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Mafia, ora lo Stato dichiari guerra, di Walter Veltroni

Caro direttore, occorre che lo Stato italiano entri in guerra. Che notifichi, all’avvio del prossimo Parlamento, una vera e propria dichiarazione di guerra alla mafia, alle mafie.
Lo so, non ci sono ambasciatori e cancellerie a cui consegnare un documento formale. Ma la mafia, le mafie, sanno benissimo lanciare segnali e anche comprenderli. Se la politica, le istituzioni, i cittadini sono uniti (al di là di qualsiasi divisione) i poteri criminali capiranno che la Repubblica fa sul serio.
Le mafie stanno divorando anima e corpo di questo Paese. La immensa disponibilità di denaro che deriva dalle attività illecite – in primo luogo droga, usura, racket – sta consentendo loro una penetrazione nell’economia reale che non ha precedenti, né per dimensione, né per estensione nazionale. Non c’è un pezzo di Paese che si possa considerare al riparo da questa invasione. E chi, per meschino calcolo elettorale, si ostini a negarlo, per il territorio che amministra, o è stupido o è complice. Le mafie si sono insediate a Roma, a Milano, in Emilia, in Liguria. Stanno approfittando della crisi e della difficoltà di reperimento del credito da parte delle imprese per erogare prestiti da usura e poi acquisire le imprese stesse. Così aziende italiane, frutto del lavoro e dell’ingegno di generazioni di italiani, finiscono nelle mani di poteri criminali. È quanto è successo, ad esempio, nella civilissima Padova con una struttura finanziaria della camorra denominata, non per caso, “Aspide” che erogava ad aziende in difficoltà prestiti ad un tasso del 20% mensile. Chi può non vedere che in tutte le città, quartiere per quartiere, sta cambiando la natura del paesaggio commerciale? Spuntano ovunque strane gallerie d’arte, negozi di vestiti nei quali non entra mai nessuno, improbabili pizzerie. Il costo degli affitti e delle vendite dei locali lievita in ragione del fatto che c’è chi è disposto a versare cifre spropositate. E così il commerciante è progressivamente espulso e si insediano, con un complicato giro di prestanome, imprese finte che servono solo a riciclare denaro sporco.
È, per molti versi, un fatto inedito. Le mafie e la recessione: un intreccio che presenta un suo tratto storicamente originale. Le mafie, nella loro strategia di penetrazione, non acquistano solo aziende o locali commerciali. Acquistano anche politici, funzionari, amministratori. Lo fanno con le blandizie – soldi, voti – e con le intimidazioni. E, lo ripeto da anni, non solo in Campania o in Sicilia. Succede a Milano o a Sanremo.
Potremo fare tutte le manovre che vogliamo, nei prossimi anni. Ma se le mafie continueranno a succhiare al nostro Pil una cifra che oscilla attorno ai 130, 150 miliardi di euro sarà come svuotare il mare con il cucchiaino. Potremo fare tutti i progetti di grandi imprese che vogliamo ma se la Salerno-Reggio Calabria è ancora in quello stato pietoso è perché le mafie fanno saltare i cantieri. E non è immaginabile che un paese come il nostro se progetta una grande iniziativa come l’Expo o avvia i lavori di ricostruzione dopo catastrofi naturali debba essere atterrito dalla minaccia del condizionamento mafioso.
Ci sono studi recenti, penso a quello di Transcrime, che dicono che a preoccuparci non deve essere solo la mole di affari che la criminalità muove oggi in Italia, ma che quegli affari si stanno sempre più consolidando e diventano una base sicura su cui le mafie possono costruire sempre di più. O lo studio della Banca d’Italia che ha dimostrato con dati scientifici che la presenza delle mafie abbatte la crescita del Pil di alcune regioni.
L’Italia – con la sua straordinaria capacità e voglia di fare, con la creatività e l’agilità mentali che non ci hanno mai fatto difetto – è costretta a contrastare gli effetti economici e sociali della recessione come un uomo che lotta con una mano legata dietro la schiena.
Chiunque si candidi a governare il Paese, e penso anzitutto al Partito democratico e al centrosinistra, avrà il compito imperativo di liberare quella mano. Sarà una guerra, un lavoro difficile e profondo ma è la condizione preliminare per salvare il Paese.
La guerra, in questi anni, l’hanno fatta i magistrati, le forze dell’ordine e gli amministratori coraggiosi. Ma lo Stato non c’era. Anzi ha cercato, falso in bilancio e limiti alle intercettazioni proposte dal centrodestra, di rendere tutto più difficile. È lo Stato, la politica a dover dichiarare e ingaggiare il conflitto senza quartiere con i poteri criminali. Da ora, rinunciando alle offerte di sostegno a liste o candidati che le mafie fanno in periodi come questi. Perché la mafia non è neutrale, è un pezzo organico del grumo di potere che per decenni le ha garantito coperture politiche e giudiziarie e in cambio ha avuto consenso e talvolta anche attiva partecipazione a disegni di condizionamento della vita pubblica italiana. La mafia, durante tutto il Novecento, non ha destabilizzato nulla. È stato un potente e sanguinario fattore di “stabilizzazione” che è entrato in campo quando le cose stavano per cambiare. Non ci si spiega il carattere inedito e repentino dell’inizio delle stragi, nel fatidico ’92, e la loro cessazione, nel ’94, se non così.
Per questo penso a una guerra senza quartiere. Non chiacchiere, decisioni. Penso, solo a titolo di esempio, a una serie di provvedimenti normativi che devono essere ai primi posti dell’agenda di governo. Un rafforzamento radicale della legge anticorruzione, regole essenziali come quelle sull’autoriciclaggio, la messa a regime della banca dati unica delle informative antimafia accessibile alla Dna, l’attuazione della “white list” realizzando presso le prefetture elenchi di aziende davvero pulite.
E penso ad una politica che sappia cacciare i portatori di voti facili e sporchi. Non basta la dichiarazione di appartenenza ad un partito, neanche della sinistra, a certificare la propria onestà. Sono le decisioni, i rischi, la linearità dei comportamenti a definire un rappresentante del popolo. Se lo Stato italiano non dichiarerà questa guerra, oggi, la recessione ci consegnerà un Paese irrimediabilmente malato.
Non lo dobbiamo solo a Falcone e Borsellino, che sono morti in trincea, forse per fuoco amico. Lo dobbiamo agli italiani. Liberare quel braccio significa liberare l’Italia e restituirle futuro.

da La Repubblica

Il Pd deve vincere come la Dc nel’48, di Alfredo Reichlin

La campagna elettorale mostra tutta la difficoltà non solo di discutere ma perfino di mettere a fuoco la questione su cui il Paese si sta giocando tutto: la «cosa» da cui dipendono tutte le altre, Imu compresa. Parlo della ridefinizione del «rapporto nazionale-internazionale», ovvero del rapporto Italia-mondo. Qui sta il grande cambiamento, che è in atto, e che è di natura storica. Ricordiamoci che l’Italia era cresciuta e si era affermata come media potenza mondiale grazie al ruolo di cerniera che aveva svolto nella strategia della guerra fredda, e quindi, sostanzialmente, in base a un rapporto speciale con gli Stati Uniti.
Questo è cambiato. Il futuro della Penisola dipende adesso dal nostro rapporto con la costruzione della Comunità europea. Una costruzione travagliata e percorsa da difficili problemi, compreso quello di non subire passivamente l’egemonia monetaria tedesca, ma che rappresenta la potenza necessaria minima per fronteggiare il potere della finanza mondiale e perché gli europei con la loro civiltà possano tornare ai vertici dello sviluppo mondiale.
È evidente quindi che la scelta che sta di fronte agli elettori il 24 febbraio è di natura costituente. Essa è simile per certi aspetti a quella che il 18 aprile del 1948 vide la vittoria «necessaria» della Dc. E perché dico necessaria? Perché in quel momento storico la Dc garantiva l’occidentalizzazione dell’Italia e la pace civile. Io c’ero ma il «soviettismo» di noi comunisti alludeva a un’altra storia e non dava allora questa fondamentale garanzia. Ecco perché trovo deprimente il dibattito elettorale che si svolge sui media. Mi si dirà che si parla di programmi. Benissimo. Ma che senso hanno le promesse programmatiche se restiamo ai margini dall’Europa e ci mettiamo nella penosa condizione di non contare più niente?
Vengo così al punto, che io definisco così. Che succede se il Partito democratico non vince le elezioni? Ecco una bella domanda che gli italiani dovrebbero cominciare a porsi. È una strana domanda, che però è posta dalle cose. Riflettiamoci bene. Se le elezioni non le vince il Pd le vincerà un altro. Ma chi? Berlusconi? Ma l’organismo italiano (la società e l’unità dello Stato) può sopravvivere a una vittoria della destra? Me lo chiedo perché noi siamo a quel passaggio di cui ho detto. È evidente che il ritorno di Berlusconi (a parte tutto ciò che di ignobile riporterebbe a galla) isolerebbe drammaticamente l’Italia dall’Europa, ci coprirebbe di disprezzo e aprirebbe anche grossi problemi di sovranità del Paese. Ricordiamoci che il potere non è più solo un fatto nazionale ma si definisce sempre più nella sua relazione con lo scenario internazionale e con le mutazioni che esso sta subendo. Noi, non conteremo più niente e diventeremmo solo il luogo della compravendita di ciò che resta di un grande patrimonio produttivo. Fantasie? Uno scenario simile non è credibile? In effetti sembra anche a me.
Ma poi vedo i processi dissolutivi in atto. Vedo i voti per Grillo e per Ingroia che sono tanti. Vedo l’indifferenza per il dramma della povera gente. Vedo le sparate di Maroni, l’alleato principale di Berlusconi, un naufrago politico che tuttavia se vince in Lombardia può creare problemi molto seri di tenuta del Paese. Certo. C’è molta farsa nel pensare di dividere il Lombardo-Veneto dall’Italia (come ai tempi di Radetzky) e al ritorno dei Borboni a Napoli. Fa ridere. Ma che succede se una grande forza popolare e nazionale non vince le elezioni? Questo è il punto su cui rifletto. La novità è che nel mondo e nell’Italia di oggi questa forza «necessaria» è il Pd. C’è poco da fare. Si è aperto un problema geo-politico e non per caso a un vecchio comunista come me sono tornate in mente le elezioni del 1948.
Mancano quattro settimane al voto. Pongo in modo così brutale questa questione del ruolo storico che il Partito democratico è costretto ad assumere non perché io sia pessimista o perché ritenga debole il nostro discorso elettorale. Vorrei solo alzare l’asticella della sfida. Cosa pensa la classe dirigente italiana di questo passaggio d’epoca? Vuole giocare ancora su due tavoli? Sarò un ingenuo ma mi sembra incredibile che persone serie come quelle che si muovono intorno al prof. Monti e che frequentano ambienti come la Comunità di Sant’Egidio non si rendano conto che è finita un’epoca. Non è solo questione di giustizia. È che non funziona più l’idea di un rilancio dello sviluppo basato sui consumi degli individui in società atomizzate, finanziati a loro volta non dalla crescita della economia reale ma dal debito, e quindi dalla crescita delle rendite finanziarie. Questo è il fatto reale che ci interroga. Un grande fatto.
Il mondo è nuovamente a una svolta. È saltato il circuito consumo-rendita-debito. Piaccia o non piaccia. Bisognerà cominciare a investire sul lavoro, sull’intelligenza umana e sui nuovi bisogni collettivi. Ecco il fatto, un grandissimo fatto. Perché allora gli amici di Monti vogliono impedirci di vincere le elezioni? Perché la loro strategia è «tagliare le ali». Che stupidaggine. La sinistra di Vendola non è come il mondo di Cosentino. E come pensano di governare la necessaria riforma delle società europee: facendo del sindacato il nemico principale? Se è così, vuol dire che non hanno capito la posta in gioco e le forze in campo. È meglio per tutti che vinciamo noi.

da L’Unità

Roma – Presentazione programma PD scuola

Martedì 5 febbraio alle ore 12, nella sala conferenze del Partito Democratico (via Sant’Andrea delle Fratte, 16), saranno presentate alla stampa le priorità del Pd per la scuola.
All’incontro “L’Italia giusta. Il futuro si prepara a scuola”, saranno presenti Francesca Puglisi, responsabile Scuola del Pd, e le candidate e i candidati nelle liste del Pd impegnate sui temi della scuola Manuela Ghizzoni, Maria Coscia, Caterina Pes, Vincenzo Vita, Walter Tocci, Anna Ascani, Simona Malpezzi, Maria Grazia Rocchi.

Carpi, sabato con Bonaccini, domenica pranzo con i candidati Pd

Proseguono nel carpigiano gli appuntamenti elettorali in vista delle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio. Segnaliamo, tra le altre, due iniziative organizzate per questo fine settimana. Sabato 2 febbraio, alle ore 19.30, presso il circolo Arci Arcobaleno di Santa Croce di Carpi, si terrà un “aperitivo democratico” organizzato dai circoli Pd di Santa Croce, 1° maggio e Carpi Est. Interverranno il segretario regionale del Pd Stefano Bonaccini, il sindaco di Carpi Enrico Campedelli e il segretario comunale Pd Davide Dalle Ave. Seguirà un intrattenimento musicale. Domenica 3 febbraio, invece, presso il circolo Arci Giliberti di via Tassoni, si terrà un pranzo di autofinanziamento a cui prenderanno parte alcuni candidati Pd. A partire dalle 12.30 saranno, infatti, presenti la presidente della Commissione Cultura e Istruzione della Camera dei deputati e candidata Pd alla Camera Manuela Ghizzoni, il candidato Pd al Senato Stefano Vaccari e la candidata Pd alla Camera Giuditta Pini.

da pdmodena.it

Non si parli di voto utile, ma disgiunto sì, eccome, di Fabrizia Bagozzi

Senza scomodare il voto utile, se le cose per il senato non vanno bene, perché non pensare almeno quello disgiunto?
Scivolata dopo scivolata, il leader di Rivoluzione civile Antonio Ingroia sta perdendo per strada la spinta propulsiva che gli aveva garantito il colpo di scena iniziale: la sua candidatura da magistrato simbolo di un modo di agire la lotta antimafia gradito a una certa sinistra alla testa di una lista di resistenza civile (così definita da uno dei deus ex machina dell’operazione – insieme a Leoluca Orlando – Luigi de Magistris, non a caso raffreddatosi un po’). Una lista che doveva scardinare i tradizionali rituali e schemi partitisti, evitando il sequel della Sinistra Arcobaleno depurata da Sel e mettere al centro la società civile. Tant’è che fra i motori del processo svettavano i professori di Alba-Cambiare si può, ora defilatisi.
Perché poi c’è stata la polemica sui segretari dei partiti (Idv, Prc, Verdi, Pdci) – i quali, usciti dalla porta, sono rientrati dalla finestra (e nelle liste) – che ha spaccato Cambiare si può e ha portato al referendum con cui il movimento ha deciso a maggioranza di seguire Ingroia. Lo spettro dell’operazione partitista è rimasto denso nelle anime più movimentiste, entrate in fibrillazione anche nel corso della formazione delle liste, in cui di società civile se n’è vista, ma di partiti pure. Una cosa che non ha fatto bene a Ingroia, come non gli ha fatto bene una campagna mediatica a tratti maldestra, come quella volta dall’Annunziata, infilzato dal solito Sallusti. E come, in questa fase nervosa, non gli giovano gli affondi al vetriolo contro Bocassini, altro magistrato gradito a una certa sinistra, su cui ieri è intervenuta anche l’Anm («inopportuni i richiami a Falcone e Borsellino»). Un’altra scivolata. E forse non è un caso che balzata subito al 5%, ora Rc stia flettendo verso un più modesto 4,2%. Appena sopra la soglia di ingresso alla camera. Mentre al senato, l’unica regione in cui ha speranza di superare lo sbarramento dell’8% è la Campania (sempre che il caos dei trasporti pubblici di Napoli rimasti senza benzina rimanga senza ricadute). Altrove, anche in Sicilia, dove inizialmente era ben posizionata e ora ruota fra il 6 e il 7%, i suoi voti andranno dispersi. Regalando la vittoria alla destra e consegnando palazzo Madama a una maggioranza incerta. Una situazione a cui persino uno a cui il voto utile non piace per nulla, come Andrea Scanzi del Fatto Quotidiano, invita a guardare con pragmatismo secondo una logica antimontiana.
E del resto, antimontiana o no, la logica è logica, ed è quello che il Pd ha cercato più volte di far capire a Ingroia, al netto delle ipotesi di desistenza: disperdere voti al senato significa dare un determinante vantaggio alla destra. Allora va bene votare Rc alla camera, dove quei voti conteranno. Ma perché farlo al senato dove invece, la dispersione offrirà un assist a tutto ciò che sinistra non è, Berlusconi in primis? Se non un voto utile, che sia almeno un voto disgiunto

da Europaquotidiano.it

Università, in dieci anni 58mila studenti in meno, di Luciana Cimino

Non sono una sorpresa per nessuno i nuovi dati che descrivono la lenta moria dell’Università italiana. Non per gli studenti, che negli ultimi anni hanno manifestato contro la loro inesorabile espulsione dall’istruzione. Non per i ricercatori, precari a vita, e neanche per i rettori che da mesi denunciavano l’impossibilità di gestire i propri atenei con le esigue risorse a disposizione. Ora è il Cun (Consiglio universitario nazionale) a mettere nero su bianco che una gran parte di italiani comincia a percepire l’istruzione superiore come un lusso non consentito. Tanto che le immatricolazioni sono crollate. In dieci anni sono scese da 338.482 (anno accademico 2003-2004) a 280.144 (2011-2012). 58mila studenti in meno e cioè il 17%, come se scomparisse un ateneo grande quanto la Statale di Milano. Il fenomeno riguarda tutti gli atenei, dal nord al sud (tranne Bologna). Nel rapporto che il Cun ha rivolto all’attuale governo e Parlamento, ai partiti impegnati nelle elezioni, «ma soprattutto a tutto il Paese», non c’è una sola voce con il segno positivo. Non il numero dei laureati: l’Italia è sotto la media Ocse, 34esimo posto su 36 paesi. Solo il 19% dei 30-34enni ha una laurea, contro una media europea del 30%. Neanche il numero di chi sceglie una carriera universitaria: rispetto alla media Ue, in Italia ci sono 6mila dottorandi in meno mentre l’attuazione della riforma del dottorato di ricerca prevista dalla Gelmini è ancora al palo. Questo si traduce nel fatto che il 50% dei laureati segue il dottorato senza borsa di studio. Borse di studio che del resto sono impossibili da ottenere anche per gli studenti a basso reddito (come prevede la Costituzione). Spiega il Cun: «il numero dei laureati nel nostro Paese calerà ancora anche perché, negli ultimi 3 anni, il fondo nazionale per le borse di studio è stato ridotto. Nel 2009 copriva l’84% degli studenti aventi diritto, nel 2011 il 75%». Ma risulta diminuito del 22% anche il numero professori, non vengono più assunti. Un ulteriore calo è previsto nei prossimi 3 anni e già, secondo l’Ocse, superiamo la media europea di studenti per docente che è «destinata a divaricarsi ancora per una continua emorragia di professori per la forte limitazione imposta ai contratti di insegnamento che ciascun ateneo può stipulare». Un calo, quello dei docenti, che incide anche sull’offerta formativa. In sei anni sono stati eliminati 1.195 corsi di laurea, solo questo anno sono scomparsi 84 corsi triennali e 28 corsi specialistici/magistrali. «Se questa riduzione è stata inizialmente dovuta alla razionalizzazione, ora dipende si fa notare dalla pesante riduzione del personale docente». I laboratori poi sono obsoleti e quindi difficilmente concorrenziali con quelli esteri o di ricerca privata: i finanziamenti Prin (destinati alla ricerca libera di base per le università e il Cnr), subiscono tagli costanti, da una media di 50 milioni all’anno ai 13 milioni per il 2012. Infatti dai 100 milioni assegnati nel 2008-2009 a progetti biennali si è passati a 170 milioni ma per progetti triennali, per giungere a meno di 40 milioni nel 2012. Del resto dal 2001 al 2009 il Fto (Fondo di finanziamento ordinario) prima è rimasto quasi stabile, ignorando l’inflazione, poi ha cominciato a scendere del 5% ogni anno, con un calo complessivo che per il 2013 si annuncia prossimo al 20%. «Su queste basi e in assenza di un qualsiasi piano pluriennale di finanziamento moltissime università, a rischio di dissesto osserva il Cunnon possono programmare né didattica né ricerca». Andrea Lenzi, presidente del Cun, parla di «costante, progressiva e irrazionale» riduzione delle risorse finanziarie e umane destinate al sistema universitario che «ne lede irrimediabilmente la capacità di svolgere le sue funzioni di base, di formazione e ricerca». Non è sorpresa di questi dati Emanuela Ghizzoni, presidente Pd della Commissione Istruzione della Camera, «registrano una crisi che si è venuta a creare a causa delle politiche di Gelmini-Tremonti-Berlusconi e che denunciamo dall’inizio. Monti non ha invertito la tendenza». Marco Meloni, responsabile Università del Pd, e l’ex rettore Maria Chiara Carrozza parlano di «questione sociale gigantesca» e annunciano che il primo provvedimento del prossimo governo sarà sul diritto allo studio. E anche per Mimmo Pantaleo, segretario generale Flc-Cgi, il rapporto del Cun «fa paura» perché «racconta di opportunità negate ai giovani e dà la misura dell’impoverimento culturale del nostro Paese. In Italia studiare è sempre più costoso, difficilmente accessibile e non paga».

da L’Unità

Due innovatori a Firenze, di Stefano Menichini

Stasera torna sulla scena Matteo Renzi. Non sarà un one-man-show dei suoi, anzi l’opposto: sarà l’esaltazione dello spirito di squadra e di partito, lo spettacolo rassicurante e rinvigorente del candidato Bersani sostenuto dall’ex giovane sfidante. La rappresentazione, per una sera sola, del ticket che tanti ingenuamente sognavano ancora nel pieno dello scontro.
La gran parte del Pd ha imparato ad apprezzare Renzi solo da sconfitto. Un po’ per un riflesso antico non proprio dei migliori, un sentimento collettivo che possiamo cogliere con un precedente illustre: quanto era popolare Pietro Ingrao nel Pci, a patto che rimanesse sempre ai margini…
Molto però ha contato, in questa crescita di popolarità renziana ex post, il suo comportamento: fedele alla comunità (quando tanti amici e nemici lo davano per sicuro fuoriuscito), attento a non calarsi nel ruolo classico di capocorrente (alla fine davvero manderà in parlamento solo “i suoi amici”, alla lettera però, non in senso lato), non appiattito su una linea che aveva criticato e su un tipo di partito che voleva rovesciare dalle fondamenta.
Quando Renzi dice di puntare solo alla piena vittoria democratica alle elezioni, c’è da credergli: nessuno, neanche lui, ricaverebbe alcunché di buono dalla crisi terribile che nel Pd scaturirebbe da una eventuale improbabile sconfitta.
La questione vera – che naturalmente non uscirà dalla manifestazione fiorentina di stasera – è che in questi mesi dopo le primarie non abbiamo imparato solo ad apprezzare un Renzi fedele alla ditta. Abbiamo anche avuto la conferma di quanto vitale sia per il Pd una rottura di continuità quale quella che il sindaco di Firenze ha impersonificato anche con le sue asprezze.
Il Pd si sta difendendo con le unghie e i denti (alla lettera, quasi) dalle strumentalizzazioni odiose sul caso Mps. Rimane il fatto che l’unica, enorme vicenda che potrebbe frenare la corsa di Bersani verso palazzo Chigi scaturisce proprio da un passato al quale può dirsi totalmente estraneo solo un Pd radicalmente rinnovato, diverso, inconfondibile con i partiti che l’hanno fondato.
Bersani è stato bravo, nell’ultimo anno, a calarsi anch’esso nel ruolo dell’innovatore, del rottamatore di tradizioni e se necessario di persone. È grazie a questa intuizione (“aiutata” da Renzi) che oggi può rigettare a testa alta e con buoni argomenti le accuse che investono il passato. È grazie a questa trasfigurazione anche personale che gli scandali grandi e piccoli non ne intaccano l’immagine e le chances.
Quindi stasera a Firenze vedremo sulla scena due innovatori. La cronaca ci sta segnalando che il lavoro, il lavoro di entrambi, e fatalmente molto di Matteo Renzi, è di là da finire.

da europaquotidiano.it