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Università, la denuncia degli studenti:"In arrivo altri tagli alle borse di studio" di Salvo Intravaia

Dopo il calo degli iscritti all’università, in arrivo anche il taglio delle borse di studio per meritevoli e bisognosi. L’Unione degli universitari, attraverso il suo portavoce Michele Orezzi, denuncia il “colpo di coda tutto politico” del governo uscente che intenderebbe approvare in extremis il decreto sul diritto allo studio universitario, previsto dalla riforma Gelmini. Lo schema di decreto verrà esaminato lunedì prossimo dal Cnsu (il Consiglio nazionale degli studenti universitari) e il 7 febbraio dalla conferenza Stato-regioni.
A questo punto il provvedimento potrebbe essere varato in via definitiva dal ministero dell’Istruzione, che ha avuto la delega dal precedente governo. Ma di che si tratta? E perché gli studenti sono sul piede di guerra? Secondo l’Udu, la norma inasprisce i vincoli che determinano l’accesso alle borse di studio facendo prefigurare un calo degli aventi diritto che potrebbe toccare il 45 per cento in appena un anno. Già adesso l’Italia si distingue per lo scarso supporto economico agli studenti universitari. I dati vengono snocciolati dall’Udu e sono impietosi.
Per il diritto allo studio universitario la Germania e la Francia stanziano qualcosa come 2 miliardi di euro all’anno e la Spagna quasi 900 milioni. In Italia, lo stanziamento per le borse di studio è di appena 332 milioni e risulta in calo da diversi anni. “In Francia gli studenti borsisti sono
più di 560mila, in Germania più di 550mila e in Spagna più di 235mila. In Italia i tagli scellerati degli ultimi anni ci hanno portato da circa 150 mila a circa 130 mila borsisti, che saranno tagliati ancora di più a causa dei nuovi criteri”.
Ma l’ultimo dato pubblicato dal ministero qualche giorno fa certifica poco meno di 112mila borsisti nel 2011/2012. Due anni prima erano 147mila, il 31 per cento in più, per una spesa complessiva di 399 milioni: 67 milioni in più rispetto al 2011/2012. E, stando alle stime degli studenti, fra pochi mesi il numero dei borsisti potrebbe assottigliarsi a poco più di 89mila beneficiari. Il decreto agisce su due leve: il merito e la condizione economica. Abbassa le soglie massime (Isee) di accesso alle borse di studio che vengono differenziate per regione: 20mila euro in Lombardia, 17.150 nel Lazio e 14.300 in Sicilia e Campania. Attualmente, il limite per tutti è di 20.124,71 euro.
“In generale il limite fissato è sempre inferiore a quello attualmente previsto a 20.124,71 euro, così – rilevano dall’Udu – alcuni studenti che oggi sono idonei potrebbero non esserlo col nuovo sistema”. E aumentano, fino a raddoppiare, i crediti minimi per mantenere – anno per anno e per tipologia di laurea – la borsa di studio. Ma non solo. Il decreto interviene anche sull’importo delle borse di studio, che contrariamente alla logica, subiscono un taglio (che varia dal 7 al 12 per cento) per studenti residenti in sede e pendolari. Mentre prevede un analogo incremento per i fuorisede.
Ma per questi ultimi aumentano le detrazioni per alloggio e mensa eventualmente erogati dalle regioni. Con la conseguenza che l’importo netto di cui verrebbero in possesso verrebbe decurtato di quasi mille euro rispetto all’attuale borsa: pari al 45 per cento. E anche l’erogazione della borsa, per quei fortunati che riusciranno a ottenerla, diventerà più complicata: tre rate anziché due. In più per accedere è stato fissato un limite di età (25 anni per la laurea triennale e 32 per quelle a ciclo unico e magistrali) senza distinzioni per chi interrompe e poi riprende.
“Dopo un anno di politiche fallimentari su scuola e università, questo governo – dichiara Orezzi – già dimissionario sferra un colpo letale al sistema di diritto allo studio italiano. Se passasse questo provvedimento manderebbe in frantumi il futuro di migliaia di giovani. Niente mezze misure: bisogna bloccarne l’approvazione ad ogni costo o la responsabilità sarà da dividere tra tutti quelli che non hanno fatto nulla per bloccare questo scempio”. “Oltre al danno – continua il portavoce dell’Udu – questo provvedimento è una vera e propria beffa: non solo non si aumenta il finanziamento per il diritto allo studio ma questo decreto andrebbe a peggiorare la situazione tagliando sia il peso delle borse che un pezzo di platea studentesca che ora riesce ad accedervi”.
Un provvedimento che potrebbe contribuire a ridurre ulteriormente il numero degli immatricolati e degli iscritti al primo anno dell’università, come denunciato ieri dal Consiglio universitario nazionale (Cun). “Tutto questo – conclude Orezzi – nell’unico Paese Ocse che non copre tutti gli idonei alla borsa di studio. Vorrei ricordare infatti che già ora uno studente su quattro è idoneo ma non beneficiario di borsa di studio per mancanza di risorse.

Da repubblica.it

«Stampa e giustizia, cortocircuiti da evitare», di Marzio Breda

Lo scandalo Montepaschi è un nodo della vita pubblica italiana che lo preoccupa molto, perché rischia di avere ricadute gravi sul sistema economico e bancario, e davanti al quale non se l’è proprio sentita di assegnarsi il ruolo dello spettatore silenzioso.
Per questo giovedì ha deciso d’intervenire, Giorgio Napolitano, nonostante la campagna elettorale in corso. Per questo si è concesso un replay ieri, a costo di addentrarsi un’altra volta nel minatissimo terreno dei rapporti tra mass-media e magistratura. «Abbiamo spesso degli effetti non positivi, quasi dei cortocircuiti, tra informazione e giustizia», dice, evocando le «ricadute destabilizzanti sul mercato» provocate dalla recente «diffusione di notizie infondate».
Concrete «ricadute». Che il presidente della Repubblica, come tutti, ha verificato nei giorni scorsi, quando due giornali hanno annunciato con grande evidenza l’imminente sequestro di un miliardo e 200 milioni euro all’istituto senese. Il risultato lo si è visto su tre fronti: 1) caduta del titolo in borsa; 2) impennata dello spread; 3) destabilizzanti risonanze, anche sul piano politico, su scala internazionale. Solo che lo scoop era inventato, come ha subito fatto sapere, con una «deplorazione» formale, la Procura cui è affidata l’inchiesta. Insomma, ricorda il capo dello Stato, quella era una rivelazione fasulla, «totalmente infondata» e forse persino interessata. Non a caso, mentre già si è mossa la Consob, la stessa Procura toscana si è spinta a «ventilare provvedimenti per le ipotesi di aggiotaggio e insider trading».
Ecco il gioco perverso e la distorsione denunciati con i toni dell’appello da Napolitano. Il quale, se non ci fosse stato quel «richiamo piuttosto brusco» dei magistrati, non sarebbe intervenuto.
Il lavoro di chi fa informazione, ha spiegato ieri, ricevendo in un’udienza al Quirinale una delegazione dell’Ordine dei giornalisti, «tende ad avere il massimo di elementi per poter assolvere a un ruolo di propulsione alla ricerca della verità». Ma episodi come questo «cortocircuito» di illazioni dimostrano il pericolo che si confligga con la «riservatezza necessaria delle indagini giudiziarie e il rispetto del segreto d’indagine».
È un memorandum che lo induce a pesare le parole. Il presidente infatti sa bene di esporsi su «un problema delicato di una materia tutta delicata». Nella quale certe critiche potrebbero ritorcersi contro di lui, specie in una fase di ipersensibilità (politica e non solo) come quella che attraversiamo in questa vigilia di voto. In realtà non c’è da parte sua alcun intento di mettere il silenziatore ai giornalisti, come qualcuno recrimina, perché anzi ad essi compete un decisivo «ruolo e impulso per far luce su situazioni oscure e devianti». E tantomeno il suo intento è di frenare l’opera delle toghe, la cui «totale autonomia nelle indagini va rispettata anche evitando di dare notizie infondate». Per il capo dello Stato bisognerebbe che i diversi attori impegnati a far luce su questa ansiogena e imbarazzante vicenda fossero consapevoli di dover seguire uno schema binario: «fare chiarezza» sulla crisi del Monte, e nel contempo però «tutelare l’interesse nazionale». Che stavolta è parso davvero incrinato, soprattutto a causa di una rincorsa mediatica a suo avviso esasperatamente senza cautele.
Basta considerare la grandinata di accuse a Bankitalia. Eppure, ha detto Napolitano, i vertici di Palazzo Koch hanno «documentato minuziosamente di aver esercitato fin dall’inizio con il tradizionale rigore le funzioni di vigilanza nei limiti loro attribuiti dalla legge». Anzi, «la collaborazione» che la nostra banca centrale «ha prestato e presta senza riserve alla magistratura inquirente è garanzia di trasparenza per l’accertamento di tutte le responsabilità».
Un impegno che ci dovrebbe imporre di salvaguardarne la reputazione e che vale per la governance presente e passata. Anche per l’attuale capo della Bce, Mario Draghi, quindi. Il quale, in un gioco di rispecchiamenti mediatici, si è trovato bersaglio di ingiuste critiche dai giornali tedeschi.

Da Il Corriere della Sera

C’era una volta la Rai di Tortora, di Giovanni Valentini

La TV italiana è ormai un baraccone insostenibile. (da “Enzo Tortora: dalla luce del successo al buio del labirinto” di Daniele Biacchessi – Aliberti, 2013)
Non ho visto la puntata di “Porta a porta” dedicata al caso Corona. Da esperto e consumato professionista di talk-show, Bruno Vespa l’avrà costruita e condotta senz’altro con perizia. Ma non vedrò neppure la registrazione per un semplice motivo: non credo che un personaggio del genere meriti una trasmissione di “approfondimento” su una rete della Rai, anzi sulla cosiddetta “rete ammiraglia”. Al di là delle sue responsabilità penali che toccherà alla magistratura accertare, ritengo che Fabrizio Corona incarni un modello negativo, una figura – per usare un termine di moda in questa campagna elettorale – impresentabile. Un prototipo di bellimbusto.
Ne parlo qui, dunque, per due ragioni. La prima, per indicare che cosa – a mio parere – non è da servizio pubblico e lo differenzia appunto dalla tv commerciale. La seconda ragione è che l’editore Aliberti ha appena pubblicato in questi giorni un libro del collega Daniele Biacchessi, intitolato “Enzo Tortora: dalla luce del successo al buio del labirinto”. Ed è una storia televisiva e giudiziaria che idealmente si contrappone in positivo proprio al caso Corona, perché rappresenta retrospettivamente un modello alternativo di servizio pubblico.
Enzo Tortora, sia detto per i più giovani, non è stato solo un presentatore radiotelevisivo. “Era prima di tutto – come ricorda la figlia Silvia in controcopertina – un giornalista, un inviato e uno scrittore”. E fu anche “un grande inventore di format straordinari e vincenti della radio e della televisione”: da “L’oggetto misterioso” a “Portobello” fino alla prima edizione della “Domenica sportiva”.
Ma era innanzitutto un uomo dabbene, affabile, garbato. Un innocente coinvolto in un’inchiesta sulla camorra e una vittima della giustizia ingiusta. Dal giugno ’83 al giugno ’87, passarono quattro anni prima che fosse assolto con formula piena. Ne soffrì sul piano umano e psicologico, fino ad ammalarsi gravemente e a rimetterci la vita.
Nella storia della Rai, Tortora non è certamente l’unico esempio di un modo di fare televisione senza cedimenti verso quel genere che oggi si usa chiamare
infotainment,
cioè informazione spettacolo, un ibrido che spesso non riesce a fare né informazione né spettacolo. Certo, da allora a oggi i tempi sono molto cambiati. A partire dalla metà degli anni Ottanta, l’avvento della tv privata in Italia ha introdotto una modernizzazione non sempre o non tutta negativa. Ma spesso e volentieri la tv pubblica ha finito per omologarsi al ribasso, nella rincorsa dell’audience e della pubblicità, senza riuscire più a distinguersi da quella commerciale.
La “lezione” di Tortora e di tanti altri come lui, da Sergio Zavoli a Enzo Biagi, da Andrea Barbato a Giovanni Minoli, da Piero Angela a Corrado Augias, da Andrea Vianello a Milena Gabbanelli, resta dunque tuttora valida. E questo dovrebbe essere, appunto, il tratto distintivo della Rai, il codice genetico del servizio pubblico radiotelevisivo, la “reason why” per cui esiste e per cui noi cittadini telespettatori continuiamo nonostante tutto a pagare ogni anno il canone d’abbonamento.
Ora che anche La7 sembra destinata purtroppo a rientrare nell’orbita di Silvio Berlusconi, attraverso la ventilata cessione al suo ex assistente Urbano Cairo, editore e pubblicitario di scuola Publitalia, sarebbe tanto più utile e opportuno che la Rai riuscisse a compiere finalmente un salto di qualità, sul piano della produzione e della programmazione. Magari Enrico Mentana e Michele Santoro conserveranno i loro posti e i loro spazi. Ma non bastano due “testimonial” mediatici, già transitati peraltro in passato sui canali Mediaset, per preservare l’immagine di una rete indipendente.
La tv italiana – avvertiva Tortora nel lontano 1969, come si legge nella citazione iniziale – è diventata un “baraccone insostenibile”. Da Corona a Belen fino a Balotelli, negli ultimi giorni gli esempi non sono mancati. Tocca perciò innanzitutto al servizio pubblico invertire la tendenza, per introdurre possibilmente una svolta nel linguaggio, negli stili, nei temi, nella cultura popolare.
Non è sufficiente risanare i conti dell’azienda, ammesso pure che ci si riesca. Occorre ripristinare la funzione stessa della Rai, cioè il suo ruolo, la sua missione e la sua responsabilità istituzionale. E liberarla perciò dal controllo dei partiti e del governo: politico o tecnico che sia.

Da La Repubblica

Articoli online, Hollande piega Google “Dovrà pagare 60 milioni ai giornali”, di Giampiero Martinotti

Dopo anni di battaglie, Google e gli editori francesi hanno trovato un accordo per mettere fine al loro contenzioso: la multinazionale verserà 60 milioni a un fondo per la modernizzazione della stampa. Si vedrà con il tempo se si tratta davvero di un’intesa «storica», come dicono i protagonisti. In ogni caso, si tratta di un compromesso con padrino d’eccezione, François Hollande, che ieri ha ricevuto le parti all’Eliseo: il capo dello Stato aveva minacciato
una legge per difendere la stampa in caso di mancato accordo.
Il protocollo firmato dal motore di ricerca e dagli editori transalpini è il frutto di reciproche concessioni. I giornali avrebbero voluto un versamento basato sul diritto d’autore e su questo punto avevano trovato il sostegno degli editori italiani e tedeschi. Era insomma il principio della Google Tax, rifiutato dalla multinazionale americana: in una lettera inviata al governo a metà ottobre, Google aveva minacciato di non indicizzare più le testate francesi se
fosse stata introdotta una tassa di quel tipo. Com’era già avvenuto in Belgio, gli editori hanno capito che bisognava trovare un’altra strada. Ed è quel che è stato fatto grazie all’aiuto di un mediatore nominato dal governo.
L’accordo prevede che Google versi 60 milioni di euro a un fondo di aiuto alla transizione digitale. L’organismo finanzierà progetti di «cambiamenti strutturali» e sarà destinato alla stampa di informazione «generalista», compresi i cosiddetti “pure players”, cioè i giornali presenti solo sul web. I fondi dovrebbero
essere concessi in un periodo di tre-cinque anni. Le scelte saranno affidate a un consiglio di amministrazione in cui saranno rappresentate le due parti e in cui sederanno personalità indipendenti. Parallelamente, è stato firmato un accordo commerciale quinquennale, grazie al quale gli editori potranno avere accesso a tutte le piattaforme digitali di Google a prezzi vantaggiosi. L’azienda californiana ha inoltre proposto di mettere a disposizione della stampa i suoi ingegneri e le sue capacità tecniche.
Il compromesso dovrebbe
soddisfare tutti. Certo, gli editori avrebbero preferito una remunerazione in base al diritto d’autore, ma l’introduzione di una Google Tax per legge avrebbe richiesto un iter legislativo molto lungo. Inoltre, la minaccia di non essere più indicizzati dal motore di ricerca li ha costretti a trovare un’altra formula. Google ha vinto su questo punto, ma è stata costretta a riconoscere il fatto di dover remunerare in qualche modo i produttori di contenuti, in questo caso la stampa. Un principio che aveva già riconosciuto a fine 2012 con la firma di un analogo accordo in
Belgio. Infine, c’è anche un vincitore politico, François Hollande. Dopo aver minacciato una legge e spinto al negoziato, il presidente ha dato la sua benedizione all’intesa: non a caso ha invitato i firmatari
all’Eliseo.
Il testo francese potrebbe essere adesso una base negoziale in altri paesi, come l’Italia. In Germania, invece, il parlamento sta discutendo l’introduzione di una Google Tax, ma l’accordo francese potrebbe riaprire le discussioni tra gli editori e il gigante statunitense.

Da La repubblica

Università, l'Italia a due velocità:si va dalle eccellenze al rischio default, di Corrado Zunino

I meno 58 mila in dieci anni – studenti iscritti alle università italiane, il segno del crack formativo di un paese che arranca – vanno spiegati nel dettaglio. E, facendo emergere i dettagli, si scopre che il futuro prossimo dell’istruzione superiore definirà impietosamente “sommersi” e “salvati”. E sì, perché ci sono atenei italiani che calamitano matricole, inaugurano corsi di respiro internazionale, ospitano in collegio studenti stranieri meritevoli, vedono crescere i finanziamenti “per merito” (il ministro Profumo nei suoi 14 mesi di mandato ha spinto su questa differenziazione dei denari). Altri atenei, undici sui 55 pubblici, sono a un passo dalla chiusura.
La Cà Foscari di Venezia, la prima business school d’Italia, trenta lingue insegnate, il giorno dopo la pubblicazione del tragico dossier del Consiglio universitario nazionale ha fatto sapere che a Dorsoduro negli ultimi dieci anni le immatricolazioni sono cresciute del 36,61 per cento (quando la contrazione generale è stata del 17 per cento). Oggi gli immatricolati al primo anno, a Venezia, sono 6.194 e 19.199 gli iscritti. Negli ultimi tre anni, che poi rappresentano il picco della crisi universitaria italiana, i numeri veneziani sono ancora migliori. I corsi per le lingue orientali, per esempio, sono stati presi d’assalto. Fra i motivi che hanno consentito le performance di Cà Foscari c’è il potenziamento
delle borse di studio per assegni di ricerca dati ai giovani talenti. La rarefazione delle borse di studio di Stato per gli studenti meritevoli e per i ricercatori sta regalando, invece, la fuga di massa dalle università registrata dal Cun.
Anche l’Alma Mater di Bologna ha segnalato con soddisfazione i suoi numeri: incremento delle immatricolazioni dell’1 per cento negli ultimi tre anni e del 6 per cento negli ultimi cinque. Sono aumentati del 10 per cento, e questo a carico dell’ateneo, i fondi destinati al diritto allo studio. Fra le 55 pubbliche c’è un mazzo di università di prestigio, quasi tutte al Nord, che anche “sotto crisi” denunciano numeri positivi. Continuano ad attrarre studenti il Politecnico di Torino e il Politecnico di Milano (Milano, però, ha un problema di spese troppo alte). Poi l’Università di Trento, Roma Tor Vergata, Ferrara, la Statale di Milano, Verona e Padova. I migliori atenei, spesso sono anche i più costosi.
Ci sono – l’altra faccia del paese – mastodonti in rosso strutturale come La Sapienza di Roma e la Federico II di Napoli. Atenei storici in crisi come Urbino. E alcune università a rischio fallimento. Foggia, Cassino, la Seconda di Napoli e Sassari pagano buste paga superiori all’80 per cento delle entrate. Rischiano il default, infine, le due università di Siena (e lo scandalo Montepaschi potrà solo aggravare la situazione), l’Orientale di Napoli, Macerata: tutte hanno superato il limite consentito di indebitamento, il 15 per cento. I rifinanziamenti non sono assicurati.
A fine crisi, qualche ateneo italiano non ci sarà più, altri invece continueranno a formare (a caro prezzo) studenti di classe, i dirigenti di domani. E la forbice della conoscenza tra chi può e chi non può, in Italia, si spalancherà

Da Repubblica.it

Se i genitori diventano «sindacalisti» dei figli, di Riccardo Bruno

La scuola italiana? Un campo di battaglia. Studenti in guerra contro insegnanti. Ma sempre di più spalleggiati dai genitori che non si fidano degli insegnanti, credono che tocchi a loro sopperire all’educazione inadeguata, alle carenze della scuola. Insomma, si sentono «sindacalisti dei propri figli», espressione che coniò l’allora ministro Fioroni (centrosinistra). Ripetuta qualche anno dopo dal ministro Gelmini (centrodestra).
Lo studente, che si nasconde dietro il nome del pilota Fernando Alonso, chiede aiuto su Internet: «Un prof mi ha ritirato il cellulare e se l’è tenuto, posso denunciarlo?». Risposta pronta di Woody: «Sì. È Furto!!! Potresti registrare una conversazione, lo porti a dire che te lo ridarà quando vuole lui!!! Fallo, avrai il coltello dalla parte del manico!!! Odiosi prof!!!».
Benvenuti nel campo di battaglia della scuola italiana. Studenti in guerra contro insegnanti. Come sempre. Ma, ed è questa la novità, sempre di più spalleggiati dai genitori.
Liceo di Roma: alla professoressa gli studenti fanno sparire gli occhiali, lei perquisisce gli zaini. Quando a casa i ragazzi raccontano tutto, qualche papà invece di sgridare il figlio va dai carabinieri e denuncia l’insegnante per abuso dei mezzi di correzione.
Noale, Venezia, scuola media: un ragazzino viene scoperto a imbrattare le aule. La dirigente scolastica lo convoca, la madre non la prende bene. Le si presenta davanti, l’afferra per il collo e la spinge contro il muro. La donna torna a casa, la preside va al pronto soccorso.
Imperia, scuola elementare. La bimba, sei anni, graffia e punta la matita contro i compagni. La maestra la fa sedere vicino alla cattedra. I genitori minacciano un esposto alla Procura: così la danneggiano psicologicamente. «Li ho chiamati, ragionando è stata trovata una soluzione. Abbiamo fatto dei gruppi, che a turno girano nella classe». In questo modo Franca Rambaldi, a capo dell’ufficio scolastico provinciale, è riuscita a calmare le acque. «Le famiglie sono troppo ansiose, vanno subito in crisi, si irritano facilmente, alla minima difficoltà partono all’attacco».
I genitori non si fidano più degli insegnanti, credono che tocchi a loro sopperire all’educazione inadeguata, alle carenze della scuola. Insomma, si sentono «sindacalisti dei propri figli». «Se non si restituisce dignità alla professione degli insegnanti, se non si rinnova la partecipazione dei genitori e degli studenti, allora la microconflittualità è destinata a crescere», ipotizza amaramente Gianna Fracassi, segretaria della Flc-Cgil.
I docenti si sentono sotto assedio. «Non metta per favore il mio nome, non voglio avere problemi…». Chi parla insegna in un liceo psicopedagogico della provincia di Milano. È una prof all’antica. «Lo ammetto, sono un po’ rigida. Ma le regole vanno rispettate». Ogni giorno è una trincea. Capitolo primo: «Vedo una studentessa durante la lezione che armeggia con il cellulare. Le chiedo di consegnarmelo. Lei si rifiuta, glielo ritiro. Il papà va dalla preside, dice che gliel’ho strappato, che non era mio diritto…». Capitolo secondo: i compiti in classe. «Vogliono le fotocopie, controllano le correzioni. Cercano di incastrarti, di sindacare il tuo lavoro…».
A una collega di Treviso, istituto professionale, è andata peggio. Anche lei preferisce restare anonima. «C’è un ragazzo che insulta i compagni. Io lo rimprovero, ma, mi creda, in modo tranquillo. Il padre si arrabbia, inizia a mandare lettere: mi accusa di essere un cattivo docente, di manipolare gli studenti. Scrive al preside, al provveditore…». Va a finire che viene chiamata a Roma, audizione alla sezione disciplinare del ministero. «Prima di me ascoltavano un pedofilo… Per fortuna i ragazzi hanno testimoniato in mio favore…». Dice che di storie così ce ne sono tante. Racconta che, sempre a Treviso, hanno scoperto degli studenti che per gioco facevano la pipì a terra. Il preside ha ordinato loro di pulire. I genitori hanno minacciato denuncia: violazione delle norme igieniche.
I sindacati raccolgono ogni giorno casi e lamentele. «In classe si vive con molto disagio — osserva Massimo Di Menna, della Uil scuola —. Il docente conquista a fatica il riconoscimento della sua funzione. E molti sono spinti a pensare: ma chi me lo fa fare…». Giacomo Siracusa, insegna a Palermo, scuola primaria. «Una mia collega ha impedito a un bambino di dare fastidio ai compagni. I genitori hanno invece detto che l’aveva picchiato, l’hanno portato al pronto soccorso. Si sono fatti fare il referto. Tutto inventato. Siamo scoraggiati, amareggiati».
Il segno di quanto sia serio il conflitto lo danno i dati del 114, il numero dell’Emergenza infanzia gestito dal Telefono azzurro. Tu ti aspetti che chiamino per violenze o episodi gravi. E invece uno su cento telefona per denunciare «difficoltà relazionali con gli insegnanti».
Episodi come questo. Una madre di un bambino di 9 anni si sfoga con l’operatrice: «Mio figlio ha problemi di adattamento, ma gli insegnanti invece di aiutarlo lo puniscono ingiustamente…». Il 114 raccoglie la testimonianza, contatta la scuola. La dirigente spiega che «la madre è una persona poco collaborativa, che urla e insulta…». Viene organizzato un incontro, c’è anche il servizio sociale. La situazione migliora: la madre diventa più disponibile, il bambino finalmente si integra. La soluzione in fondo era semplice: bastava guardarsi negli occhi e dialogare.

Da Il Corriere della sera

La solitudine dell'Articolo 1, di Gustavo Zagrebelsky

Se, per esempio, l’Autore dei Ricordi dal sottosuolo fosse tra noi e riprendesse la parola, troverebbe nel nostro tempo ragioni per convalidare quella che, allora, fu formulata, e generalmente considerata, come la farneticazione d’un visionario: «Allora tutte le azioni umane saranno matematicamente calcolate secondo quelle leggi…oppure, meglio ancora, ci saranno pubblicazioni benemerite, sul genere degli attuali lessici enciclopedici, in cui ogni cosa verrà calcolata e stabilita tanto esattamente, che al mondo non si daranno più azioni né avventure » (ma si finirà nella noia mortale, aggiungeva Dostoevskij).FORSE, l’opera non è ancora conclusa, né tantomeno è conclusa con generale soddisfazione, ma certamente è in corso, come tentativo o, almeno, tendenza. Eppure, quel “fondata sul lavoro” che apre la nostra Costituzione vorrebbe essere il preannuncio di azioni e avventure indipendenti dalle tabelle di logaritmi econometrici. Vorrebbe starne fuori, anzi prima. Fuori dalle immagini letterarie, la questione è formulabile nei semplici termini seguenti. La Costituzione pone il lavoro a fondamento, come principio di ciò che segue e ne dipende: dal lavoro, le politiche economiche; dalle politiche economiche, l’economia. Oggi, assistiamo a un mondo che, rispetto a questa sequenza, è rovesciato: dall’economia dipendono le politiche economiche; da queste i diritti e i doveri del lavoro. Dicendo “dipendere” non s’intenda necessariamente determinare, ma condizionare, almeno, questo sì. Ora, il senso del condizionamento o, come si dice, delle compatibilità è certamente rovesciato. Il lavoro, da “principale”, è diventato “conseguenziale”. La Repubblica, possiamo dirla, senza mentire, “fondata” sul lavoro?
Si dice che l’attività economica si è oggi spostata dalla cosiddetta “economia reale” alla “economia fittizia”, l’economia finanziaria. Questa seconda mira a produrre denaro dal denaro, attraverso transazioni finanziarie, più o meno spericolate, più o meno lecite, che generano quelle che si chiamano “bolle speculative”, scoppiate o pronte a scoppiare. Ora, l’economia reale può produrre lavoro e stabilità sociale; quella fittizia, no. Sottrae risorse al mondo del lavoro, produce instabilità sociale e favorisce i pochi signori della finanza, fino a quando non saranno anch’essi travolti, e noi con loro, da un sistema privo di fondamento. Questa finanza “mangia” l’economia reale, l’indebolisce, è nemica del lavoro. Perfino nelle difficoltà dell’economia reale s’avvantaggia. Le crisi finanziarie che s’abbattono sui conti degli Stati sono determinate dagli interessi finanziari medesimi e sono certificate da agenzie indipendenti solo in apparenza, in un colossale conflitto (o, sarebbe meglio dire, in una colossale connivenza) d’interessi. Che cosa ha prodotto, del resto, il “risanamento” che il mondo finanziario internazionale chiede agli Stati, come condizione dei loro investimenti? Chiede “riforme”. E queste riforme a che cosa hanno portato? Finora, a contrazione dell’economia reale, a crisi delle imprese, a disoccupazione crescente, al peggioramento delle condizioni dei lavoratori, a emarginazione del lavoro femminile, a riduzione delle protezioni sociali.
Bisogna dire con chiarezza: la finanza come mezzo e come fine è nemica della Costituzione. Di fronte alla pervasiva forza, legale e illegale, della finanza, la politica si dimostra troppo spesso succuba, connivente o collusa. Chi sa resistere alla forza del danaro, che corrompe o, almeno, debilita le forze che dovrebbero regolarla? Ora si pone la domanda che nessun giurista vorrebbe mai doversi
porre: siamo padroni dei rapporti sociali ed economici o siamo condannati al darwinismo sociale? Se vale questa seconda risposta, la Costituzione, per la parte del lavoro, dovremmo dirla antiquata, superata dalla forza delle cose. Se vale la prima, resta aperta la possibilità d’una politica costituzionale del lavoro. Chi deve agire sono le forze politiche, sindacali e culturali. A loro, la decisione, che non è un’astratta scelta di preferenza, ma un programma concreto di lotta politica.
Ora, in fine, un’osservazione, da “uomo del sottosuolo”. Di fronte ai disastri sociali della finanza speculativa, occorre ritornare alla “economia reale”, cioè alla produzione di ricchezza per mezzo non di ricchezza, ma di lavoro e di ricchezza investita sul lavoro. La parola d’ordine è “crescita”. Per aversi crescita occorre stimolare i consumi, affinché i consumi, a loro volta, diano la spinta alla produzione e, dalla produzione, nasca lavoro cioè reddito che, a sua volta, alimenta i consumi: una ruota che deve girare. Tanto più consumiamo, tanto più lavoriamo e tanto meglio svolgiamo la nostra parte. Naturalmente, non è detto che tutti lavorino e consumino come gli altri. Ci sarà chi può lavorare di meno e consumare di più, e chi deve consumare di meno e lavorare di più. Dipende dai rapporti sociali, cioè dalla distribuzione dei vantaggi e degli svantaggi, cioè dai criteri di giustizia vigenti. In ogni caso, c’è qualcosa di sinistro in questa raffigurazione: l’essere umano che lavora per poter consumare e consuma per poter lavorare.
Qui viene l’osservazione “umanistica”. L’economia mondializzata, omologata agli standard produttivi delle grandi imprese, la grande distribuzione al loro servizio, la pubblicità che orienta i consumi e crea stili di vita uniformi: tutto ciò produce un’umanità funzionalizzata, ugualizzata nei medesimi bisogni e nelle medesime aspirazioni: in una parola, confluisce in una medesima cultura. Ciò significa elevare il conformismo a virtù civile. È questo ciò che vogliamo? O non occorrerebbe invece prestare attenzione a ciò che di originale si muove e cerca di crescere: nuove e antiche professioni, che cercano di emergere o riemergere, nuove forme di produzione, di collaborazione tra produttori, nuove reti di collegamento solidale tra produttori, nuove modalità di distribuzione e di consumo; riscoperta di risorse e patrimoni materiali e culturali esistenti, ma finora nascosti o dimenticati. Il nostro Paese avrebbe tante cose e tante energie da portare alla luce nell’interesse di tutti, cioè nell’interesse del “progresso materiale e spirituale della società”, come recita l’art. 4 della Costituzione. Nelle società libere, il compito della politica è capire, orientare e aiutare ciò che di fecondo cresce e, parallelamente, opporsi a ciò che cerca di riproporsi, secondo esperienze che hanno già fatto il loro tempo. Su questo terreno, mi pare che debba cercarsi la risposta a quella che, altrimenti, sarebbe solo una stucchevole controversia: la risposta alla domanda che cosa, oggi, voglia dire essere conservatori o innovatori.

Da La Repubblica