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Se l'Europa cancella il suo passato, di Antonio Ferrari

Durante una conferenza estiva sulle derive del razzismo, un ragazzino si è alzato in piedi e mi ha chiesto: «Senta, lei ci parla dell’Olocausto. Agghiacciante, d’accordo. Ma che colpa ne ho io se i nazisti gasavano i miei coetanei?». Sarebbe stato facile attaccare con l’elenco delle atrocità, denunciare gli aguzzini e concludere con un retorico e inutile «mai più». Mi è invece venuto spontaneo rispondere così: «Vedo che hai un tatuaggio sul braccio destro. E allora, immagina che domani mattina arrivi uno e ti dica che tutti quelli che hanno un tatuaggio devono essere fermati e deportati. Oppure, al contrario: che arrivi uno e ti dica che tutti quelli che non hanno un tatuaggio devono essere deportati. Come reagiresti?».
Non ho avuto risposta, se non un imbarazzato sussulto. Come se l’orrendo macigno del passato avesse risvegliato l’incubo di un possibile presente. È facile dimenticare ed è sempre difficile trasferire il peso della memoria nei nostri giorni. Eppure, in una fase acuta di crisi globale — economica, finanziaria, ma soprattutto crisi di valori — bisognerebbe interrogarsi con spietata sincerità. E scoprire che la libertà bisogna conquistarsela e che la democrazia va protetta, giorno dopo giorno, come un bimbo in fasce. Con sistemi più o meno democratici e parlamentari, sia Mussolini sia Hitler arrivarono al potere. Ma oggi, in un mondo che dice di voler rispettare i diritti umani, in Ungheria c’è un primo ministro, Viktor Orban, che sembra nutrire nostalgia per le violenze del passato, al punto da trasferirne gli artigli contro gli immigrati; nella Grecia che ha subito l’infamia della dittatura dei colonnelli, c’è un partito di estrema destra — «Alba dorata» — che non soltanto richiama nel suo logo la croce uncinata, ma predica con violenza la pulizia etnica; persino nell’Italia democratica e impoverita c’è chi profana le tombe degli ebrei, e chi violenta una ragazza accusandola di appartenere al mondo israelita.
Ecco perché quel «mai più» è al massimo un’invocazione retorica. Oggi, i pericoli prodotti dall’intolleranza e dall’incultura non sono così diversi da quelli del passato. Abbiamo denunciato, scandalizzati, la pubblicità di una palestra negli Emirati Arabi Uniti, che presentava ai clienti uno spot vincente: «Vi faremo diventare magri come ad Auschwitz». Orrore islamico, antiebraico, terroristico. Beh, altrettanto grave, se non insopportabile, il concorso che si è svolto in Israele l’estate scorsa per premiare «Miss Olocausto», cioè la donna sopravvissuta che abbia poi avuto successo nella vita. È grave aver pensato a questa infame commercializzazione della passata sofferenza, ma ancor più grave sapere che trecento donne si sono presentate al concorso. Con simili iniziative si banalizzano le atrocità del passato, e si favorisce la campagna dei negazionisti.
È quindi evidente perché si possano comprendere le angosce dei sopravvissuti, che per oltre vent’anni hanno deciso di tacere quanto avevano subito nei campi di sterminio. Il timore di non essere creduti, e di venir persino ridicolizzati era orrendo. Una sopravvissuta, Liliana Segre, ha raccontato che alcune donne, tornate a casa dopo un lungo periodo di prigionia nei lager, furono accolte con feroce ironia: «Che cosa avete dato ai tedeschi per salvarvi la pelle?».
La ferocia è strettamente collegata all’indifferenza. Basterebbe un’immagine: quei camion milanesi che trasportavano alla Stazione Centrale, Binario 21, i deportati colpevoli di essere ebrei, durante le fredde mattinate di gennaio. Quanti hanno visto questa infamia e si sono voltati dall’altra parte? Quanti hanno frettolosamente dimenticato coloro che, in cambio di una forte somma di denaro, vendevano gli ebrei ai nazisti?
Ecco perché è importante testimoniare il coraggio, ma sarebbe più giusto definirlo «umanità» di coloro che, ascoltando la coscienza, hanno deciso di rischiare per proteggere e salvare le vittime dell’orrenda campagna di sterminio razzista. È nobile quanto ha fatto, con pochissimi aiuti ma grande determinazione, Gabriele Nissim, presidente di Gariwo, la Foresta dei giusti, per ottenere un risultato straordinario: convincere il Parlamento europeo ad approvare la «Giornata dei Giusti». Quella della Memoria, anniversario della liberazione di Auschwitz-Birkenau è domani, 27 gennaio. Quella dei Giusti è diventata, da quest’anno, il 6 marzo. Per raggiungere la maggioranza del Parlamento europeo, Nissim ha impiegato mesi di lavoro, deputato dopo deputato. Alla fine, l’obiettivo è stato raggiunto. Le difficoltà non erano dovute a preclusioni, ma appunto all’indifferenza, alla noia, all’ignoranza.
Se non si ricordassero i Giusti, si dimenticherebbero uomini come Dimitar Peshev, che salvò dalla deportazione tutti gli oltre 40 mila ebrei bulgari. O come Guelfo Zamboni, console fascista a Salonicco, che salvò gli ebrei italiani e si inventò documenti falsi per salvare numerosi ebrei greci. O come Vaclav Havel, che a Praga ha lottato indomito contro la dittatura comunista. O come il libanese Samir Kassir, ammazzato perché lottava per l’indipendenza del suo Paese. O donne come Neda, martire della libertà in Iran.
I Giusti sono le voci della nostra coscienza. Uomini e donne normali, con i difetti e le passioni che abbiamo tutti, ma che davanti all’infamia, all’interesse, ai silenzi necessari per fare carriera hanno detto no. Rispondendo non agli ordini, non al dovere dell’obbedienza, ma al proprio cuore.
da Il Corriere della sera

Serramazzoni (MO) – Cena elettorale

A Serramazzoni, venerdì 1 febbraio alle ore 20, il circolo PD nell’ambito della campagna elettorale per le elezioni politiche e per le amministrative locali, organizza una “Cena con iniziativa politica” presso il Ristorante New Factory, località Campolù (sulla Nuova Estense), via per Marano 4265

L'uomo del Monte

Mario Monti attacca il Pd sulla vicenda Mps. Intanto candida Alfredo Monaci, nel cda della banca dal 2009 al 2012, e attuale presidente di Mps Immobiliare

Fuori la politica dalle banche. Non è uno dei tanti slogan della campagna elettorale ma le parole di Mario Monti che interviene sulla vicenda MPS. “Il PD c’entra in questa vicenda perché ha sempre avuto molta influenza sulla banca e sulla vita politica. Il mio non e’ un attacco a Bersani ma al fenomeno di commistione tra banca e politica che va sradicato”, ha dichiarato l’ex premier ai microfoni di ‘Radio Anch’io’.

A scorrere le liste di Monti intanto si legge che:
Alfredo Monaci, candidato n. 3 della lista Monti in Toscana
E’ stato membro del consiglio di amministrazione della Banca Mps dal 2009 al 2012, sotto la guida del presidente Mussari,
E’ stato presidente di Biver banca, partecipata da Mps sino a pochi mesi fa;
È tutt’ora Presidente Mps Immobiliare, società immobiliare del gruppo Mps.

“Ma il Monti che attacca il PD sugli incroci politica-banche è lo stesso Monti che ha candidato nella sua lista alla Camera in posizione eleggibile Alfredo Monaci, già membro del Cda di MPS dal 2009 al 2012 con Mussari, ex presidente di Biver Banca e tuttora presidente di MPS immobiliare”? Si domanda infatti Antonio Misiani, deputato e tesoriere del PD.
“Delle due l’una: o si tratta di un clamoroso caso di omonimia, oppure il presidente del Consiglio non è esattamente nelle condizioni migliori per dispensare al PD pillole di saggezza sul rapporto tra la politica e il sistema bancario”.

“Monti trova un difetto al Pd tutti i giorni, per un anno non ne ho mai sentiti”. Così il segretario del PD, Pier Luigi Bersani

“Ascolto Monti attaccare Parlamento e Pd e mi chiedo se è lo stesso premier che abbiamo sostenuto o un suo sosia a caccia cinicamente di voti” si domanda il capogruppo del Pd alla Camera Dario Franceschini sul suo profilo Twitter.

“Monti dice che il Pd c’entra con Mps? Il Pd non c’entra nulla. E la posizione del Pd in materia di derivati è chiara e trasparente come testimoniato sempre dagli atti e dai comportamenti parlamentari del mio partito. Ho visto anche le altre dichiarazioni di Monti. Io credo che sarebbe bene che il professor Monti portasse rispetto al Partito democratico”. Così Anna Finocchiaro replica a Mario Monti nel corso di una iniziativa elettorale in provincia di Foggia.

“Capisco la campagna elettorale, ma non si possono seminare dubbi gratuitamente nei cittadini. E anche la equidistanza professata da Monti nei confronti del centrosinistra e del centrodestra – rimarca il presidente del gruppo Pd al Senato – credo sia un errore controproducente per i centristi stessi. Monti sa bene quale sia stato il contributo del Pd al suo governo e quale sia stata la nostra lealtà. E Monti sa come noi che il primo obiettivo per il bene del Paese è, oltre dare un governo stabile che aiuti l’Italia a rimettersi in cammino, impedire che la destra torni al governo”.

“In ogni caso sarebbe auspicabile un maggiore rispetto per il Pd. Non si possono raccontare ai cittadini, solo per scopi elettorali, cose non vere. Altri lo fanno, da Monti non ce lo aspettiamo”, conclude la Finocchiaro.

“Non era il Pd locale che influenzava la Banca, ma era la Banca che influenzava il Pd locale tant’è che i sindaci prima di Ceccuzzi erano espressione diretta del management della Banca”. A dirlo è il responsabile economico del Partito Democratico Stefano Fassina, intervenuto a Nove in Punto, su Radio24, sul tema MPS. “Se c’è stata una gestione sbagliata, come credo, – aggiunge – riguarda le scelte manageriali. Ritengo che sia stato un errore da parte della Fondazione quello di non scendere nel capitale della Banca come hanno fatto tante altre Fondazioni, ma di indebitarsi per mantenere il 49% del capitale della Banca”. Sul rapporto del partito con la banca Fassina dice che “è nella legge che quelle nomine siano fatte dagli enti territoriali, enti territoriali che a Siena erano espressione della Banca. Cioè il rapporto tra Banca e amministrazioni o partito è inverso di quello che si tenta di descrivere”.

“Monti aveva detto di ‘salire’ in politica. Invece per ora è sceso in quella ‘meno buona’. Destra e sinistra per lui pari sono. L’Italia a differenza dell’Europa non deve avere il bipolarismo. Dopo il voto fara’ sapere con chi sta. Un po’ poco presidente e un po’ troppo vecchio. Da Prima Repubblica”. Così Vannino Chiti, vice presidente del Senato e candidato per il Pd al Senato in Piemonte, sulla sua pagina Facebook.

Per Francesco Boccia, coordinatore politiche economiche del gruppo Pd “siamo al dottor Jekyll e mr. Hyde? Mi chiedo se il Monti che dichiara sul Monte dei Paschi sia lo stesso Monti che ha candidato nella sua lista, passata al vaglio da Bondi, al numero tre in Toscana, il dottor Alfredo Monaci, già membro del consiglio di amministrazione della Banca Mps dal 2009 al 2012, sotto la guida del presidente Mussari, presidente di Biver banca, partecipata da Mps sino a pochi mesi fa, e tutt’ora Presidente Mps Immobiliare, società immobiliare del gruppo Mps. Detto questo, ricordo che il Pd ha proposto più volte la riforma delle fondazione bancarie e soprattutto l’imposizione di precisi limiti al ricorso ai derivati. Ogni volta si sono messi di traverso il Pdl e lo stesso ministro Grilli”.

da www.partitodemocratico.it

"Monti attacca i democratici. Con un compagno di viaggio, Beppe Grillo", di Fabrizia Bagozzi

La vicenda Monte dei Paschi si abbatte sulla campagna elettorale e sul Pd, attaccato non soltanto dal centrodestra o, sul versante opposto, dal leader di Rivoluzione civile Antonio Ingroia (che trova il modo di sparare su tutti, Udc e Pdl inclusi), ma da Mario Monti in persona che da qualche giorno non lesina colpi.
Il premier apre le danze in mattinata a Radio Anch’io assolvendo il proprio esecutivo («Il governo non ha responsabilità) ma lanciando un siluro contro i democratici: «Non voglio attaccare Bersani, però il Pd c’entra nella questione Mps. È coinvolto in questa vicenda perché ha sempre avuto una grande influenza sulla banca attraverso la sua Fondazione e il rapporto storico con il territorio culturale e finanziario senese».
In ogni caso, dice Monti, che peraltro apre (tatticamente?) alla collaborazione con un Pdl emendato da Berlusconi, «critico la commistione fra banche e politica». Parole che provocano la reazione democratica. Con il segretario Bersani: «Monti trova un difetto al Pd tutti i giorni, per un anno non ne ho mai sentiti». Ma non solo. Controbatte il tesoriere dem Antonio Misiani: «Ma il Monti che attacca il Pd sugli incroci politica-banche è lo stesso Monti che ha candidato nella sua lista alla camera in posizione eleggibile Alfredo Monaci, già membro del cda di Mps dal 2009 al 2012 con Mussari, ex presidente di Biver Banca e tutt’ora presidente did Mps immobiliare?».
Mentre il responsabile economico del partito Stefano Fassina entra nel dettaglio: su Monte dei Paschi il Pd «non ha nulla a che vedere con una gestione manageriale le cui responsabilità le accerta la magistratura». Il Pd c’entra nel senso che ha espresso i vertici amministrativi che, secondo la legge, nominano i propri rappresentanti nella Fondazione. «Ceccuzzi, sindaco dem, il primo non espressione di Mps, ha introdotto una discontinuità profonda, ha fatto arrivare a Siena manager indipendenti e di elevata professionalità». E Francesco Boccia: «Il Pd ha proposto più volte la riforma delle fondazione bancarie e soprattutto l’imposizione di precisi limiti al ricorso ai derivati. Ogni volta si sono messi di traverso il Pdl e lo stesso ministro Grilli».
Riflette l’ex sindaco di Torino, oggi presidente della Compagnia di San Paolo, Sergio Chiamparino: «In quella realtà c’è stato un rapporto di eccessiva pervasività fra Fondazione e banca». Ad attaccare i democratici anche Beppe Grillo, che ha partecipato all’assemblea di Mps: «Bisognerebbe chiamare tutti i segretari del Pd (?) dal ’95 a oggi e fargli delle domande: qualcuno dovrà dire dove sono andati i soldi. Chi doveva controllare: Draghi, la Tarantola, la Consob?». E mentre il governatore di Bankitalia Ignazio Visco da Davos osserva che «la Banca d’Italia fa attività di vigilanza prudenziale e non di lotta al crimine», il ministro dell’economia Grilli riferirà martedì in parlamento. Intanto ieri l’assemblea del Monte dei Paschi ha dato il via libera al piano di salvataggio approvando l’aumento di capitale che servirà a garantire i “Monti bond”. E in Borsa, dopo tre giorni in caduta libera, il titolo Mps ha strappato un rialzo dell’11,36%.

da www.europaquotidiano.it

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“Il Pd, che non c’era nel 1995”, di Stefano Menichini
Il tempo e la magistratura chiariranno le responsabilità personali e istituzionali e metteranno nella giusta prospettiva la vicenda Monte Paschi. Nel frattempo però la strumentalizzazione elettorale non si placa, altri sono saliti a bordo (perfino l’insospettabile Monti) ed è prudente aspettarsi, come spiega su Europa Paolo Natale, un riflesso negativo sui sondaggi del Pd.
Potevano reagire meglio all’assalto, Bersani e i dirigenti democratici che sul tema si sono esposti? Nella sua efficacia e sinteticità, la frase del segretario (il Pd che fa il Pd e la banca che fa la banca) rischia obiettivamente di rimanergli appiccicata, come quell’altra famosissima e infelicissima battuta telefonica di Piero Fassino.
Il problema di quella frase è che essa è vera solo adesso. Ed è vera solo se presa alla lettera: «Il Pd fa il Pd…». Già nella confusione intenzionale operata ieri da Beppe Grillo a Siena («chiediamo chiarezza ai segretari del Pd dal ’95 a oggi», come se il Pd non esistesse solo dal 2007) si annida l’insidia: c’è un percorso (faticoso, lento, a sbalzi) di laicizzazione e trasparenza nei rapporti tra politica, economia e finanza che il Pd può rivendicare, ma che implica una discontinuità rispetto a un passato molto diverso, molto più contestabile, molto più imbarazzante. La stessa discontinuità che per esempio ha indotto Bersani, diversamente dai suoi prededessori d’ogni partito, a tenere il Pd fuori dalle nomine nel cda Rai.
Mps dovrebbe suonare da lezione per chi fra i democratici trasmette messaggi espliciti o subliminali di ritorno al passato. Prospetta la restaurazione di una mitica forma partito radicata e ramificata nel tessuto sociale. Torna a proporre ricette di ampia presenza pubblica nell’economia e nella finanza. Perché virtù e vizi di quel sistema si tengono. E se tu (anche senza dichiararlo) vuoi riavvolgere il nastro fino a Pci-Pds-Ds, sappi che quel nastro ti riporta anche a Rocca Salimbeni coi sindacalisti Cgil che passano agilmente dal cda della banca alla fascia di sindaco per tornare al board della Fondazione, in consociativo accordo coi democristiani locali (altro fenomeno tipico del vecchio sistema dei partiti di massa).
Davvero non sarà passato invano, lo scandalo Mps, se sarà servito a ricordare quanto è importante, vitale, che il Pd sia effettivamente una cosa nuova. Sotto tutti, ma proprio tutti i punti di vista.
da www.europaquotidiano.it

"Un’agenda per essere meno provinciali e più europei", di Nicola Cacace

RISPETTO A UNA CAMPAGNA ELETTORALE CHE PARLA DI ALLEANZE E DI TASSE, la Cgil costringe tutti a mirare più in alto, con un’agenda centrata sul lavoro negli Stati Uniti d’Europa. Un nuovo modello di sviluppo ecocompatibile, una ripresa della domanda interna trainata da consumi e investimenti pubblici e privati per mettere in sicurezza l’Italia, dal territorio ai suoi beni storico-artistici. Una nuova responsabilità pubblica nel finalizzare all’occupazione «piena e di qualità» gli investimenti necessari, nazionali ed europei, una nuova solidarietà europea che non disdegni di mutualizzare almeno il 20% dei debiti nazionali, così tagliando finalmente le unghie a una speculazione finanziaria vincente sinora più per carenze europee che nazionali, che pure non mancano.
Il Piano parla di investimenti finalizzati al nuovo modello di sviluppo che, a norma delle linee guida già approvate dall’Europa ma non ancora rese esecutive dovranno poter essere detratte dal Fiscal compact. Di fronte ai passati decenni dove lo sviluppo era trainato da consumi e indebitamento e la finanza straripava sottraendo risorse all’economia reale e al lavoro, la Cgil propone con il Piano un nuovo modello di sviluppo aperto ai contributi di tutti, a partire da quelli più auspicati delle organizzazioni sindacali e sociali e di tutta la società civile.
Non è un libro dei sogni anche se ha lo spessore dell’ambizione, come quella di trasformare gli attuali (vergognosi), tasso di occupazione più basso d’Europa e tasso di disoccupazione più alto d’Europa, in numeri più in linea con il Vecchio continente. A fronte dei quali Fabrizio Barca, che pure ha elogiato il Piano per la forza del suo grido di dolore e di reazione nel rifiuto di una marginalizzazione del lavoro «quello vivo» della precarietà ed iniquità dei giovani, e quello «morto» incorporato nel patrimoni storico-artistico massacrato dall’incuria passata, ha ammonito sulla difficoltà di pensare a tempi non graduati sull’attuale stato della nostra pubblica amministrazione, di cui egli ben conosce le lacune.
Il piano si rivolge all’Europa proprio perché attacca frontalmente quella strategia dell’austerità portata avanti sinora soprattutto per impulso dei paesi del nord, Germania in testa. Una strategia che, come ha sottolineato anche Silvano Andriani, non è più un “unicum” nel mondo, visto che potenze a noi simili per dimensioni del debito pubblico, come Stati Uniti e Giappone l’hanno abbandonata e sostituita con politiche di sostegno della domanda interna e politiche monetarie più espansive. Insomma Keynes più Shumpeter, come auspica il piano. Visto come, proprio per la contrazione della domanda interna da politiche di austerità senza sviluppo, l’Europa è in piena recessione. Cosa ci dice il piano? Se la domanda non cresce non si crea lavoro. Se le diseguaglianze non si riducono non ci sarà ripresa. Anche se rilanciare la domanda è misura necessaria ma non sufficiente per creare lavoro. C’è il problema attualissimo del “jobless growth” da tecnologie riduttive di posti di lavoro cui noi, il mondo e tutta l’Europa dobbiamo guardare con attenzione in epoca di globalizzazione. Anche con una crescita economica “europea” e non “cinese”, del 2% 3% annuo, è possibile che non si crei lavoro per tutti se non si ritorna a politiche di redistribuzione del lavoro.
Interessanti a questo proposito gli ammonimenti simili venuti da due personaggi diversi come Landini e Giuliano Amato, il primo ricordando i casi tedesco ed olandese degli orari ridotti, il secondo ricordando le tecnologie “job killing”, entrambi auspicando implicitamente una ripresa del processo storico di riduzione degli orari, dimezzati da 3000 a 1500 ore/anno nell’ultimo secolo e che oggi sono invece contrastati da provvedimenti come la pensione a 70 anni, la fiscalizzazione degli straordinari, etc… L’iniziativa coraggiosa ed europea della Cgil è anche una risposta, ardita e difficile, alle accuse di conservazione di recente rivoltele dal premier Monti. Si può contestare l’agenda a medio termine del maggior sindacato italiano, si deve riconoscere che essa contiene obiettivi economico-sociali più definiti e con qualche quantificazione in più di altre agende presentate come più ambiziose. Naturalmente il tema delle diseguaglianze, che tutti i dati di successo dei Paesi meno diseguali, Austria, Germania, Francia, Olanda e Paesi scandinavi, dimostrano essere sempre più un obiettivo di sana economia oltre che di democrazia e civiltà, è stato fortemente sottolineato da Pier Luigi Bersani che non ha mancato di rimarcare come la necessaria ripresa della domanda interna non può essere di una domanda qualsiasi. E questo non sarà l’ultimo dei problemi che, come prossimo presidente del Consiglio, dovrà affrontare.
da L’Unità

"Bersani prova a dare una chance alla Cgil. Ma Barca lo stoppa", di Paolo Baroni

Sul lavoro, quello che drammaticamente oggi non c’è, ma soprattutto quello «buono», «vivo» e «qualificato», che si vorrebbe creare sono ovviamente tutti d’accordo, la Cgil, il Pd, Sel, la sinistra tutta. Idem sull’analisi della crisi terribile che sta vivendo l’Italia. È sulle ricette concrete che i conti non tornano.

La Cgil lancia il suo «piano» da 60 miliardi, obiettivo portare in tre anni la disoccupazione al 7% puntando su investimenti pubblici e non (+10,3%) in modo tale da far crescere il Pil di 3 punti, ed incassa il consenso dell’intero centrosinistra che ieri schierava Bersani, Vendola, Tabacci e anche Giuliano Amato. «L’analisi della situazione dovrebbe essere patrimonio comune. Ma siamo d’accordo solo noi?» si chiede con un pizzico di polemica il leader del Pdi, che anche sul lavoro punge Monti. Susanna Camusso, giusto per mettere a tacere chi parla di collateralismo tra sindacato e futuro governo, chiarisce subito che sarebbe un «orrore» di sentirsi dire dai suoi ospiti «il tuo programma è il mio programma»: «l’esperienza ci dice che è strada sbagliata e scivolosa». E poco importa se da Guglielmo Epifani, possibile ministro del Lavoro in pectore, in giù la schiera dei sindacalisti candidati dal Pd sia particolarmente folta.

Tasse e tante spese
Il libro dei sogni del più importante sindacato italiano, che ovviamente non si può chiamare “libro dei sogni”, non è cosa tanto facile da attuare in concreto. Non basta a renderlo realizzabile le 622 pagine del «libro bianco» curato da Laura Pennacchi, economista ed ex sottosegretario del governo Ciampi, che teorizza «scelte non convenzionali in economia». Che si ritrovano infatti a pieno nel mix di proposte messe in campo dalla Cgil: dall’idea di incassare 40 miliardi di euro dal recupero dell’evasione e dall’introduzione di una nuova patrimoniale chiamata «Imposta strutturale sulle Grandi Ricchezze», a quella di far assumere dallo Stato ben 175 mila giovani (costo 10 miliardi), sino al progetto di far «socializzare» il debito pubblico dei paesi europei alla Bce, che dovrebbe comprare e poi cancellare 1900 miliardi di bond. Per l’Italia sarebbe un «regalo» da 318 miliardi che farebbe scendere il famigerato rapporto debito/pil al 99%; ma per arrivarci, mission impossible, si dovrebbe cambiare non solo lo statuto della Banca centrale europea ma diversi trattati europei. Poi si allungherebbero le mani sul patrimonio delle fondazioni bancarie, sulle disponibilità della Cassa depositi e si vorrebbero utilizzare le risorse dei fondi pensione per investimenti produttivi e non finanziari. Questo, assieme a 20 miliardi di tagli agli sprechi nella Pa, al riordino dei trasferimenti alle imprese (10 miliardi) e dei fondi europei (10 miliardi) ed al calcolo fuori dal patto di stabilità di una serie di investimenti, servirebbe a mettere da parte un «tesoretto» da impiegare su cinque filoni portanti: progetti prioritari (4-10 miliardi), programmi del piano straordinario del lavoro di creazione diretta di lavoro (15-20), sostegno all’occupazione e ammortizzatori (5-10), piano per un nuovo welfare (10-15 miliardi), infine restituzione fiscale (15-20).

Il nodo patrimoniale
Bersani sorvola sulla patrimoniale (piace tanto a Vendola, ma è noto che il leader Pd adesso non vorrebbe andare oltre la rimodulazione dell’Imu), dice sì all’eurotaglio del debito (che difficilmente può essere digerito da Monti, mentre sulla patrimoniale lui ha già dato con l’Imu). Tace anche delle assunzioni nel pubblico (quasi un’eresia in tempi di spending review), e parla del superamento del patto di stabilità dei comuni per avviare subito quante più micro-opere possibili: manutenzione scuole, difesa dell’ambiente, mobilità urbana, ecc. Insomma identità di vedute su tutto. O quasi. «Sulle cose da muovere per fare crescita ci si può intendere» ammicca Bersani.

I punti critici
A metà strada tra Pd e governo dei tecnici, tra attenzione alla questione sociale e pragmatismo, il ministro per la Coesione sociale, il «tecnico rosso» Fabrizio Barca, non si fa invece scrupolo di indicare tre punti deboli del piano-Camusso: la copertura finanziaria difficile da realizzare con la lotta all’evasione, la scarsa attenzione data al rilancio del settore manifatturiero che resta invece centrale, e soprattutto l’eccesso di ottimismo di un piano che già quest’anno dovrebbe fare miracoli.

Monti agli antipodi
Anche al netto delle baruffe di campagna elettorale, anche per queste ragioni, è difficile pensare di incrociare l’agenda Bersani-Camusso con quella di Monti. Che resta il paladino del rigore prima di tutto e non può certo vedere di buon occhio un così massiccio intervento pubblico, e soprattutto che tiene ferma la barra del rigore, concede poco al taglio delle tasse, punta molto sulla capacità del mercato e dei soggetti che vi operano di creare sviluppo alleggeriti di quelli che una volta si chiamavano lacci e lacciuoli ed inquadra la questione lavoro soprattutto come una questione di regole, in chiave liberista sostengono Cgil, Fiom e sinistra tutta.

Quindi l’ipotesi che Pd e Sel, a urne chiuse, debbano cercare un’intesa politico-programmatica col premier per avere una maggioranza più solida si fa alquanto complessa. Nichi Vendola ieri ha scavato un solco profondo: «Susanna, quanta innovazione quanto coraggio nei vostri piani!», nulla al confronto «dell’agendina di Monti». Secondo Giuliano Amato, una volta inquadrato il problema, e detto che la questione lavoro non si risolve nè dando addosso al sindacato nè riscrivendo di nuovo le regole, non bisogna litigare sulle singole misure: si «può discutere dell’una o dell’altra proposta, ma per me oggi è già importante arrivare a fare l’inventario delle cose da fare, degli investimenti che servono a migliorare il paese». Insomma è da qui che dovrebbe partire il futuro governo. Come e cosa fare poi si vedrà.

da www.lastampa.it

"I nuovi analfabeti, ignoranti di ritorno", di Roberto I. Zanini

Analfabeti in quattro mosse. O meglio, in quattro date: 1985, nascita di Explorer; 1996, maturazione della prima generazione di nativi digitali; 2001, crescita esponenziale dei non istruiti; 2006, i non istruiti tornano a essere la maggioranza.
Sempre che non ci si trovi agli albori di un nuovo alfabeto. Ma andiamo per ordine.
Tutto lo si può far cominciare con i dati Istat 1951, secondo i quali il 46,3% degli italiani erano senza licenza elementare e circa il 50% di costoro era analfabeta totale. Scenario completamente trasformato nel 2011, quando il 53% della popolazione ha almeno il diploma e solo il 5% non ha alcun titolo di studio. E allora, dov’è il problema? È in un recente studio di Arturo Marcello Allega, Analfabetismo. Il punto di non ritorno (Herald Editore) che, ricchissimo di grafici e tabelle, rimette tutto in discussione. Gli aridi numeri della statistica, vi si legge, non documentano affatto il successo dell’istruzione dal ’51 a oggi. A ben analizzarli, infatti, risulta non solo che una buona fetta della popolazione non è in linea con gli attuali limiti dell’obbligo scolastico, ma che c’è anche, a partire dal 2001, una crescita esponenziale degli analfabeti di ritorno al punto da dire con «precisione matematica» che oggi i non istruiti sono più degli istruiti. A sottolineare il concetto di «precisione matematica» è lo stesso Allega che, docente di fisica e dirigente scolastico di un importante liceo romano, si occupa da sempre di modelli e di tecniche didattiche anche per il Miur. Una competenza e una pratica quotidiana tale da consentirgli di ben rappresentare la «disperazione dei docenti» di fronte all’incapacità delle riforme ministeriali e dei recenti indirizzi scolastici di far fronte alla «disperante situazione dei nostri ragazzi».

Se infatti si prendono per buoni i dati forniti sia dagli studi “Invalsi” che da quelli “Ocse-Pisa” (che sta per Programme for International Student Assessment), si scopre che «in terza media il 98% dei ragazzi si colloca sotto la media europea per capacità di apprendimento, ma oltre il 99% supera l’esame. Un paradosso che evidenzia l’incapacità istituzionale di governare quella che nei fatti è un’emergenza concreta».

Dunque le positive statistiche del 2011, rispetto a quelle del ’51, dicono in realtà il falso.
«La constatazione l’avevano già fatta Tullio De Mauro e Saverio Avveduto in un libro Laterza del 1995. Se dopo aver conseguito un titolo di studio un individuo non continua ad esercitare e aggiornare le conoscenze apprese, succede che finisce per perderle. Secondo De Mauro e Avveduto le perde in un periodo quantificabile negli anni che ha impiegato per ottenere il titolo. Se ha la quinta elementare ci mette 5 anni, se ha la licenza media ne impiega 8 e via dicendo…».

Per costruire il suo modellino matematico ha applicato queste scadenze?
«Sono stato più buono. Ho stimato un tempo di azzeramento più ampio per ogni fascia di istruzione e l’ho applicato ai dati Ocse forniti ogni decennio per le medesime fasce. Poi sono andato a vedere quanti sono coloro che possono aver perso le competenze relative al loro titolo di studio. Ho incrociato i dati con altri parametri come gli indici di lettura».

Ed è emerso?
«Che le curve generate dal modello tendono ad avvicinarsi progressivamente all’andamento descritto dalla legge di Pareto secondo la quale gran parte dei fenomeni sono descrivibili con la proporzione 80-20».

E alla cultura nel nostro Paese questo come si applica?
«I dati dal 1971 al 2011 dicono che la popolazione con un livello di cultura non più sufficiente è ormai il 70% del totale. Ho misurato anche la velocità con la quale crescono le due popolazioni e ho scoperto che il boom di crescita dei non istruiti si è avuto a partire dal 2001. In sostanza dal 1981 al 2001 sono cresciuti del 4%, ma dal 2001 al 2011 sono cresciuti del 16%. Al contempo gli istruiti, che dal dopoguerra erano sempre cresciuti, dal 2001 sono diminuiti del 6% fino al punto che nel 2006 i non istruiti hanno superato gli istruiti crescendo poi in maniera esponenziale».

Questo prendendo per buono il suo modello applicato al ragionamento di De Mauro e Avveduto. Ma il suo libro evidenzia anche dati reali che lasciano perplessi.
«Nessuno ci pensa, ma la percentuale dei laureati sulla popolazione è stabile da ormai una decina d’anni e si colloca fra il 12 e il 13%. Analogamente la percentuale dei diplomati, attestata fra il 38 e il 39%. Mentre da circa vent’anni la percentuale di chi non ha alcun titolo di studio, anche a causa dell’immigrazione, è fra il 7 e il 5%».

Numeri che nel libro lei associa a fenomeni sociali come l’avvento di Internet.
«Non è un caso che la prima delle quattro date che secondo me hanno rivoluzionato il mondo la indico nel 1985, anno della comparsa di Explorer e quindi del web. Così come quella del 2001 coincide con l’esplosione della diffusione delle tecnologie digitali. Si può anche pensare che stia nascendo un nuovo alfabeto e che quel 70% non sia composto da “nuovi barbari”, ma da “nuovi alfabeti”. Nei fatti, però, ci troviamo in un mondo del tutto nuovo in cui il successo sociale ed economico, così come propagandato dai media tradizionali e da internet, appare slegato dalle capacità culturali dell’individuo. Si assiste all’arroganza del self made man orgoglioso di essere senza studi. La scuola è impreparata. E mi viene da pensare che una società democratica rischia, su questa strada, di diventare sempre più manovrabile e fragile».

da Avvenire