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Quando la Storia si fa con le Battute, di Pierluigi Battista

Avesse declamato la massima più frequentata dai nostalgici, «i treni arrivavano in orario», la perorazione pro-mussoliniana (e pre-rituale rettifica) di Berlusconi avrebbe raggiunto la perfezione della battuta al bar di sera. Mussolini aveva fatto «cose buone»? Sicuro, mica c’era la delinquenza di oggi, e «si dormiva con le porte aperte». Questa non l’ha detta Berlusconi? No, questa (ancora) no. Ma più o meno, ieri, l’ex premier era nello spirito adatto per dirla.
Tutti a scervellarsi sull’enigmatico perché. Ma questa cosa di Berlusconi che, nel Giorno della Memoria, nel corso di una cerimonia che avrebbe dovuto essere solenne, si è messo a disquisire sulle cose «buone» che Mussolini avrebbe fatto, che significato ha? Possibile che Berlusconi non capisca che in una giornata molto particolare non solo in Italia ma in tutto il mondo, nel ricordo imperituro dell’Olocausto, non è che ci si può concedere ai microfoni dei cronisti come se si dovesse sciorinare l’ennesima battuta sull’Imu da abolire sulla prima casa? Ipotesi dietrologica: è stato forse un messaggio subliminale a ciò che resta di un elettorato fascista o neofascista? Ipotesi fantasiosa: aveva forse saputo che le liste di CasaPound (poi rientrate in lizza) non erano state accettate? Ipotesi realistica: non era esattamente nelle condizioni di soppesare con un minimo di saggezza le avventurose considerazioni storiografiche in cui si stava cacciando? Ipotesi estremista: era una voce dal sen sfuggita, perché in cuor suo Berlusconi è un cripto-fascista come da decenni vanno dicendo i suoi detrattori? Ipotesi psico-politica: era già in uno stato di semi-sopore prima che i fotografi lo cogliessero dormicchiante durante la cerimonia delle Giornata della memoria?
Intanto, un piccolo dettaglio, per dire la vacillante conoscenza delle date della storia in casa da parte del leader del centrodestra. Nel ’38, quando Mussolini e il regime fascista vararono l’orrore delle leggi razziali, non c’era nessuna alleanza bellica con la Germania di Hitler. Non ci fu imposizione «tedesca», costrizione, patteggiamento, ricatto: il regime fascista accettò l’abiezione di quelle leggi persecutorie in uno stato di pur demenziale autonomia, non gliela ordinò proprio nessuno. Cominciò a discriminare gli ebrei per proprio conto, con vocazione imitativa nei confronti della Germania hitleriana: ma non ci fu nessuna costrizione, come con non sorvegliata velleità politico-storiografica ha invece detto Berlusconi (prima della rituale rettifica, ovvio). E poi Berlusconi non è nuovo a una lettura minimizzante ed edulcorata del regime fascista. Qualche anno fa, sembra aizzato dallo storico giornalista britannico Nicholas Farrell, non seppe frenarsi nel dire che Ventotene, durante il fascismo, più che un luogo dove venivano confinati gli oppositori del Mussolini che fece anche cose «buone», era soprattutto un ameno luogo di «villeggiatura», forse menzionando inconsciamente il titolo di un film di Marco Leto, girato per la verità con tutt’altro spirito.
Insomma Berlusconi, immortalato con un fez quando, ironia della storia, disse che avrebbe appoggiato Fini nel ’93, più volte accusato dall’opposizione più oltranzista di voler instaurare un «regime» simile a quello fascista, sfidato da Michele Santoro con una celeberrima versione di «Bella ciao» per esaltare le imprese dei nuovi partigiani in prima serata tv, sembra davvero non considerare il fascismo come un capitolo interamente oscuro della storia italiana. No, le leggi razziali, proprio no, ma c’è lo stereotipo dell’italiano brava gente a salvarci: sono stati i cattivi tedeschi ad imporceli. Certo la libertà d’opinione conculcata, gli oppositori perseguitati, ma volete mettere la ferocia repressiva fuori dell’Italia con il blando trattamento riservato agli oppositori nei luoghi di confino-villeggiatura, malgrado le descrizioni di Giorgio Amendola nell’«Isola». È un continuo ammiccare a un’opinione pubblica più «afascista» che «antifascista», un parlare a un pezzo d’Italia che alle «cose buone» di Mussolini un po’ di credito lo dà. Salvo poi, raccontano i retroscena politici (seguiti da rituale rettifica), bollare come insopportabili «fascisti» gli ex An che facevano pesare la loro presenza molesta del Pdl creando il grande rimpianto della non «fascista» Forza Italia. Salvo tirar fuori un po’ volgarmente le «fogne» per saldare i conti con il nemico Fini. Ma forse voleva riferirsi al Mussolini delle cose «cattive». Mica erano la Giornata della memoria.
Da Il Corriere della Sera

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Fuori Berlusconi dall’Europa, di Gad Lerner

L’uomo che vent’anni fa sdoganò, con abile calcolo politico, il neofascismo italiano, ancor oggi alla presidenza della Regione Lazio ricandida quel Francesco Storace di cui ricordiamo le maledizioni contro Gianfranco Fini, colpevole di aver reso omaggio in Israele al memoriale degli ebrei sterminati dal nazifascismo. Mentre in Lombardia vorrebbe cedere il comando al segretario di un partito xenofobo e antieuropeo, Roberto Maroni, che da ministro dispose la raccolta delle impronte digitali dei bambini rom.
Prima di liquidarla come ennesima gaffe (con solita smen-tita), conviene ascoltarla e riascoltarla testualmente la dichiarazione rilasciata ieri di fianco al binario 21 da cui partirono verso Auschwitz i trenimerci dei deportati. Rivelatore è l’impulso di Berlusconi a comprendere le motivazioni del regime fascista: «È difficile adesso mettersi nei panni di chi decise allora…». Ancor più netta è l’identificazione con «un leader, Mussolini, che per tanti altri versi aveva fatto bene
». D’accordo, c’è il delirio personalistico di un uomo che si ricandida per la sesta volta consecutiva a capo dell’Italia, immedesimandosi nel mito del Ventennio. Ma proprio per questo Berlusconi avverte la necessità di addomesticare la storia. Quasi che assolvendo quel Mussolini che, prima delle leggi razziali, «aveva fatto bene», gli venisse più facile chiedere poi agli italiani di chiudere un occhio anche sulle proprie, di malefatte.
Per questo ci vengono nuovamente propinate, sfregiando la Giornata della Memoria, le favole su una «connivenza non completamente consapevole » del fascismo nella persecuzione degli ebrei. Fino a pretendere indulgenza per il Duce che promulgò le leggi razziali e ordinò la deportazione nei campi di sterminio, cui sarebbero da addebitarsi «responsabilità assolutamente diverse» rispetto a quelle di Hitler. Provo un senso di vergogna a commentare simili affermazioni; pur sapendo che lo stereotipo degli “italiani brava gente” è duro a morire in un paese che per reticenza e pavidità culturale delle sue classi dirigenti (Chiesa compresa) non ha fatto con la dovuta severità
i conti con le sue responsabilità storiche.
Ormai è dimostrato incontrovertibilmente che il regime fascista aveva sprigionato il suo antisemitismo già ben prima del 1938, l’anno delle leggi razziali. Così com’è risaputo che il nazionalsocialismo tedesco aveva tratto ispirazione dalla dittatura mussoliniana, di cui era un alleato naturale. Ma la destra di Berlusconi si nutre di questa teoria giustificazionista dei due tempi, secondo cui sarebbe esistito un fascismo buono, prima, e un fascismo cattivo poi. Non a caso gli manifestava benevolenza già dieci anni fa, quando doveva pur essere più lucido: «Mussolini non ha mai ammazzato nessuno. Il Duce mandava la gente in vacanza al confino», affermava. Dimenticati in una sola boutade gli assassinii politici, i Tribunali speciali, la soppressione delle libertà democratiche che avevano preceduto le leggi razziali. Altro che «Mussolini per tanti altri versi aveva fatto bene».
Ma più ancora che il falso storico, colpisce il degrado morale rivelato da Berlusconi quando ci invita a comprendere la scelta di Mussolini alle prese con la forza di quell’alleato
tedesco che pareva destinato a conquistare l’Europa intera. Ascoltiamolo di nuovo testualmente: «È difficile adesso mettersi nei panni di chi decise allora. Certamente il governo di allora, per il timore che la potenza tedesca si concretizzasse in una vittoria generale, preferì essere alleato alla Germania di Hitler piuttosto che contrapporsi. E dentro questa alleanza ci fu l’imposizione della lotta…» – qui Berlusconi esita un attimo sull’uso osceno della parola “lotta”, prima di aggiungere – «… e dello sterminio contro gli ebrei. Quindi il fatto delle leggi razziali è la peggiore colpa di un leader, Mussolini, che per tanti altri versi aveva fatto bene».
Dobbiamo ritenere che, date le circostanze, per necessità, per convenienza, anche lo “statista” Berlusconi potrebbe subire simile “imposizione” da dittatori criminali contemporanei? Noi sappiamo bene che il Duce era razzista e antisemita in proprio, senza bisogno dell’incoraggiamento di Hitler. Ma a Berlusconi che vuole ignorarlo, e si sforza di entrare nei panni di Mussolini, dovremmo forse concedere una tale infame esitazione?
Da La Repubblica

Le città abitate dalle ombre, di Concita De Gregorio

Basterebbe allungare la mano passando in macchina accanto a via Veneto per sfiorare le camicie appese ad asciugare. Sarebbe sufficiente scendere le scale dei sottopassi vaticani, quelli costruiti per il Giubileo – sì, l’esultanza suprema – per trovare i gradini ingombri di cartoni, bottiglie, pentole ancora piene di cibo annerito sui fornelli da campo. Nel cuore di Roma, città eterna.
Sopra turisti in torpedone e miliardari in limousine, sotto – cinque metri più sotto, appena un po’ di lato – la città delle ombre. Abitata da un popolo che non ha niente, nemmeno un nome. Ci vogliono giorni per identificare i cadaveri carbonizzati. I due morti di ieri erano di origine somala, forse. C’è la testimonianza di due pugliesi, i loro vicini di cartone. «Secondo me gli hanno dato fuoco», dice uno di loro davanti alla telecamere che riprendono in primo piano il cumulo di carbone, pochi metri più indietro le auto che scendono veloci da villa Borghese.
A volte ai senza tetto qualcuno dà fuoco, in effetti. Un passatempo. E’ utile ascoltare la storia dell’uomo venuto dalla Puglia, un ragazzo italiano: era uno di noi, viveva nel mondo di sopra. La povertà lo ha preso alle spalle e l’ha rapito, lo ha portato sotto. Tra avere un lavoro e non avere più posto nel mondo è un attimo. Non importa da dove vieni, che lingua parli, di che colore hai la pelle: nella città delle ombre il destino è uguale per tutti. Puoi restare prigioniero di un cassonetto per abiti usati e morirci dentro, succede ogni settimana, a Padova e a Genova, a Roma, succede dove sei. Sui giornali diventi una breve di cronaca. Qualche volta c’è scritto che sei morto mentre rubavi i vestiti. Rubavi, nel cassonetto.
Nella Cloaca Massima, l’antica fogna all’altezza del Tevere, dormono a decine giovani che di giorno, non tutti ma molti, indossano il loro unico abito e vanno a fare i badanti, i camerieri al nero nei ristoranti e nelle case della città di sopra. Ogni tanto ne muore uno di freddo o di fuoco, ma non ha mai nome. I documenti sono un pericolo, si sa. Meglio così, direbbe quel vecchio politico: un mendicante di meno. Basta alzarsi il bavero e tirare diritto, che i ristoranti sono pieni e la miseria non c’è. Basta non guardare, accendere la tv e vedere cosa fa oggi Corona, basta dimenticarsi che i morti nel sottopasso sono uomini e chiamarli barboni, l’indomani radersi e uscire. Che ci vuole, è un attimo.
Da La Repubblica

A caccia di lavoro armati di una Rete, di Rosaria Amato

«Bisogna considerare se stessi come cacciatori e non prede delle aziende. Siamo noi a dover scegliere la vita e il lavoro che desideriamo… così i social e la Rete possono aiutarci». Parole colte da un gruppo di discussione su Linkedin, il più popolare social network dedicato ai contatti professionali, che esprimono le aspirazioni delle ultime generazioni: un mondo meritocratico, dove le aziende navighino autonomamente alla ricerca delle figure più adatte alle proprie esigenze. Un mercato del lavoro democratico, che dia giusta visibilità e pari opportunità a tutti. Negli Stati Uniti oltre i due terzi dei direttori del personale utilizzano i siti di professional networking.
Google ha selezionato negli ultimi anni migliaia di dipendenti esclusivamente online. Il Vecchio Continente non è rimasto indietro: già oggi un’azienda su quattro utilizza diversi social network per dialogare con i potenziali candidati (indagine Employer Branding Online 2012 di Lundquist). «I social network», conferma Stefano Scabbio, presidente di ManpowerGroup Italia, «sono entrati a pieno titolo nel processo di selezione del personale.
Il datore di lavoro li utilizza intanto per capire che tipo di persona sei, per questo è fondamentale che i giovani gestiscano con accortezza la loro presenza in Rete: i selezionatori la scandagliano per verificare in profondità gli aspetti del profilo dei candidati». «Da circa un anno e mezzo il mercato delle ricerche è cambiato profondamente», conferma Paolo Citterio, presidente di Gidp, l’associazione dei direttori delle risorse umane. «Un tempo si rivolgevano al loro archivio di curriculum, adesso si aiutano con le ricerche condotte sui social network, anche perché rivolgersi alle società di recruiting costa». L’attenzione da parte delle aziende spingerà sempre di più i social network, assicura Citterio, a costituire canali privilegiati e rendere i meccanismi di ricerca più raffinati, chiedendo però un contributo economico agli utenti: «In parte lo fanno già. Per esempio anche in questo momento, mentre ci parliamo, da Linkedin mi dicono che il mio curriculum è stato visto da quattro utenti, e mi invitano a versare una piccola cifra se voglio che venga visionato da altri soggetti interessati».
Un maggiore uso dei social network potrebbe essere favorito dagli enti che, come Almalaurea, si pongono come obiettivo l’inserimento dei neolaureati nel mercato del lavoro. «Al momento il ricorso ai social network per finalità di recruitment è intorno all’11 per cento», spiega Francesca Ralli, tra i curatori dell’indagine “Percezione dei laureati da parte delle imprese” condotta da Almalaurea con l’Università di Bologna e Sw, «ma se guardiamo solo alle piccole e medie imprese, che in Italia rappresentano oltre il 90 per cento del tessuto produttivo, ci si ferma al 4-5 per cento. Ed è un peccato perché è un canale che i ragazzi utilizzano molto, che le grandi aziende conoscono bene, ma che le piccole imprese fanno fatica a utilizzare, perché spesso della selezione del personale si occupano il proprietario o il direttore dell’azienda, che anche per ragioni anagrafiche hanno poca dimestichezza con i social network». L’idea di Almalaurea, spiega Ralli, è quella di svolgere indagini periodiche per capire quali siano le esigenze delle imprese, e “incrociare” questi dati col proprio database che include un milione e settecentomila laureati, arricchendolo con elementi rintracciabili attraverso i profili “social”.
La rivoluzione sta per arrivare dunque anche in un mercato del lavoro asfittico come quello italiano, dove le conoscenze personali e familiari sono l’unica carta da visita dall’esito certo (il 55 per cento dei giovani trova la prima occupazione attraverso segnalazioni di parenti e amici, rilevava l’Istat in un’indagine del 2010; secondo Unioncamere viene assunto per conoscenza diretta il 50,7 per cento dei dipendenti, ai quali è da aggiungere un 10,3 assunto sulla base della segnalazione di conoscenti/fornitori). Del resto il 91 per cento degli italiani tra i 18 e i 30 anni è iscritto a un social network, il 55 per cento a un forum, il 34 segue uno o più blog con continuità, il 17 ne ha uno proprio (dati Duepuntozero): decisamente, i tempi sono maturi. «Grazie allo sviluppo del web e dei social, comincia a diventare determinante l’identità digitale legata alla persona», dice Davide Neve, ceo di Skillbros, startup nata da alcuni mesi con l’obiettivo di permettere ai propri utenti di “vendere” in rete le proprie competenze. Il futuro, assicura Neve, vedrà uno scambio di ruoli tra selezionatori e chi cerca di lavoro: «La prima fase non sarà più l’invio di un curriculum con conseguente attesa di un primo colloquio, ma l’interazione diretta con l’azienda che avrà con il candidato un primo approccio online».
Ma non è detto che le relazioni e i contatti stabiliti in Rete portino a un rapporto di lavoro tradizionale. Possono anche mettere insieme talenti, e favorire la nascita di startup. Ancora una volta, gli Stati Uniti hanno giù tracciato la strada, anche perché, assicura Neve, «da noi s’investe nelle startup l’equivalente di un dollaro per persona contro gli 84 investiti in America e i 15-20 investiti in Germania». Se tutti gli analisti concordano nell’affermare che quello dei social network sarà il canale privilegiato di confronto e azione in futuro, e la “reputazione” virtuale farà guadagnare o perdere molte opportunità, è difficile stabilire qual è attualmente il peso dell’e-recruitment in Italia. Qualche mese fa ha avuto molta risonanza un’indagine diffusa da Hr & Communication specialist, secondo la quale il 37,5 per cento delle imprese usa i social network per la selezione dei candidati. Ma da altre ricerche emergono risultati meno entusiasmanti: secondo l’indagine Excelsior di Unioncamere meno del 3 per cento delle imprese ha utilizzato nel 2011 i social network per il recruitment. Più ottimistici i dati di Gidp: i social network vengono usati per selezionare dirigenti e quadri dal 9 per cento delle imprese; per gli impiegati la percentuale scende al 6. Ma percentuali a parte una cosa è chiara a tuttio: il lavoro 2.0 è già cominciato e, assicura Scabbio,«non torneremo indietro».
Da La Repubblica

Noi ricordiamo tutto, di Emanuele Fiano

68 anni, l’età di un nonno, è l’età della nostra memoria.
Noi che non c’eravamo, noi che non abbiamo visto direttamente, noi che non abbiamo ascoltato i suoni e percepito gli odori, noi che non siamo stati resi schiavi, feriti, torturati, stuprati, gasati, bruciati; noi ricordiamo tutto, come parola incisa su pietra nel nostro cuore e nella nostra mente.
68 anni fa si riaprivano i cancelli di Auschwitz, tutt’intorno era silenzio, morte, cenere di ossa umane, milioni di ossa umane di schiavi trucidati, e scheletri vaganti, nella campagna polacca e nei resti della cultura occidentale.
Da 68 anni, quelle ceneri e quegli scheletri impongono al mondo di non smettere di comprendere che ciò che è stato può ripetersi. Fu quello il tempo dello sterminio degli ebrei, lo Shoah, i 6 milioni di ebrei europei assassinati con il progetto di sterminarli tutti, ma fu anche il tempo dell’atroce sorte di antifascisti, partigiani, di omosessuali, di Sinti e Rom, di disabili, di Testimoni d Geova, e di molti altri a segnare l’inferno realizzato dai nazisti e dai fascisti d’Europa.
Di tutto ciò a noi rimane la scelta della memoria. Chi è tornato, ci ha consegnato la battaglia contro l’indifferenza, come simbolo del vivere e non del sopravvivere, chi non è tornato pretende da noi Il futuro della memoria, ed è questo dunque il nostro perenne dovere di esseri umani.
Da www.partitodemocratico.it

Il requisito minimo della credibilità, di Luca Ricolfi

Ieri su “La Stampa” abbiamo pubblicato i dati sul grado di rinnovamento dei partiti: quanti giovani, quante donne, quanti nuovi parlamentari. Oggi ci occupiamo invece di pulizia delle liste.
Prima di presentare i dati, però, devo dire qualcosa sul concetto di «pulizia».
Personalmente sono dell’idea che, salvo casi eccezionali (qualcuno ricorda il caso Tortora?) un partito non dovrebbe presentare nemmeno un candidato che abbia o abbia avuto problemi con la giustizia, a meno che la sua vicenda si sia risolta con un’archiviazione o un’assoluzione senza ombre. E’ quel che succede in qualsiasi Paese di cultura occidentale, dove basta poco per costringere i politici al passo indietro. E’ una questione di opportunità, di cautela e di decenza.
A questa mia posizione ultra-severa, tuttavia, si può obiettare che talora gli indagati di oggi non vengono condannati domani, e in qualche caso non vengono nemmeno rinviati a giudizio. Inoltre, nulla assicura che la magistratura italiana eserciti lo stesso livello di attenzione e vigilanza verso tutti i partiti. Ad esempio è possibile che i partiti al governo siano monitorati con più attenzione di quelli all’opposizione, o che alcuni pubblici ministeri siano guidati anche dalle loro preferenze politiche. Se si accetta questa obiezione, mettere nello stesso calderone tutti – indagati, imputati, condannati a qualsiasi livello – può essere discutibile, nel senso che rischia di restituirci una immagine distorta del grado di pulizia delle liste.
Morale. Resto dell’idea che un partito serio non dovrebbe candidare nessuno su cui esistano anche solo dei dubbi, e in questo senso trovo giusto che ogni vicenda giudiziaria dei politici sia raccontata dai media fin dall’inizio. Ma nello stesso tempo penso che, per avere un’idea del grado di pulizia delle liste, sia più corretto considerare solo i casi più seri. Dove per «seri» intendo i casi in cui il politico abbia raggiunto almeno lo stadio di imputato o rinviato a giudizio. In breve: per entrare nel nostro conteggio dei politici «birichini» (o impresentabili, se preferite) non basta essere indagati; e per starne fuori non basta che il proprio procedimento si sia fermato per prescrizione, per patteggiamento, o perché è scattata qualche immunità, o perché è intervenuto un vizio di forma. Insomma, per noi sono seri tutti i casi in cui è iniziata l’azione penale e non è subentrato un proscioglimento o un’assoluzione piena.
Ed ecco i risultati (i dettagli a pagina 2-3), che forniamo come un primo contributo di conoscenza, correggibile e ampliabile, vista l’impossibilità di un libero accesso al casellario giudiziario, che contiene la maggior parte delle informazioni sulle vicende penali dei cittadini (su questo vedi l’articolo di Paolo Festuccia a pagina 2). Su 1098 candidati che hanno elevate probabilità di essere eletti, i birichini risultano 18 (ma salirebbero a quasi 100 se, come nelle inchieste del «Fatto Quotidiano», venissero inclusi anche i semplici indagati e i politici che hanno basse probabilità di essere eletti). Le liste da noi considerate sono le nove più importanti, vista la difficoltà di prevedere gli eletti delle liste minori. Su nove liste, quelle che risultano perfettamente pulite sono cinque: Movimento Cinque Stelle (Grillo), Scelta civica (Monti), Sel (Vendola), Rivoluzione civile (Ingroia), Fratelli d’Italia (Meloni e Crosetto), Fli (Fini). Quelle che risultano più o meno inquinate sono quattro: Pd (4 casi, pari allo 0,8% di eleggibili), Lega (3 casi, pari al 4,8%), Pdl (9 casi, pari al 5%), Udc (2 casi, pari al 7,7%).
Che dire?
Innanzitutto, possiamo notare che le liste sono migliori, o meno indecenti, di come si prospettavano anche solo una decina di giorni fa. La pressione dell’opinione pubblica e dei media per escludere gli impresentabili e rinnovare il ceto politico qualche effetto l’ha ottenuto. E tuttavia restano ancora diverse ombre, e non mancano le sorprese.
Sul versante del rinnovamento, colpisce il fatto che – dopo aver minacciato di non ricandidare quasi nessuno – il Pdl abbia il massimo di vecchie glorie (80% di parlamentari ricandidati), e un numero irrisorio di giovani (8%, contro il 72% del movimento di Grillo).
Ma colpisce, anche, la composizione delle liste di Ingroia e di Monti. Per quanto riguarda Ingroia, la sua Rivoluzione civile presenta il minimo di giovani (3,4%), e una sfilata di vecchi politici che senza la zattera offerta dalla nuova lista mai sarebbero rientrati in Parlamento: tra essi i segretari dei due partiti comunisti, (Ferrero e Diliberto), il leader della moribonda Italia dei Valori (Di Pietro), il leader degli ormai dimenticati Verdi (Bonelli). Non stupisce che, vista la compagnia, alcuni fra i promotori più autorevoli della lista Ingroia abbiano deciso di fare un passo indietro.
Per quanto riguarda Monti e le liste a lui collegate (Udc e Fli) può forse non stupire la relativa assenza di giovani (9,3%) e di donne (15,7%: solo la Lega ne ha di meno), vista la composizione del suo governo, ricco di anziani e povero di donne. Non si può non notare, però, che ad Enrico Bondi – il terribile tagliatore di sprechi e di candidati – era stato affidato il compito di garantire la qualità delle candidature di tutta la coalizione del premier, compresa l’Udc. E invece che cosa scopriamo? Che il rigorosissimo filtro di Bondi ha lasciato tranquillamente passare due birichini, ovvero Giovanni Pistorio e Lorenzo Cesa, il primo condannato (dalla Corte dei Conti) per danno erariale, il secondo condannato per corruzione aggravata (e salvato solo da un vizio di forma e successiva prescrizione). Casini, che non perde occasione per proclamare sé stesso e il suo partito alfieri della «buona politica», qualche sera fa, intervistato da Lucia Annunziata, ha giustificato la scelta di candidare Cesa dicendo che «chi lo conosce lo apprezza» e che «sul territorio ciascuno di noi è quotato sui voti che prende» (dunque Cosentino è un ottimo candidato? e male ha fatto Berlusconi ad escluderlo?). Una difesa non molto diversa da quella che a suo tempo lo stesso Casini fece di Totò Cuffaro, poi finito in carcere per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra. Allora aveva anche annunciato pubbliche scuse in caso di condanna di Cuffaro, ma le stiamo ancora aspettando.
Non sono fra quanti pensano che avere liste pulite, rinnovate, piene di giovani e di donne, sia di per sé una garanzia di buona politica (conosco parecchie ragazze incensurate che, come parlamentari, sarebbero un disastro). Anzi penso che sarebbe ora che l’opinione pubblica cominciasse a preoccuparsi soprattutto della qualità dei programmi e della competenza dei candidati, e non solo di inseguire vaghe aspirazioni di palingenesi della politica. E tuttavia mi pare che quello di non avere vicende penali alle spalle sia davvero un requisito minimo, giusto, ovvio, che nessuno dovrebbe mettere in discussione. E molto mi colpisce che l’unica lista che non ricandida vecchi politici, è piena di giovani, ha quasi il 50% di donne, e non ha nemmeno un inquisito fra le sue fila sia quella di Beppe Grillo, ossia precisamente la lista i cui programmi meno mi convincono. Come se rinnovamento della politica e credibilità dei programmi fossero due pianeti distinti e lontani, fra cui è giocoforza fare una scelta secca. Un altro indizio, ai miei occhi, del fatto che il rebus italiano – il sogno di una politica credibile nei programmi e rinnovata nelle persone – non ha ancora alcuna soluzione.
Da lastampa.it

Fermare il declino della valutazione, di Alberto Baccini

La valutazione è stata presentata come una medicina miracolosa capace di risollevare università e ricerca italiane dal declino, e l’agenzia di valutazione (Anvur) come dotata di poteri taumaturgici. E dire che arrivare per ultimi alla valutazione sarebbe stato un vantaggio. L’Italia avrebbe potuto impostare la valutazione sulla base delle migliori esperienze internazionali. E avrebbe potuto adottare estrema cautela nel definire meccanismi e procedure le cui conseguenze non sono note, come dicono gli esperti Ocse. Invece si è costruito un monstrum istituzionale. Tutto gravita intorno al ministro che nomina i membri del consiglio direttivo di Anvur e vigila direttamente sull’operato dell’agenzia. Ad Anvur sono attribuite sia le funzioni di valutazione della ricerca che quelle di «assicurazione della qualità» dell’insegnamento universitario. Una volta che il governo Hollande avrà chiuso, come annunciato dal ministro dell’istruzione, l’agenzia francese Aeres, Anvur sarà la sola agenzia nel panorama internazionale a gestire le due funzioni. Questa configurazione attribuisce indirettamente alla politica e ad una ristrettissima élite di consulenti scelti dall’esecutivo e raccolti in Anvur un potere enorme e senza contrappesi su ricerca ed università. Si sta così verificando una commistione tra politica e valutazione che non ha eguali nel mondo occidentale. La valutazione è costruita per giustificare le decisioni politiche e le decisioni politiche sono basate su una valutazione disegnata appositamente per giustificarle. Nella VQR, il costosissimo esercizio di valutazione della ricerca in corso, questa commistione è avvenuta in modo eclatante. Mentre il Ministro (Maria Stella Gelmini) scriveva un decreto che dettava le metodologie e gli strumenti della valutazione, quasi fosse l’Agenzia di valutazione, uno dei membri del consiglio direttivo dell’Anvur (Sergio Benedetto) spiegava a un quotidiano nazionale, quasi fosse lui il ministro, che la VQR serve a introdurre la distinzione tra researching university e teaching university, e soprattutto a chiuderne qualcuna. Intorno ad Anvur si è costituita una élite di baroni, designati direttamente o indirettamente dal ministro cui sono demandate tutte le decisioni rilevanti. I 7 membri del consiglio direttivo sono stati nominati dal ministro; i 7 membri del consiglio direttivo hanno nominato i 14 presidenti dei Gruppi di esperti della valutazione e poi insieme i membri di quei gruppi che nomineranno i revisori (anonimi). Queste nomine a cascata riguardano individui «organici» o «allineati» rispetto a chi esercita il potere di nomina. Nel caso del gruppo di lavoro per economia, ad esempio, i circa venti membri potevano essere scelti tra gli oltre mille 1000 economisti accademici italiani. Sono stati scelti economisti in gran parte coautori tra loro e del coordinatore che li ha nominati; ben 7 sono tra i fondatori di Fermare il declino. Se la composizione della giuria è iniqua, come sappiamo dai film giudiziari americani, anche il verdetto lo è. La concentrazione del potere e la selezione di soli «intellettuali organici», ha evidentemente indebolito le capacità critiche di Anvur. II sito www.roars.itlavora ininterrottamente da più di un anno, documentando gli errori dell’agenzia. Tra questi il caso delle “riviste pazze” ha guadagnato addirittura la ribalta internazionale, con un lungo articolo su Times Higher Education. Per chi se lo fosse perso: Anvur ha certificato come riviste scientifiche un numero elevatissimo di pubblicazioni che di scientifico non hanno niente, tra cui IlSole24ore, la Rivistadi Suinicultura e Yacht Capital. Anvur da soluzione di tutti i problemi, è diventata il problema, a mio avviso il principale, per l’università e la ricerca italiane, tanto che la prestigiosa rivista Science ha dedicato un articolo molto preoccupato alla situazione italiana. È il caso che il prossimo governo intervenga per evitare che il delirio burocratico di Anvur dia il colpo di grazia alla già prostrata ricerca italiana.
Da l’Unità

Grillo, la tv e la parabola del buffon prodigo, di Francesco Merlo

È un colpo di tamburo televisivo che sta facendo impallidire Berlusconi e certamente lo farà rosicare perché Grillo lo ha abilmente fregato e e definitivamente superato nel suo mestiere di imbonitore di genio: c’è in Italia un Berlusconi più Berlusconi di lui. Solo a prima vista, infatti, la decisione di Grillo di andare in tv – “non escludo di scegliere la Rai” – è la parabola del buffon prodigo, con la televisione che si prepara ad ammazzare il vitello grasso perché il suo figlio più autentico torna in onda. In realtà Beppe Grillo non rimpatria perché non se n’è mai andato: prima diceva alla tv che non voleva andare in tv e ora dice alla tv che torna in tv. E mi raccontano pure che il suo Rasputin, cioè Casaleggio, sta già trattando con Bruno Vespa perché l’evento deve segnare “un nuovo cambio di marcia della campagna elettorale” come Berlusconi da Santoro, più ancora di Berlusconi da Santoro.
La sola novità è che finalmente Grillo svela anche a noi, poveri allocchi teledipendenti, il suo trucco, che è la televisione innanzitutto: vituperata od osannata, purché sia televisione. Nella fase ascendente aveva infatti costruito il uso charme con la furia del “non ci vado”. Scimmiottava, orecchiando Popper, gli apocalittici antitelevisivi, al punto da cacciare via dal Movimento i comprimari che andavano in tv ingenuamente, senza l’astuzia dell’esserci e del non esserci che è la vera scienza televisiva, quella dei Celentano, dei Benigni e del magico Renzo Arbore, la sapienza di amplificare il grande digiuno per fare poi capolino con un enorme bottino di successo e di consenso: “ora tocca a me”, “a me gli occhi please”, “quando il gioco si fa duro…”, “ora vi faccio vedere come si fa”. Paolo Conte la canta così: “… descansate niño che continuo io”.
Grillo – pensate! – accusava di vanità quelli dei suoi seguaci che, disobbedendogli, andavano in tv da dilettanti per bene, da cittadini e da testimoni. E incitava i suoi pasdaran ad insultarli, al punto che l’appassionata Federica Salsi fu “lapidata” pubblicamente con il consolidato turpiloquio buffo e mostruoso del fanatismo tragicomico a cinque stelle. Ora sappiamo che Grillo non voleva che stessero lì perché gli rubavano la piazza e usavano male una risorsa di cui vuole avere il monopolio assoluto. Anche Berlusconi nel 2001 proibì ai candidati di Forza Italia di usare le loro facce sui manifesti elettorali: l’immagine di Forza Italia doveva essere (e fu) solo quella di Berlusconi che ingaggiò, come ha poi fatto Grillo con la tv, una battaglia iconoclastica contro tutti i visi tranne il suo, la cancellazione di ogni altra faccia come indegna, inefficace, improponibile, impresentabile.
Mai infatti Grillo contestò alla Salsi quello che aveva detto a “Ballarò” ma solo la presenza. Addirittura le disse che era andata in tv per raggiungere – ricordate? – “il punto G”. Solo Grillo ha diritto all’orgasmo. E nel MoVimento ha lo jus primae televisionis. Dunque nella fase negativa, quando in poppa sente calare il vento del consenso, Capitan Gradasso ricorre ai remi. Ora perciò l’apocalittico rivendica, come tutti gli integrati, una presenza in tv che ovviamente “sarà una sorpresa” e le reti già fanno a gara per averlo, perché farà certamente audience: “Tutti mi corteggiano, ma sono spazi dovuti”, ha detto avanzando i diritti della par condicio. E non vi salti in mente di dargli dell’incoerente: un attore può interpretare oggi Jago e domani Otello. E un comico, o meglio un intrattenitore comico, non ha altra etica che quelle di farsi largo. E prepara l’evento con i trucchi dell’uomo di spettacolo, del piazzista funambolo: “Nella sorpresa che faremo in tv l’ultima settimana di campagna elettorale daremo un colpo di grazia che non ve lo immaginate neanche”. Perciò è verosimile la trattativa per prenotare Vespa. Per Grillo sarebbe come immergersi in un liquido di contrasto che lo esalterebbe e per Vespa sarebbe la rivincita pop su Santoro. È la politica trasformata in spettacolo, è il giornalismo baraccone, l’informazione ridotta a circo con i trapezisti, i trampolieri e le donne cannone nella campagna elettorale più pazza della nostra storia. L’importante infatti non è quello che Grillo dirà e dove lo dirà ma la televisività che è il suo ubi consistam, la sua vocazione, la sua destrezza di sottrarsi e riapparire, di negarsi e darsi. Solo Mina potrebbe superarlo in questo gioco, perché è la più grande degli assenti sempre presenti.
Come vedete, noi che siamo discendenti e discepoli di Machiavelli ci ritroviamo a parlare di spettacolo, di Berlusconi che si fa compare di Santoro e di Grillo che si esibisce nel numero dello sproposito, nella puntata delle puntate: “Ecco a voi a grande richiesta”… E i sondaggi da stime di voto più o meno azzeccate diventano umori, cifre dell’Auditel e percentuali di share, non più scienza ma applausi che sgorgano sulla base della maestria da palcoscenico, della trovata televisiva. Ecco perché Berlusconi, che fu il campione dei piazzisti televisivi, appare oggi superato, obsoleto addirittura. Grillo, con tutto il suo populismo e il suo trasversalismo ideologico, il suo “casapaundismo”, il suo antisindacalismo e il suo antiparlamentarismo, il suo peronismo, il culto della persona, le nuotate nello Stretto fiume giallo, con tutto il suo ciarpame di Rete e i suoi stracci da pataccaro internauta, i sui argomenti da bar, la sua “cacolalia”, e soprattutto con la sua televisività “splatter”… è l’erede di Berlusconi ma senza conflitti di interessi, senza bunga bunga, senza Nicko ‘o mericano e senza Ghedini. Grillo è il Berlusconi dopo Berlusconi. Come le acciughe in salamoia.
Da Repubblica.it