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Novi, Swoboda “Lo assicuro, non dimenticheremo queste zone”

“Non vi dimenticheremo”: il presidente del Gruppo dei socialisti e democratici al Parlamento europeo Hannes Swoboda ha assicurato, nel corso della sua visita odierna a Novi, che le aree colpite dal sisma non saranno lasciate sole, che l’Europa continuerà a mantenere desta l’attenzione nei loro confronti. Tra l’altro, ha aggiunto il consigliere regionale Pd Luciano Vecchi, i fondi stanziati dall’Unione Europea stanno già cominciando ad arrivare, proprio in questi giorni, nelle casse della Regione Emilia-Romagna.
I primi fondi stanziati dall’Unione Europea, 600 milioni di euro in totale, stanno arrivando, proprio in questi giorni, nelle casse della Regione Emilia-Romagna da destinare alla ricostruzione delle aree colpite dal sisma del maggio scorso. Ad annunciarlo, oggi pomeriggio, a Novi, è stato il consigliere regionale del Pd Luciano Vecchi nel corso della visita della delegazione del Gruppo dei socialisti e democratici al Parlamento europeo, guidata dal presidente Hannes Swoboda. La visita è cominciata con un giro a piedi nel centro di Novi dove la stragrande maggioranza degli edifici sono o transennati o puntellati o comunque lesionati. A spiegare la situazione difficile il sindaco di Novi Luisa Turci che ha lamentato il vuoto normativo con cui gli amministratori devono fare i conti e che ha costretto il commissario straordinario Vasco Errani a procedere con continue ordinanze. Swoboda, e la delegazione del Gruppo dei socialisti e democratici composta da Anna Colombo e Fabrizia Panzetti, hanno guardato con emozione a tanta distruzione e hanno assicurato la vicinanza a queste popolazioni così provate: “Non vi dimenticheremo – ha ribadito Swoboda – ascoltare e vedere quanto successo in televisione, non è certo paragonabile a guardare tutto questo dal vivo. Il nostro Gruppo ha forti legami con questo territorio, questi legami rimarranno sempre forti”. All’incontro erano presenti i sindaci modenesi dell’area del cratere, i candidati Pd al Parlamento, compresa Josefa Idem, capolista Pd in Emilia Romagna per il Senato, il responsabile nazionale Esteri del Pd Lapo Pistelli e l’europarlamentare Salvatore Caronna

da pdmodena.it

UNIVERSITA’: GHIZZONI (PD), ALLARME ATENEI NON SORPRENDE

“L’allarme lanciato dal Consiglio Universitario Nazionale non sorprende perché registrano una crisi che si è venuta a creare a causa delle politiche universitarie di Gelmini-Tremonti-Berlusconi e che denunciamo dall’inizio della legislatura. – lo dichiara la deputata del PD Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, scienza e Istruzione della Camera dei Deputati –
La cronica e sempre più pronunciata carenza dei finanziamenti statali avvenuta negli ultimi anni, sia sul lato del funzionamento degli atenei che su quello della libera ricerca universitaria, la drastica riduzione del personale docente, la perenne insufficienza degli interventi per il diritto allo studio, la chiusura degli spazi di reclutamento – spiega Ghizzoni – non potevano che portare a una situazione di crisi profonda come quella descritta dal Cun. Anche l’ultima legge di stabilità voluta da Monti non ha invertito la tendenza, se non grazie all’approvazione del mio emendamento per l’aumento dei fondi per il diritto allo studio.
La cecità di certa politica nel non rilevare l’importanza di avere un alto livello di formazione proprio in una fase di recessione sta portando al collasso l’intero sistema di formazione e ricerca.
Il Partito democratico, riconoscendo che la formazione superiore e la ricerca sono il motore essenziale per la crescita, è pronto a cambiare passo – conclude la Presidente Ghizzoni – per dare un futuro ai giovani e al nostro Paese.”

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ANSA/ UNIVERSITA’: DA ISCRITTI A FONDI, TUTTO CON SEGNO MENO
CUN LANCIA ALLARME ‘ITALIA RINUNCIA A RICERCA E ALTA FORMAZIONE’
(ANSA) – ROMA, 31 GEN – Iscritti, laureati, dottorati,
docenti, fondi, tutte ‘voci’ con il segno meno: l’universita’
italiana e’ in grande affanno. Lo denuncia il Cun (Consiglio
universitario nazionale) in un documento rivolto all’attuale
Governo e Parlamento, alle forze politiche impegnate nella
competizione elettorale, ”ma soprattutto a tutto il Paese”.
Il documento (Dichiarazione per l’universita’ e la ricerca,
le emergenze del sistema) sottolinea che dal 2009 il Fondo di
finanziamento ordinario (Ffo) è sceso del 5% ogni anno.
ISCRITTI, COME FOSSE ‘SCOMPARSO’ UN ATENEO – In dieci anni
gli immatricolati sono scesi da 338.482 (2003-2004) a 280.144
(2011-2012), con un calo di 58.000 studenti (-17%). Come se in
un decennio – quantifica il Cun – fosse scomparso un ateneo come
la Statale di Milano. Il calo delle immatricolazioni riguarda
tutto il territorio e la gran parte degli atenei. AI 19enni, il
cui numero e’ rimasto stabile negli ultimi 5 anni, la laurea
interessa sempre meno: le iscrizioni sono calate del 4% in tre
anni: dal 51% nel 2007-2008 al 47% nel 2010-2011.
PER NUMERO LAUREATI LONTANI DA EUROPA – Quanto a laureati
l’Italia e’ largamente al di sotto della media Ocse: 34mo posto
su 36 Paesi. Solo il 19% dei 30-34enni ha una laurea, contro una
media europea del 30%. Il 33,6 % degli iscritti, infine, e’
fuori corso mentre il 17,3% non fa esami.
BORSE STUDIO, UNA NOTA DOLENTE – Il numero dei laureati nel
nostro Paese e’ destinato a calare ancora anche perche’, negli
ultimi 3 anni, il fondo nazionale per finanziare le borse di
studio e’ stato ridotto. Nel 2009 i fondi nazionali coprivano
l’84% degli studenti aventi diritto, nel 2011 il 75%.
CURA DIMAGRANTE PER OFFERTA FORMATIVA – In sei anni sono stati
eliminati 1.195 corsi di laurea. Quest’anno sono scomparsi 84
corsi triennali e 28 corsi specialistici/magistrali. Se questa
riduzione e’ stata inizialmente dovuta ad azioni di
razionalizzazione, ora dipende invece in larghissima misura – si
fa notare – alla pesante riduzione del personale docente.
DOTTORATI AL LUMICINO – Rispetto alla media Ue, in Italia
abbiamo 6.000 dottorandi in meno che si iscrivono ai corsi di
dottorato. L’attuazione della riforma del dottorato di ricerca
prevista dalla riforma Gelmini e’ ancora al palo e il 50% dei
laureati segue i corsi di dottorato senza borsa di studio.
EMORRAGIA DI PROFESSORI – In soli sei anni (2006-2012) il
numero dei docenti si e’ ridotto del 22%. Nei prossimi 3 anni si
prevede un ulteriore calo. Contro una media Ocse di 15,5
studenti per docente, in Italia la media e’ di 18,7. Pur
considerando il calo di immatricolazioni, il rapporto
docenti/studenti e’ destinato a divaricarsi ancora per una
continua emorragia di professori che non vengono piu’ assunti.
Il calo e’ anche dovuto alla forte limitazione imposta ai
contratti di insegnamento che ciascun ateneo puo’ stipulare.
SPESE SUPERANO I FONDI – Dal 2001 al 2009 il Fondo di
finanziamento ordinario (Ffo), calcolato in termini reali
aggiustati sull’inflazione, e’ rimasto quasi stabile, per poi
scendere del 5% ogni anno, con un calo complessivo che per il
2013 si annuncia prossimo al 20%. Su queste basi e in assenza di
un qualsiasi piano pluriennale di finanziamento moltissime
universita’, a rischio di dissesto – osserva il Cun- non
possono programmare ne’ didattica ne’ ricerca.
A RISCHIO ANCHE I LABORATORI – A forte rischio obsolescenza
le attrezzature dei laboratori per la decurtazione dei fondi:
anche i finanziamenti Prin, cioe’ i fondi destinati alla ricerca
libera di base per le universita’ e il Cnr, subiscono tagli
costanti: si e’ passati da una media di 50 milioni all’anno ai
13 milioni per il 2012. Infatti dai 100 milioni assegnati nel
2008-2009 a progetti biennali si e’ passati a 170 milioni per il
biennio 2010-2011 ma per progetti triennali, per giungere a meno
di 40 milioni nel 2012, sempre per progetti triennali.

Il giurista globale e gli ideali d'Europa, di Giulio Napolitano

Joseph H.H. Weiler è un cittadino del mondo. E un giurista globale. Nato in Sud Africa e cresciuto in Israele, ha perfezionato la sua formazione in Europa, conseguendo il master a Cambridge e il dottorato a Fiesole. Qui Weiler ha iniziato la sua attività di insegnamento, prima di approdare sull’altro lato dell’Atlantico, dove oggi è titolare della cattedra di diritto internazionale alla New York University. L’amore per l’Europa e per l’Italia, tuttavia, lo hanno spinto a tornare a Fiesole per guidare dal prossimo settembre l’Istituto universitario europeo, in un periodo non facile per il nostro continente.
Gli studi sull’integrazione europea hanno scandito l’intera attività scientifica di Weiler, dall’inizio degli anni Ottanta fino ai giorni nostri, facendo subito emergere l’originalità della sua visione. È possibile ripercorrere l’itinerario intellettuale di Weiler, dividendo i suoi lavori in tre parti: gli studi dedicati alla genesi e alle trasformazioni dell’Europa; quelli rivolti alla ricostruzione teorica dei caratteri propri dell’ordinamento europeo; quelli diretti a individuare gli ideali del processo di integrazione e a denunciarne il rischio di smarrimento.
Negli studi «geologici» sulla complessa stratificazione della costruzione europea, Weiler utilizza come punto di partenza il teorema sulla voce e sull’uscita formulato da Hirschman, legando struttura giuridica e processo politico in una teoria dell’equilibrio istituzionale ancora oggi attuale. Weiler, in particolare, evidenzia l’apparente paradosso alle origini del successo dell’esperienza comunitaria. Da un punto di vista giuridico-normativo, la Comunità si è sviluppata grazie a una dinamica tipicamente sovranazionale. Ma, da un punto di vista politico, decisionale e procedurale, è prevalso un approccio intergovernativo. In questo modo, l’Europa è riuscita a diventare una comunità politica stabile, capace di conseguire un livello d’integrazione simile a quello degli Stati federali classici, senza tuttavia minacciare gli Stati membri, che si sono anzi rafforzati nel loro diritto di «voce».
Weiler, in secondo luogo, è stato tra i primi a evidenziare il carattere peculiare della Comunità, contrastando le interpretazioni restrittive offerte dalla scienza del diritto internazionale. L’Europa è riuscita a creare un suo peculiare modello di federalismo costituzionale, capace di salvaguardare l’identità degli Stati europei e nel contempo di limitarne il potere. La Costituzione non scritta dell’Europa si ispira al principio di tolleranza e prevede che i comandi giuridici siano dettati da un’entità complessa, composta da distinte comunità politiche.
La terza linea di indagine sviluppata da Weiler è quella dedicata agli ideali del processo di integrazione. Il progetto europeo, sin dalle origini, aveva un obiettivo morale: unire i popoli. L’unificazione economica tramite il diritto, in questa prospettiva, doveva costituire soltanto il primo passo. Qualsiasi comando giuridico, tuttavia, per essere rispettato, dovrebbe essere il risultato di un processo deliberativo democratico e osservare i diritti umani fondamentali. La Corte di giustizia si è fatta carico di questa seconda condizione, ma non della prima. Il deficit democratico si è così via via aggravato e il disegno spirituale dell’Europa unita è rimasto incompiuto.
Oggi l’Europa appare vittima del suo successo e del cambiamento del costume sociale. L’ordinamento europeo ha gradualmente trasformato i cittadini in consumatori di ricette economiche vincenti, piuttosto che in attori del processo politico sovranazionale, portatori di diritti di partecipazione e, insieme, di doveri di solidarietà. Per questa ragione, il malanno dell’Europa e la sua crisi «debitoria» non possono essere affrontati soltanto con accorgimenti istituzionali. La positiva evoluzione dell’ordinamento europeo sarà possibile soltanto con un cambiamento profondo della sua cultura politica e morale e la ripresa di un forte progetto ideale.

Da Il Corriere Della Sera

Primarie cultura, più fondi dal governo che verrà di Edoardo Sassi

Oltre centomila persone hanno risposto all’appello denominato «Primarie della Cultura», lanciato meno di un mese fa online (era il 7 gennaio) dal Fai, Fondo Ambiente Italiano, fondazione privata senza scopo di lucro che dal 1975 si occupa di salvaguardare, tutelare, restaurare, promuovere i beni archeologici, storici, artistici e paesaggistici in Italia, nello spirito dell’articolo 9 della Costituzione.
Centomila persone in poco più di venti giorni, che tramite Internet hanno voluto dir la loro su una possibile, futura agenda del governo che verrà, in tema di difesa dei beni culturali. L’idea del Fai è stata infatti quella di sottoporre ai candidati politici delle prossime elezioni alcune priorità emerse su quindici tematiche proposte dal sondaggio, indirizzato a chiunque tra i votanti avesse a cuore la cultura. La consultazione popolare ha in sostanza ribadito quelle che sono, da tempo ormai, le priorità dello stesso Fai, istituzione fondata ormai quasi quarant’anni fa da Giulia Maria Crespi, oggi presidente onoraria della Fondazione di cui è vicepresidente Marco Magnifico (l’ultima presidente, Ilaria Borletti Buitoni, si è invece dimessa dopo la sua candidatura alle prossime elezioni politiche).
E i risultati, presentati ieri mattina a Roma nell’Auditorium del museo Macro, hanno stabilito che al primo posto tra le emergenze indicate dal pubblico del Fai c’è quella concernente i fondi pubblici da destinare alla cultura. Per il 17,5 per cento del campione (composto in maggioranza da donne, 61,5 per cento, e under 50, oltre la metà) l’Italia del futuro governo dovrebbe infatti riservare al mantenimento del suo patrimonio una quota minima dell’uno per cento dei soldi pubblici, a fronte degli stanziamenti odierni che si aggirano intorno a uno 0,19% (contro l’uno per cento circa della Francia e l’uno virgola venti dell’Inghilterra). Seguono, tra le priorità emerse, protezione del suolo, sicurezza del territorio, promozione dell’agricoltura e diritto allo studio.
E a poche ore dal disastro nel parco archeologico dell’antica Sibari, in Calabria, sommersa da acqua e fango, il tema del finanziamento pubblico in un settore, la cultura, segnato in questi anni da tagli sempre crescenti anche per quanto concerne la tutela, è stato al centro anche del dibattito che ha seguito la presentazione dei dati; un incontro moderato da Philippe Daverio al quale hanno partecipato, oltre a Magnifico, il sociologo Domenico De Masi e alcuni candidati delle diverse liste alle prossime elezioni.

Da Il Corriere della Sera

Le politiche di Berlusconi e Lega, disastro per Nord e Sud, di Pierluigi Bersani

“Quando Nord e Sud si avvicinano, anche l’Italia si avvicina alle medie europee. Invece nei dieci anni dei governi di Berlusconi e della Lega è passata l’idea che il Nord avrebbe corso solo umiliando il Sud, e il risultato è stato il disastro sia al Nord che al Sud”. E’ quanto affermato da Pier Luigi Bersani a Napoli, dove oggi ha fatto tappa il suo viaggio elettorale nelle regioni italiane.
“La Lega – ha aggiunto Bersani – ha seminato un pregiudizio che ha dato il segno al populismo in tutta Europa. E adesso si son messi in testa che in Italia suoniamo il mandolino a Napoli e a Varese, anche se siamo un Paese contributore netto”.
Per il candidato premier “dobbiam dire all’Italia e all’Europa che siamo un solo Paese e un solo Continente, per questo vogliamo gli Stati Uniti d’Europa”.
Ma, ha aggiunto il segretario del Pd, con un chiaro riferimento alle notizie sui problemi che si sono scatenati a Napoli, “serve anche il contatto con gli Enti locali e coerenza tra le dimensioni di governo. Capiamo che ci sono le elezioni e tante distrazioni, ma chi amministra deve guardare da vicino ai problemi”.
Sul versante del confronto nazionale, rivolgendosi a Berlusconi Bersani ha ironizzato: “Nelle stesse ore in cui io incontravo i disabili a Padova lui trattava con Balotelli? Bene, allora io tratto per Messi al Bettola”.
Noi, ha sottolineato il candidato premier, “abbiamo mantenuto ciò che avevamo detto: abbiamo scelto il leader con le primarie, il 75% degli eleggibili delle nostre liste è stato scelto con le primarie per i parlamentari, eleggeremo il 40% di donne e rinnoveremo dei due terzi la nostra rappresentanza alla Camera, una cosa mai vista in nessun altro grande partito”. “Anche con qualche sofferenza – ha ammesso Bersani – ma senza strappi nella giacca non c’è vero cambiamento”.
Le parole d’ordine del Pd per la prossima legislatura, rilanciate a Napoli, sono “moralità” e “lavoro”. “L’onestà è una bellissima parola – ha detto il candidato premier – E’ una virtù privata ma anche un bene pubblico”.
“Reintrodurremo il primo giorno il falso in bilancio, affronteremo il conflitto di interessi e le leggi ad personam – ha assicurato Bersani – ma dovremo metterci accanto anche il tema positivo dei diritti” perché “per noi la sanità, la sicurezza, l’istruzione vogliono risposte universalistiche” e per questo “vanno rese sostenibili”.

Da www.partitodemocratico.it

Tra Milano e Palermo uno scontro antico nato (anche) dalle inchieste su Berlusconi, di Giovanni Bianconi

Volano gli stracci, nel campo del cosiddetto «antiberlusconismo giudiziario» (se mai fosse lecito utilizzare questa espressione impropria, brandita con troppa disinvoltura da una parte del mondo politico). Ilda Boccassini, inquirente del Cavaliere a Milano, contro Antonio Ingroia, inquirente del Cavaliere a Palermo. Il quale ha riposto la toga nell’armadio e s’è candidato alle elezioni contro Berlusconi. Ilda Boccassini, invece, continua a occuparsi dei suoi processi e procedimenti, con l’impegno di sempre. Quello a carico dell’ex presidente del Consiglio e i tanti altri che ha sulla scrivania. Compresa l’inchiesta ereditata proprio dall’ufficio di Ingroia su Marcello Dell’Utri accusato di estorsione, con Berlusconi parte lesa.
Dopo una breve parentesi trascorsa al loro fianco a metà degli anni Novanta, il procuratore aggiunto di Milano non ha mai avuto opinioni esaltanti sui metodi d’indagine dei colleghi palermitani. Lo stesso si può immaginare della scelta del collega Ingroia di entrare in politica, ma è sempre rimasta in silenzio. Finché lui non ha citato per l’ennesima volta Giovanni Falcone, paragonando la propria situazione a quella del magistrato assassinato vent’anni fa. Allora è sbottata: si vergogni. Con pronta replica dell’interessato: si vergogni lei.
Scenario spiacevole, e un po’ imbarazzante. Il primo paradosso è che a destra gongolano per le parole di Ilda Boccassini contro il leader di Rivoluzione civile, sorvolando sul fango e le contumelie riversate sul pubblico ministero milanese. E poi un altro: contro Ingroia che ha adombrato pensieri non lusinghieri di Paolo Borsellino sul conto della ex collega, s’è schierato il fratello del magistrato assassinato dalla mafia, Salvatore; chiedendo di non usare quel nome nella campagna elettorale, lui che forte dello stesso cognome ha imbastito fortissime polemiche, anche a sfondo politico.
Qualche crepa, inoltre, si può scorgere all’orgine della diatriba. E cioè nelle frase con la quale Ingroia ha messo le critiche rivoltegli da altri magistrati dopo il suo ingresso in politica sullo stesso piano di quelle incassate da Falcone nel 1991, quando andò a lavorare al ministero di Grazia e Giustizia con il Guardasigilli socialista Claudio Martelli, nel governo presieduto da Giulio Andreotti. E’ vero che non s’è paragonato a Falcone, ma ha paragonato le due situazioni. Che però non sono facilmente paragonabili. Intanto perché il giudice che istruì il maxiprocesso a Cosa nostra non si mise mai alla guida di un partito (o movimento), né si candidò a Palazzo Chigi; accettò di lavorare in un ufficio che la legge prevede sia assegnato a un magistrato. Né, mentre svolgeva indagini, partecipava a convegni di folle osannanti che scandivano il suo nome come quello di un divo. Dopodiché è vero chescandivano il suo nome come quello di un divo. Dopodiché è vero che fu criticato (anche) dai colleghi, ma è vero pure che non fu mai amato dalla categoria. A prescindere da quell’impiego temporaneo. Basti pensare che quando si presentò alle elezioni per il Consiglio superiore della magistratura — nel 1990, dopo che già erano scoppiato il caso della sua mancata promozione e dopo l’attentato all’Addaura, ma prima di trasferirsi al ministero —, su 6.500 magistrati andati alle urne solo 113 votarono per lui. Cioè l’1,7 per cento.
Dunque l’avversione delle toghe italiane verso Falcone non era collegata al suo «avvicinamento alla politica», come l’ha chiamato Ingroia. Che peraltro avvenne su un piano tecnico, un posto ministeriale riservato ai magistrati. Ci fu chi criticò qualche sua opinione o iniziativa ministeriale anche tra chi certo non gli era ostile, cosa del tutto naturale e legittima. Perfino Paolo Borsellino firmò un appello contro la Superprocura ideata da Falcone, ma poi era convinto che a dirigerla dovesse andare lui. A differenza della maggioranza del Csm che votò per un altro candidato, «togati» scelti dai magistrati e «laici» designati dai partiti che mettevano in dubbio la sua indipendenza dal potere. E come ha ricordato Emanuele Macaluso, tra le voci che con maggiore veemenza si levarono contro di il giudice antimafia peri i suoi ultimi atti giudiziari (in particolare l’inchiesta sui «delitti politici» di Cosa nostra) c’era quella del sindaco di PalermoLeoluca Orlando. Il quale in passato era stato amico di Falcone, fino al punto di celebrarne le nozze, e ora è al fianco di Ingroia e della sua «Rivoluzione civile». Esempio eclatante di come possono mutare le opinioni e i rapporti personali nel corso degli anni.
In questo guazzabuglio di storie e intrecci è difficile trarre posizioni nette e giudizi trancianti come quelli che stanno animando questa zuffa preelettorale. Ed è quantomeno ardimentoso citare protagonisti che non ci sono più, per confortare propri pareri su persone o fatti accaduti dopo la loro morte. Certamente Antonio Ingroia era amico e in ottimi rapporti con Paolo Borsellino, ma nessuno può sapere oggi che cosa avrebbe pensato o detto Borsellino del candidato Ingroia. E nemmeno delle sue indagini più recenti. Così come Ilda Boccassini era amica e in ottimi rapporti con Giovanni Falcone; del quale, purtroppo, non sappiamo che cosa avrebbe pensato o detto delle inchieste palermitane, e del comportamento di certi magistrati. Anche se molti, prendendo ogni volta la frase o il ricordo più conveniente, continuano a tirarlo dalla loro parte.

Da Il Corriere della Sera

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Giù le mani da Falcone, di Attilio Bolzoni

I morti bisognerebbe lasciarli in pace. Soprattutto in campagna elettorale. Soprattutto se portano i nomi di Falcone e di Borsellino. Trascinarli nell’arena non onora – mai – la memoria di quegli uomini. E danneggia fortemente coloro che li utilizzano come arma. L’incendio che sta divampando in queste ore sull’eredità contesa dei due magistrati uccisi ventuno anni fa giù in Sicilia, è un incendio che
non si spegnerà presto.
Ma è anche la prova di come certe ferite non si siano mai rimarginate e di come le divisioni siano sempre più profonde anche dopo tanto tempo. E non solo nella magistratura in tutte le sue varie anime. In particolare, in quella magistratura dell’Antimafia rappresentata da autorevoli esponenticomel’expmdiPalermoAntonioIngroia,l’exprocuratorenazionalePiero Grasso, il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini. Un’Antimafia così clamorosamente spaccata non si era mai vista prima. La miccia è stata accesa da Ingroia che, per rispondere alle frecciate sulla sua candidatura ricevute da magistrati e organismi giudiziari, ha accostato il suo isolamento a quello di Falcone («Le critiche delle altre toghe nei miei confronti? Successe anche a lui»), poi sono arrivate le parole della Boccassini – magistrato nota per la sua riservatezza, mai un’apparizione pubblica, interviste che si contano sulle dita di una mano («Tra Falcone e Ingroia esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce, si vergogni») – infine Grasso, che ha escluso ogni lontano paragone fra i due, il candidato di Rivoluzione civile e il giudice che ha cambiato la storia di Palermo e quella della magistratura italiana.
Ha sbagliato Antonio Ingroia – seppur sotto il tiro incrociato da parte dei suoi colleghi di ogni corrente sin dall’inizio di questa campagna elettorale – a spingersi sul filo dei ricordi e tirare in ballo a qualunque titolo Giovanni Falcone, ha sbagliato soprattutto nel passaggio in cui alludeva all’incarico di direttore degli Affari Penali del ministero di Grazia e Giustizia occupato quando Claudio Martelli era Guardasigilli. Falcone non è mai entrato in politica e non ha mai «collaborato» con la politica: è andato a Roma per riformare la legislazione antimafia, ha semplicemente continuato – su un altro piano – lo straordinario lavoro che aveva cominciato a Palermo con il maxi processo. È stata dura la reazione di Ilda Boccassini e dura ancora di più la replica di Ingroia, con quel riferimento a Borsellino. La ruggine fra i due è antica, i metodi d’investigazione completamente diversi, due “scuole” distanti. Nemmeno il comune grande nemico delle loro procure – Silvio Berlusconi – è riuscito a farli avvicinare negli ultimi dieci anni. La polemica è poi divampata con i rimproveri giunti a Ingroia anche da Maria Falcone e Salvatore Borsellino.
Peccato. In queste elezioni ci sono due magistrati di peso che si candidano al Parlamento, sarebbe uno spreco se l’Antimafia trasferisse – come sta accadendo – nei palazzi della politica tutti i contrasti e tutti i veleni accumulati negli anni precedenti dentrogliufficigiudiziari. L’Antimafiahal’occasionedipresentarsicompattacon proposteperunanuovalegislazione–suipatrimoniilleciti,sull’autoriciclaggio,sullo scioglimento dei comuni, sulla protezione e il reiserimento dei testimoni di giustizia, sugli appalti, sulle contiguità con il potere politico e sulla corruzione – e si dilania invece ancora prima di cominciare l’avventura parlamentare.
Ecco perché chi si candida, chi addirittura fonda un partito, farebbe bene a misurare le parole su questi temi così delicati. E convincersi, superando steccati e rivalità, che l’Antimafia è di tutti.
Scriveva il nostro amico Giuseppe D’Avanzo – naturalmente nessun riferimento ai personaggi citati in questo articolo – nella prefazione di una raccolta di interventi epensieridiFalconeripubblicatadallaRizzolitreannifa:“C’èqualcosadiumiliante in questa ‘sottrazione del cadavere’. È avvilente che la storia di un uomo che abitualmente si ritiene un eroe nazionale, invece di unire, di rappresentare la communitas, quindi quello che noi abbiamo in comune – e dunque un dovere, un debito, la promessa di un reciproco dono (munus) che nessuno può tenere per sé – diventi anche al prezzo di sfigurarne il pensiero un’arma contundente per colpire e annientare l’avversario del momento’. È giusto ricordare queste parole anche perché, dopo più di vent’anni, mentre tutti continuano a citare a proposito o a sproposito Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, non conosciamo ancora la verità sulle loro morti.

Da La Repubblica

Nell’asilo senza confini tra l’Italia e la Slovenia, di Jenner Meletti

Avrà un recinto robusto, l’asilo nido, così i piccoli potranno giocare in giardino, salire sullo scivolo, senza paura delle auto che passano. Ma sarà un asilo senza confini. «Poslus slavic, kuo puoje/poslus, kuo ljubo klice», canteranno i bambini sloveni. «Ascolta come l’usignolo canta / ascolta come chiama l’amata», risponderanno i piccoli italiani.
Senza bisogno di traduzioni, perché nel primo asilo senza confini Paul, Zuan, Josef scambieranno i giocattoli e anche le parole con Luigi, Antonio, Pietro. «In questa terra — dice Piergiorgio Domenis, 57 anni, sindaco di Pulfero — il confine era davvero una cortina di ferro. Qui finiva un mondo e al di là della sbarra ne cominciava un altro. Siamo stati separati e “nemici” per decenni. Adesso, nel nuovo asilo nido, cresceranno assieme i bambini di Pulfero e quelli di Caporetto, oggi Kobarit, in Slovenia. I loro genitori passano da qui, per andare a lavorare a Cividale. In questa terra spaccata, costruiamo il nuovo sulle ceneri della frontiera».
L’edificio esiste già e sono arrivati 40.000 euro della Regione Friuli per trasformare l’ex scuola elementare in asilo nido. I confini non hanno mai portato ricchezza. A Pulfero e nelle sue frazioni,
nel 1945, c’erano 11 scuole elementari con 569 alunni. Dal 2010 anche l’ultima scuola elementare è stata chiusa e i bambini prendono lo scuolabus per San Pietro. «Per l’asilo contiamo di avere dieci bimbi, e altri dieci arriveranno da Kobarit. Apriremo a settembre, con il nuovo anno scolastico».
Non nasce a caso, l’idea dell’asilo senza confini. «Il 21 dicembre del 2007, con l’accordo di Schengen — racconta il primo cittadino — io e l’allora sindaco di Kobarit abbiamo segato assieme la sbarra del confine. Ci fu una festa incredibile. Tante sono le iniziative per vivere meglio in una terra che soltanto l’uomo, e non la natura, ha saputo dividere. Il nostro bellissimo fiume, il Natisone, nasce in Italia, passa per la Slovenia e poi torna in Italia.
Come il fiume, vogliamo vivere senza barriere. Ogni anno facciamo una marcia della pace, che parte da Kobarit e arriva a Stupizza, la nostra frazione più vicina all’ex confine. Ma queste iniziative non bastano. Vogliamo vivere come fossimo una grande comunità, e l’asilo sarà
un buon inizio».
È abbandonata da anni, la caserma di confine. I ladri hanno già rubato il rame e tutto ciò che poteva essere venduto. «Venivo qui da bambino — racconta Piergiorgio Domenis — a guardare quella che sembrava la fine del nostro mondo. Carabinieri e
Finanza dalla nostra parte e, oltre la sbarra, i “graniciari”, i militari della Jugoslavia che arrivavano dal sud, Montenegro e Serbia, così non familiarizzavano con noi, che parlavamo sloveno come chi era oltre la sbarra». Gli adulti, allora, avevano il «prpustnjca », il lasciapassare che permetteva
quattro ingressi al mese in Jugoslavia. «Andavano a comprare benzina, carne, zucchero, sigarette e anche il pane. Chi faceva il viaggio inverso, veniva a vendere alimentari e comprava vestiti, soprattutto jeans».
A cento metri dall’ex caserma italiana, quella slovena è già stata
trasformata in un Mercator, con mesnica — macelleria e market — alimentari. Un cartello annuncia «a 5 km Aurora, casinò & cabaret». La valle si restringe e poi si allarga in campagne con vacche al pascolo. Caporetto è stato un incubo per gli italiani. Alle 2 della notte del 24 ottobre 1917 iniziò qui «la più grande disfatta dell’esercito italiano ». C’è un bel museo, sulla Grande Guerra, che fa venire una grande voglia di pace. Soldati — italiani e austro ungarici — che scavano trincee e anche grotte per conservare le patate e non morire di fame. Cannoni e tagliole, bombe e gas, tutto ciò che è stato inventato per uccidere.
«Queste croci — racconta Darko, guida del museo — sono state trovate nel cimitero di Socia. Lì c’era uno degli 80 cimiteri austriaci della valle dell’Isonzo. Cimiteri abbandonati durante il dominio jugoslavo, con le croci buttate nel fiume Isonzo». «Nelle fotografie del museo — dice il sindaco Piergiorgio Domenis — ho visto i volti di gente del mio paese. Voglio portare almeno una parte nel museo anche a Pulfero, almeno per qualche mese. C’è anche una sezione su “le retrovie del IV Corpo d’armata dell’esercito italiano”. Ora sembra normale, fare questi scambi. Ma quando andavo a scuola, non potevo nemmeno parlare sloveno, il maestro ci sgridava se mi scappava qualche parola nel tema ».
Prima i «nemici» che avevano cacciato l’esercito italiano fino alla linea del Piave, poi i «titini», quelli delle foibe, che avevano chiuso queste terre oltre cortina. Il confine di Stupizza ha davvero tagliato il mondo in due parti. «La nostra valle — dice il sindaco — era tutta una servitù militare. Solo nel capoluogo Pulfero avevamo due caserme della Finanza e due dei Carabinieri. Non c’era terra per avviare una fabbrica».
Delle caserme sono rimasti gli scheletri, le sbarre sono state segate. «Sono convinta — dice Darja Haumtman, sindaco di Kobarid — che l’asilo senza confini ci apra una strada importante, per la cooperazione e una buona qualità della vita in questa che era terra divisa». C’è anche un’altra idea, per continuare su questa strada: una casa di riposo a Kobarit, aperta anche agli anziani di Pulfero. Precedenza comunque ai bambini. I giochi in giardino sono già pronti.

Da La Repubblica