Stupisce un po’ sentire Monti parlare della necessità di riformare il mercato del lavoro come se la riforma varata pochi mesi fa dal ministro Fornero, appartenesse a una remota stagione politica. L’annuncio del premier non fa fare salti di gioia nemmeno a chi, come me, su molti dei contenuti di quest’ultima riforma ha da sempre avanzato critiche. Bisognerà conoscere le proposte nel dettaglio, ma le prime anticipazioni di Ichino non lasciano sperare granché, anche se sono state immediatamente messe in dubbio da altri compagni di partito come Giuliano Cazzola e Alberto Bombassei. Sorge allora spontanea una domanda: si tratta di una proposta personale formulata dall’esuberante giuslavorista, o si tratta della posizione del partito di Monti?
In attesa di una risposta a questo interrogativo, visto che la proposta è scomparsa repentinamente così come all’improvviso era apparsa (Monti ha prudentemente parlato di un cantiere ancora aperto), vorremmo comunque esprimere alcune considerazioni di merito. La prima è questa: a noi sembra che l’intenzione di Ichino sia ancora quella di creare dei “contratti ad orologeria” grazie ai quali le aziende potranno avere maggiore facilità di licenziare.
Ichino ripropone, riverniciata per l’occasione, la vecchia ricetta del contratto unico, a suo tempo bocciata da Confindustria e sindacati perché ritenuta impraticabile. La proposta era stata respinta anche dal Partito democratico, che si era espresso negativamente ritenendola portatrice di un forte elemento di contraddizione. Mentre infatti, da un lato, si afferma di voler trasformare tutte le forme di assunzione in un contratto unico a tempo indeterminato, dall’altro lato si rende possibile, in qualsiasi occasione e con qualsiasi motivazione – tranne i motivi discriminatori – il ricorso al licenziamento individuale, prevedendo semplicemente un maggiore risarcimento al lavoratore da parte delle aziende. Di qui la domanda: come si può parlare di contratto a tempo indeterminato quando il lavoratore, in qualsiasi momento, può essere licenziato anche con la semplice clausola del motivo economico? L’unica novità rispetto a quella proposta sembra essere l’introduzione di una qualche forma di sperimentazione (da affidare alle parti sociali?). Con il rischio però di regionalizzare il mercato del lavoro, anche se lo stesso Ichino respinge la possibilità di ripristinare le vecchie gabbie salariali: excusatio non petita accusatio manifesta.
Se abbiamo compreso bene, la proposta targata Monti -Ichino punterebbe a introdurre un nuovo regime che varrebbe per i nuovi assunti, cioè soprattutto per i giovani. Se così fosse, non solo si riproporrebbe il dualismo nel mercato del lavoro, ma addirittura lo si consoliderebbe sancendo per legge due diversi regimi di tutela. La riforma Fornero sul mercato del lavoro, certo, va profondamente corretta. Ma la strada non è quella indicata da Ichino né, tantomeno, quella auspicata da Brunetta.
L’ex ministro della Funzione pubblica del governo Berlusconi sostiene che si dovrebbe tornare alla legge Biagi. Sarebbe come cadere dalla padella nella brace. Le proposte di Biagi, che avevano l’obiettivo di aumentare l’occupazione giovanile, si sono trasformate, per colpa della distorta traduzione legislativa fatta dal centrodestra, in un aumento esagerato della precarietà e in un abbassamento della qualità della prestazione. Senza favorire – come dimostrano in modo drammatico i dati sulla disoccupazione – l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro.
La via da seguire, dunque, è un’altra. Tutti i lavoratori, anche i neo assunti, devono poter godere delle stesse regole, compresa la tutela dell’articolo 18, che, secondo l’ultima riformulazione, prevede, accanto al risarcimento nel caso di licenziamento per motivo economico, anche la possibilità per il giudice di reintegrare il lavoratore. Quanto al resto, quello che serve è avere una buona flessibilità in entrata, eliminando – come aveva a suo tempo fatto il governo Prodi – tutte le forme di lavoro precario non strettamente funzionali a particolari ed eccezionali necessità produttive.
La nostra proposta è che le nuove assunzioni avvengano attraverso l’adozione del contratto di apprendistato come modalità prevalente. Dall’apprendistato si deve poi passare, dopo un congruo periodo di prova, alla stabilizzazione attraverso incentivi mirati all’impresa come il credito d’imposta o la diminuzione strutturale del costo del lavoro. La regola secondo la quale un contratto di lavoro a tempo indeterminato deve costare meno di un lavoro flessibile o precario è più che mai attuale.
Va poi rivista la parte relativa agli ammortizzatori sociali. È un tema cruciale. I nuovi ammortizzatori introdotti dalla riforma Fornero non considerano che la crisi occupazionale si protrarrà per tutto il 2013 e addirittura, secondo le previsioni di Bankitalia, continuerà ulteriormente nel 2014. Vanno perciò potenziati, cercando nuove risorse, e rimodulati in sintonia con il protrarsi della crisi. È un passo indispensabile se si vuole evitare che le difficoltà economiche che stiamo attraversando sfocino in una crisi sociale dagli esiti imprevedibili. Credo che su questi temi si debba lavorare, insieme con le parti sociali, per arrivare a un nuovo avviso comune. I problemi creati dalle riforme di Berlusconi e di Monti vanno risolti. A favore dei lavoratori e delle imprese.
Da Europaquotidiano.it
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Comizi addio? Spostarono voti ma solo fino al 48, di Paolo Conti
Per capire cosa fosse un comizio nell’immediato dopoguerra (magari può venir utile anche a Mario Monti che ha ammesso ieri a La7 di non «saper bene cosa sia un comizio») e quale complessa macchina organizzativa si avviasse per realizzarlo, basta analizzare il filmato «Togliatti è ritornato» così come appare, in forma integrale, su www.cinemadipropaganda.it, in cui sono congiuntamente confluiti i materiali storici della Dc e del Pci.
È il 26 settembre 1948, al Foro Italico di Roma i comunisti festeggiano il ritorno del loro segretario alla vita politica dopo l’attentato del 14 luglio. L’evento è raccontato puntigliosamente: l’arrivo a Roma di camion e autobus, i treni strapieni, il lavoro degli artigiani e del servizio d’ordine, i cortei per Roma, l’organizzazione dei banchi alimentari, le bandiere, i bambini in fila con i palloncini, gli striscioni ideologici. Un rito complesso. Lungo. Preparato nel dettaglio.
Tutto questo è oggi scomparso, probabilmente per sempre, perché «ormai l’unica piazza della politica è quella televisiva, come dimostrano le continue variazioni dei sondaggi subito dopo le apparizioni dei leader», come spiega Pier Luigi Ballini, docente di Storia contemporanea alla facoltà di Scienze politiche dell’Università di Firenze e curatore, con Maurizio Ridolfi, di una «Storia delle campagne elettorali in Italia», Bruno Mondadori. Oggi la tv ha soppiantato la vera piazza, aggiunge Ballini: «Nell’immediato dopoguerra la sola agorà era quella vera, in cui si ritrovavano le ragioni di una scelta politica ma si dava anche vita a un grande seminario collettivo. Chi ascoltava poi riferiva nei paesi, nelle campagne, sui luoghi di lavoro, nei bar, nelle Case del popolo e nei circoli cattolici. Si aprivano confronti. I comizi servivano soprattutto a questo». L’opposto della tv che narra tutto a tutti nello stesso momento. Storicizzando, chi sono stati i migliori comizianti? «Certamente Togliatti, Nenni, De Gasperi. Aggiungerei, dopo, Moro e Fanfani, infine Berlinguer e Zaccagnini».
I numeri, nell’immediato dopoguerra, sintetizzano fenomeni di massa: centinaia di migliaia di persone a piazza San Giovanni a Roma (valutazioni incerte, visti i tempi). E decine di migliaia in piazza Duomo a Milano, piazza della Signoria a Firenze, piazza Maggiore a Bologna, piazza del Duomo a Trento se si trattava di Alcide De Gasperi, piazza del Plebiscito a Napoli. Racconta Edoardo Novelli, docente di Comunicazione politica all’Università di Roma Tre, e autore, tra gli altri volumi, di «Le elezioni del Quarantotto. Storia, strategie e immagini della prima campagna elettorale repubblicana», edito da Donzelli: «Tra il 1946 e il 1948 i grandi comizi spostano effettivamente voti perché gli italiani ascoltano per la prima volta proposte politiche dopo vent’anni di dittatura. Sono anche gli anni delle migliaia di comizi nelle piazze minori, dei discorsi trasmessi in diretta nelle altre città con i cavi telefonici. È la stagione in cui i comizi sono spettacoli con fuochi d’artificio finali e balli popolari. I partiti distribuiscono persino opuscoli in cui si spiega come disturbare i discorsi dei leader avversari, a Bologna entravano in azione i “frati volanti” del cardinal Lercaro che interrompevano i discorsi dei leader del Pci».
Conclusa la fase di emergenza, qualcosa (anzi: molto) cambia nella grammatica dei comizi italiani, come dimostra ancora Edoardo Novelli: «A partire dal 1953 il comportamento elettorale si stabilizza. Quindi il comizio non serve più a conquistare voti ma diventa luogo di rafforzamento identitario, di galvanizzazione della base. Comunque, anche nei primissimi anni Sessanta, quando Tribuna politica era già una realtà televisiva, i comizi conclusivi si contavano a migliaia». In quel periodo occorre adeguato allenamento in retorica da piazza. Afferma Novelli: «Si tratta di capacità evocativa, immaginazione, sapienza nell’alzare e abbassare i toni, buttare lì ogni tanto una risata». Negli anni Ottanta il comizio si contamina con la tv. Arrivano megaschermi, scenografie, presentatori: eppure è proprio nel giugno 1984 che Enrico Berlinguer muore poco dopo un comizio (il suo, tradizionalissimo) a Padova.
Per Novelli la metafora della fine del comizio all’italiana è ciò che avviene da anni il 1° maggio a San Giovanni: «Lì dove parlavano di lavoro i tre leader sindacali Cgil-Cisl-Uil oggi c’è solo musica interrotta ogni tanto da un discorso di pochi minuti. Iniziativa indubbiamente intelligente che crea simpatia e vicinanza. Ma nulla a che vedere col comizio». A pensarci bene, il più famoso comizio-non comizio degli anni Duemila è quello «del predellino», del 18 novembre 2007, quando Berlusconi annunciò dalla sua auto la nascita del Pdl. Tutto in piazza, certo: ma in funzione del popolo delle tv.
Perché Istruzione e Lavoro saranno decisivi Contro la crisi, di Antonio Cocozza
Negli ultimi giorni tre dati hanno messo in evidenza la necessità di pianificare un intervento strategico decisivo sulle tematiche dell’istruzione, dell’alternanza scuola-università-lavoro e dell’apprendimento permanente, ispirato al nuovo paradigma della lifewide learning, già sperimentato positivamente in diversi Paesi europei. Tali dati sono: la previsione dell’Organizzazione internazionale del lavoro sull’andamento negativo della disoccupazione a livello mondiale, ipotizzata a quota 200 milioni nel 2013, un trend preoccupante riconducibile all’ espansione del modello dello jobless growth (crescita senza occupazione) anche nei Paesi Brics; la ricerca Istat sulla partecipazione alle attività di formazione permanente dei lavoratori italiani, pari al 6,2% della popolazione di riferimento. Un risultato che inchioda l’Italia al 17° posto nella graduatoria dei 27 Paesi dell’Unione europea, lontano dal traguardo del programma Education and Training 2020; la ratifica da parte del Consiglio dei Ministri dell’Accordo raggiunto nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni sul complesso iter di attuazione della delega dellarRiforma del mercato del lavoro in materia di apprendimento permanente, che istituisce il sistema nazionale di certificazione delle competenze, i Centri/Reti territoriali per l’apprendimento permanente, il sistema nazionale di orientamento. Questo scenario rappresenta al contempo una sfida e un’opportunità non indifferente per il rilancio della concertazione di politiche attive del lavoro e della formazione, che dovrebbe essere basata su una chiara visione strategica del governo e da più serie ed efficaci politiche formative regionali e territoriali, sull’apporto significativo delle parti sociali, ma soprattutto sul contributo innovativo e originale del sistema d’istruzione e di quello della formazione professionale e dei fondi interprofessionali per la formazione permanente. In tale scenario, fortemente differenziato a livello nazionale, questa prospettiva diventa un obiettivo irrinunciabile, poiché le dinamiche del mercato del lavoro sono una vera emergenza sociale rappresentata da cinque dati allarmanti: tasso di disoccupazione generale ormai alla soglia critica dei 3 milioni (2.870.000 persone); elevato tasso di disoccupazione giovanile al 37.1%; indice di inattività al 38%, ancora peggiore il dato del Sud; dispersione scolastica al 19.7%, mentre la Strategia Europa 2020 vorrebbe ricondurlo al 10%; 2,2 milioni di giovani Neet, che non studiano e non lavorano. Di fronte a questa situazione di malessere potenzialmente esplosiva, è necessario che il futuro governo, ministri dell’istruzione e del lavoro, così come gli assessori regionali intraprendano un percorso che permetta di sperimentare politiche integrate attivanti, che puntino a coinvolgere responsabilmente gli attori del sistema economico e sociale, le istituzioni educative e formative e gli stessi giovani e le famiglie, al fine di perseguire i seguenti obiettivi: riposizionamento della politica industriale, poiché per competere sul mercato globale il nostro Paese dovrebbe orientarsi verso un segmento medio-alto e basare l’attività produttiva su ricerca, innovazione e qualità del prodotto, esaltazione del made in Italy; maggiore dialogo tra scuole e università, mediante la valorizzazione dell’autonomia responsabile, finalizzata a un’offerta formativa più mirata; rielaborazione dell’attività dei fondi interprofessionali per la formazione continua, indirizzata a rielaborare obiettivi, metodologie, sistemi di valutazione dei processi d’insegnamento/apprendimento e dei risultati conseguiti; una politica di orientamento allo studio e al lavoro che permetta un coinvolgimento consapevole e responsabile degli studenti e delle famiglie; obbligo di praticare stage e tirocini lavorativi nell’ambito di tutti i percorsi scolastici e universitari e ruolo più attivo delle università nell’attività di matching tra domanda e offerta di lavoro; sviluppo delle potenzialità del nuovo apprendistato, rendendolo più dialogante con la domanda delle imprese; maggiore diffusione delle esperienze di trasferimento tecnologico tra università e imprese, sostegno a progetti di start up.
In definitiva, nel nuovo panorama istituzionale post elezioni, sarà assolutamente necessario delineare un disegno organico a sostegno di una nuova politica industriale e in linea con una politica attiva del lavoro e un progetto educativo e formativo innovativo.
Da Italia Oggi
Nuove classi nelle sabbie mobili, di Alessandra Ricciardi
I vertici ministeriali hanno concesso di procedere con gruppi tecnici ad hoc su aree disciplinari omogenee, dovrebbero essere 4 o 5, per superare le criticità. Ma intanto i sindacati non nascondo come la riforma proposta sia molto politica, e dunque meglio aspettare un ministro con pieni poteri. Il provvedimento consentirebbe di ridurre le classi di concorso, ovvero gli ambiti delle discipline che insegnano i singoli prof, per i quali dunque sono formati, reclutati, assegnati alle cattedre, trasferiti e sostituiti, da 122 a 56, di cui 6 sono di nuova istituzioni (danza classica, moderna, logistica, calzature, sostegno per secondaria di primo e secondo grado). I docenti tecnico-pratici erano 55 diventano 26, di cui una classe di nuova istituzione. Obiettivo dell’accorpamento proposto dal ministero attraverso decreto (proprio per riuscire a fare prima, evitando il parere delle commissioni parlamentari) è di evitare l’eccessiva parcellizzazione degli organici, dare maggiore flessibilità ai docenti, rivedere la formazione universitaria. Ma nelle pieghe del decreto, e soprattutto delle tabelle di confluenze delle vecchie classi nelle nuove maxi classi di concorso, i sindacati hanno riscontrato più di una mancanza o di un errore. E soprattutto il venire meno di tutele per gli abilitati delle vecchie classi di concorso. Per esempio, per la nuova classe A13, che raggruppa per la secondaria le materie letterarie, si richiede in futuro anche la conoscenza del latino. Materia ad oggi non prevista per i docenti che insegnano materie letterarie ai tecnici. E che dunque dovrebbero far riferimento a una classe di concorso per la quale però non hanno i titoli per concorrere. «Tutta questa fretta non è giustificabile, meglio procedere con calma perché si incide sulla vita delle persone», scandisce la Cisl scuola guidata da Francesco Scrima. «Il nostro timore è che questo provvedimento finisca per abbassare la qualità della scuola», aggiunge Rino Di meglio, coordinatore Gilda, a cui fa eco lo Snals-Confsal. Ai sindacati l’ultima bozza proposta non piace anche quando prevede l’applicazione delle nuove disposizioni solo ai fini dei prossimi percorsi per il reclutamento. «Anche così il rischio di creare esuberi non è stato cancellato», precisa la Flc-Cgil di Mimmo Pantaleo. La Uil scuola di Massimo Di Menna ha riproposto poi l’urgenza di affrontare, insieme alle classi di concorso, anche le questioni relative alla gestione e organizzazione dei Tfa. Tutto in alto mare.
Da Italia Oggi
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Il decreto, atto controproducente. Serve un regolamento, di Carlo Forte
Al ministero dell’istruzione rischiano di fare una fatica inutile. Il decreto sulle nuove classi di concorso, che il ministero vorrebbe varare, presenta alcuni punti deboli che potrebbero renderlo facilmente annullabile. E ciò potrebbe fare la fortuna dei ricorsifici. Anche perché il bacino di utenza dei potenziali ricorrenti comprende, praticamente, tutti i docenti della scuola secondaria di I e II grado.
L’amministrazione, infatti, punta a riformare completamente l’impianto delle classi di concorso. E cioè dei gruppi di discipline che vengono insegnate dai diversi docenti che lavorano nelle scuole secondarie, a seconda della specialità di cui sono titolari. Per esempio, il professore di lettere di scuola media è abilitato nella classe di concorso A043, che comprende le seguenti discipline:italiano, storia, geografia ed educazione civica. Si tratta, dunque, di un tema sensibile. Perché dalla composizione delle classi di concorso deriva la possibilità di impiego dei docenti. E quindi, i diretti interessati hanno ragione di essere preoccupati. Perché a seconda di come verranno ridisegnate le classi di concorso cambierà anche la struttura degli organici. E con essi anche la composizione delle cattedre. É ragionevole ritenere, dunque, che chi si riterrà leso dai nuovi assetti disegnati dall’amministrazione valuterà, necessariamente, la possibilità di difendersi davanti ai giudici. Nel caso specifico, il rimedio più efficace potrebbe essere quello del ricorso al Tar del Lazio. Ed è qui che vengono in rilievo i punti deboli del decreto, sui quali potrebbero appuntarsi i motivi dei ricorsi e un’eventuale sentenza di annullamento da parte del Tar. Il punto più esposto del provvedimento è il metodo utilizzato dall’amministrazione. Il ministero, infatti, ha deciso di agire per decreto, appoggiandosi su una vecchia norma contenuta nel testo unico del ’94: l’articolo 405. La normativa più recente, invece, prevede che la «razionalizzazione e l’accorpamento delle classi di concorso, per una maggiore flessibilità nell’impiego dei docenti» non può essere operata con un semplice decreto. Lo strumento previsto dall’articolo 64 del decreto legge 95/2012 in questa materia, infatti, è il regolamento. Che deve essere adottato tramite un decreto del presidente della repubblica e prevede un iter complesso, che comprende anche il parere obbligatorio delle commissioni parlamentari. I giuristi chiamano questo metodo di formazione dei provvedimenti «riserva di regolamento». E siccome il ministero intende agire per decreto, bypassando proprio la riserva di regolamento prevista dall’art. 64, il decreto potrebbe essere annullabile per violazione di legge e carenza di competenza. Tanto più che la tesi della riserva di regolamento è confortata da ulteriori elementi. Anzi tutto dal principio di specialità. L’art. 405 del testo unico, infatti, è una norma generale. Che prevede la facoltà dell’amministrazione di rimettere mano alle classi di concorso quando è necessario. Ma l’art. 64 del d.l. 95/2012 è una norma speciale (se non addirittura eccezionale) che introduce una deroga per un’ipotesi particolare. E cioè la necessità di procedere con regolamento, per razionalizzare e accorpare le classi di concorso e consentire un maggiore impiego dei docenti per riassorbire gli esuberi strutturali dovuti ai tagli. Oltre tutto, quand’anche si volesse ritenere l’art. 405 alla stregua di norma di pari grado, comunque avrebbe prevalenza l’art. 64 perché è più recente. L’amministrazione ha ritenuto di poter bypassare la riserva di regolamento affermando, nella motivazione del provvedimento, che «gli interventi di razionalizzazione delle risorse umane ivi previsti sono stati altrimenti realizzati». Ma potrebbe non bastare. Prima di tutto perché l’art.64 prevede che anche l’accorpamento delle classi di concorso vada fatta con regolamento (e non per decreto). E poi perché la razionalizzazione operata dall’art. 14. comma 17 del d.l.95/2012, non ha interessato le classi di concorso, ma le utilizzazioni dei docenti in esubero.
Da Italia Oggi
Come l'Italia ha smesso di indignarsi, di Gad Lerner
«Ça ira, ça ira, ça ira/ les aristocrates à la lanterne!». Terribile è il ritornello di uno dei più popolari canti della Rivoluzione francese, quando invoca l´impiccagione dei nobili per poi, come se non bastasse, ficcargli un bastone didietro per ciascuno. Ma la violenza urlata al femminile davanti alla Bastiglia (ne è rimasta celebre l´interpretazione di Edith Piaf) culminava pur sempre nella palingenesi, inneggiava a una speranza, tant´è che il nostro Carducci ha ripreso il miraggio di quel ça ira come futuro radioso. In ben altra rabbia si è imbattuta Concita De Gregorio misurando la temperatura dell´Italia contemporanea nel suo potente libro-inchiesta Io vi maledico (Einaudi). Nessuna pulsione rivoluzionaria. Manca fra noi l´orizzonte di un rovesciamento delle gerarchie, dei dogmi classisti e tanto meno dei rapporti di produzione. La furia si ripiega su se stessa fino a bruciare l´anima in cui s´è accesa.
L´ho incontrata anch´io Sabrina Corisi, figlia di un operaio sindacalista dell´Ilva di Taranto morto di tumore al polmone dopo essersi battuto per anni contro i veleni minerali che, sospinti dal vento oltre il muro di cinta dell´acciaieria, hanno ricoperto la sua abitazione al rione Tamburi. Sabrina si presenta composta stringendo fra le mani la cornice con la fotografia del padre defunto, di cui i familiari hanno onorato l´ultima volontà affiggendo la lapide che MALEDICE, scritto in maiuscolo, «coloro che possono fare e non fanno nulla per riparare».
Queste maledizioni prive di ça ira, una dopo l´altra raccontate da Concita De Gregorio, delineano una rabbia debole che «sembra ovatta». Rabbia di lamento e di protesta, rabbia gracile. Sempre dalla Francia avevamo importato l´«Indignatevi!” del vecchio partigiano Stephane Hessel, declinato in spagnolo dai giovani disoccupati del movimento 15M e in greco dagli insolventi del debito infinito. Non che l´Italia della recessione se la passi molto meglio; solo che qui cova un malessere sordo, difficilmente esprimibile in senso di comunità. Se da un lato l´autrice si cimenta in autentici pezzi di bravura, come quando narra la lettera mai spedita a Marchionne dalla figlia di un operaio della Fiat di Pomigliano, umiliato fino alle lacrime dalla decisione di votare sì al referendum aziendale, non può bastarle seguire il filo della denuncia. Io vi maledico, difatti, non può leggersi solo come un´inchiesta sull´ingiustizia sociale o su un delitto territoriale come l´amianto a Casale Monferrato. Qualcosa di più profondo è introiettato nello stato d´animo degli italiani. Le insegnanti più sensibili lo riconoscono nei comportamenti deviati di certi bambini. Gli adolescenti si abituano a sfogarlo nella sfera virtuale dei social network. Verdi di rabbia come l´incredibile Hulk, trasformato da supereroe in modello d´irrequietezza mai del tutto sopita.
Se un sociologo come Aldo Bonomi nel 2008, all´inizio della crisi, si sforzava ancora di raccontarci “Il rancore” (Feltrinelli) come radice collettiva del malessere del Nord, e ne descriveva le piccole fredde passioni dalla “paura operaia” all´individualismo proprietario, Concita De Gregorio è costretta ad andare oltre. Oltre le identità locali, oltre lo spaesamento e la protesta antistatalista. Perché la rabbia sminuzzata in tante singole rabbie personali è certo dolorosa ma non sollecita la ricerca di relazioni; semmai sembra trovare sollievo momentaneo nella rappresentazione mediatica. Va a incontrare gli amici d´infanzia dell´arrabbiato per eccellenza, Supermario Balotelli. Sergio Viotti, portiere di riserva nell´Under 21, che lo conosce da quando aveva sei anni, le confida: «Mario diceva sempre che sarebbe stato il primo negro a giocare in nazionale e che non festeggiava i gol perché lo avrebbe fatto solo il giorno che avesse segnato per l´Italia, nella finale dei Mondiali».
Trovo assai convincenti le pagine di Io vi maledico dedicate allo sfogo dei propri sentimenti in un clic. Sul Web ciascuno può scaricare la sua invettiva e provare la falsa ebbrezza di far parte così di una collettività. Riunita da migliaia di “mi piace” o anche solo dalla cancellazione del nemico. Galvanizzata dalla capacità di leader virtuali che sublimano in decibel privi di sonoro il disagio, la protesta, la denuncia. Tutto finto, effetto placebo, lenimento solo momentaneo. Ma vuoi mettere la soddisfazione di avergliele cantate – col nickname che preserva il tuo anonimato – al bersaglio facile del momento? Fin troppo ovvio è riconoscere in Beppe Grillo il re di queste innocue maledizioni, portavoce di una rabbia tradotta in grossolani calembour o sotto forma di invettiva scurrile. Capita a tutti noi di provare ammirazione per la creatività della rete, senza accorgerci di come essa ci imprigioni in una solitudine, per l´appunto, rabbiosa.
Toccante è la testimonianza di Flavia Schiavon, un´altra figlia. Ha vissuto un breve momento di notorietà quando suo padre, piccolo imprenditore della provincia di Padova, si è tolto la vita perché non sopportava il peso dei debiti che gli impedivano di pagare lo stipendio ai dipendenti. Flavia Schiavon si impegna in una campagna di denuncia contro l´Agenzia delle entrate e per questo accetta di comparire in televisione. Ma ben presto constata: «Volevano solo le mie lacrime per fare audience». Non basta. Le arriverà una lettera ignobile: «Ti fai bella della morte di tuo padre, vuoi solo diventare famosa, sei ricca e te lo puoi permettere, mi fai schifo. Faceva riferimento anche a mio figlio. Sì, lo so che anche quella lettera sarà stata lo sfogo di qualcuno che stava male. Però per me è stata una secchiata d´acqua in faccia. Mi sono svegliata».
Recitare l´indignazione è l´ultima specialità di troppi conduttori televisivi benestanti, ma è anche il nuovo business dei falsi portavoce del popolo. Basti pensare a Grillo che apostrofa Giorgio Napolitano come «un vecchietto che va in giro con tre Maserati», gira in camper e intanto custodisce per un po´ la sua Ferrari in garage. Lui è il capoccia degli arrabbiati. Non esprime l´ira di Dio né un´aspirazione di giustizia sociale, ma solo la miseria di un cattivo sentimento deprivato dalla speranza. Concita De Gregorio si rifugia allora nelle Rime di rabbia del poeta Bruno Tognolini, solo in apparenza per bambini: «Tu dici che la rabbia che ha ragione/ È rabbia giusta e si chiama indignazione».
Da La Repubblica
Che fine ha fatto il federalismo scolastico, di Osvaldo Roman
Con il voto del 24-25 febbraio si rinnovano oltre alle Camere anche tre Consigli regionali. Questa circostanza avrebbe dovuto rappresentare l’occasione per una rinnovata considerazione delle modalità di realizzazione del Titolo V della Costituzione. Ciò a partire da quelle, in gran parte impantanate, che nella scorsa legislatura avevano tentato di definire il cosiddetto federalismo fiscale.
Non sembra che finora il tema risulti in qualche modo presente nel dibattito elettorale che si è avviato anche perché esso latita o risulta troppo genericamente indicato nelle diverse piattaforme elettorali.
Probabilmente ciò accade perché l’aggravarsi della crisi economica e finanziaria di carattere internazionale ha consentito di scaricare una buona parte delle misure di austerità proprio sul sistema delle autonomie locali a torto o a ragione considerato fonte e causa di sprechi assai rilevanti. Hanno finora sicuramente contribuito a tale oscuramento del tema in questione nella campagna elettorale anche i numerosi scandali che in questi ultimi tempi hanno investito certe amministrazioni regionali e locali.
I tagli agli enti locali presenti nelle diverse manovre realizzate dal governo Monti (in particolare per la sanità con una riduzione di 900, 1800 e 2000 milioni rispettivamente per gli anni 2012, 2013, 2014) si sono aggiunti, rappresentandone una parte peraltro molto limitata, ai tagli alle Regioni e agli enti locali realizzati da Tremonti con il D.L. n. 98/11 che hanno rappresentato la parte più consistente della manovra complessiva.
Questi tagli si aggiunsero a quelli inferti sempre da Tremonti con l’art.14 della legge 122/2010.
Si trattò di un taglio di 7,5 miliardi di riduzioni rispetto ai trasferimenti effettuati nel 2010 che avrebbero dovuto durare fino al 2013 per poi essere restituiti, come prevedeva lo stesso art. 14, alle Regioni e agli enti locali impegnati nel costruire il federalismo fiscale. Il comma 4 dell’art. 20 del D.L. 98/2011 invece aggiungeva tali tagli, ai nuovi, fino agli anni 2014 e seguenti. Si trattò in sostanza di un taglio annuale strutturale dei trasferimenti fino ad allora garantiti agli enti locali di circa 14.9 miliardi di euro a cui si sono di recente aggiunti, come si è detto, quelli deliberati da vari provvedimenti del governo Monti. Nonostante i tentativi della Lega di Maroni di negare questa realtà risiede in quella manovra voluta e realizzata dal Governo Berlusconi di cui la Lega faceva parte, la causa esclusiva dell’entrata in coma dei decreti sul federalismo fiscale.
In realtà tale penalizzazione di carattere finanziario corrispondeva all’esigenza di mascherare un nuovo prelievo di risorse a carico dei cittadini con misure destinate a determinare un aumento delle tasse locali e delle tariffe riguardanti erogazione dei servizi a cominciare da quelli relativi alla sanità e i ai trasporti. Le misure di contenimento e di riduzione delle spese regionali e locali ovviamente hanno riguardato anche l’istruzione.
Come ha dimostrato il fallimento della assai discutibile operazione di riforma delle Province un riordino del sistema delle autonomie locali che voglia porsi non solo l’obiettivo di una riduzione della spesa pubblica, ma anche quello di una più efficiente ed efficace gestione della pubblica amministrazione, non può prescindere dalla presa in considerazione di un più complessivo riordinamento della macchina amministrativa dello Stato così come viene configurata nel Titolo V della Costituzione.
Tale prospettiva implica anche per l’Istruzione una nuova distribuzione delle competenze tra Stato e autonomie territoriali. In questo quadro dovrà essere ripreso in considerazione un progetto di riordino degli organismi di governo delle autonomie scolastiche in raccordo con gli organi collegiali di carattere locale e nazionale.
Il tema dell’istruzione e della formazione va quindi ricollocato nello scenario istituzionale definito dal nuovo Titolo V, che produce effetti sul sistema educativo con un nuovo riparto delle competenze tra Stato e autonomie territoriali.
Su tale terreno almeno dal 2007, partendo dal nuovo assetto costituzionale, è stato delineato un sistema educativo di istruzione e di formazione unitario nel quale:
lo Stato detta le norme generali; individua i livelli delle prestazioni, ne controlla l’attuazione ed eventualmente interviene in sostituzione dell’ente territoriale inadempiente; definisce i principi fondamentali;
le Regioni, nel quadro di principi fondamentali stabiliti dallo Stato, disciplinano le funzioni di organizzazione e di amministrazione di carattere generale, definendo le linee programmatiche di sviluppo dei servizi;
le autonomie locali sono competenti per la gestione dei servizi;
le istituzioni scolastiche hanno piena autonomia funzionale;
le Regioni dispongono di competenza legislativa esclusiva in materia di istruzione e formazione professionale.
Le Regioni sono chiamate a svolgere per l’area istruzione un ruolo di indirizzo, di programmazione e di coordinamento accompagnato da un’attività di monitoraggio dei processi e di valutazione degli esiti ispirato ai principi di sussidiarietà ed autonomia. Le critiche, come quelle di Casini e dei centristi, ai principi del Titolo V, indicati come causa del contenzioso costituzionale in atto, ignorano che la causa principale di esso è stata costituita dal centralismo berlusconiano che faceva da contrappeso alla demagogia federalista della Lega
Alcuni mesi orsono è stata presentata dal MIUR di Profumo ai sindacati della scuola una nuova Bozza di “Accordo tra Governo, Regioni e Province autonome di Trento e Bolzano concernente finalità, tempi e modalità di attuazione del Titolo V, Parte II della Costituzione per quanto attiene alla materia istruzione e sperimentazione di interventi condivisi tra Stato e Regioni per la migliore allocazione delle risorse umane, strumentali ed economiche al fine di elevare la qualità del servizio.”
A parte il fatto che già nel titolo era evidente l’inconsistenza di tale iniziativa in quanto si attribuiva a una funzione della Conferenza Unificata (quella di cui all’art.9, comma 2, lettera c) del Decreto legislativo n. 281/1997) la redazione di un documento che invece nel suo complesso, nel testo allora presentato riguardava solo lo Stato e le Regioni. Un documento così concepito avrebbe potuto infatti essere redatto solo ai sensi dell’art.4 dello stesso Decreto.
Quel Documento, di cui non si è più parlato in seguito riprendeva e sintetizzava, con alcune correzioni significative che di fatto eliminavano parte della materia (ad es. l’edilizia scolastica) riguardante le funzioni che, per l’istruzione, la legislazione vigente (legge 42/2009) e la Costituzione assegnano ai Comuni e alle Province, quello predisposto nel 2010. La Bozza del 2010, di attuazione del Titolo V in materia di istruzione, era stata infatti formulata con il concorso dei Comuni e delle Province e quella origine non giustificava l’esclusione degli enti locali da questa ulteriore fase di elaborazione.
La bozza in questione abbandonava la strada della sperimentazione in forza della legge 244/2007, (art. 2, commi 417 e seguenti). Infatti essa non veniva, correttamente, più richiamata in causa come fonte del potere di sperimentazione, perché ha esaurito la sua validità con l’anno scolastico 2010-2011.
Attualmente quindi non è possibile sperimentare un trasferimento di poteri amministrativi se non lo prevede una specifica legge. Ogni istanza di governo può realizzare sperimentazioni nell’ambito delle competenze che le sono attribuite dalla normativa vigente, seguendo le regole previste dai relativi ordinamenti. Si trattava di un grave colpo per Formigoni e per il suo l’assessore Aprea che avevano fondato la loro proposta di reclutamento degli insegnanti, rinviata poi dal Governo alla Corte Costituzionale, proprio su tale possibilità. In realtà quella norma sulla sperimentazione, del resto mai utilizzata, se non in un’Intesa, tra Formigoni e la Gelmini, fasulla e mai, come tale, entrata effettivamente in vigore in materia di formazione professionale, si riferiva alla razionalizzazione della rete scolastica. Tale sperimentazione era regolata da precise indicazioni e non avrebbe comunque potuto consentire modifiche alle procedure costituzionali previste in materia di trasferimento alle Regioni di funzioni amministrative statali come quelle riguardanti i concorsi.
La bozza di Accordo presentata al MIUR riprende i 5 obiettivi indicati in quella del 2010. Essi sono:
individuazione dei tempi e dei modi per il completamento del trasferimento delle funzioni amministrative alle Regioni e agli Enti locali alla luce dei nuovi criteri costituzionali di riparto della funzione legislativa in materia di istruzione;
fissazione dei tempi e delle modalità per il trasferimento delle risorse finanziarie, umane e strumentali necessarie all’esercizio delle nuove funzioni e del collegamento tra tale trasferimento e la data di inizio dell’esercizio delle nuove funzioni;
congruente definizione dei tempi e dei modi di ridefinizione dell’amministrazione scolastica periferica;
modulazione del raggiungimento degli obiettivi secondo diverse velocità, dipendenti dallo stadio dell’organizzazione regionale;
definizione di condizioni e modalità per la attuazione della sperimentazione di nuovi modelli organizzativi.
Fermi restando gli obiettivi descritti, l’Accordo comprendeva cinque capitoli destinati, rispettivamente, ai seguenti ambiti ed oggetti (rispetto alla Bozza del 2010: in grassetto le parti innovative e sottolineate le abrogazioni):
“A) Individuazione condivisa delle competenze normative dello Stato e delle Regioni e articolazione delle funzioni amministrative in materia di istruzione e formazione professionale (degli ambiti della funzione normativa statale);
B) Predisposizione delle condizioni per l’esercizio da parte delle Regioni delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici nelle materie dell’istruzione e formazione professionale; trasferimento dei beni e delle risorse umane, strumentali e finanziarie;(conferimento di funzioni amministrative e servizi pubblici statali nelle materie dell’istruzione e dell’istruzione e formazione professionale;)
C) Riparto delle dotazioni organiche del personale della scuola e dimensionamento della rete scolastica (trasferimento dei beni e delle risorse umane, strumentali e finanziarie;)
D) Organizzazione e gestione delle banche dati.( dei dati relativi al sistema educativo (con ciò intendendosi il sistema composto dall’istruzione e dall’istruzione e formazione professionale);
E) Sperimentazione di nuovi modelli organizzativi, finalizzati a migliorare l’economicità, l’efficienza e l’efficacia del sistema di istruzione (sulla base dei principi e dei criteri stabiliti dalle leggi n. 244/2007 e n. 133/2008.) “
La bozza di Accordo per favorire un’individuazione condivisa delle competenze normative dello Stato e delle Regioni e la relativa articolazione delle funzioni amministrative in materia di istruzione e di istruzione e formazione professionale prevedeva, fra l’altro che le norme statali sull’istruzione (norme generali, principi fondamentali e definizione dei livelli essenziali) venissero raccolte in un Testo Unico.
Risultava singolare che quando si segnalava la necessità di raccordare l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni con i relativi fabbisogni e costi standard si richiamasse solo la metodologia prevista nel decreto sulle entrate regionali. A questo riguardo il cammino allora realizzato dal federalismo mostrava i suoi gravissimi limiti proprio nel settore dell’istruzione.
Oggi è chiaro che quel tipo di federalismo dovrà subire le necessarie modificazioni e un non breve periodo di restauro e una progressiva graduale attuazione, perché dovranno fra l’altro essere considerati i costi standard e i livelli essenziali per l’edilizia scolastica oltre a quelli relativi alle funzioni trasferite con il Decreto 112/98 e a quelli che secondo l’art 8 comma 2 della legge 42/2009 avrebbero dovuto riguardare le nuove funzioni amministrative che saranno indicate in un Accordo da raggiungersi in sede di conferenza unificata. Per quanto riguarda l’edilizia scolastica occorre prendere atto che il federalismo fiscale finora non ha trattato le spese in conto capitale. Sarebbe d’altra parte difficile trattare tale materia stante l’ assoluta inconsistenza e volatilità degli stanziamenti finora previsti nel bilancio dello Stato. La legge 221 del 17 dicembre 2012 affronta la materia con orientamenti finalmente rispettosi delle autonomie locali. Purtroppo la concitazione dovuta alla precipitosa conclusione della legislatura ha prodotto un testo dell’art.11 pieno di errori e di omissioni che dovrà essere opportunamente coordinato con l’art.53 della legge n. 35/2012.
Quella bozza di Accordo sul Titolo V, in materia di razionalizzazione della Rete scolastica, si adeguava positivamente alla sentenza n.147 della Corte Costituzionale superando ogni riferimento alle Intese da raggiungere su tale materia in sede di Conferenza Unificata, puntando invece direttamente, ferme restando le competenze statali sulla determinazione degli organi concernenti l’autonomia scolastica, alla normazione Regionale.
Quello che risulta decisivo nella costruzione di questo percorso, più che i contenuti delle funzioni amministrative da trasferire, risultano le modalità di realizzazione dei previsti trasferimenti.
Mi sembra che da questo angolo visuale, per dare piena attuazione al Titolo V, non risultino più disponibili le procedure legislative previste dall’articolo 7 della legge n. 131 del 2003. Del resto tale legge era già stata largamente disattesa e molte sue deleghe non erano state realizzate ad esempio in materia di:
a) ricognizione dei principi fondamentali che si traggono dalle leggi vigenti, nelle materie previste dall’articolo 117, terzo comma, della Costituzione (art.1 comma 4);
b) individuazione delle funzioni fondamentali, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, essenziali per il funzionamento di Comuni, Province e Città metropolitane nonché per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento(art.2 comma 1);
c) revisione, nell’ambito della competenza legislativa dello Stato, delle disposizioni in materia di enti locali, per adeguarle alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
Tutte queste questioni, ancora irrisolte, erano nella scorsa legislatura, confluite nel disegno di legge, approvato solo dalla Camera, noto come “Carta delle autonomie” e allora bloccato, per motivi politici (questione delle Province) e finanziari (finanziamento dei costi standard) in sede di Commissione Affari costituzionali del Senato (A.S. n.2259).
Sarà quindi una nuova legge sulla “Carta delle autonomie” che insieme al riordino delle autonomie a partire dal superamento delle Province potrà prevedere, come già indicava l’art.7 comma 2, della legge 131/03, che sia un Accordo raggiunto in sede di Conferenza Unificata ad indicare le funzioni, i compiti e i modi per trasferire le relative risorse.
Da Retescuole
Bersani: "La Germania deve riconoscere che ha tratto un enorme vantaggio dall'euro", di Pierre De Gasquet
La corsa elettorale con tre importanti candidati è una novità nella vita politica italiana. Vede il rischio di un ritorno al bipolarismo imperfetto?
«Non credo si possa parlare di vera novità. Certo, oggi la proposta centrista è forse più significativa che in passato. Ma la mia convinzione è che nel paese profondo vi sia un’esigenza di bipolarismo. Le forze di centro ambiscono ad essere un punto d’equilibrio, ma nella situazione italiana non penso che giocheranno un ruolo determinante».
Patronati e sindacati oggi reclamano un trattamento choc per l’economia italiana: a suo parere la cura di Mario Monti ha funzionato fin qui?
«La cura Monti ha funzionato sotto due aspetti: evitare il precipizio e ridare al Paese un elemento di credibilità sul piano internazionale e sui mercati. Mi piace poi sottolineare che Mario Monti non ha fatto tutto da solo, ma con il sostegno leale del nostro partito, che ha rinunciato alle elezioni anticipate in nome dell’interesse del Paese. Detto questo, pur riconoscendo il valore di questa esperienza, dobbiamo ancora affrontare scelte decisive per l’economia reale, il lavoro, le riforme politiche e civiche».
E’ d’accordo con il Financial Times, quando dice che Mario Monti non merita un secondo mandato in ragione dell’impatto negativo della sua politica di rigore?
«Mi sembra un giudizio in parte ingiusto. Io sarò più equilibrato. Certamente, si deve andare oltre questa esperienza di transizione. Come in tutte le democrazie, a un certo punto, le forze politiche che governano devono appoggiarsi su un largo consenso popolare. Altrimenti, difficilmente si possono mettere in opera le riforme. La soluzione tecnica ha le sue virtù ma anche i suoi limiti. Tutte le riforme che riguardano le istituzioni, le leggi anti-corruzione o il conflitto di interessi non possono essere realizzate da un governo tecnico. Inoltre, parallelamente alla politica del rigore, si devono mettere in piedi delle misure per il rilancio che sono fuori dalla portata di un governo di transizione. Oggi è ai cittadini che spetta il compito di dire chi debba guidare queste politiche».
Pensa, come certi economisti, che il governo Monti avrebbe dovuto ridurre la spesa pubblica invece di aumentare le tasse
«E’ meno facile di quanto si pensi. Se non si contano gli interessi sul debito e la spesa per le pensioni dei decenni passati, l’Italia ha un livello di spesa pubblica inferiore a quello della media europea. Non c’è dubbio che è necessario ridistribuire le risorse pubbliche, che in certi casi sono mal ripartite. Ma il nostro problema prioritario è il rilancio del Prodotto interno per ridare dinamismo ai consumi e agli investimenti. Non illudiamoci che la sola riduzione delle spese pubbliche possa produrre crescita: io non credo a questa ricetta».
Cosa pensa del recente mea culpa del FMI sul vero costo dell’austerità?
«Era ora che anche l’Fmi lo riconoscesse: il nostro partito lo dice da due o tre anni che in Italia a un punto di Pil di riduzione della spesa pubblica corrisponde un punto di recessione. E’ stato proprio così. Questo deve portarci a una riflessione a livello europeo: la ‘mia’ Italia è pronta ad accettare che ci sia un esame preventivo dei bilanci. Non da parte di un burocrate o di un commissario però, bisogna trovare un altro meccanismo (attraverso il Parlamento, la Commissione o il Consiglio). A condizione che ci siano delle misure che garantiscano un po’ di investimenti e di lavoro. Non c’è dubbio che dovremo ridurre il debito e controllare il deficit, ma queste sono misure a medio termine. Le misure più urgenti sono quelle che favoriscono il lavoro. Altrimenti, si creerà una spirale tra austerità e recessione che ci sfuggirà completamente».
Vuol dire che l’obiettivo dell’equilibrio strutturale per il 2013 non è un imperativo assoluto per l’Italia?
«No. Io rispetto quell’obiettivo, ma domando se si è tenuto conto dell’impatto del ciclo. Non possiamo incoraggiare la recessione con l’austerità. Se la crescita si deteriora ancora, chiederò all’Unione europea che questo non si traduca meccanicamente in nuovi colpi al budget. A parte queste riserve, confermo il Fiscal Compact e gli impegni. Ma mi piacerebbe che si aprisse una riflessione a livello europeo per concentrarci sulla crescita. Per me, non è vero che ci sono destini differenti per la Germania e per la Grecia. Viaggiamo tutti sullo stesso treno in via di rallentamento, anche se certi vagoni sono più confortevoli di altri».
Come pensate di contobilanciareil dogma del rigore imposto dalla Germania?
«Io direi alla Germania: è vero che alcuni paese non hanno approfittao dell’euro per fare i “compiti a casa”; per noi, questo si chiama Berlusconi. E’ ugualmente vero che la Germania è stato un buon alunno. Ma bidogna anche che la Germania riconosca che a tratto evorme vantaggio dall’euro, in termini di bilancia commerciale e economia reale. Senza spirito polemico, chiedo che si apra una discussione. Sono pronto a dire che l’Italia è disponibile a rinforzare ancora di più il controllo reciproco sulla finanza pubblica. Ma in cambio, la Germania deve riconoscere che si deve trovare delle vie per rilanciare gli investimenti e l’impiego nella zona euro. Bisogna anche riconoscere che non siamo stati all’altezza della notra moneta e che si sono creati degli squilibri. Bisogna individuare degli strumrnti nazionali coordinati oppure europei per creare lavoro. Perchè il rigore è una condizione necessaria, ma non è un obiettivo. Tra le soluzioni che proporrei, si possono emettere degli euro-bondsper gli investimenti selettivi decisi a livello europeo, dei project bonds…., possiamo gestire una parte del debito atttraverso un “fondo di redenzione”. L’essenziale è che i cittadini europei vedano che l’Europa si occupa di lavoro, in caso contrario il sogno europeo crollerà per forza».
Siete d’accordo con matteo Renzi sul fatto che non bisogna sottovalutare l’impatto di Silvio Berlusconi?
«Pienamente d’accordo. ma questa volta, il nostro obiettivo è di rappresentare un’alternativa credibile alle fiabe. Io dico agli italiani: non cerco di piacervi, voglio essere credibile dicendovi la verità. E’ su questo linguaggio di verità che si giocherà la partita elettorale».
Avete detto che l’Italia deve uscire da vent’anni di “deriva morale”? Cosa intende?
«La deriva morale, io l’identifico con il berlusconismo. Per vent’anni, il sistema di personalizzazione berlusconiani, premiando il consenso sulle regole ha lasciato diffondere l’idea che non si ha bisogno di pagare le tasse, che lo Stato è un nemico e che gli immigrati sono indesiderabili, senza contare la deriva culturale. Dobbiamo assolutamente correggere questa situazione, perchè questo non riflette la realtà italiana. Berlusconi non ci riuscirà questa volta, ma bisognerà fare i conti con quello che ha seminato. Tutto questo non fonderà come neve al sole, per questo la nostra prima riforma sarà la legge anti-corruzione, oltra alla legge sui partiti e una riforma della legge elettorale. Il punto di partenza sarà il ritorno alla moralità e al civismo».
Un accordo di governo con Mario Monti vi sembra la soluzione naturale nel caso in cui il centrosinistra non avesse la maggioranza al Senato?
«Sono persuaso che chi raccoglierà la maggior parte del voto popolare sarà in grado di governare sia alla Camera e sia al Senato. Ma anche se avessimo la maggioranza, vista la situazione del Paese, il centrosinistra non sarà settario e mi imnpegnerò a discutere con le forze europeiste, non populiste e costituzionaliste. Il nostro avversario è Berlusconi, la Lega Nord, Beppe Grillo e tutte le forme di populismo anti-europeo. Sul governo siamo pronti a discutere con Mario Monti. Saròà a lui decidere. Non voglio che il centrosinistra appaia come settario».
Lo scandalo MPS mette a rischio il sistema bancario italiano?
«No. E’ un caso assolutamente isolato, anche se altre banche possono aver fatto ricorso a strumenti derivati. Diciamo che il sistema italiano delle fondazioni bancarie garantisce una certa stabilità, però c’è anche il rovescio della medaglia con il rischio di interferenze delle collettività locali. Quanto all’utilizzo della finanza creativa, siamo molto al di sotto della soglia di altre esperienze straniere. Abbiamo ovviamente rimproverato al precedente governo e a Giulio Tremonti (ex ministro delle finanze di Silvio Berlusconi) di aver incoraggiato le collettività locali a utilizzare questi strumenti derivati. Il nostro sistema bancario, però, è meno esposto di altri ai rischi di sistema. Il nostro problema piuttosto è che, a differenza del resto dell’Europa, noi abbiamo un sistema bancario che trova la sua solidità nel suo rapporto con le PMI. Il cordone ombelicale tra l’economia reale e il sistema bancario è molto forte. Il vero rischio sarebbe se le banche chiudessero i rubinetti che alimentano l’economia reale per rinforzare la loro solidità».
Cosa pensa della decisione di Francois Hollande di introdurre una nuova aliquota del 75% sui redditi superiore al milione di euro .
«La differenza è che Hollande sa dove sono i ricchi in Francia. In Italia io, non lo so ancora. Mio problema non è di aumentare le tasse, ma di tassare quelli che non le pagano. L’Italia deve raggiungere la media europea di lealtà fiscale. In Italia, dobbiamo capire dove sono i ricchi. Abbiamo pochi contribuenti che dichiarano di guadagnare più di 100.000 euro e sappiamo che la realtà è diversa. La Banca d’Italia stima l’evasione fiscale pari a 100 miliardi di euro l’anno. Se riuscissi solo a recuperare il 7% o l’8% l’anno, potremmo ridurre le tasse. Invece sui patrimoni immobiliari, vorrei che il nostro sistema fosse più progressivo, e sui patrimoni finanziari la nostra strategia è di farli emergere. La mia strategia non è di aumentare le tasse ma di aver una maggiore tracciabilità. Quello che chiamiamo troppo facilmente evasione fiscale è in realtà una frode. In Italia, dobbiamo capire chi è ricco; in questo caso potremmo correggere le aliquote, però sono sicura che non sarà necessario mettere una pari al 75%. Dico però subito: in Italia non ci sarà mai una amnistia fiscale».
traduzione a cura di Dominique Argant e Carla Attianese
Da Les Echos
Elections, politique de rigueur, Europe, « dérive morale », scandale de la banque Monte dei Paschi di Siena… le leader du Parti démocrate (PD), qui mène la coalition de gauche pour les élections législatives de février, répond aux questions des Echos.
Cette course électorale à trois grands candidats est-elle une nouveauté dans la vie politique italienne ? Voyez-vous le risque d’un retour au bipolarisme imparfait ?
Je ne crois pas que l’on puisse dire que ce soit vraiment une nouveauté. Certes, aujourd’hui, la proposition centriste est peut-être plus significative que par le passé. Mais dans le pays profond, ma conviction est qu’il y a une exigence de bipolarisme. Les forces du centre ambitionnent d’être un point d’équilibre, mais dans la situation italienne, je ne pense pas qu’elles joueront un rôle déterminant.
Patronat et syndicats réclament aujourd’hui un traitement de choc pour l’économie italienne; la cure de Mario Monti a-t-elle fonctionné à vos yeux jusqu’ici?
Le traitement Monti a fonctionné sous deux aspects : éviter le précipice et redonner au pays un élément de crédibilité sur le plan international et sur les marchés. J’aime d’ailleurs souligner que Mario Monti ne l’a pas fait tout seul mais avec le soutien loyal de notre parti qui a renoncé à aller aux élections au nom de l’intérêt du pays. Cela dit, même en reconnaissant la valeur de cette expérience, nous avons encore à affronter des choix décisifs sur l’économie réelle, l’emploi, les réformes politiques et civiques.
Etes-vous d’accord avec le «Financial Times» lorsqu’il dit que Mario Monti ne mérite pas un deuxième mandat en raison de l’impact négatif de sa politique de rigueur ?
Cela me semble un jugement en partie injuste. Je serais plus équilibré. Certainement, il faut aller au-delà de cette expérience de transition. Comme dans toutes les démocraties, à un certain point, il faut que les forces politiques qui gouvernent s’appuient sur un grand consensus populaire. Sinon, les réformes sont difficilement mises en oeuvre. La solution technique a ses vertus mais aussi ses limites. Toutes les réformes qui regardent les institutions, les lois anti-corruption ou les conflits d’intérêt ne peuvent pas être réalisées par un gouvernement technique. En outre, parallèlement à la politique de rigueur, il faut mettre en oeuvre des mesures de relance qui étaient hors de portée d’un gouvernement de transition. Aujourd’hui, c’est aux citoyens désormais de dire qui doit mener ces politiques.
Pensez-vous, comme certains économistes, que le gouvernement Monti aurait dû davantage réduire les dépenses publiques au lieu d’augmenter les impôts ?
C’est moins facile qu’on ne le pense. Sans compter le service de la dette et les dépenses de retraites des décennies passées, l’Italie a un niveau de dépenses publiques inférieur à celui de la moyenne européenne. Il n’y a pas de doute qu’il faut redistribuer les dépenses publiques qui dans certains cas sont mal réparties. Mais notre problème prioritaire est de relancer le PIB en redonnant plus de dynamisme à la consommation et aux investissements. On ne peut pas croire à l’illusion que la seule réduction des dépenses publiques puisse produire de la croissance : je ne crois pas à cette recette.
Que pensez-vous du récent «mea culpa» du FMI sur le vrai prix de l’austérité ?
A la bonne heure. Il est grand temps que le FMI le reconnaisse: notre parti le dit depuis deux ou trois ans en Italie qu’à un point de PIB de réduction des dépenses correspond un point de récession. C’est tout à fait juste. Cela doit nous porter à une réflexion au niveau européen : ‘’mon” Italie est prête à accepter qu’il y ait un examen préventif de la présentation des comptes publics. Pas par un bureaucrate ou un commissaire, il faut trouver un autre mécanisme (à travers le Parlement, la Commission ou le Conseil). A condition qu’il y ait des mesures qui garantissent un peu d’investissement et d’emploi. Il n’y a pas de doute qu’il faille réduire la dette et contrôler le déficit, mais ce sont des mesures à moyen terme. Les mesures les plus urgentes sont celles qui favorisent l’emploi. Sinon, il y aura une spirale entre l’austérité et la récession qui nous échappera complètement.
Cela veut-il dire que l’objectif d’équilibre structurel pour 2013 n’est pas un impératif absolu pour l’Italie ?
Non. Je respecte cet objectif, mais je demande à ce qu’il soit tenu compte de l’impact du cycle. Nous ne pouvons pas encourager la récession avec l’austérité. Si la croissance se détériore encore, je demanderai à l’Union européenne à ce que cela ne se traduise pas mécaniquement par de nouvelles coupes budgétaires. A cette réserve près, je confirme le Fiscal Compact et les engagements. Mais j’aimerais que l’on lance une réflexion au niveau européen pour se concentrer sur la croissance. Pour moi, il n’est pas vrai qu’il y a un destin différent pour l’Allemagne et la Grèce. Nous voyageons tous sur le même train en voie de ralentissement, même si certains wagons sont plus confortables que d’autres.
Comment pensez-vous pouvoir contrebalancer le dogme de la rigueur imposé par l’Allemagne ?
Je dirai à l’Allemagne : c’est vrai que certains pays n’ont pas profité de l’euro pour faire leur «travail à la maison»: pour nous, cela s’appelle Berlusconi. Il est également vrai que l’Allemagne a été un bon élève. Mais il faut aussi que l’Allemagne reconnaisse qu’elle a tiré un énorme avantage de l’euro, en termes de balance commerciale et d’économie réelle. Sans esprit de querelle, je demande que s’ouvre une discussion. Je suis prêt à dire que l’Italie est disponible à renforcer encore plus le contrôle réciproque de la finance publique.
Mais en échange, il faut que l’Allemagne reconnaisse que l’on doit trouver des voies pour relancer l’investissement et l’emploi au niveau de la zone euro. Il faut reconnaître que nous n’avons pas été à la hauteur de notre monnaie et que des déséquilibres se sont créés. Il faut trouver des instruments nationaux coordonnés ou européens pour créer de l’emploi. Car la rigueur est une condition nécessaire, mais ce n’est pas un objectif. Parmi les solutions que j’avancerais: on peut émettre des euro-bonds pour des investissements sélectifs décidés au niveau européen, des project-bonds…, on peut gérer une part de la dette à travers un «fonds de rédemption». L’essentiel est que les citoyens européens voient que l’Europe s’occupe d’emploi, sinon le grand rêve européen s’effondrera forcément.
Etes-vous d’accord avec Matteo Renzi sur le fait qu’il ne faut pas sous-évaluer l’impact de Silvio Berlusconi ?
Pleinement d’accord. Mais cette fois-ci, notre objectif est de présenter une alternative crédible aux fables. Je dis aux Italiens : je ne cherche pas à vous plaire, je veux être crédible en vous disant la vérité. C’est sur ce langage de vérité que se jouera la partie électorale.
Vous avez dit que l’Italie doit sortir de vingt ans de «dérive morale»? Qu’entendez-vous ?
La dérive morale, je l’identifie au berlusconisme. Pendant vingt ans, le système de personnalisation berlusconien, en faisant primer le consensus sur les règles, a laissé se diffuser l’idée qu’on n’a pas besoin de payer les impôts, que l’Etat est un ennemi et que les immigrés sont indésirables, sans compter la dérive culturelle. Il faut absolument corriger cette situation, car cela ne reflète pas la réalité italienne. Berlusconi n’y arrivera pas cette fois-ci, mais il faudra faire les comptes avec ce qu’il a semé. Car cela ne va pas fondre comme la neige au soleil. C’est pourquoi notre première réforme sera une loi contre la corruption, outre un texte sur les partis et une réforme de la loi électorale. Le point de départ sera le retour à la moralité et au civisme.
Un accord de gouvernement avec Mario Monti vous semble-t-il la voie naturelle au cas où le centre-gauche n’aurait pas la majorité au Sénat?
Je suis persuadé que celui qui recueillera la plus grande part du vote populaire sera en mesure de gouverner tant à la Chambre qu’au Sénat. Mais même si nous avons la majorité, vu la situation du pays, le centre-gauche ne sera pas sectaire et je m’engage à discuter avec les forces européistes, non populistes et constitutionnalistes. Notre adversaire, c’est Berlusconi, la Ligue du Nord, Beppe Grillo, et toutes les formes de populismes anti-européens. Sur le gouvernement, nous sommes prêts discuter avec Mario Monti. Ce sera à lui de se décider. Je ne veux pas que le centre-gauche apparaisse comme sectaire.
Le scandale MontePaschi di Siena fait-il peser une menace de risque systémique pour le secteur bancaire italien ?
Non. C’est un cas absolument isolé, même si d’autres banques ont pu avoir recours à des instruments dérivés. Disons que le système italien des fondations bancaires garantit une certaine stabilité, mais il y a un revers de la médaille avec le risque d’interférences des collectivités locales. Quant à l’usage de finance créative, nous sommes très en dessous du seuil d’autres expériences étrangères. Certes, nous avons reproché au gouvernement antérieur et à Giulio Tremonti (ex-minitre des finances de Silvio Berlusconi) d’avoir encouragé les collectivités locales à utiliser ces instruments dérivés. Mais notre système bancaire est moins exposé que d’autres aux risques systémiques. Notre problème est plutôt qu’à la différence du reste de l’Europe, nous avons un système bancaire qui trouve sa solidité dans son rapport avec les PME. Le cordon ombilical entre l’économie réelle et le système bancaire est très fort. Le vrai risque serait que les banques coupent les vannes à l’économie réelle pour renforcer leur solidité.
Que pensez-vous de la décision de François Hollande d’instaurer une nouvelle tranche à 75% pour les revenus au-dessus du million d’euros ?
La différence, c’est que Hollande sait où sont les riches en France. Moi, je ne le sais pas encore en Italie. Mon problème n’est pas d’augmenter les impôts, mais plutôt de taxer ceux qui ne les payent pas. L’Italie doit arriver à la moyenne européenne de la loyauté fiscale. En Italie, nous devons comprendre où sont les riches. Car nous avons très peu de contribuables qui déclarent de gagner plus de 100.000 euros et nous savons que ce n’est pas la réalité. La Banque d’Italie estime l’évasion fiscale à 100 milliards d’euros par an. Si j’arrive seulement à en récupérer 7% à 8% par an, on pourrait réduire les impôts. Alors que sur les patrimoines immobiliers, je souhaite que notre système soit plus progressif, sur les patrimoines financiers, notre stratégie est de les faire émerger. Ma stratégie n’est pas d’augmenter les tranches mais d’avoir la traçabilité. Ce que nous appelons trop facilement l’évasion fiscale est en réalité de la fraude. En Italie, il nous faut comprendre qui est riche; dans ce cas-là, on pourra corriger relativement les tranches mais je suis sûr qu’on n’aura pas besoin de mettre une tranche de 75%. Mais je le dis tout de suite: il n’y aura plus jamais d’amnistie fiscale en Italie.
