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Attenti alle battute da due soldi di Berlusconi

“Berlusconi dice che la nostra situazione dipende dalla Germania? Bisogna stare attenti a queste battute da due soldi”.
Così Pier Luigi Bersani, da Milano dove ha partecipato a un’iniziativa su Expo 2015 con Umberto Ambrosoli e Giuliano Pisapia, ha liquidato le affermazioni di Silvio Berlusconi, che in mattinata aveva parlato di un ‘braccio di ferro da vincere con la Germania’, pena ‘la fuoriuscita dall’euro, uno ad uno, di tutti i Paesi’.
“Se noi avessimo fatto i compiti che dovevamo fare dopo l’euro e approfittato del calo degli interessi – ha ricordato Bersani –, certamente la Germania avrebbe ben meno da rimproverarci e potremmo parlare con voce più chiara, anche sulla Germania. Tutto quello che abbiamo buttato via ce l’hanno fatto buttare via loro, Berlusconi e la Lega. E adesso loro non hanno il diritto di lamentarsi”.
Il segretario del Pd ne ha avuto anche per il M5S: “La proposta di Grillo di dare mille euro al mese a tutti per tre anni – ha detto – è una vergogna e mi indigna profondamente”.
Quanto alle questioni legate al territorio, a proposito dell’inchiesta sulle quote latte Bersani ha chiesto a Maroni, Bossi e Lega di dire qualcosa, perché, “con 4 miliardi e mezzo buttati via questa è una cosa di proporzioni cosmiche”.
E sempre sulla vicenda ‘quote latte’, il candidato alla presidenza della Regione Lombardia, Umberto Ambrosoli, ha rimarcato come “grazie alla Lega abbiamo perso credibilità in Europa”. Per Ambrosoli “è grave la condotta di chi anche nella Lega ha protetto coloro che continuavano a sbagliare”.
Quanto a Expo 2015, per Bersani “Tremonti non ci ha mai creduto, la Moratti e Formigoni litigavano. Questa è una cosa ripresa grazie alla nuova giunta”, aggiungendo poi come serva “una deroga selettiva al patto di stabilità, perché Expo 2015 è un grande fatto italiano e l’Italia ha un bisogno disperato di trovare leve credibili per andare avanti, per ridare fiducia e lavoro”.
Ma, ha concluso “bisogna vigilare sulle infiltrazioni criminali. Non facciamo come i leghisti, che dicono che al Nord non arriva niente, perché arrivano eccome”.

da Partitodemocratico.it

La sfida dei cattolici a sinistra, di Claudio Sardo

È rimasto deluso chi sperava che l’incoraggiamento dei vertici ecclesiali a Mario Monti si trasformasse in un imprimatur alla sua lista, in un nuovo «partito dei cattolici». Come erano rimasti delusi coloro che invocavano un investimento della Chiesa sul centrodestra post-berlusconiano, magari per renderlo più simile ai teocon americani che alla Cdu tedesca. Il pluralismo delle opzioni politiche dei credenti è ormai una realtà. È lo scenario della sfida che hanno di fronte la Chiesa nella sua missione e i laici cattolici nella loro vita di cittadini. Peraltro i sondaggi segnalano che oggi è il Pd il partito più votato dai cattolici praticanti: e questo oltre ad essere uno stimolo per rafforzare l’identità di partito di «credenti e non credenti» e per sviluppare ancor più la ricerca di un «umanesimo condiviso» dimostra l’originalità italiana, dove il personalismo e il solidarismo cristiano sono stati, e sono tuttora, alimento fondamentale della cultura della sinistra.
Altro che «bipolarismo etico»! Se è vero che l’onda montante individualistico-radicale rischia di occupare tutti gli spazi della secolarizzazione, il pluralismo dei credenti può essere una risorsa a disposizione della società.
La recente prolusione del cardinale Angelo Bagnasco al consiglio permanente della Cei esprime una forte consapevolezza di questa realtà. E anche una coscienza del ruolo nazionale della Chiesa, in un tempo in cui la crisi economica sta corrodendo il tessuto connettivo e il senso di comunità, in un tempo in cui la questione sociale indubbiamente si lega con la «questione antropologica», cioè con l’idea di uomo, del suo valore, della sua dignità, della sua vocazione altruistica e comunitaria. Il pluralismo dei cattolici, ha scritto Romano Prodi in un bell’articolo sul Corriere, ripropone il tema evangelico del «lievito»: sapranno essere i cattolici, nelle diverse forze politiche, una fonte di arricchimento civile, culturale, solidale della società italiana? E come? Per alcuni la diaspora politica è il certificato dell’irrilevanza cattolica, anzi dell’insignificanza. Ma l’impressione è che i più critici non sanno cosa cercare. Una nuova Dc? Un ritorno del «sociale» cattolico in chiave anti-statuale? Una presenza politica limitata alla battaglia sui «valori non negoziabili»?
Ci è sembrato di cogliere nell’intervento di Bagnasco una reazione a queste pulsioni, solo in apparenza battagliere, in realtà rinunciatarie. La sfida del pluralismo va affrontata con intelligenza e coraggio, pur in un contesto culturale dove l’apertura al trascendente, il senso di freternità, l’attenzione ai più deboli e alle generazioni future tendono ad essere svalutati. Il pessimismo cosmico dell’invincibile avanzata nichilista può forse essere figlio della ragione di un «ateo devoto», ma non della fede di un cristiano che vede negli uomini anche l’impronta di Dio. La fiducia contiene la fertilità. Anche quando la fiducia è iscritta nell’orizzonte oggi minoritario di una Chiesa che si scontra tante volte con gli interessi del mondo, oltre che con i propri peccati.
Nell’intervento di Bagnasco c’è, appunto, una sfida al pluralismo dei credenti. Non un rifiuto, non un invito a ridurre ad uno la complessità. Una sfida ovviamente difficile per la sinistra, e per i cattolici che militano nel centrosinistra. Ai quali Bagnasco non risparmia sferzate e mostra anche il terreno di possibili scontri futuri, a partire dalla legge sulle unioni civili. Eppure anche se il riconoscimento dei diritti e dei doveri delle coppie gay potrebbe essere destinato a produrre una contrapposizione con l’eventuale governo Bersani la sinistra non può non confrontarsi con gli argomenti del presidente della Cei. Anzitutto con il suo assunto di fondo: nella nostra società è «l’individualismo la madre di tutte le crisi». Se la coscienza di essere individuo è stata negli ultimi due secoli un vettore dell’espansione dei diritti, sociali e civili, oggi la persona rischia di essere stritolata dall’egoismo dei più forti e dalla solitudine sia della sconfitta che del successo. Nella moltitudine c’è l’uomo solo: invece è la comunità che ridà dignità alla persona. Come non vedere il filo robusto che lega il primato della finanza, l’ideologia liberista dominante, la pretesa di autoregolazione delle tecnoscienze, le leggi inviolabili del mercato, il prezzo drammatico della povertà e della diseguaglianza, l’impoverimento dei corpi intermedi (a partire dalla famiglia che è il nucleo primario).
Ma non si possono contrapporre i temi della biopolitica alle emergenze sociali: giustamente il cardinale Bagnasco li ha collocati sullo stesso piano. E non si può dire che sui primi i cattolici sono tenuti a prescrizioni assolute, «non negoziabili», mentre sui secondi la realtà è così complicata da relativizzare ogni risposta politica. A questo proposito, forse, qualcuno pensa di aver trovato la tattica per mettere in fuorigioco i cattolici che scelgono il centrosinistra. I «principi irrinunciabili» (questa la formula usata nel famoso documento del 2002 della Congregazione della dottrina della fede, e non «valori non negoziabili») hanno da sempre costituito per i cattolici i presupposti della loro azione civile, politica, sociale, ma quando sono entrati nelle diverse culture e nei diversi ordinamenti hanno conosciuto inevitabili mediazioni. Non si tratta di cedimenti: e infatti non sarebbe il cristianesimo la radice principale della civiltà europea e occidentale se ciò non fosse accaduto.
Ora si obietta che l’aggressione riguarda l’identità stessa dell’uomo, la sua natura. Ed è per questo che la mediazione va ridotta al minimo. La manipolazione genetica, la svalutazione della vita, la potenziale onnipotenza della scienza, il mercato della cura: tutto ciò richiederebbe una battaglia difensiva, rigorosamente oppositiva. A queste obiezioni, certo, la sinistra non può rispondere tornando a separare la questione sociale dalla questione antropologica, magari con ragioni opposte ai teocon. Non può dire, pena una smentita dell’umanesimo che sta nelle sue radici, che occorre far fronte comune sui temi dell’uguaglianza e della giustizia sociale mentre invece sulla biopolitica si deve procedere in ordine sparso, o peggio rinunciare ad un punto di vista critico che favorisca il progredire della scienza ma al tempo stesso ne colga il limite: tutto ciò esattamente in nome dell’uomo, anzi della persona e della sua libertà.
Insomma, la sfida di tenere insieme uguaglianza, giustizia sociale, moralità, pace e vita non è solo dei cattolici di sinistra, ma di tutta la sinistra. E bisogna dire la verità: l’individualismo è penetrato in ogni schieramento politico, nessuno escluso, trainato dall’egemonia liberista dell’ultimo trentennio. Per questo il contributo maggiore che la cultura cattolica può dare alla sinistra è di tenere alta la guardia nei confronti della vulgata liberista. Tutto il contrario del moderatismo: i cattolici possono aiutare la sinistra ad essere sinistra, più fedele al senso di giustizia, più attenta ai deboli e agli ultimi, sempre pronta a domandarsi cosa serve all’uomo concreto affinché la libertà diventi autentica comunità.
In questa chiave il valore della vita è oggi un prisma con molte facce: la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale, la valorizzazione della personalità e della diversità femminile, la lotta alle povertà, alle ingiustizie, alle disuguaglianze, i diritti dei giovani ad avere un futuro, i limiti al potere della finanza e del mercato, la necessaria mitezza del diritto quando affronta i temi sensibili della sofferenza, della malattia, della non-autosufficienza, l’integrità del corpo, il rispetto delle volontà, il primato del diritto del bambino sui desideri degli adulti. Non può esserci separazione per chi guarda la società dal basso e non dall’alto, delle élite o del potere.
Tutto questo è il contrario della conservazione. È la speranza di un cambiamento profondo, quasi di una rivolta contro il conformismo dominante. In questa ricerca di un «umanesimo condiviso» che naturalmente vada oltre il Pd e il centrosinistra e ispiri il lavoro di ricostruzione nazionale abbiamo un punto di riferimento forte, una stella polare. È la Costituzione italiana. Verrebbe da dire, come ha fatto Domenico Rosati su questo giornale, che nella Costituzione ci sono i nostri «principi irrinunciabili». Insieme laici e cristiani, come dice la storia di quelle pagine vitali. Esse hanno il pregio di essere già stati condivisi. Partiamo da lì. La Costituzione ci spinge verso politiche sociali più efficaci a favore delle famiglie in carne e ossa, dopo decenni di colpevole trascuratezza. E al tempo stesso la Costituzione garantisce i diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali in cui si esprime la sua personalità: per questo il riconoscimento dei rapporti affettivi delle persone omosessuali ha esso stesso un senso umanistico, in quanto affianca ai diritti dei doveri reciproci e dà valore alla stabilizzazione delle relazioni. Non basteranno poche parole a fermare un probabile conflitto, ma in nome dell’uomo si può cercare ancora. Insieme.

Da L’Unità

Il discensore sociale, di Ilvo Diamanti

Il lavoro non è “finito”, come preconizzava Jeremy Rifkin. Ma è cambiato profondamente. Sulla spinta della crisi, oltre che delle trasformazioni economiche e tecnologiche. Anche gli orientamenti verso il lavoro, in Italia, sono cambiati, negli ultimi anni. In modo rapido e non lineare. È ciò che suggerisce la lettura dei dati del sondaggio condotto da Demos Coop per la Repubblica delle idee.
1. Il “lavoro in proprio” e la “libera professione” non costituiscono più un mito condiviso, come negli ultimi vent’anni. Nel 2004 – considerati insieme – costituivano il primo riferimento per oltre metà degli italiani (53%).
OGGI per meno del 40%. Per contro, ha ripreso a farsi sentire il richiamo del lavoro dipendente nella piccola e, ancor più, della grande impresa. Ma, soprattutto, il “pubblico impiego” oggi è (ri) diventato il lavoro preferito dalla maggioranza degli italiani: il 31%, 5 punti più del 2004.
Le spiegazioni di questo mutamento di opinione sono diverse.
2. La più importante, forse, è l’insicurezza. Tra coloro che, nell’ultimo anno, affermano di aver lavorato, la quota di quanti dichiarano un impiego “sicuro” è il 42%. La stessa misura di coloro che lo definiscono “temporaneo” o “precario”. Tutti gli altri — il 16% — lo considerano, invece, “flessibile”. La flessibilità, nella percezione sociale, non richiama debolezza. Indica, piuttosto, un’attività, meno strutturata e regolata. La “precarietà”, invece, è “stabile temporaneità”. Del lavoro e del reddito.
3. La crescita della precarietà ha, dunque, rafforzato l’importanza del “posto fisso”. Pubblico o privato, non importa. Il 41% degli intervistati ambisce a un “posto sicuro”. Che garantisca un reddito “sicuro”, prima ancora che elevato. Anche la ricerca di un lavoro gratificante, che dia “soddisfazione”: perde relativamente di peso.
4. D’altra parte, il 20% degli intervistati sostiene che nell’ultimo anno, in famiglia, qualcuno ha perduto il lavoro; il 18% che qualcuno è stato messo in mobilità o in CIG; il 35% che qualcuno ha cercato un’occupazione — ma senza esito. Il 10%, infine, dichiara di avere un contratto di lavoro in scadenza.
La paura di rimanere disoccupati appare, dunque, in grande aumento. Coinvolge il 56% degli italiani. È cresciuta di 26 punti percentuali in circa cinque anni. Nello stesso periodo, la paura di perdere la pensione è salita di quasi 20 punti:
dal 36 al 54%.
5. Così, sembra essersi bloccato il mito dell’ascensore sociale. Che aveva mobilitato gran parte della società, facendola sentire “ceto medio”. Nel 2006 era il 60%. Oggi il 43%. Mentre la componente di chi si sente ceto “medio-basso” oppure “basso” è divenuta maggioranza: dal 28% al 51%.
Le componenti sociali maggiormente investite dalle paure riguardo al lavoro sono, ovviamente, le più vulnerabili. Gli anziani, con minore livello di
istruzione. Le donne. Considerate ancora discriminate, circa le possibilità di carriera, dal 58% degli intervistati.
Tuttavia, secondo il sondaggio di Demos-Coop, le preoccupazioni maggiori riguardano il futuro dei giovani e dei figli (62%; 16 punti in più in circa 5 anni). Il 64% degli italiani li invita ad andarsene all’estero. Perché questo non è un Paese per giovani.
6. La crisi del lavoro, come fonte di organizzazione e di riconoscimento sociale, dunque,
sta erodendo la fiducia nel futuro. Ma anche nelle istituzioni e nei soggetti di rappresentanza. Non solo nei partiti e nello Stato. Anche le associazioni economiche. Così, non resta che la famiglia a difendere i lavoratori. L’ultima cittadella assediata. Dal 2004 ad oggi il dato relativo al suo peso, nella percezione degli italiani, è triplicato: dal 10% al 30%.
7. Al contempo, nel tessuto sociale e fra gli stessi lavoratori, si aprono significative divisioni. Una fra tutte: verso l’impiego pubblico. Il 60% degli italiani ritiene, infatti, che i “dipendenti pubblici godano di privilegi insostenibili”. In altri termini, mentre cresce l’interesse per il posto pubblico, il pubblico impiego è visto con diffidenza. Non è l’unica contraddizione “cognitiva”. Infatti, fra gli italiani è calato l’interesse a intraprendere un lavoro autonomo e professionale ed è in aumento la domanda di occupazione nelle grandi imprese. Eppure, la fiducia nelle piccole aziende appare molto più ele-
che verso le grandi imprese. Anche l’appeal della Fiat, oggi, è limitato.
8. Da ciò l’incertezza verso il futuro. Denunciata da circa il 60% degli italiani: 15 punti in più rispetto al 2006. Prima della crisi. L’insicurezza tocca, ovviamente, gli indici più elevati fra le componenti più “precarie” della società. Insicure per definizione. Perché la “precarietà” nasconde il futuro.
9. Così si spiega il senso di disorientamento diffuso. Riflette perdita di senso e di orizzonte. E di “posizione”. Perché il lavoro continua ad essere il riferimento più importante della società. Non a caso, se si guarda la classifica delle professioni in base al prestigio sociale, si osserva
come, al di là del punteggio, “tutte” le professioni godano di considerazione. Ad eccezione dei “politici”, molto al di sotto della sufficienza, gran parte dei “lavori” — dagli imvata
prenditori agli operai, dai medici agli insegnanti — superano il 7,5. E negli ultimi anni, “guadagnano”, ulteriormente, stima sociale.
10. Un altro segno dell’importanza del lavoro, tanto più in tempi di crisi. Quando incombe la disoccupazione e la precarietà diventa “normale”. Perché lavorare non dà solo reddito. Dà dignità. Riconoscimento. Identità. Lavorare stanca. Non lavorare: umilia.

da La Repubblica

Il Pd riparte dalla foto di Firenze, di Giovanni Cocconi

«Bersani e Renzi? Insieme vincerebbero» aveva detto Roberto Benigni quando, in piene primarie, forse nemmeno lui sperava di vederli insieme. La “foto di Firenze” scattata ieri in un teatro strapieno, palesemente inadeguato a contenere l’entusiasmo del Pd pride, è qualcosa di più del profumo di vittoria alle elezioni. E rende più concreta la certezza che Pier Luigi Bersani ha consegnato alla platea quando ha detto che «questo partito, che non ha nomi sul simbolo, fra dieci, venti, trent’anni sarà ancora qui».
Ieri all’Obihall tra i due leader (arrivati insieme in auto elettrica) non è nato un ticket, il due di coppia non si ripeterà in campagna elettorale dove d’ora in poi ognuno andrà dove serve, ma l’evento sigilla l’esistenza di un Pd forte, largo, in salute (nonostante i sondaggi in calo), capace di lasciarsi alle spalle le tossine per lavorare in una sola direzione.
Più comizio elettorale quello di Bersani, («il prossimo presidente del consiglio» lo ha salutato il sindaco di Firenze), più discorso sul futuro quello di Renzi, che ha usato la sua Firenze come metafora per parlare del paese e il palcoscenico del teatro per parlare ai suoi, a conferma che la sua battaglia politica è solo accantonata.
«Se avete costruito castelli in aria il vostro lavoro non è perduto» ha detto citando il poeta e filosofo americano Henry David Thoureau, l’unica citazione in un discorso più rilassato che emozionato. E, parlando ai suoi, ha aggiunto: «Non abbiate paura di chi non la pensa come voi».
«Sono stato accusato di non andare sempre nelle sedi istituzionali – ha detto riferendosi alla sua discussa visita ad Arcore – diciamo che la prossima volta sarà più facile trovare il presidente del consiglio» ha detto invitando Bersani a Firenze a firmare il libro d’onore a Palazzo Vecchio. Poi gli ha regalato il Marzocco, il leone simbolo del potere popolare della città che ospitava l’evento.
Tutte le immagini che si sono alternate sullo schermo (dai Google Glass di Sergei Brin al Balotelli che abbraccia la madre commossa in un perfetto rovesciamento semantico della mossa berlusconiano) servivano a trasmettere quell’idea di futuro cui il sindaco di Firenze ha legato l’identità politica costruita con la campagna per le primarie.
Un’eredità che non è perduta.
Più concreto (e in bersanese doc) il discorso del segretario del Pd, che «come omaggio a Matteo che se lo merita» ha aperto arrotolandosi le maniche della camicia. Una concretezza resa plasticamente evidente da due espressioni care al leader dem, il richiamo alla «nostra gente» (che non sentiremo mai in bocca a Renzi) e al «qualcosa si può fare» contro la campagna elettorale di promesse che gli altri leader in campo (tutti, compreso Monti) sbattono in faccia agli elettori.
Nel discorso di Bersani c’è spazio anche per due piccole critiche “interne”, all’«eccesso di localismo» all’origine del caso Montepaschi e all’abitudine di alcuni consiglieri lombardi del Pd di «fare la spesa con i soldi pubblici». «Moralità e lavoro saranno le due parole della prossima legislatura» ha spiegato il premier in pectore, declinazioni di uno slogan, “L’Italia giusta”, che anche Renzi ha mostrato di aver apprezzato. Poi le parole d’ordine della campagna elettorale del Pd (dagli investimenti pubblici degli enti locali da sottrarre al patto di stabilità alla manutenzione del patrimonio scolastico, dalla Maastricht della fedeltà fiscale alle unioni civili alla tedesca per le coppie gay) e un po’ di orgoglio nella rivendicazione delle lenzuolate, contro le banche e con un pensiero ai consumatori.
L’Obihall applaude, e tanto, quando Bersani conclude e gli abbracci con Renzi continuano. Intorno al Rottamatore anche gli ex nemici Enrico Rossi, il presidente della regione, Andrea Manciulli, il segretario del Pd toscano, e Patrizio Mecacci, segretario di quello locale, che in piene primarie disse: «In caso di vittoria di Renzi non sono così sicuro di rimanere nel Pd». Sono passati due mesi, sembrano secoli.

da europaquotidiano.it

Soliera, domenica incontro-aperitivo con Manuela Ghizzoni

“Dare speranza alla scuola per dare speranza all’Italia”: è questo il titolo dell’iniziativa organizzata dall’Unione comunale del Pd di Soliera per la mattina di domenica 3 febbraio. Si tratta di un incontro-aperitivo con Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura e Istruzione della Camera dei deputati e candidata Pd alle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio prossimi. L’appuntamento è alle ore 11.00, nella sala al primo piano, presso il Centro Polivalente di Limidi, in via Papotti 18.

da pdmodena.it

Eve Ensler: “So cos’è la violenza sulle donne e dico basta ballando in piazza”, di Anna Bandettini

Sono sorprendenti già i numeri: 189 paesi nel mondo, oltre 70 città in Italia, 13mila organizzazioni femminili coinvolte, e milioni di donne e uomini che hanno aderito, dal Bangladesh a Roma, dal Dalai Lama alla pacifista Vandana Shiva, da Yoko Ono a Robert Redford, da Charlize Therona Anna Hathaway, Jessica Alba a Michelle Hunziker. Si stima che il 14 febbraio saranno un miliardo: donne e uomini insieme a ballare nelle piazze e nelle strade del mondo per One billion rising, il flash mob planetario contro la violenza sulle donne, la prima iniziativa mondiale per affermare il diritto alla vita e alla dignità delle donne, anche in paesi come l’Italia dove, nel 2012, ne sono state uccise 127 per mano maschile. «Un miliardo è il numero di donne violate nel mondo: è un’atrocità. Ma un miliardo di donne che danzano per strada nel mondo è una rivoluzione», dice Eve Ensler, 59 anni, indomita autrice dei celeberrimi Monologhi della vagina, manifesto della sessualità femminile e atto di denuncia delle violenze, tradotto in 48 paesi, e da vent’anni, nei “Vday” “recitato” in tutto il mondo. Capelli neri corti, viso luminoso, infaticabile viaggiatrice per la causa delle donne, Eve Ensler, ad aprile in libreria con Nel corpo del mondo sulla sua esperienza col cancro, è la promotrice di One billion rising, che in pochi mesi ha mobilitato le donne di tutti gli angoli del pianeta in una protesta planetaria che cresce di minuto in minuto. «Uno tsunami», dice raggiante la Ensler.
Cosa accadrà esattamente il 14 febbraio?
«L’invito è di ballare in strada, in piazza o dove si vuole. In Italia, a Roma dalle 18.30 lo si farà alla Casa Internazionale delle Donne e in piazza del Popolo, a Milano in galleria Vittorio Emanuele… Ogni città si sta organizzando con la sua creatività. In Butan dove andare per strada è illegale, le donne accenderanno le lampade».
Sul web c’è chi ha criticato l’idea di ballare su una cosa orribile come la violenza contro le donne…
«La violenza tiene le donne nella paura. Il ballo è il modo più diretto per dire che quel corpo che gli uomini vogliono ferire non si piega. Chiaro, poi, che quel ballo servirà per chiedere leggi che preservino i diritti delle donne e educazione nelle scuole. Per chiedere che vengano arrestati gli uomini che vendono le ragazzine di otto anni nelle strade del Messico o quelli che in un anno hanno ucciso 700 donne in Guatemala. E ancora
per denunciare che il commercio dei metalli per cellulari e computer in Congo finanzia una guerra dove si stuprano e violano le donne, o additare capi di governo, e mi riferisco a Berlusconi, che perpetuano una cultura che offende
il corpo della donna».
One billion rising
è anche la prova che la violenza contro le donne è un orrore planetario.
«È un’epidemia, la prima causa di mortalità delle donne nel mondo. E il perché ha tante risposte. La prima è il patriarcato: un sistema di dominio che ha come strumento la violenza. E poi l’ignoranza sul sesso, in tutte le culture: gli uomini pensano ancora che il sesso sia saltare addosso a una donna e l’amore una forma di possesso. E poi c’è la chiesa: i preti cattolici che dicono che le donne con le gonne corte sono responsabili delle violenze… ».
Lei ha subìto violenza. Vuole parlarne?
«Fu mio padre. Ha abusato di me ed è stato violento per molti anni. Mi ha quasi ucciso, un paio di volte. Ho passato anni a chiedermi perché. Mio padre aveva per me un amore esagerato che non sapeva controllare. Beveva e usciva fuori di testa. Quando smise di abusare perché ormai ero una teen ager, diventò violento. Se uscivo con i ragazzi mi picchiava,
mi frustava».
Come ha superato quelle crudeltà?
«Scrivere mi ha molto aiutato e poi parlare e incontrare altre donne. Vorrei poter dire che il mio è
stato un caso raro ma non è così. In giro per il mondo di storie così ne ho sentite… La violenza è nella famiglia, sono i padri, fratelli, compagni, mariti. Importante per me è stato anche il femminismo, che ha dato una visione, una cultura alle donne. E lo fa ancora oggi. Vedo una bella energia in particolare nelle donne africane, indiane, asiatiche».
Ma nonostante questo la violenza non si ferma.
«Perché è la forma di intimidazione degli uomini per spingere noi donne indietro. Dobbiamo essere audaci: la porta l’abbiamo socchiusa, ora dobbiamo aprirla».
Il 14 febbraio lei dove ballerà?
«In Congo. Lì da sei anni abbiamo costruito un posto meraviglioso chiamato la “Città della gioia” dove vengono accolte le donne violate dalla guerra per riconquistarle alla vita. È un centro rivoluzionario per l’Africa. Il Congo è uno dei posti al mondo dove stanno accadendo le peggiori atrocità sulle donne, ma anche quello dove le donne stanno più provando a rialzarsi. E io voglio essere con loro».

da La Repubblica

La Babele italiana, di Vladimiro Polchi

«Limba român?». Un milione di persone oggi in Italia può rispondere «sì» a questa domanda: «Parli romeno?». «No, jo, unë jam shqiptare», risponderebbe invece il mezzo milione di albanesi. Senza l’italiano come lingua comune, difficilmente si capirebbero i cinque milioni di migranti del Bel Paese. L’Italia dei cento idiomi è come una coperta d’Arlecchino, con tante pezze colorate quante sono le lingue parlate: arabo, inglese, cinese. La star? Il romeno, senza dubbio, forte appunto del suo milione di “parlanti”.
In questi giorni dall’Inghilterra arriva la notizia che la seconda lingua più parlata sull’isola (dopo l’inglese ovviamente) è il polacco, grazie alla folta comunità di immigrati.
L’italiano è al dodicesimo posto, dopo il tamil e il turco, prima del somalo. E in Italia? Nel nostro Paese le lingue straniere entrano attraverso tre porte: quelle aperte da minoranze linguistiche, comunità di immigrati e corsi di lingua per italiani. Il primo canale è appunto quello delle 12 minoranze riconosciute e tutelate dalla legge 482/1999: albanese (parlato da circa 50 comunità nell’Italia meridionale), catalano, greco,
sloveno, croato, francese, franco- provenzale, occitano, friulano, ladino, sardo e tedesco. Ma al di là delle minoranze storiche, i più forti messaggeri dei nuovi idiomi oggi sono altri: le comunità migranti.
Stando alla fondazione Ismu a farla da padrone tra i “nuovi italiani” è senza dubbio il romeno, parlato abitualmente da circa un milione di persone. Segue l’arabo, condiviso da 693mila immigrati nordafricani ed eritrei (nelle sue numerose varianti) e l’albanese (483mila “parlanti”). Lo spagnolo è compreso da 291mila immigrati, provenienti da buona parte dell’America Latina (soprattutto peruviani, ecuadoriani, dominicani, colombiani, cubani
e argentini). Anche l’inglese e il francese hanno una buona diffusione tra i migranti: il primo è usato da 297mila persone tra indiani, pakistani, nigeriani e ghanesi; il secondo da 136mila tra senegalesi, ivoriani e cittadini di Burkina Faso, Camerun e Mauritius. E ancora: nella classifica seguono il cinese (per 210mila persone), l’ucraino (201mila) il filippino
o tagalog (134mila) e infine il polacco (109mila). «Si tratta di proiezioni che associano a ogni nazionalità la più importante lingua parlata in patria — spiega Alessio Menonna, ricercatore Ismu — risulta però sottostimata la diffusione dell’inglese e del francese spesso parlate come seconda lingua da molte comunità: penso alle Filippine
per l’inglese, alla Tunisia e all’Algeria per il francese».
Le lingue dei migranti potrebbero essere una risorsa per l’Italia: «Gli immigrati dovrebbero essere un ponte tra i Paesi di origine e il nostro. Questo però non accade — sostiene Franco Pittau, coordinatore del Dossier Caritas- Migrantes — ho potuto constatare, per esempio, che in paesi
come il Marocco e le Filippine sono pochi quelli che studiano in loco l’italiano, una conoscenza che oltre tutto sarebbe funzionale ai flussi verso l’Italia. Non solo. Non è neppure accettabile la nostra disattenzione nei confronti delle loro lingue madri». Secondo Pittau, «pur insistendo giustamente sull’apprendimento dell’italiano, base indispensabile per un adeguato inserimento, non dovremmo pretendere che trascurino la loro lingua, che li impoverirebbe. Basta pensare ai nostri connazionali all’estero, che anche a distanza di molte generazioni hanno conservato il riferimento all’italiano. Tra mantenimento della lingua di origine e apprendimento dell’italiano,
dovremmo trarre una maggiore predisposizione a conoscere i loro Paesi e le loro culture: si tratta di un arricchimento, che in un mondo globalizzato può essere anche veicolo di un ritorno economico».
Ma oltre alle minoranze e agli idiomi degli immigrati, quanti sono gli italiani che parlano una seconda lingua? Pochi, quattro su dieci (il 38%), molto meno della media europea (54%). A bocciare il nostro Paese è la pagella dell’Eurobarometro 2012: l’Italia, insieme a Ungheria, Gran Bretagna, Portogallo e Irlanda, è tra i Paesi meno poliglotti. Piccola nota di consolazione: si registra un aumento di 6 punti percentuali, rispetto al 2005, degli
italiani che sanno parlare almeno due lingue straniere (22%). Le più parlate restano sempre l’inglese e il francese.
Guardando all’Europa, tra i banchi di scuola l’inglese è di gran lunga la lingua straniera più insegnata. Nel 2009/10, il 73% degli alunni della scuola primaria nell’Ue studiava l’inglese. Nell’istruzione secondaria inferiore e superiore, la percentuale superava il 90%. E in Italia? Risponde il ministero dell’Istruzione con i suoi dati (tenendo conto che alla medie oggi si studiano due lingue): tra primarie, medie e superiori oltre 7milioni di studenti italiani studiano l’inglese, quasi due milioni il francese, circa 600mila lo spagnolo e
412mila il tedesco. Quest’ultimo ha registrato un vero e proprio boom nell’ultimo anno, con una crescita del 18% degli studenti. La new entry è però il cinese: quest’anno tra istituti Confucio (10 nel nostro Paese), università pubbliche e private, scuole varie, oltre 10mila italiani studiano il mandarino.
Le tante lingue parlate in Italia convivono pacificamente, ma restano fondamentalmente impermeabili le une alle altre. «Le lingue delle comunità straniere in Italia non hanno la massa critica sufficiente e neppure il prestigio per influire sull’italiano — sostiene Edoardo Lombardi Vallauri, docente di linguistica all’università di Roma Tre — il prestigio
è un concetto centrale per i linguisti. Facciamo un esempio: il francese delle banlieu è nutrito di arabo, perché figlio di comunità antiche, compatte, importanti, modelli di prestigio culturale. Una lingua si impone per il suo prestigio e quello delle comunità migranti non è per ora così forte da “inquinare” l’italiano. Diverso è stato in altri casi. Nel ‘600/’700 il francese esportava il suo lessico. Poi è arrivato l’inglese forte del suo prestigio internazionale. Oggi in un vocabolario medio di italiano i francesisimi sfiorano quota quattromila, più delle parole d’origine inglese ». Eppure parrebbe il contrario. «Il motivo — risponde Vallauri — è che molti francesisimi, come “miccia”, “burro”, “danza”, si sono talmente adattati, da non essere più riconoscibili. Mentre le parole inglesi sono più identificabili e più recenti». Anche l’italiano ha esportato parole «ma bisogna risalire al Rinascimento, quando la nostra era una lingua di prestigio. Oggi siamo presenti solo in alcuni settori linguistici, come quelli legati alle belle arti, alla musica e alla cucina ». La questione finale è: i prestiti dalle altre lingue rappresentano un impoverimento dell’italiano? «L’apporto straniero è un bene, se non riduce l’espressività della nostra lingua. L’orrore del nuovo è sbagliata, quando non va a scalzare i vecchi vocaboli».

da la Repubblica