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"La panna montata e lo scandalo di Siena", di Eugenio Scalfari

LA CAMPAGNA elettorale cui stiamo assistendo, in attesa di esercitare il nostro diritto al voto come cittadini attivi, è una delle più terremotate della storia repubblicana: populismi di varia natura che hanno come unico obiettivo l’abbattimento totale delle istituzioni; agende futuribili che si prefiggono traguardi di crescita ambiziosi, ma sorvolano sui mezzi con cui recuperare le necessarie risorse; resurrezioni di personaggi che sembravano ormai politicamente spenti e che si ripropongono alla ribalta confidando nella corta memoria degli italiani; una legge elettorale che “porcata” fu chiamata dal suo autore e “porcata” rimane. Ma come se tutto ciò non bastasse, a turbare ulteriormente il clima elettorale scoppia lo scandalo Monte dei Paschi e diventa inevitabilmente dominante in una scena già così movimentata. Non starò a ripercorrerne la storia, da una settimana è al centro dell’attenzione ed è stata raccontata e variamente commentata per quanto finora era possibile; ma non tutti i fatti sono noti e la Procura di Siena sta indagando e salvaguarda scrupolosamente il segreto istruttorio su una materia così incandescente.
Le linee essenziali della vicenda sono tuttavia evidenti: un gruppo di mascalzoni si impadronì della fondazione e della banca, si dedicò ad operazioni arrischiate di finanza speculativa, falsificò i bilanci, occultò le perdite e probabilmente lucrò tangenti e altrettante ne distribuì.

I poteri di vigilanza fecero quanto era in loro potere scontrandosi con i suddetti mascalzoni i quali avevano nascosto i documenti compromettenti per rendere più difficile l’accertamento della verità.
Ora finalmente la situazione è più chiara, la banca è stata affidata a mani sicure, i mascalzoni hanno un nome, la magistratura è all’opera; 150 dirigenti dei settori più compromessi sono stati licenziati, l’assemblea degli azionisti si è riunita, ha votato all’unanimità un aumento di capitale ed ha chiesto alla Banca d’Italia di erogare il prestito denominato Monti-Bond che sarà utilizzato per l’aumento di capitale insieme alla sottoscrizione degli azionisti. Il titolo quotato in Borsa, che nei primi tre giorni dello scandalo aveva complessivamente perso il 21 per cento, è risalito venerdì dell’11 per cento.
La banca non è a rischio di fallimento e i depositi del pubblico sono al sicuro. Restano da individuare con esattezza gli errori, gli eventuali reati e le responsabilità, ma resta soprattutto da rivedere il problema delle fondazioni bancarie in genere e di quella di Siena in particolare.
Nel frattempo il tema Monte dei Paschi ha deflagrato come una bomba nella campagna elettorale; la destra con i suoi giornali e le sue televisioni lo usa come una clava contro i “comunisti” del Pd e anche Monti lo utilizza con molta spregiudicatezza; il Pd lo ritorce con altrettanta energia; i populisti se ne avvalgono come uno strumento contundente.
Tutto ciò è sotto gli occhi della pubblica opinione e c’è poco da aggiungere salvo che dietro questo assordante clamore alcuni punti non sono stati ancora chiariti. Si tratta di punti essenziali ed è su di essi che vogliamo oggi concentrare l’attenzione.

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La prima questione riguarda gli effetti che lo scandalo Monte dei Paschi determina nell’opinione pubblica internazionale. C’è molta perplessità tra gli osservatori qualificati, banchieri, operatori, giornali qualificati. Si riteneva che il sistema bancario italiano fosse il più solido e quello che meglio aveva tenuto nelle agitate acque della crisi iniziata quattro anni fa col fallimento della Lehman Brothers, ma la vicenda Monte dei Paschi – gonfiata oltre la realtà dalle zuffe elettorali – ha intaccato la fiducia che ci era stata accordata. Speriamo che le dichiarazioni della Banca d’Italia e la pulizia in corso da parte dei nuovi dirigenti di Monte dei Paschi dissipino le perplessità degli investitori esteri e dei mercati. Lo vedremo domani. Certo non ha ben disposto il fatto che proprio quel Mussari che è all’origine dello scandalo senese sia stato eletto un anno fa alla guida dell’Associazione delle Banche italiane (Abi) dopo esser stato estromesso dalla presidenza di Monte dei Paschi. I banchieri che lo hanno eletto non sapevano nulla di quanto era accaduto a Siena? Erano ciechi e sordi oppure non davano gran peso a così gravi errori e agli eventuali reati che ne sarebbero conseguiti?

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La seconda questione che va chiarita riguarda la fondazione che controlla il Monte dei Paschi. Unica tra tutte le fondazioni italiane essa nomina la quasi totalità del consiglio d’amministrazione della banca. E qui bisogna fare un passo indietro. Sulle fondazioni bancarie ci sono state due leggi, una fatta da Giuliano Amato nel 1990 e l’altra da Ciampi quando era ministro dell’Economia nel governo Prodi. Poi, nel 2003, una sentenza della Corte Costituzionale. Il tema principale delle leggi e della sentenza riguardava i compiti e i poteri delle fondazioni e l’assetto definitivo della proprietà delle banche. Ciampi mirava alla privatizzazione; nella sua visione le fondazioni rappresentavano un ponte in attesa che il mercato registrasse un interesse ad intervenire. Nel frattempo le fondazioni avrebbero dovuto rappresentare la presenza territoriale e professionale nella dirigenza delle banche, lasciando adeguato spazio ad altri azionisti privati.

Nel 2001 tuttavia questo criterio fu modificato da Tremonti, appena arrivato alla guida del Tesoro. Nella legge finanziaria di quell’anno fu stabilito che gli Enti locali avevano diritto di nominare tutti i dirigenti delle fondazioni. Si trattava di fatto di una pubblicizzazione delle fondazioni e quindi delle banche da esse controllate, del tutto opposto ai criteri di privatizzazione della legge Ciampi. La reazione degli interessati fu il ricorso alla Consulta la quale bocciò le disposizioni di Tremonti ripristinando i criteri della legge Ciampi. Ma perché Tremonti aveva scelto un criterio che dava tutto il potere agli Enti locali? Probabilmente glielo aveva chiesto la Lega ma su questo tema il “superministro” è sempre stato coerente: il potere pubblico deve essere determinante nella politica bancaria e quindi nella proprietà degli istituti e nelle fondazioni. Per questo rifiutò sempre le richieste della Banca d’Italia (allora presieduta da Mario Draghi) di poter revocare gli amministratori delle banche quando si dimostrassero responsabili di illegalità particolarmente gravi. Si oppose altresì ad aumentare i poteri di vigilanza dell’Istituto centrale. Infine creò i Tremonti-bond, cioè prestiti alle banche che avessero bisogno di liquidità, convertibili in azioni e quindi all’ingresso diretto dello Stato.Tremonti, non a caso, è oggi uno dei protagonisti nella strumentalizzazione di questo scandalo. Il suo obiettivo è evidente e risulta dalle sue più recenti dichiarazioni: vuole coinvolgere Draghi nelle vicende Monte dei Paschi. In che modo?

La vicenda ebbe inizio con l’acquisto dell’Antonveneta da parte di Mussari (Monte dei Paschi). L’operazione doveva essere autorizzata dalla Banca d’Italia non tanto nel merito quanto nella capacità patrimoniale dell’istituto richiedente. Era l’autunno del 2007, non era ancora scoppiata la bolla immobiliare americana, i mercati erano tranquilli, Monte dei Paschi era la terza banca italiana ed aveva tutti i requisiti per estendere la sua influenza, ma Draghi per maggior prudenza condizionò l’autorizzazione ad un aumento di capitale, Mussari accettò, Monte dei Paschi fece l’aumento di capitale sottoscritto in massima parte dalla fondazione e l’operazione fu fatta. Il prezzo era alto? Certo, ma Mussari si aspettava che Antonveneta fruttasse un profitto annuo di 700 milioni con il quale in breve tempo Monte Paschi sarebbe rientrata da un investimento di quelle dimensioni. Comunque non spettava alla Banca d’Italia dare opinioni e tantomeno prescrizioni sul prezzo. Avanzo a questo punto una mia personale opinione: Tremonti ha un conto in sospeso con Draghi; il suo obiettivo oggi è di coinvolgerlo nella vicenda Monte dei Paschi. Farà il possibile per realizzare quell’obiettivo che è non solo infondato ma recherebbe gravissimo danno all’Europa e all’Italia. Spero di sbagliarmi e sarò lieto di poterlo constatare.

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Si pone tuttavia una terza e nient’affatto marginale questione che riguarda Mario Monti. Nelle campagne elettorali bisognerebbe evitare, come nella boxe, i colpi sotto la cintura, tanto più tra forze politiche destinate ad allearsi in un prossimo futuro. Ma Monti di colpi sotto la cintura ha cominciato a darne: giovedì scorso ha detto che la vicenda Monte dei Paschi riguarda direttamente il Pd. Contemporaneamente ha detto che il suo “movimento” farebbe volentieri alleanza post-elettorale con il Pdl purché epurato dalla presenza di Berlusconi. È evidente l’obiettivo: scomporre e ricomporre la vecchia “strana maggioranza” da lui presieduta dal novembre del 2011 fino al febbraio 2013. Bersani sì ma senza Vendola; Alfano sì ma senza Berlusconi e Monti federatore di moderati e riformisti. La vicenda Monte dei Paschi, purché fatta montare come la panna, aiuta; quanto a Berlusconi, lui è disposto a tutto purché gli si dia un salvacondotto giudiziario ed economico. E chi glielo negherà? Monti no di certo, Casini meno ancora perché vuole la presidenza del Senato e poi, chissà…

da www.repubblica.it

un fallimento in 7 giorni Quella mia laurea online, di Viviana Mazza

È il fenomeno del momento, con milioni di studenti Prof stellari, con un difetto: mai contatti neanche via email Mi ero iscritta con entusiasmo. Volevo sperimentare in prima persona questa rivoluzione (dal buffo acronimo MOOC) dei «massive open online courses», corsi di alta qualità aperti alle masse diventati popolarissimi dall’anno scorso e in crescita più rapida di Facebook, come ama ripetere il fondatore di Coursera, una delle tre principali piattaforme che li offrono (le altre sono edX e Udacity). Frequentare un corso universitario online forse non «suona» molto rivoluzionario. Ma immaginate centinaia di migliaia di studenti di tutto il mondo che seguono la stessa lezione, gratis e — aspetto non trascurabile — tenuta da docenti di atenei prestigiosi, come Harvard, MIT, Stanford, Princeton, Columbia (soprattutto americani; tra gli inglesi non si sono finora convinti né Oxford né Cambridge).
E dunque ho aperto il browser, digitato Coursera.org (che è stato creato nel 2011 da due professori di Stanford) e ho cominciato a scorrere la lista dei corsi disponibili, dalla medicina all’informatica, dalla musica alla finanza, immaginando oltre due milioni di studenti (tanti si sono registrati finora) in giro come me sul sito. Alla fine ho scelto «Think Again: How to Reason and Argue» (Ripensaci: come ragionare e discutere). Anche per il mio professore, che si chiama Walter Sinnott-Armstrong e insegna Etica pratica alla Duke University, è il primo corso online, come ha chiarito durante la prima lezione, spuntando in una finestra tipo YouTube sul mio laptop. Ha parlato per otto minuti presentando il programma e promettendo che ci saremmo divertiti. Gli ho quasi creduto quando, alla seconda lezione, ha postato il link ad uno sketch dei comici inglesi Monty Python («La clinica delle discussioni») per spiegare la differenza tra discutere e litigare. Ho smesso di credergli quando ho scoperto di dover rispondere a una serie sterminata di quesiti a risposta multipla. Ma il vero difetto insormontabile è un altro. È che con i suoi capelli arruffati, gli occhiali tondi e la libreria alle spalle, Walter era tutto ciò che avrei potuto volere da un prof di filosofia, eccetto per l’aspetto più importante: la possibilità di chiacchierarci insieme. «Per favore NON inviate email ai docenti»: le regole sono chiare. Così, dopo aver guardato i nove video della prima settimana, ho cominciato a procrastinare.
Non sono l’unica. Pare, infatti, che solo il 10 per cento degli iscritti completi questi corsi online. La mia classe ha persino creato un forum dove discutere le ragioni per mollare: molti si lamentano di non aver capito bene a cosa andavano incontro. Certo, essendo facile iscriversi (letteralmente con un click), non sei costretto a valutare seriamente se hai il tempo e la voglia di investire 7-8 ore di lavoro settimanali (per 2-3 mesi) per «tornare a scuola». La questione, però, è soprattutto: perché dovresti? Il punto è che i MOOC al momento non ti danno una laurea ma soltanto un attestato di completamento del corso. A dire la verità, in America (e non solo) qualche università sta cominciando a riconoscere alcune lezioni virtuali (a volte richiedendo integrazioni faccia a faccia, le chiamano flipped classes; e un esame «dal vivo»). Coursera, edX e Udacity sono state anche contattate da datori di lavoro potenzialmente interessati agli studenti migliori. Restano però diversi problemi da risolvere: come sostenere i costi in futuro (le aziende pagheranno in cambio dei nomi dei primi della classe? agli allievi toccherà versare una somma per i certificati finali?); come impedire plagio e imbrogli nei quiz; e va ancora convinto il grande pubblico che l’istruzione sul web possa essere rigorosa e di qualità come quella tradizionale.
Nonostante tutto, nella mia classe, c’è gente di tutto il mondo: in un forum intitolato «da dove veniamo» ho incontrato tanti americani quanti africani e asiatici. Sospetto che alcuni si siano iscritti come me per vedere di che si tratta, visto che esperti della Rete come Clay Shirky hanno profetizzato che i MOOC cambieranno l’università come Napster ha fatto con la musica e Wikipedia con le enciclopedie. Alla fine, ho «incontrato» pure un’italiana: Alessia, 45 anni, un figlio, responsabile del marketing in una società finanziaria, anche lei con una dose di lauree e master «vecchia maniera». Ma non le è bastato. Questo è il terzo corso online che frequenta e si è già iscritta ad altri due (uno di algebra). Mentre io sono bloccata alla seconda di 12 settimane (e il professore avanza nella nona), lei ha seguito tutti i video con puntualità svizzera, ha fatto tutti i compiti (anche quelli facoltativi) e tutti i quiz. E mentre io guardavo Walter nella solitudine di un eterno primo giorno di scuola (con l’unico sollievo di poter restare in pigiama), lei creava su Facebook un gruppo per italiani intitolato «How to argue» per aiutarsi e incoraggiarsi a vicenda: un centinaio di studenti si sono aggregati, anche se solo quattro o cinque sono al passo come lei. Con due compagne, Margherita e Anna, s’è incontrata pure via Skype per mettere a punto un sillogismo (in video) da presentare come compito a casa (sì, era facoltativo). Alla mia domanda «perché?», non ha esitato a rispondere: «Perché mi piace studiare». E ha aggiunto: «Ma davvero hai intenzione di mollare?». Era solo naturale che tra i 180 mila compagni di classe in un corso di logica incontrassi la mia nemesi.
Chissà, forse Alessia ha ragione. Walter non ha tempo per noi (vivrà già nel terrore che gli intasiamo la mail) ma quel che perdi nel rapporto col prof lo puoi guadagnare partecipando ad una comunità globale e intergenerazionale (dai 16 agli 80 anni, a giudicare dal forum «che età abbiamo»). Tra l’università «vera» e quella virtuale preferirò sempre la prima, ma conoscendo i costi proibitivi di un’istruzione prestigiosa e avendo scoperto che un’undicenne pachistana di nome Khadijah ha potuto studiare fisica su Udacity, penso che ampliare le opportunità con la tecnologia non guasti affatto. Sì lo so, a questo punto dovrei dirmi pronta a studiare algebra per puro piacere. Ma credo che invece andrò a guardare per intero i Monty Python.
da Il Corriere della Sera

"La Giornata della memoria. Ricordare guardando al presente", di Adriano Prosperi

“A poco a poco il ricordo…” : Saul Friedländer ha raccontato nel bellissimo libro che ha questo titolo l’emozione dell’affiorare nella coscienza del ricordo dei genitori e dell’infanzia ebraica dopo anni di vita in un collegio religioso che per salvarlo gli aveva dato un nome e una identità cristiana. Ma gli insondabili abissi della memoria personale che ispirarono a Sant’Agostino espressioni di religioso tremore sono cosa diversa dalla memoria collettiva orientata da poteri di governo. La Giornata della memoria che ricorre domani ne offre un buon esempio. La legge istitutiva del 20 luglio 2000 la finalizzò al “ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati politici e militari italiani nei campi nazisti”. Qui la legge dell’ottimismo che secondo i neurobiologi governa la selezione del ricordo assume i tratti della censura consolatoria: gli italiani vi compaiono come perseguitati e vittime nonostante il dato di fatto di una responsabilità collettiva del nostro Paese e dei suoi governanti nel razzismo e nella persecuzione degli ebrei, nella guerra mondiale a fianco della Germania nazista. Ora è pur vero che al razzismo la popolazione italiana rimase in gran misura estranea sul piano delle convinzioni e su quello dei comportamenti. Lo dimostrarono gli atti di solidarietà e le forme di aiuto alla minoranza ebraica perseguitata: agì in questo una moralità diffusa di istintiva solidarietà con le vittime e coi perseguitati. Ma questa separazione tra un popolo pacifico e un potere statale aggressivo e razzista è precisamente il fatto su cui dovremmo riflettere.
Il rito della memoria della Shoah rischia di illuderci di una distanza da quel passato che molti indizi si incaricano di smentire. Allora in nome dello “stato d’eccezione” furono travolti i principi del diritto internazionale, scatenate guerre senza preavviso, calpestata la convenzione di Ginevra, eliminati malati mentali e altre persone “non degne di vivere”, praticata sistematicamente la tortura. Oggi nella metropoli del mondo occidentale la tortura è praticata e legittimata. Amaro più di tutto è stato il fallimento delle promesse della presidenza di Obama. Uno dei suoi primi atti fu l’ordine di chiusura della prigione di Guantanamo firmato il 22 gennaio 2009. A quattro anni di distanza quell’ordine aspetta ancora di essere eseguito. E intanto ha ripreso vigore nella cultura di governo americana un orientamento favorevole al ricorso alla guerra e all’impiego della tortura come atti legittimi del potere giustificati dalla regola fondamentale della lotta contro il terrorismo. Il terrorista non è un combattente di un esercito nemico in una guerra dichiarata: è un public enemy, un nemico pubblico. Lo si può torturare: anzi si deve farlo se c’è bisogno di ricavare informazioni strategiche sui piani militari dei nemici. Questo scrive John Yoo consulente del Dipartimento di giustizia degli Stati Uniti che ha fornito un allucinante elenco dettagliato delle violenze che si possono praticare senza infrangere la legge. È una deriva inarrestabile. In Germania Niklas Lumann e Winfried Brugger hanno teorizzato la cosiddetta “tortura di salvezza”, quella necessaria per far parlare il terrorista che ha messo una bomba da qualche parte. Tutto è lecito nella guerra al terrore (“war on terror”). Il presidente degli Usa può ordinare di uccidere il nemico con un atto di killeraggio travolgendo ogni diritto internazionale e dichiarare poi soddisfatto che “giustizia è fatta”: è lui il “comandante in capo” (“Commander in chief”), può assumere i pieni poteri, può scatenare una guerra. Sappiamo quali prezzi il mondo intero e le nostre società abbiano pagato alla ventata di protagonismo che gonfiò il petto di un mediocrissimo George Bush jr portando al delirio le folle americane. Un delirio simile si era già visto sulle piazze di Berlino e di Roma ai tempi dell’Asse. Sembrava che l’avvento di Obama dovesse rimettere in pista il ritorno all’osservanza delle regole democratiche. Non è stato così; e ciò ha reso malinconico di passate frustrazioni e di delusioni anticipate il ballo della festa della sua rielezione. Certo, questo non è solo un problema americano: l’argomento della “guerra umanitaria” e la voglia di esercitare i poteri speciali di “comandante in capo” che con un ordine fa levare in volo i caccia e salpare le portaerei è forte anche in Europa. Intorno a noi si levano fiammate di guerra mediorientali e africane. Queste fiamme per ora sembrano lontane da noi: e invece sono già sufficienti per incenerire i legami dell’unità europea, nati dalla restaurazione dei diritti inalienabili delle persone.
Il referendum minacciato da Cameron rischia di diventare un plebiscito ben oltre i confini dell’Inghilterra. Il fatto è che lo “stato di eccezione” schmittiano è diventato una realtà per ora solo finanziaria ma foriera di ben altre metamorfosi: come non ricordare che la crisi finanziaria fu la levatrice dell’età delle dittature e che le ricette keynesiane ne tennero fuori a stento le istituzioni democratiche degli Usa. E intanto, mentre rievochiamo Auschwitz, sarà bene non perdere di vista un presente dove la tortura è praticata scopertamente e lo stato di diritto appare sempre più remoto, come scrivono Massimo La Torre e Marina Lalatta Costerbosa in un saggio lucido ed efficace dal titolo significativo (Legalizzare la tortura?, il Mulino). Quella tortura che Alessandro Manzoni definì una “cosa morta, e passata alla storia” è ridiventata il presente del mondo globalizzato dal terrore. E in questo contesto l’ottimismo di chi si volge ai ricordi della Shoah convinto di vivere nel migliore e più democratico dei mondi possibili rischia di annebbiare la coscienza critica del presente.

da la Repubblica

La nostra Europa che non deve morire, di Vassilis Alexakis , Hans Christoph Buch, Juan Luis Cebrián, Umberto Eco, György Konrád, Julia Kristeva, Bernard-Henri Lévy , Antonio Lobo Antunes, Claudio Magris, Salman Rushdie, Fernando Savater, Peter Schneider

L’Europa non è in crisi, è in punto di morte. Non l’Europa come territorio, naturalmente. Ma l’Europa come Idea. L’Europa come sogno e come progetto. L’Europa il cui spirito fu celebrato da Edmund Husserl nelle sue due grandi conferenze pronunciate a Vienna, nel 1938, e a Berlino, alla vigilia della catastrofe nazista. L’Europa come volontà e rappresentazione, come chimera e come cantiere, l’Europa che i nostri padri hanno rimesso in piedi, l’Europa che ha saputo ridiventare un’idea nuova in Europa, che ha potuto portare ai popoli dell’ultimo dopoguerra una pace, una prosperità, una diffusione della democrazia inedite, ma che ancora una volta si sta decomponendo sotto i nostri occhi.
Si decompone ad Atene, una delle sue culle, nell’indifferenza e nel cinismo delle nazioni-sorelle: ci furono tempi, quelli del movimento filellenico, agli inizi del XIX secolo, in cui, da Chateaubriand al Byron di Missolungi, da Berlioz a Delacroix, o da Puškin al giovane Victor Hugo, tutti gli artisti, poeti, grandi intelletti di cui era ricca l’Europa, volavano in suo aiuto e militavano per la sua libertà. Oggi, siamo lontani da quei tempi. E tutto si svolge come se gli eredi dei grandi europei appena citati, mentre i greci devono affrontare un’altra battaglia contro un’altra forma di decadenza e di sudditanza, non trovassero nulla di meglio da fare che maltrattarli, stigmatizzarli, denigrarli. E spogliarli, fra un piano di rigore imposto e un programma di austerità che si ingiunge loro di adottare, del principio stesso di sovranità che proprio i greci, a suo tempo, inventarono.
Si decompone a Roma, un’altra delle sue culle, un’altra delle sue fondamenta, la seconda matrice (la terza è lo spirito di Gerusalemme) della sua morale e dei suoi saperi, l’altro luogo della distinzione fra legge e diritto, o fra uomo e cittadino, che è all’origine del modello democratico che ha dato tanto non solo all’Europa, ma al mondo: la fonte romana inquinata dai veleni di un berlusconismo che non smette di finire; la capitale spirituale e culturale talvolta annoverata, assieme a Spagna, Portogallo, Grecia e Irlanda, tra i famosi «Pigs», fustigati da istituzioni finanziarie senza coscienza e senza memoria; la capitale del Paese che inventò l’abbellimento del mondo in Europa e che appare, a torto o a ragione, come il malato del continente. Che miseria! Che derisione!
Si decompone dappertutto, da ovest a est, da sud a nord, con la rimonta di populismi, sciovinismi, ideologie di esclusione e di odio che l’Europa aveva proprio per missione di emarginare, raffreddare, e che rialzano la testa in maniera vergognosa: com’è lontano il tempo in cui, nelle strade di Francia, per solidarietà con uno studente insultato da un capo partito dalla memoria corta come le sue idee, scandivamo «Siamo tutti ebrei tedeschi»! Come sembrano lontani i movimenti di solidarietà — a Londra, Berlino, Roma e Parigi — con i dissidenti dell’altra Europa che Milan Kundera chiamava l’Europa schiava e che appariva come il cuore dell’Europa! E quanto alla piccola Internazionale di spiriti liberi che vent’anni fa si batteva per l’anima dell’Europa incarnata da Sarajevo sotto le bombe e in preda a una spietata «purificazione etnica», dove è finita e perché non la si sente più?
L’Europa si decompone, infine, per l’interminabile crisi dell’euro che, tutti percepiamo, non è per niente risolta: non è forse una chimera la moneta unica astratta, fluttuante, perché non sorretta da economie, risorse, fiscalità convergenti? Le monete comuni che hanno funzionato (il marco dopo lo Zollverein, la lira dell’unità italiana, il franco svizzero, il dollaro) non sono quelle, e solo quelle, che hanno sostenuto un progetto politico comune? Non c’è una legge ferrea secondo cui, perché ci sia moneta unica, occorrono un minimo di bilancio, di norme contabili, di principi di investimento, insomma di politica condivisa?
Il teorema è implacabile. Senza federazione, non c’è moneta che tenga. Senza unità politica, la moneta dura qualche decennio, poi, con l’intervenire di una guerra, di una crisi, si disgrega. In altre parole, senza progresso dell’integrazione politica — il cui obbligo è iscritto nei trattati europei ma che nessun responsabile sembra voler prendere sul serio —, senza abbandono di competenze da parte degli Stati-nazione e senza una franca sconfitta, quindi, dei «sovranisti» che spingono i popoli a ripiegarsi su se stessi e alla disfatta, l’euro si disintegrerà come si sarebbe disintegrato il dollaro se i sudisti avessero vinto, 150 anni fa, la guerra di secessione.
Una volta si diceva: socialismo o barbarie. Oggi bisogna dire: unione politica o barbarie. O meglio: federalismo o disgregazione e, sulla sua scia, regressione sociale, precarietà, esplosione della disoccupazione, miseria. E meglio ancora: o l’Europa fa un passo in più, ma decisivo, sulla via dell’integrazione politica, oppure esce dalla Storia e sprofonda nel caos.
Non abbiamo più scelta: l’unione politica o la morte. Una morte che può assumere tante forme e prendere varie direzioni. Può durare due, tre, cinque, dieci anni ed essere preceduta da remissioni numerose che daranno l’impressione, ogni volta, che il peggio sia stato scongiurato.
Ma la morte arriverà. L’Europa uscirà dalla Storia. In un modo o in un altro, se non accade nulla, ne uscirà. Non è più una ipotesi, un vago timore, un drappo rosso sventolato in faccia agli europei recalcitranti. È una certezza. Un orizzonte invalicabile e fatale. Tutto il resto — incantesimo degli uni, piccoli arrangiamenti degli altri, roba come fondi di solidarietà e banche di stabilizzazione — non fa che ritardare la scadenza e mantenere il morente nell’illusione di una proroga.
da Il Corriere della sera