo lo specchio fedele): nepotismo più inefficienza, più arroccamento nelle posizioni di privilegio. Questa strategia è culminata nell’esperienza di governo del ministro Gelmini ispirata all’idea della salubrità della dieta dimagrante per l’università: che cioè riducendo l’offerta formativa e snellendo l’università, con meno docenti e magari meno sedi, tutto si sarebbe rimesso al meglio. Ora siamo al redde rationem e presto ci diranno che bisognerà fare tutto all’incontrario: contrordine compagni. Quello che colpisce nella discussione attuale, incentrata su dove trovare i soldi per l’università è ancora una volta la tendenza a schierarsi a coorti: i soloni che vedevano nella strategia dell’affamare il cavallo l’unica soluzione, ora, davanti ai risultati penosi che abbiamo sotto gli occhi, tacciono; ma si ergono altri opposti tifosi che vogliono solo difendere il diritto allo studio, senza se e senza ma, e cioè senza precisare di quale studio; e per i quali aumentare le tasse universitarie è un tabù, anche nel caso di aumenti legati al reddito e a una possibilità così di finanziare le borse di studio per i meritevoli non abbienti. Soprattutto, questo confuso dibattito si svolge senza uno straccio di progetto sul ruolo dell’università nello sviluppo del Paese e nel contesto della accresciuta competitività internazionale. Mentre tutti sappiamo come un’istruzione superiore di qualità sia un prerequisito fondamentale di uno sviluppo duraturo nei Paesi avanzati, oltreché un volano indispensabile alla crescita sociale e culturale del Paese.

da L’Unità

Giovani e università, la sfiducia peggiore, di Giuseppe Provenzano

È l’Italia che si impoverisce, e nella crisi si perde per via pezzi interi di futuro. È la spirale di arretramento economico e sociale, che arriva a intaccare il suo giacimento più prezioso, quelle risorse di capitale umano che non ha saputo valorizzare. È ciò che non solo interrompe ma rischia di minare ogni prospettiva di sviluppo del nostro Paese. È di tutto questo che ci parla il dato – forse il più pregnante, tra quelli che “raccontano” la crisi – del crollo delle immatricolazioni all’Università.
Non è il primo anno che viene denunciata questa inversione di tendenza nel processo di scolarizzazione superiore in Italia, che la inchioda agli ultimi posti per numero di laureati tra i paesi OCSE. E proprio i numeri del decennio tracciano la sua parabola declinante, il precipitato di occasioni sprecate. Sprecato è il forte investimento che dalla metà degli anni Novanta aprì l’accesso all’istruzione avanzata a una massa di giovani, specialmente donne e meridionali, con la promessa di buona occupazione, di un cammino di sviluppo europeo, verso una società della conoscenza e un’economia fortemente competitiva. Si iscrivevano all’Università sempre più diplomati, fino a oltre il 70% nel 2004, soprattutto in un Mezzogiorno che colmava i divari formativi con il resto del Paese, conquistando parametri sempre più in linea con gli standard europei. Da allora, è iniziato un lento declino che la crisi ha accelerato, e quella percentuale è tornata ai livelli di quindici anni fa. Crollano le immatricolazioni non solo per un calo demografico o per la diminuzione degli immatricolati adulti (fenomeno importante in seguito alla riforma universitaria di fine anni Novanta). Oggi pesa la crisi, la difficoltà delle famiglie a farsi carico del costo di mandare i propri figli all’Università. Tuttavia, la ragione principale va ricercata proprio nella promessa mancata sul lavoro, nel tradimento alle nuove generazioni, anche ai laureati, a cui l’Italia ha dato soltanto un’alternativa tragica tra la precarizzazione e la marginalizzazione, lo “spreco” (si pensi ai Neet, alle centinaia di migliaia di laureati inoccupati) o peggio la “fuga” (con l’esercito dei nuovi fuorusciti).
Al di là dei limiti interni al sistema formativo e universitario, della notoria mancanza di una politica per la ricerca all’altezza delle sfide, del diritto allo studio spesso vergognosamente negato, i fattori economici e sociali, attuali e di prospettiva, assumono un peso decisivo nelle scelte formative. È la forma più grave di “scoraggiamento” sociale: matura l’idea, tra le generazioni più giovani, che investire nel sapere, e dunque in se stessi, alla fine non serva, altri sono i modelli di affermazione sociale, spesso sia inutile, per l’insufficiente capacità del sistema produttivo di assorbire le risorse umane formate, avvitato senza politiche pubbliche adeguate in “circolo vizioso” tra offerta e domanda (le università non producono capitale umano adeguato, le imprese non vogliono o non sono attrezzate a valorizzarlo). A che serve andare all’Università a per un giovane che si troverebbe a venticinque anni senza un lavoro all’altezza delle sue competenze e ambizioni? A che serve se a trent’anni, senza un sistema di protezione familiare o clientelare alle spalle, non avrà un reddito che garantisca una vita dignitosa?
Chissà che qualcuno oggi non si accorga, pure in una campagna elettorale dove fanno capolino vecchi uomini e vecchie idee, che questo dato sul crollo delle immatricolazioni è un frammento di specchio che restituisce, con un’immagine inquietante, la più nitida visione della posta in gioco: il ruolo dell’Italia, della sua società, della sua economia, nell’Europa e nel mondo di domani. Un domani per cui si sta facendo ormai troppo tardi, e non si può perdere altro tempo. Non si può perdere ancora.

da l’Unità

Se il cavallo del Cavaliere vince la corsa elettorale, di Eugenio Scalfari

C’è una domanda che mi pongo e che propongo ai cittadini che voteranno (e anche a quelli che finora non hanno intenzione di votare o sono ancora indecisi per chi votare): che cosa accadrebbe in Italia se il Partito democratico non vincesse le elezioni? Né alla Camera né al Senato?
Finora nessuno ha fatto questa domanda e nessuno ovviamente ha dato una risposta. Bersani ha fatto appello al cosiddetto voto di necessità, ma limitatamente ad alcune Regioni il cui esito elettorale può essere determinante per il Senato. Ma il tema è più generale. Se l’è posto soltanto Alfredo Reichlin in un articolo lo scorso venerdì sull’“Unità”, nel quale si è chiesto che cosa accadrebbe se non ci fosse una visione del bene comune come quella proposta dal Pd.
La logica della democrazia parlamentare ci dice che si vota per il meno peggio; votare per il meglio, cioè per il partito con il quale ci si identifica al cento per cento, è pertanto impossibile: ciascuno ha una sua visione del bene comune. Dunque si vota per il meno peggio, partito movimento o lista elettorale che sia, il cui programma e i cui rappresentanti siano i meno lontani dal nostro modo di pensare. Del resto di Winston Churchill restò celebre la battuta che «la democrazia è il peggiore dei sistemi politici ma uno migliore non è stato ancora inventato».
Allora ripeto: che cosa avverrebbe se il Pd fosse scavalcato da un altro partito? E quale?
Gli inseguitori sono quattro, ma di essi solo uno insegue per vincere in tutte e due le Camere: quello di Berlusconi con i suoi alleati,
Lega, Grande Sud, Destra, Fratelli d’Italia.
Gli altri non hanno speranze per la Camera, ma possono creare una situazione di ingovernabilità al Senato e quindi una paralisi parlamentare con tutte le conseguenze del caso: la
lista civica di Monti con i suoi alleati e Ingroia.
Grillo è un caso a parte. Potrebbe arrivare terzo e perfino secondo ma è molto difficile pensare che divenga primo. E poi i grillini in Parlamento subiranno inevitabilmente una radicale trasformazione; il Parlamento è la sede d’un potere costituzionale, quello legislativo. Voteranno contro tutte le leggi? Vorranno abolire tutte quelle esistenti? Il Movimento “5 stelle” è un’incognita, il suo bacino elettorale è quello degli indecisi che attualmente viaggiano attorno al 10 per cento. La pesca di Grillo si svolge in quel bacino, ma non è il solo. Nel migliore dei casi potrebbe arrivare al 20 per cento e sarebbe un successo enorme ma comunque non sufficiente a dargli la vittoria.
Superare il 20 per cento e magari arrivare al 25 è anche il traguardo vagheggiato da Monti. Ma il solo che può oltrepassare quel traguardo è Berlusconi. È lui l’inseguitore del Pd e dunque che succederebbe se l’inseguitore raggiungesse e superasse l’inseguito? **** Se questo dovesse accadere crollerebbe in misura catastrofica la credibilità europea e internazionale del nostro Paese; i mercati si scatenerebbero e lo “spread” tornerebbe alle stelle. L’ipotesi di un Berlusconi vincente che riuscisse a “domare” Angela Merkel, cioè la Germania, è puro infantilismo. Accadrebbe però che la Lega conquisterebbe un potere decisivo e spaccherebbe con le sue proposte il Paese in due. Qualora la Germania non si accucciasse ai piedi del redivivo, il Cavaliere ha già previsto ed ha pubblicamente dichiarato che la lira come ritorsione uscirebbe dall’euro. Forse coloro che abboccando alla demagogia berlusconiana pensano che prima o poi l’asino volerà, non hanno ben chiaro che cosa significa il ritorno alla moneta nazionale: le banche americane e la speculazione giocherebbero a palla con la liretta, roba da emigrazione forzata, ma se il Pd non vincerà è esattamente questo che accadrà. Ci sono altre alternative?
Di Grillo abbiamo già detto; tra l’altro sostiene più o meno le stesse corbellerie di Berlusconi. Ma gli altri partiti potrebbero allearsi con il redivivo vincitore? Monti per esempio?
Monti ha governato un anno con la “strana maggioranza” che comprendeva anche il Pdl. Vero è che in quell’anno Berlusconi era praticamente scomparso, oggi viceversa è tornato in scena. Quanto a Monti, ha già dichiarato di essere disposto a ripetere l’esperienza dell’anno scorso sempre che il Cavaliere torni a fare il morto. Ma se il Cavaliere fosse il vincente delle elezioni possiamo star certi che il morto non vorrà tornare a farlo. Oppure potrebbe anche cedere a Monti la presidenza, perché no? Invierebbe a controllarlo il suo cameriere Angelino. Quanto a lui chiederebbe ed otterrebbe un salvacondotto onorifico. E il Pd? Ruota di scorta benvenuta, ma senza Vendola per rompere definitivamente con la propria genealogia politica che — come lo stesso Monti ha affermato — comincia con la nascita del Pci a Livorno nel 1921. Comunisti senza soluzione di continuità, partito vecchio come tutti gli altri salvo la lista civica montiana. E salvo Ingroia, Monti se l’era dimenticato. Anche Ingroia è nuovo di zecca e infatti anche lui non sopporta il vecchio Partito comunista camuffato da riformista e anche lui, da sponda opposta, lavora affinché il Pd affondi.
Noi comunque riteniamo che il centrosinistra vincerà alla Camera perché il “Porcellum”, che è una porcata per quanto riguarda la scelta dei candidati e il meccanismo d’attribuzione del premio al Senato, assicura la governabilità alla Camera.
Per il Senato il discorso è diverso, ma lì non c’è soltanto Monti, c’è anche Casini e non è affatto detto che sia in tutto e per tutto allineato con Monti. Probabilmente, se il Pd vincerà alla Camera ma il Senato fosse senza maggioranza, Casini l’alleanza con Bersani la farebbe e la governabilità sarebbe assicurata, gli impegni con l’Europa mantenuti, la politica economica europea e italiana orientate verso la crescita. Ecco perché il centrosinistra deve vincere. Personalmente sono liberale e non sono nato nel 1921 ma dalla morte di Ugo La Malfa in poi ho votato sempre a sinistra per un partito riformista. Ce n’è uno solo in Italia, riformista e democratico, con attenzione ai deboli, ai giovani, alle donne, al Mezzogiorno e alla laicità dello Stato. Quando Monti ha parlato del Pci come del progenitore del Pd ho visto che accanto a lui c’era il ministro Riccardi della Comunità di Sant’Egidio che approvava annuendo con la testa; evidentemente pensava ai tempi beati della Dc e non mi è affatto piaciuto. Dovrebbe ricordare — Riccardi — che Moro fece l’accordo con Berlinguer per governare il Paese in un momento di gravi difficoltà e per questo ci rimise pure la vita. Nichi
Vendola, me lo lasci dire il buon Riccardi, il Berlinguer di allora lo tratterebbe come un figlioccio un po’ più moderato di quanto lui non fosse. **** Si parlerà ancora a lungo dello scandalo Monte dei Paschi, entrato di prepotenza nella campagna elettorale. Ma è un tema che con la politica c’entra soltanto incidentalmente. Il vero tema non è politico, riguarda piuttosto la struttura del sistema bancario, la vertiginosa moltiplicazione dei titoli derivati, le fondazioni e il loro assetto proprietario, i sistemi di vigilanza.
L’articolo di Luciano Gallino pubblicato ieri sul nostro giornale è molto chiaro in proposito: «La banca di Siena ha messo in pratica un modello di affari identico a quello di tutte le banche europee ed è un modello dissennato che sta all’origine della crisi economica in corso dal 2007 e ha portato al dissesto molte decine di banche in quasi tutti i paesi del nostro continente e negli Stati Uniti».
Questo modello va dunque riformato radicalmente in alcuni suoi punti nevralgici che sono i seguenti: 1. Occorre separare (come era stabilito nella nostra legge bancaria del 1936) le banche di credito ordinario dalle banche di affari e di lungo finanziamento. Le prime debbono raccogliere depositi e utilizzarli per finanziare le imprese; il loro capitale deve essere investito soltanto in obbligazioni emesse dallo Stato o da esso garantite.
2. La proprietà delle banche di credito ordinario deve essere affidata ad una pluralità di soci nessuno dei quali possa detenerne il controllo: fondazioni, fondi pensione, enti non-profit (leggi Amato e Ciampi).
3. La vigilanza sulle banche affidata alla Banca centrale, deve avere poteri più penetranti di quelli attuali. In particolare debbono avere il potere di revoca degli amministratori la cui condotta e le cui operazioni presentino aspetti rischiosi per la stabilità della banca ad essi affidata.
La Banca d’Italia, allora guidata da Mario Draghi, chiese più volte al governo che i suoi poteri di vigilanza fossero rafforzati e chiese in particolare di poter revocare gli amministratori. Oggi la vigilanza può solo ricorrere alla “moral suasion” che non è un potere ma una semplice raccomandazione. Analoghe richieste furono fatte dal Fondo monetario internazionale, anch’esso preoccupato per gli scarsi poteri della vigilanza della Banca d’Italia.
Il governo, nella persona del superministro Tremonti, rifiutò. Sarebbe molto opportuno che su questo punto la Banca d’Italia fornisse alla magistratura e alla Corte
dei Conti la documentazione delle sue richieste e la risposta negativa del ministro competente.
Il Presidente della Repubblica è giustamente preoccupato di quanto è accaduto, reclama chiarezza, confida nella magistratura e difende la Banca d’Italia dalle critiche faziose che le vengono rivolte. Ha segnalato anche, e giustamente, possibili “cortocircuiti” tra organi di informazione e autorità giudiziarie, che possano influire negativamente sui depositanti e sul mercato. Occorre tuttavia distinguere tra organi di informazione che ricercano la verità come è loro compito deontologico e istituzionale; possono talvolta incorrere in qualche errore come a tutti può capitare nell’effettuare il loro lavoro. Altra cosa invece avviene quando l’organo di informazione fabbrica notizie inesistenti e le diffonde per influire sui mercati e sulla politica. Queste sono macchine del fango e il cortocircuito che provocano non è occasionale ma consapevole e voluto.
Per rafforzare il risanamento del Monte dei Paschi sarebbe anche molto opportuno a nostro avviso che il ministro dell’Economia nominasse due consiglieri d’amministrazione della banca in occasione del prestito dei Monti-bond. La presenza provvisoria dello Stato nel capitale della banca è garanzia dell’opera di pulizia in corso dopo lo “tsunami” di Mussari e dei suoi accoliti.
Quanto alla fondazione senese, è evidente che debba fortemente diminuire la sua presenza azionaria nella banca. Lo faccia al più presto e discenda al 20 per cento, meglio meno che più.
Post scriptum.
Ieri ed oggi il nostro giornale è presente a Torino come lo fu l’anno scorso a Bologna, con manifestazioni intitolate “la Repubblica delle Idee”: dibattiti, prolusioni, interviste su temi di perdurante attualità. I torinesi hanno affollato le nostre iniziative con un interesse ed una simpatia dell’intera città.
Invio a tutti i colleghi ed amici e al direttore Ezio Mauro i miei più affettuosi auguri e li invio anche ai cittadini di Torino. Nel lontano 1968 fui deputato in quel collegio, indipendente nelle liste del Partito socialista. Amo molto quella città e faccio voti affinché il lavoro, lo sviluppo economico e culturale abbiano la meglio sulla attuale stasi. Torino fu la culla del nostro Risorgimento e uno dei principali centri di crescita e di solidarietà sociale e nazionale.
Questa è la sua vocazione che anche in tempi difficili non è mai stata abbandonata.

da La Repubblica