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"La casta dei pendolari", di Massimo Gramellini

Vorrei esprimere tutta la mia solidarietà all’influenzata Barbara D’Urso che, tossendo e starnutendo in un video assai condiviso su Internet, si scaglia con la forza di cento raffreddori contro Trenitalia, colpevole di non averle ancora spedito la tessera di platino che le consentirebbe di attendere il treno al calduccio della sala vip invece che sul marciapiede della stazione, in balia di refoli gelidi come sorbetti. Una vergogna. Tanto più – e la conduttrice ci tiene giustamente a sottolinearlo – che l’aggressione batteriologica di cui Trenitalia è complice con la sua ignavia va a colpire un organismo già fiaccato da cinque ore al giorno di diretta pomeridiana. Una minaccia costante per il fisico, sottoposto al continuo logorio dei casi umani.

Si consoli, la signora: sono i costi della celebrità. Solo le persone comuni hanno la possibilità di percorrere ogni giorno delle tratte come la Bergamo-Milano (e ritorno, forse) con mezzi di trasporto che nulla hanno da invidiare alle suggestive locomotive a vapore. Stipati in vagoni che attingono al più ecologico dei riscaldamenti, l’alito, questi autentici privilegiati non conoscono malattie respiratorie né altre patologie della civiltà. Vivono in un microcosmo allietato dalla speranza: che domani il treno arrivi, o almeno che parta. Sono persone semplici, sane, felici. A volte appena un po’ furibonde, ma sempre con classe. Terza classe. In possesso di una speciale tessera di platino che le mette al riparo da un malanno ultimamente piuttosto diffuso: le cadute nel ridicolo.

da www.lastampa.it

Se non ora mai Cambiamento: è una delle parole più gettonate. Finché si mette mano alle liste. Solo il PD ha il 40% di donne eleggibili

Cambiamento. E’ una delle parole più gettonate nella campagna elettorale 2013. Nei fatti le cose vanno diversamente. Solo il PD ha in lista il 40% di donne eleggibili e sono donne: 16 capolista su 38.

Sel ha toccato il 46 per cento riservando la metà dei vertici alle donne confermando la volontà della coalizione Pd-Sel di puntare sulle donne che «per noi sono il motore del cambiamento» per dirla con la senatrice Anna Finocchiaro, capolista in Puglia per palazzo Madama, mentre per il Pdl le donne sono «una scocciatura da evitare». Ingroia e Monti, fanalino di coda, si collocano al 10%.

L’immagine di copertina è presa dal film “The Brave”, che vuol dire ribelle. Ma l’assonanza italiana resta, nella maggior parte dei casi, solo un’enunciazione di principio: sono brave, si. E in coda..

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“La presenza femminile nelle nostre liste è intorno al 40 per cento. Una rivoluzione civile da valorizzare e segnalare”, aveva dichiarato Pier Luigi Bersani, aprendo la direzione del PD che ha approvato la composizione delle liste. Se il centrosinistra vincerà le elezioni, ha aggiunto ieri in un’intervista “cercherò di tenere la proporzione di 40 donne anche al governo”.

“Le donne sono elettrici consapevoli”, ha commentato Anna Finocchiaro, Presidente del gruppo del PD al Senato, ospite a Porta a Porta. “Io non so se preferirebbero votare le donne. Certo per far eleggere più donne bisognerebbe candidarle: il PD ha candidato e farà eleggere il 40 per cento di donne. Ha 16 capolista donne su 38.
Il Pdl al Senato, in 7 Regioni – ha aggiunto – non ha candidato donne in posizioni eleggibili, e Berlusconi è capolista in 18 circoscrizioni per Palazzo Madama. Stando ai dati attualmente disponibili, e al netto delle opzioni dei capilista maschi alla Camera il 21 per cento dei deputati sarà donna e al Senato arriveranno alla ridicola percentuale dell’11,5. Credo che questi numeri parlino da soli della differenza di atteggiamento del Pd e del Pdl nei confronti delle donne. Per il mio partito noi donne siamo il motore del cambiamento, per il Pdl una scocciatura da evitare nella guerra maschile per le liste”.

Le prime volte delle donne
Nel 1946 fu riconosciuto alle donne italiane il diritto di voto.
Nel 1959 nasce il Corpo di Polizia femminile.
Nel 1961 le donne possono intraprendere senza più ostacoli la carriera della magistratura e della diplomazia.
Nel 1979, Nilde Jotti è stata la prima donna a ricoprire la carica di Presidente della Camera dei deputati.

“Da Ingroia al Pdl: così le donne sprofondano in fondo alle liste”, articolo di Marcella Ciarnelli su l’Unità

“Maraini: “Tutti promettevano più donne. Solo il centrosinistra l’ha fatto”, intervista di Marcella Ciarnelli a Dacia Maraini – L’Unità

da www.partitodemocratico.it

"Tagli e Scatti: i conti della Ragioneria non tornano!", di Osvaldo Roman

Mercoledì 5 dicembre 2012 presso la VII Commissione della Camera si è tenuta, in seguito ad una specifica richiesta formulata dalla Presidente on. Manuela Ghizzoni, in sede di discussione della legge di stabilità per il 2013, un’ Audizione della Ragioneria Generale dello Stato sull’applicazione dell’art.64 della legge 133/2008 concernete la verifica dei risparmi conseguiti e la possibilità di restituzione alla scuola, per il pagamento dovuto per gli scatti del personale maturati negli anni 2010-2011-2012, delle quote del 30% ad essa destinate. Come è noto la legge in questione si proponeva di ridurre di 87 mila unità il numero complessivo dei docenti e di eliminare dall’organico ATA il 17% dei posti nel corso delle tre annualità 2009-2012. Il totale delle riduzioni di posti e di organici avrebbe dovuto ammontare a 132.000 unità, il totale della spesa strutturale di bilancio da ridurre avrebbe dovuto ammontare a 4.561 milioni di euro. Nei tre anni previsti nel Piano programmatico si sarebbe dovuta registrare una riduzione complessiva della spesa pari a 7,4 miliardi di euro.

Il pagamento degli scatti maturati negli anni 2010-2011-2012
Il comma 23 dell’articolo 9 della legge 122/2010 ha previsto la soppressione permanente di tre anni della carriera economica di un milione di dipendenti appartenenti al personale della scuola. Con le modifiche apportate in sede di conversione del Decreto (art. 8, comma 14) venne stabilito che nel triennio 2010-2012 il suddetto personale avrebbe dovuto continuare a percepire il corrispettivo economico degli avanzamenti di carriera maturati utilizzando allo scopo una parte di quel 30% di risparmi realizzati con le riduzioni di organico effettuate in virtù della legge 133/08 (Riforma Gelmini della scuola). Il totale delle somme da impiegare strutturalmente a regime per il pagamento degli scatti del personale sarebbe dovuto ammontare a 956,7 milioni.

A quanto ammonterebbero i tagli apportati e le relative quote del 30%
Gli Ispettori Generali Capo dell’Ispettorato generale del Bilancio e dell’Ispettorato generale per gli ordinamenti del Personale e l’Analisi dei costi del lavoro Pubblico del Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato hanno presentato un documento che nelle intenzioni avrebbe dovuto riportare le risultanze dei lavori svolti dal Comitato interministeriale appositamente previsto dal comma 7, dell’articolo 64, della legge 133/08 per monitorare il risultato dei tagli. Dal lavoro ufficiale di questo Comitato avrebbe dovuto dipendere la consistenza del Fondo per il personale collocato tra i Fondi da ripartire allocati nell’omonima Missione n.33 del bilancio del MIUR. (cap.1298). Degli scatti, tagliati dal governo Berlusconi con il fattivo interessamento dei ministri Tremonti e Gelmini, al momento dell’Audizione, risultavano pagati solo i primi 320 milioni per il 2010 e poi più niente con l’argomentazione, che i tagli sarebbero risultati insufficienti alla bisogna. Come dire abbiamo tagliato poco dovremmo continuare a farlo! I dati presentati dalla Ragioneria si possono di fatto riassumere nella seguente tabella con l’avvertenza che quelli dell’anno 2011-12 non erano stati validati dall’apposito Comitato previsto dal comma 9 dell’art.64

TABELLA 1 In milioni di euro

Anno sc. A B C D E F
2009-10 1368 1309 -59,3 410,5 351 957,5
2010-11 845,1 646,9 -198,2 253,5 55,3 591,6
2011-12 975,3 803,4 -171,9 292,5 120,7 682,7

A=Totale delle economie previste;B=Totale delle economie realizzate;C:=Differenza D= Previsione del 30%; E= 30% residuo ; F= 70%A erogato allo Stato B=E+F
La relazione conferma che la norma di salvaguardia, prevista per garantire comunque il conseguimento degli obiettivi prefissati, è stata fatta scattare esclusivamente sul fondo del 30% con il seguente algoritmo: se per l’a.s.2009-10 invece dell’obiettivo di 1368 mln si sono conseguiti solo 1309 mln con una differenza di 59,3 mln, si calcola il 70% della previsione iniziale (1368) che è pari a 975,5 si detrae tale somma da quanto ammonta il taglio effettivo (1309) e tale differenza, pari a 351 mln, rappresenta la quota del 30% disponibile. Tale somma nel 2010 copriva i 320 milioni dovuti per gli scatti e lasciava disponibili 31 milioni impegnati per il solo anno 2010 nei progetti sperimentali di valutazione. Analogamente per l’a.s. 2010-11 la differenza tra taglio previsionale (colonna A) e taglio effettivo (colonna B) è pari a 198,2. Il 70% del taglio effettivo è pari a 591,6 mln che sottratti a 646,9 fanno residuare per il 2011, in conto del 30%, la somma di 55,3 mln. Tale somma con l’aggiunta dei 31 mln residuati dal 2010 non consentiva la retribuzione degli scatti maturati nel 2011. Di qui il ricorso a fonti di finanziamento diverse individuate, nel CCNL del 12 dicembre 2012, nei 7; 295; e 350 mln del MOF (fondo per il Miglioramento dell’Offerta Formativa) rispettivamente per gli anni 2011, 2012 e a regime dal 2013 per coprire la spesa relativa agli scatti maturati nel solo 2011. Per l’a.s. 2011-12 la differenza tra previsione e consuntivo è di 171,9 mln che comporta per il 2012 un 30% residuale di 120,7 mln. Per coprire la parte residua un analogo prelievo dovrebbe essere effettuato dal medesimo MOF. Resta poi il problema dell’eventuale proroga del blocco per il 2013 e 2014. In tale eventualità il residuo miliardo contrattuale destinato al MOF sarebbe totalmente liquidato. Per gli anni finanziari 2010, 2011 e per il 2012 le differenze tra previsione e consuntivo dei tagli sono state o saranno fatte confluire nei capitoli di bilancio relativi alle spese per il personale.

Carenze documentative della Relazione della Ragioneria
Ad esempio non sono indicati l’esatta composizione delle diverse categorie di personale docente in servizio nell’anno scolastico 2008-09 e il loro numero complessivo che costituiva con il numero degli studenti di quell’anno scolastico i termini del rapporto da elevare di una unità con l’anno scolastico 2011-12. E neppure si riferiscono le caratteristiche dell’analoga composizione dei docenti in servizio nell’anno scolastico 2011-12 Mentre si accenna all’aumento del personale docente addetto al sostegno non si fa alcun riferimento al fenomeno dei 10.000 esuberi di personale docente avvenuta a partire dall’anno scolastico 2010-11. Sorge al riguardo imperioso un grave interrogativo: perché gli ispettori generali della RGS non hanno mai indicato nel loro documento, come causa del mancato raggiungimento degli obiettivi finanziari indicati nell’art. 64, il fenomeno dei 10.000 docenti in esubero causati dalle modalità di realizzazione della riforma della scuola secondaria superiore? Non lo hanno indicato neppure nella tabella riepilogativa delle misure che dal 2000 ad oggi hanno previsto interventi di riduzione della spesa per l’istruzione in quanto per il 2012, a proposito della legge 135/12, hanno riferito dei commi 13-15 che riguardano gli inidonei e gli assistenti tecnici ma hanno omesso completamente di richiamare i commi 17-21 che trattano dei 10.000 docenti in esubero! Eppure anche per tali commi vale la norma altrove richiamata secondo la quale per il monitoraggio dei loro effetti continua ad operare il Comitato di cui all’art. 7 dell’art. 64! Non si comprende neppure, anzi forse oggi è più chiaro, perché nella prima stesura della DDL di stabilità il fondo relativo al 30% veniva soppresso. Quasi una sorta di “cancelliamo anche le tracce”!

La singolare metodologia di calcolo
La relazione non può negare che non vi siano state le riduzioni di organico previste. Si limita ad ignorarle presentando una metodologia di calcolo degli effetti economici delle misure di razionalizzazione che, in quanto basata sul calcolo degli stipendi del personale in servizio forniti dai cedolini, può ignorare la reale dimensione dei tagli effettuati agli organici! Cioè la relazione incredibilmente ignora che se si calcola quanto costa il personale in servizio, comprendendovi i 10.000 soprannumerari, con tale calcolo non si registra la reale riduzione degli organici. I 340 milioni di euro annui che comportano i 10 mila soprannumerari sono una riduzione strutturale della spesa che risulta solo differita al momento della loro uscita, per qualsiasi motivo, anche con la famigerata mobilità intercompartimentale, dal servizio nel MIUR. Sui loro posti, che non esistono più, non si nominerà più nessuno! Lo stesso ragionamento fatto per gli esuberi vale per i 12.000 posti di sostegno in più registrati rispetto agli obiettivi indicati nel Piano Programmatico. Nella Relazione si accennano come cause del mancato conseguimento delle riduzioni di spesa previste dal Piano programmatico solo il ritardo nell’entrata in vigore dei quadri orari nella scuola secondaria superiore e la mancata riduzione degli insegnanti di sostegno a causa della sentenza della Corte Costituzionale. Anche in quest’ultimo caso è assai carente nel documento della Ragioneria il dimensionamento degli effetti e la natura stessa del fenomeno. Sotto il profilo quantitativo si tratta di 12 mila posti in più di cui 4 mila rappresentano i mancati tagli rispetto ai posti di sostegno ricoperti nell’anno scolastico 2008-09. E’ del tutto evidente che essi avrebbero dovuto essere considerati come conseguenza di una nuova normativa, non esistente nel 2008, che non ha recato con se una corrispondente copertura finanziaria. Non è assolutamente pacifico considerare che a tale copertura si sarebbe dovuto provvedere con un corrispondente incremento del numero dei tagli sui posti normali già programmato! Ovviamente con “il metodo dei cedolini” si registra il personale che percepisce uno stipendio e non la causa per la quale ciò avviene. Per dimostrare l’assurdità e la fallacia del ragionamento escogitato dai vari Grilli e Canzio vale la pena di proporre un ipotesi al limite. Se si fossero determinati, relativamente ai docenti, 87.000 cedolini sommando quelli degli insegnanti di sostegno in aumento e quelli dei docenti in esubero non occupati su posti vacanti, il risultato di tale conteggio avrebbe registrato la riduzione di zero posti mentre nella realtà ne sarebbero stati eliminati 87.000! In realtà il personale di sostegno in aumento avrebbe dovuto essere garantito con una voce di bilancio appositamente prevista e non già con le risorse derivanti da un’ulteriore riduzione dei posti. C’é da notare inoltre che per il personale docente di RC, nonostante l’avvenuta riduzione di 10.000 classi, non si è prevista alcuna riduzione dei posti nonostante esso fosse pienamente inserito nel numero dei docenti che nell’anno scolastico 2008-09 é stato preso a riferimento per avviare il processo di riduzione complessivo.

La riduzione del personale
La politica del governo Berlusconi sulla scuola, malamente ereditata da Monti, (nell’anno scolastico 2012-13 gli organici sono rimasti invariati ma varie misure: 4° anno del maestro unico, inidonei, esuberi, dimensionamenti e istituti comprensivi, hanno di fatto ridotto lo spazio per i precari) si proponeva un complessivo ridimensionamento delle strutture materiali e delle risorse umane destinate al nostro sistema di istruzione. Un ridimensionamento misurabile con la riduzione del personale in essa impegnato e con la corrispondente riduzione della spesa del bilancio dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali ad essa destinata.(-4,6 miliardi). La relazione presentata nell’Audizione alla Camera dalla Ragioneria Generale dello Stato, pur caratterizzata da gravi silenzi ed omissioni e da una povertà assoluta nella presentazione dei dati finanziari, qualche spiraglio di verità lo lascia intravvedere. Sulla riduzione del personale essa indica(solo in una tabella peraltro non commentata) per l’a.s 2011-12 ( al 31 dicembre) la presenza in servizio di 1.011.413 dipendenti di cui 7.991 Dirigenti, 799.185 Docenti e 204.237 ATA a fronte del 1.137.592 in servizio alla stessa data nell’anno scolastico 2007-2008. Manca la descrizione della composizione delle diverse categorie dei docenti che si articola in posti normali , di sostegno e di RC. Categorie queste a loro volta articolate su posti interi e su spezzoni. Manca anche ogni riferimento alle modalità di attuazione delle previsioni di riduzione contenute nel Piano programmatico e un confronto con le prescrizioni contenute nei tre Decreti interministeriali di riduzione degli organici che dal 2009 al 2012 hanno, sia pur con gravi ritardi e irregolarità, accompagnato una cosi vasta e rovinosa potatura dei posti: una diminuzione del 10% dei docenti e del 17% per gli ATA. Con tali Decreti che la Relazione non prende mai in considerazione si sono ridotti (rispetto all’anno scolastico precedente nel 2009-10, per i docenti 42.102 posti, di cui 10.000 nell’organico di fatto; nel 2010-11 25.558 posti; nel 2011-12 ,19.699 posti. Per gli ATA le riduzioni sono state rispettivamente di 15.000, 15.000 e 14.000 posti. Manca inoltre un confronto con la situazione di partenza dell’anno scolastico 2008-9 e risulta pertanto non documentato e incomprensibile il giudizio sul mancato raggiungimento dei risultati di riduzione del personale previsti dall’art.64. In realtà mentre per gli ATA non si è potuto negare che la riduzione dell’organico del 17% sia stata pienamente raggiunta per i Docenti, gli artifici e le cortine fumogene sollevate per nascondere gli effetti del soprannumero e degli insegnanti di sostegno, descritti dianzi, non hanno consentito un’analoga verifica. Di nuovo nella Relazione della Ragioneria vi è il richiamo al reale obiettivo posto dall’art.64. Fino ad oggi la pubblicistica aveva trattato la questione semplificando con l’indicazione di una riduzione di 87 mila posti di docente e 44.500 posti di ATA. Ma mentre per gli ATA la legge prevedeva una riduzione complessiva pari al 17% dell’organico, per gli insegnanti era prevista una riduzione dei posti in organico o altro? In realtà per i docenti non si trattava di riduzioni dell’organico ma di riduzioni di esso finalizzate a quella complessiva del numero dei docenti in servizio (di ruolo e non di ruolo). L’art. 64 non dice, e la Ragioneria finalmente sembra riconoscerlo, che si devono ridurre di 87 mila posti gli organici dice che il rapporto studenti /insegnanti deve aumentare di una unità passando da quel 8,94 del 2008-2009 al 9,94 che doveva realizzarsi nel 2011-12. Secondo la Relazione tecnica allegata al DL n.112/08 il rapporto studenti insegnanti nel 2011-12 avrebbe dovuto essere tale da realizzare, considerando invariato il numero degli studenti, una diminuzione di 87 mila unità rispetto al numero di insegnanti in servizio nel 2007-08 che era pari a 868.542 unità. La riduzione prevista è quindi rispetto quella complessiva dei docenti che comprendeva anche i posti e gli spezzoni non in organico assegnati ai non di ruolo a tempo determinato, al sostegno e agli insegnanti di R.C. Oggi solo per il sostegno ce ne sono circa 36.000mila. In sostanza l’articolo 64 non si riferisce al rapporto studenti/posti in organico ma al rapporto studenti/totale dei docenti in servizio. Quindi il numero dei docenti da considerare nel 2011-12, risultante dopo i tagli, non si riferisce ai posti in organico di diritto soluzione che nessun Dirigente del MIUR ha mai pensato di prospettare, ma al totale 791.729. (La Ragioneria allude nella tavola 1 a 799.185 unità, ma non chiarisce quale è la composizione di tale aggregato) Nel 2011-12 con 791.729 insegnanti in servizio e con 7.826.232 studenti il rapporto studenti/insegnanti non è 9,94 ma è 9,88. Per conseguire tale rapporto il numero degli insegnanti avrebbe dovuto essere di 787.343 unità. Vi è quindi uno scarto dall’obiettivo di 4.805 unità. Tale conclusione però si avrebbe considerando nel numero totale dei docenti, calcolato col metodo del cedolino, oltre agli insegnanti in esubero, anche le categorie degli insegnanti di sostegno e di religione cattolica. Entrambe cresciute di numero nel periodo considerato per cause che non riguardano le misure di razionalizzazione: decisione della Corte Costituzionale e modalità di gestione dell’organico da parte delle Curie. Il numero delle classi é diminuito di 10.000 unita ma nel periodo in questione queste due categorie sono aumentate di numero con l’inevitabile scarico delle riduzioni sul gruppo dei posti normali. In realtà il confronto dovrebbe essere fatto fra il numero di insegnanti in servizio su posti normali nel 2008-09 (745.700 di cui 91.407 a tempo determinato su spezzoni) e nel 2011-12 (667.513 di cui 70.745 a tempo determinato su spezzoni). In tal caso il rapporto risulterebbe nel 2008-09 pari a 10,41 e nel 2011-12 pari a 11,52 la differenza sarebbe + 1,11 superiore all’ 1 previsto dalla legge! Va rimarcato che in tale conteggio sarebbero comunque inclusi i 10 mila posti attribuiti ai cedolini dei docenti in esubero.(Organico di diritto 20112-13: http://www.rosarossanews.net/temporaneo/6Organicodidirittoepostiorarisuspezzonidoc311319.doc

La riduzione delle risorse finanziarie
Sul fronte delle riduzioni della spesa per l’istruzione rappresenta una chiara omissione del Documento presentato per l’Audizione il non aver preso in alcun modo in considerazione l’andamento reale del Bilancio del MIUR. Una valutazione complessiva di quegli effetti finanziari, realizzata con strumenti ufficiali, ma di prima approssimazione, quali possono essere considerati il Rendiconto della Corte dei Conti sul bilancio 2011, che riporta i rendiconti dal 2008 al 2011 e l’assestamento di bilancio 2012, oggi consente di stabilire che, in termini finanziari, la riduzione della spesa strutturale per la missione istruzione realizzata tra il 2009 e il 2012 si aggira sui 4.600 milioni. Come mai il documento presentato dalla Ragioneria per l’audizione non prende minimamente in considerazione tale dato ? Tale riduzione pertanto supera l’obiettivo di quei 4.561 milioni (in realtà 3.603,3 se si considerano i 956,7 che sarebbero dovuti permanere in bilancio in conto del 30%) che rappresentano il complesso dei tagli strutturali al bilancio del MIUR che sarebbero dovuti derivare dalla contestuale attuazione delle misure di cui agli art.64 della legge 133/2008 e dei commi 411-412 dell’art.2 della legge 244/07. Per quanto riguarda le riduzioni strutturali della spesa in bilancio la Reazione della Ragioneria non si misura con le cifre dei rendiconti 2009-2012 del bilancio del MIUR ma si limita a segnalare il criterio di calcolo (del cedolino) che il Comitato di cui all’art.64, comma 7 avrebbe adottato per misurare le economie.

da Retescuola 25.01.13

"Bersani: il Prof usa le parole della destra", di Maria Zegarelli

Clima infuocato tra il premier uscente Mario Monti e il candidato del centrosinistra Pier Luigi Bersani. Dalla Cgil, al debito pubblico, al dopo elezioni, la giornata è scandita dal botta e risposta a distanza tra i due leader, in un dialogo Davos-Roma che manda in soffitta i toni pacati, le aperture e il fair play e mette non pochi puntini sulle «i» per il futuro. Monti attacca il sindacato e il Pd che ne subirebbe influenze? Bersani, ospite di Agorà, replica: «È ridicolo parlare di eterodirezione della Cgil sul Pd. Mi stupisco che Monti usi certi luoghi comuni sufflati dalla destra. Un’organizzazione come la Cgil con oltre 4 milioni di iscritti non puoi in premessa metterla fuori, dirti contro, è un sindacato non un partito, è un elemento del paesaggio, è pericolosa una linea di questo genere, caccia fuori in premessa un pezzo di Italia».
Scintille anche sul debito pubblico e i conti del Professore: «Speriamo non abbia messo polvere sotto al tappeto», dice Bersani di prima mattina. «Voglio rassicurare Bersani, non c’è polvere sotto il tappeto», manda a dire Monti invitando «a non spaventare i mercati» e spiegando che quello del segretario del Pd è un «atteggiamento standard perché Bersani crede di essere il prossimo premier, perciò è normale che voglia vedere conti anche se io nel novembre di un anno fa non l’ho fatto». «I mercati sanno leggere e scrivere e sanno che io rispetterò i patti» la controreplica del segretario che se non sospetta «nessun imbroglio e nessuna zona opaca» sottolinea che bisognerà comunque verificare «tra andamento dei tassi di interesse, andamento del ciclo e spese legate alla recessione».
Il leader Pd annuncia di non usare più metafore, da qui alla fine della campagna elettorale (chi lo conosce sa che questa sì sarà una promessa difficile da mantenere), ma dai toni che usa par di capire che non userà più neanche il fioretto se i centristi continueranno a usare argomenti «insostenibili». Così se Casini e Fini pensano di poter guidare la partita se i voti al Senato non dovessero regalare la maggioranza assoluta al centrosinistra e quindi dettare aut aut al Pd sulle alleanze chiedendo la cesura con Sel, Bersani stoppa sul nascere qualunque scenario «stellare», come lo definirebbe lui stesso. «Se lo tolgano dalla testa – dice più tardi in conferenza stampa insieme a Nichi Vendola e Bruno Tabacci – noi siamo persone serie, abbiamo stretto un patto».
Un patto siglato nei mesi scorsi e suggellato da una foto, Bersani-Vendola-Tabacci, (non c’è Riccardo Nencini, segretario del Psi, che non prende bene l’esclusione dai flash e non fa mancare la protesta del suo partito) che viene scattata al Residence Ripetta e manda in soffitta per sempre quella di Vasto.
«Noi abbiamo fatto la foto – dice Bersani – . Monti ne faccia una con Casini e Fini, Ingroia con Di Pietro e Berlusconi con Storace e Maroni… Qui esistono delle coalizione a confronto, ma vengano fuori in maniera chiara e trasparente, noi non abbiamo costruito la nostra in vitro», dice mentre Vendola annuisce e Tabacci sorride. Una coalizione, dice il segretario Pd, «che vuole lavorare per la vittoria, verificata da milioni di persone e quindi siamo in condizione di offrire una prospettiva di governo con vera proposta di governo».
Vendola sembra voler rispondere una volta per tutte al tormentone che lo perseguita dall’inizio di questo patto con il Pd: «Sel sarà un fattore di stabilità, mi fanno ogni giorno gli esami del sangue ma la mia Regione è un esempio di capacità di governo vista da qualuque indicatore economico: possiamo dare lezioni di buon governo. Vogliamo fare della prossima stagione una stagione di riformismo forte che aggredisca la crisi economica e sociale. Se usciamo dalla disputa ideologica ed entriamo nel merito delle cose forse è più facile capire le nostre intenzioni». Lavoro, equità e giustizia sociale al centro dell’azione di governo, di pari passi con leggi per i diritti civili.
Se non ci sarà la maggioranza al Senato Vendola come si rapporterà con i centristi di Monti? «Io sono vincolato dalla carta “Italia bene comune”, l’ho sottoscritta e la rispetterò dalla prima all’ultima riga. Se vincesse chi sta facendo campagna per impedire la vittoria del centrosinistra (il riferimento è sia a Monti sia a Ingroia, ndr) o per dare al centrosinistra una vittoria azzoppata, credo che Pier Luigi Bersani si debba presentare davanti alle Camere con il programma che abbiamo sottoscritto insieme e vedere se su quell’agenda ci possono essere i numeri per un’alleanza di governo». Non ci sarà «deflagrazione», promette il governatore pugliese, «le differenze saranno ricchezze tra di noi».
Quando è Tabacci a scavalcare a sinistra Vendola – prendendo il suo posto al tavolo per le spietate regole delle riprese tv – «vedrai quante volte ti scavalcherò a sinistra» si rivolge al Professore: «All’agenda Monti preferisco l’agenda Tabacci». Bersani sul tema: «Chi governa deve chiedere al Paese la forza per governare, dopodiché cercheremo il dialogo con le forze europeiste e moderate, ma chi vince deve condurre la barra politica. Se no, le elezioni che cosi si fanno a fare? Per sport?». Vendola sotto- linea: come controparte meglio la destra moderata ed europeista, quella di Monti, che la destra populista di Berlusconi e Lega.
Altro sassolino dalla scarpa sul cambiamento. Bersani ai centristi: «Il tema della presenza femminile è la cartina di tornasole del cambiamento. Ora per favore mi dicano Monti, Casini, Ingroia, quante donne sono in posizione eleggibile nelle loro liste. Il rinnovamento non si fa a chiacchiere». Vendola al vetriolo con Ingroia: «Le rivoluzioni fatte solo dai maschi sono incivili». A chi insiste sull’incognita Senato, e sul dialogo con l’ex pm, Bersani risponde con una do- manda: «E se vincessimo?».

l’Unità 25.01.13

Mio padre a Birkenau mi disse: «Vado via, ma tu devi resistere», di Antonio Ferrari

A otto anni Sami Modiano era uno dei bambini più vivaci e brillanti della scuola elementare italiana di Rodi. Forse era in assoluto il primo della classe, come sostenevano i genitori dei suoi compagni, con quell’ammirazione espressa e così insistita da poter sconfinare facilmente nell’invidia. Sì, perchè Sami, alunno eccellente, non aveva di sicuro l’aria e il comportamento del secchione. Nuotava, correva, giocava a calcio, scherzava, si divertiva, però a scuola gli bastava studiare il minimo per meritare il massimo.
Quella mattina, quando fu chiamato alla cattedra, si sentiva persino più sicuro e disinvolto del solito. Era pronto a rispondere alle domande del maestro ma il suo sorriso si spense subito perché l’insegnante, invece di interrogarlo, lo guardò come mai lo aveva guardato e gli disse: «Samuel Modiano, sei espulso dalla scuola!». Un ceffone morale umiliante, un vero choc, le gote di Sami si tingono di porpora, la gola si chiude. Con un filo di voce: «Ma che colpa ho?», «Che cosa ho fatto? dove ho sbagliato?». Per far capire a quel bambino sbigottito e improvvisamente spaventato che non aveva fatto nulla di male, e che quel provvedimento non riguardava né il profitto né la condotta, l’imbarazzato maestro gli pose affettuosamente una mano sul capo e aggiunse a bassa voce: «Ora tornatene a casa, tuo padre ti spiegherà».
Sami Modiano, che oggi ha quasi 83 anni e che per decine di volte si è salvato per puro caso nella più efferata partita a scacchi con la morte, ha scritto un libro che ha per titolo la risposta – abbastanza ermetica – alla domanda che per decenni lo ha tormentato: Per questo ho vissuto. Che cosa voglia dire in realtà, Sami lo scrive nelle pagine della sua tremenda odissea. Pagine che grondano dolore, orrore, sevizie, umiliazioni, morte, torture, sterminio. All’inizio del racconto, ecco il punto da cui tutto ha avuto origine: «Quella mattina, a Rodi, mi ero svegliato come un bambino. La sera mi addormentai come un ebreo».

La storia del bambino-ebreo di Rodi trafigge il cuore e ferisce l’anima. È una storia che Sami, come quasi tutti i sopravvissuti all’Olocausto, aveva taciuto per quasi tutta la vita perché, nel raccontarla, la sofferenza era come raddoppiata: non bastava l’infarto emotivo della cronaca e dei ricordi incancellabili delle sofferenze patite; il veleno aggiuntivo era provocato dall’incredulità espressa da molti di coloro che lo ascoltavano. «Guardandoli, sembrava mi volessero dire che non credevano alla mia storia. E questo, ancora una volta, mi feriva a morte». Alla fine, dopo molte titubanze, ha prevalso il dovere: di trasmettere ai giovani la vissuta testimonianza di quello che è stato l’Olocausto, nel cuore dell’Europa colta ed evoluta; e poi di onorare chi fu annientato dall’odio razziale degli aguzzini nazisti.

«Ero morto, sentivo che nessuno avrebbe potuto fare nulla. Invece, due miei sconosciuti compagni di sventura mi portarono via»
Leggi razziali a Rodi. Sami si è speso e si spende con generosità, passione, sdegno, ma anche con la lievità di chi non ha perduto il senso dell’umorismo. La sua storia si apre con le immagini di un’infanzia felice, in una famiglia felice, su un’isola felice, Rodi – conquistata dagli italiani, che l’avevano strappata ai turchi all’inizio del ’900 –. Immagini trasformate in poche ore, in quel maledetto 1938, in un incubo, costringendo le vittime a dover convivere da subito con l’ansietà, l’angoscia, la paura. E con la consapevolezza di essere il “diverso” che gli altri cercano di evitare, magari voltando il capo dall’altra parte.
Il padre di Sami che perde il lavoro, la madre uccisa da una grave malattia, la necessità di procurare cibo per il genitore e la sorella, la generosità che i soldati italiani nutrono per quel ragazzino nonostante le leggi razziali, la disoccupazione e la discriminazione che colpisce come una frustata la minoranza ebraica dell’isola. Chi poteva, dopo la promulgazione delle leggi razziali del ’38, lascia l’italiana Rodi per andare a vivere e a trovare un approdo più sicuro in America, in Argentina, in Canada, in Africa. In quattro anni, metà degli israeliti erano espatriati: gli ebrei rimasti superavano di poco i 2.000. Sami non capiva, era ancora un bambino, e non pensava che dopo qualche tempo avrebbe benedetto la prematura scomparsa della sua mamma. Morendo nel suo letto di dolore, la donna non avrebbe visto e patito il picco dell’orrore, a differenza del marito e dei figli. Il racconto dell’ingannevole convocazione degli ebrei di Rodi si raccorda subito con il calvario della deportazione. Un calvario simile a quello di tutti i correligionari dei Paesi occupati dalla macchina da guerra di Adolf Hitler, ma – nel caso dell’isola del Dodecaneso – con una feroce sofferenza aggiuntiva, il doppio viaggio verso la morte: il primo in mare, stipati su una chiatta maleodorante riservata al trasporto degli animali, sotto lo spietato sole di agosto, fino al porto di Atene; il secondo viaggio sul treno dell’infamia, nel buio soffocante dei vagoni per il bestiame. Destinazione la Polonia, i campi di sterminio.

Sami ormai ha poco più di 13 anni, ma ne dimostra alcuni di più. La famiglia, giunta a Birkenau, supera la prima brutale selezione: il cenno a sinistra del medico nazista, che giudicava a vista, voleva dire camera a gas e forno; il cenno a destra indicava i “privilegiati”, risparmiati perchè giudicati adatti ai lavori più duri. In pochi giorni di internamento, quasi tutto diventa chiaro, anche nello sguardo ancora innocente di un ragazzino. La fugace e quotidiana visione di sua sorella, oltre la cortina di ferro attraversata dalla corrente, conforta Sami fino al giorno in cui non la vede più, e comprende che è andata all’infermeria, anticamera della morte. Suo padre, prostrato dal lavoro massacrante, dal freddo, dalla fame e dalle torture gli rivela, una sera, che ha deciso di farsi visitare, metafora che significa “non ce la faccio più”. Ma prima di consegnarsi agli assassini, impone al figlio di tenere duro. «Sami, tu sei forte. Devi farcela. Ce la farai!». E così il ragazzino di Rodi, diventato adulto, resta solo a combattere per la vita.

«Vivere con un sopravvissuto non è facile. Serve pazienza, generosità e amore. Io alla fine sono stato fortunato»
Una volta Sami ha un cedimento, ha la tentazione di farla finita, è pronto a lanciarsi contro il filo spinato, davanti al quale ogni giorno veniva obbligato a raccogliere i cadaveri delle persone che, una notte dopo l’altra, decidevano di morire. Lo trattiene l’accorata imposizione di suo padre: “Devi farcela!” Ci riesce, almeno fino a quando, affamato, indebolito e ridotto ad uno scheletro, non riesce a superare la nuova selezione. Vuol dire camera a gas. Il suo destino è segnato. Lo chiudono, assieme ad un gruppo di altri sventurati, nell’anticamera della finta doccia dove le conduttore del letale Zyklon B sputano veleno a getto continuo. Ma non succede nulla. Una nuova forma di tortura, sperimentata dai nazisti? Passano le ore in un silenzio irreale, poi si spalanca una porta, ma non è quella della camera a gas. Un ufficiale tedesco dà ordine di uscire all’aperto, perchè si è prodotta un’emergenza. Sami racconta l’emergenza con un sorriso amaro: «Sono vivo grazie ad un carico di patate». Chissà quante volte avrà raccontato questo incredibile episodio. «Proprio patate, sissignore! Era infatti arrivato un treno carico di patate, ma non vi erano abbastanza prigionieri per scaricarlo. Era quasi mezzogiorno, e quasi tutti i deportati si trovavano fuori dal campo, al lavoro. Bisognava scaricare le patate in fretta perchè un altro treno della morte, carico di ebrei, attendeva il turno per arrivare alla rampa di Birkenau. Io e gli altri candidati al gas ci siamo guardati, stupefatti: non era ancora il momento di morire. Fummo condotti a scaricare le patate, sistemandole a piramide su assi di legno. Alla fine, ci fu un’animata discussione fra due ufficiali nazisti: uno diceva che dovevamo andare al gas subito; l’altro invece – visto che già indossavamo il pigiama a righe e avevamo preso confidenza con le leggi, la disciplina e le punizioni del lager – sostenne che era meglio rimandarci nelle nostre baracche. Per il gas sarebbero stati pronti i passeggeri del treno che stava sopraggiungendo. Prevalse il fanatismo organizzativo del secondo. Per noi, quindi, morte rinviata».

«A Birkenau avevo perso la fede, bestemmiavo il Dio che non faceva nulla per impedire quell’atrocità»
La marcia della morte. Sami ha un carattere forte, ma rivivere quei momenti gli provoca una smorfia dolorosa. «A Birkenau avevo perso la fede, bestemmiavo il dio che non faceva nulla per impedire quell’atrocità. Poi, Dio l’ho ritrovato. Mi ha fatto sentire la sua presenza anche alla fine di quell’atroce sofferenza. Mentre stava arrivando l’Armata rossa sovietica per liberarci, i nazisti ci misero in fila per la fuga notturna, dopo aver fatto saltare i forni e distrutto le prove più evidenti dello sterminio, cercando di cancellare quel che ormai tutto il mondo sapeva. Durante il trasferimento, che i sopravvissuti ricordano come la marcia della morte, chi cadeva, scivolava o zoppicava veniva ammazzato immediatamente con una raffica di mitra. Ero sfinito, mi piegai sulle ginocchia. Ero morto, sì ero morto, sapevo e sentivo che nessuno avrebbe potuto far più nulla. Invece, due miei sconosciuti compagni di sventura mi presero, uno per le braccia l’altro per le gambe, e mi salvarono, alla fine della marcia, lasciandomi svenuto – ma vivo – accanto ad una montagna di cadaveri. Non ho mai conosciuto i nomi di chi mi ha salvato. Li ho cercati ma non ho mai ritrovato quei due angeli che erano stati più forti della volontà di sopravvivere, una forza che imponeva a ciascuno di pensare egoisticamente a se stesso, a farcela. E poi Dio si è ricordato di me, dandomi la fortuna di incontrare mia moglie. Vivere con un sopravvissuto non è facile. Occorre pazienza, generosità e amore. Io l’amore vero lo ho trovato. Sono stato fortunato». È incredibile sentir parlare di fortuna da un uomo che ha visto e patito le sofferenze più indicibili. Doppiamente incredibile perchè, anche dopo dopo la liberazione, la vita di Sami Modiano, salvo per caso, non è stata facile. La fuga dal villaggio dove erano dislocati i soldati sovietici che lo avevano salvato. Fuga dettata dal piano di un amico, che temeva di essere inviato sul fronte russo, e dal desiderio di tornare a casa, nonostante i sovietici trattassero i sopravvissuti con molta umanità. Altre settimane di marcia notturna, ma questo – racconta Sami – «per me, come si può immaginare, non era il principale problema». Alla fine, l’arrivo a Roma. Ero italiano a tutti gli effetti, ma non avevo mai visto il mio Paese.
Dall’Africa a Ostia. Modiano aveva perduto tutto. Rodi era lontana. E così è andato a cercare parenti e amici, prima a Ostia, dove vive tuttora, poi in un altro esilio, nel Congo Belga, dove altri si erano trasferiti e avevano intrapreso con successo attività commerciali. L’intraprendente ragazzino, diventato adulto combattendo con la morte, non ci pensa due volte. Sbarca dall’aereo nel cuore dell’Africa, prende confidenza, si impegna, viene colpito più volte dalla malaria ma si riprende, mette in piedi una piccola impresa. Finalmente è quasi un benestante. Si sposa e si convince che la vita è tornata finalmente a sorridergli. Ma non è così. La brutale conquista del potere da parte di Mobutu e la caccia agli stranieri, depredati di tutto, lo spinge ad abbandonare il suo ultimo esilio. Un medico belga gli dice: «Sami, ti sei salvato ad Auschwitz-Birkenau. Mica vorrai morire qui». E così, assieme alla moglie, torna in Italia e ricomincia daccapo, inventandosi una terza o una quarta vita. Che carattere straordinario! Adesso Sami si divide tra Ostia e Rodi. D’inverno sta a casa, nella sua casa sul litorale, e va a raccontare nelle scuole, nei licei e nelle università di tutta Italia cosa è stato l’orrore dei campi di sterminio, quanto è stato facile instillare e alimentare il più feroce odio razziale, quanti (in Italia) hanno venduto gli ebrei ai nazisti, e quanto sia velenosa e infame la campagna negazionista. D’estate si trasferisce a Rodi, per tener viva la memoria di quella terribile deportazione e per cementare la minuscola presenza della comunità ebraica sull’isola. Dalla fine della guerra, Rodi è greca. Ma quando chiedo a Sami se si senta più greco o italiano, quest’uomo fiero, salvo per caso, non ha un attimo di indecisione: «Sono italiano, e mi sento italiano».

Il Corriere della Sera 25.01.13

"Le mani d’oro di Guido il comunista riformista", di Oreste Pivetta

Il volantino comincia: «Mercoledì 24 gennaio, alle ore 6,40 un nucleo armato delle Brigate rosse ha giustiziato Guido Rossa, spia e delatore all’interno dello stabilimento Italsider di Cornigliano, dove, per svolgere meglio il suo miserabile compito, si era infiltrato tra gli operai camuffandosi da delegato…». In alto la solita intestazione, Brigate rosse, con la stella a cinque punte. Sui giornali, il giorno dopo, comparvero foto tremende: un’auto in una strada di Genova, via Fracchia e l’auto era una Fiat 850, sull’auto un uomo con la barba, la testa reclinata sul volante. Guido Rossa, operaio comunista, morì così, a quarantacinque anni, qualche colpo di pistola e via. Per lui stava cominciando una giornata come tante altre, in officina, in tuta, a sistemare macchine e attrezzi.
«Aveva una grande capacità ed una grande professionalità – lo ricordava un compagno d’allora, Renato Gabbi – e in questo si vedevano le qualità dell’uomo, ma anche quelle di un operaio comunista, che, per prima cosa, pensava che occorresse saper far bene il proprio lavoro. Guido era un mago. Sapeva riparare gli strumenti di precisione, perché questa era la sua mansione, con l’abilità di un orologiaio». Guido Rossa aveva tante passioni, leggeva molto (Gramsci, ma anche Bertrand Russell o Marcuse) e scriveva, dipingeva. Era un bravo fotografo. Amava la montagna. Tra le prime sue immagini che furono pubblicate è quella di lui vestito di una giacca a vento leggera con il berretto di lana in testa, sullo sfondo le nebbie di chissà quale cima. In un’altra lo si vede seduto su una roccia, mentre «assicura», la corda a spalla, il compagno che deve ancora salire. Immagini di fatica e di pace. In una lettera a un amico, alpinista di valore negli anni 60-70, Ottavio Bastrenta, notaio, lettera pubblicata allora in parte (la si legge in coda al bel libro della figlia, Sabina Rossa, realizzato con Giovanni Fasanella, Guido Rossa, mio padre, Rizzoli), scriveva: «Con le lotte dell’autunno caldo il movimento operaio italiano ha dimostrato, a chi pensava come ad una ripetizione del maggio francese, di saper fare di più e meglio. La classe operaia ha saputo rifiutare il discorso strategicamente infantile e semplicistico del “tutto o nulla”, non nel senso che il movimento di classe abbia rifiutato la prospettiva di una lotta rivoluzionaria, ma valutando che nelle società a capitalismo avanzato la via della rivoluzione sociale non è solo il frutto di minoranze coscienti e combattive, ma è invece il risultato della conquista della classe operaia di ampi strati sociali, di uno sforzo da condurre ogni giorno, nella fabbrica e nella società per limitare il potere dei gruppi monopolistici».
Scriveva ancora: «Io penso che il compito nostro non sia quello di elaborare modelli delle società future, ma sia proprio questo: capire il movimento reale, di classe concretamente presente oggi, che può portare al superamento dell’attuale società. In quanto all’uomo nuovo o a migliorare l’uomo, personalmente ho già una grande fiducia in quello attuale e penso che basterebbe poterlo inserire in una società come questa, aperta a tutti i valori, a tutte le concretezze umane, alla originalità di tutte le coscienze, una società dalla quale sia bandita la concorrenza come suprema legge dell’economia e il profitto come motore essenziale del progresso economico». La lettera continua e Guido Rossa continua a immaginare questa società desiderata, che sia laica, democratica, libera, solidale… Guido Rossa è un comunista ed è un autentico riformista. Cancella il «sol dell’avvenire», vive nella sua città, sindacalista nella sua fabbrica, battendosi giorno per giorno, perché le cose cambino, chiude in fondo con la sua morte, un anno dopo quella di Moro, un ventennio, dal primo centrosinistra attraverso il nostro breve Sessantotto, che fu anche di grandi progetti e di grandi riforme. Muore, perché aveva denunciato un terrorista che distribuiva volantini delle Br all’Italsider, Francesco Berardi (poi suicida). Fu la prima vittima della campagna di terrore contro «l’ala riformista dello schieramento polico» (linguaggio delle Br). Dopo di lui, in quel tragico 1979, verranno Emilio Alessandrini, colpito perché troppo impegnato nel buon andamento della Giustizia, Walter Tobagi, Vittorio Bachelet, il vicepresidente del consiglio superiore della magistratura, raggiunto dentro un corridoio dell’università di Roma.
L’Unità titolò quel giorno in prima pagina: «Le Brigate rosse gettano la maschera. Operaio comunista trucidato a Genova». Già si sapeva che cosa fossero le Brigate rosse. Ma quell’assas- sinio fu il segno estremo di una follia politica. Il seguito fu la sconfitta definitiva del terrorismo, ma anche, per altre numerose voci (la corruzione, ad esempio, e pochi mesi dopo la morte di Guido Rossa nel messaggio di fine anno il presidente Pertini dovrà denunciare: «La corruzione è una nemica della Repubblica») la crisi della politica, la crisi dei partiti, il craxismo, Tangentopoli, il ventennio berlusconiano.
Mario Moretti, uno dei capi delle Br e dei sequestratori di Moro, in un libro intervista, confessò che l’assassinio di Guido Rossa fu «sicuramente un errore» e spiegò, bontà sua, che «la morte è sempre grave» ma che, in quel caso, fu l’errore politico che «indusse a non controllare rigidamente l’uso delle armi». Un disguido, insomma. Ma quel «miserabile» volantino di rivendicazione (l’abbiamo citato) dice altro e non fu un’invenzione di «infiltrati». Gli assassini furono individuati e condannati. Risultò che uno dei tre avesse cercato più degli altri la morte di Guido Rossa, il «traditore».
«Davanti al monumento dedicato a Guido, al vecchio ingresso della fabbrica – ci racconta trentaquattro anni dopo Renato Penzo – sono stato un’altra volta sopraffatto dall’emozione, ma ho cercato anche di riflettere sul senso di quella morte, sul nostro presente». Renato Penzo era nel 1979 il segretario della sezione del Pci all’Italsider, la sezione Amilcare Cabral, che contava mille e duecento iscritti. Sta in politica ancora, nel Pd. Le tue conclusioni? «Mi colpisce la paura della gente, che affronta il giorno per giorno senza sicurezze e guarda al proprio futuro senza certezze, tradita dalle condizioni economiche, disillusa dalla politica. Mi colpisce la condizione dei giovani, senza un lavoro. Il mondo è cambiato, e probabilmente è cambiato in meglio. Ma questa nuova modernità ha lasciato troppi indietro e ai margini. La nostra politica era solidale. Ci consentì nuovi diritti, ci aiutò a difendere il posto di lavoro, a difendere la fabbrica. Anche la mensa aziendale fu una conquista di una politica vera, una conquista per chi si doveva portare il mangiare da casa. Si era uniti. Poi il vento cambiò e ci ritroviamo così, ma dobbiamo riguadagnare quella scuola».

L’Unità 25.01.13

"Per un Paese più giusto", di Rinaldo Gianola

La condizione di lavoro in Italia peggiora da trent’anni, il Paese è diventato più ingiusto. La mancanza di politiche per uno sviluppo equilibrato e per un’occupazione sana e di qualità è stata ed è la ragione principale delle profonde difficoltà economiche e delle insopportabili diseguaglianze che stiamo vivendo. I precari, i giovani e le donne che si affacciano sul mercato, sono le vittime di questa situazione che presenta processi di degenerazione, una minaccia alla nostra convivenza civile e democratica.Il senso di ingiustizia, di abbandono che provano i lavoratori, chi cerca un’occupazione, l’afasia crescente di chi non ce la più nemmeno a lottare, a volte anche la perdita di speranza, sono i segnali preoccupanti che la storia di questi anni di crisi ci ha raccontato e ci rappresenta quotidianamente.
Di cosa parliamo quando parliamo di lavoro e di ingiustizie? Il tasso di disoccupazione reale è ormai prossimo al 12%, considerati i lavoratori in mobilità. Oltre il 30% dei giovani non trova lavoro, le donne non si iscrivono nemmeno più alle liste di disoccupazione tanto è impossibile trovare un posto. È stato calcolato che l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha uno stipendio che è 430 volte quello medio di un suo operaio. Il manager ha incassato nel 2011 una retribuzione complessiva annua di 17milioni di euro, mentre un cassintegrato di Mirafiori prende 850 euro al mese. Nel 2009 il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi aveva un reddito 11.490 volte superiore a quello di un lavoratore di Pomigliano d’Arco. Il rapporto tra le retribuzioni medie dei manager e dei lavoratori dipendenti era di 45 a 1 nel 1980, è salito a 500 a 1 nel 2000. Secondo il Sole24Ore (non la Pravda…) nel 2011 la Borsa di Milano ha perso il 25%, ma la retribuzione media annua dei top manager italiani è cresciuta da 3 a 3,5 milioni di euro. Questo è il mondo in cui viviamo, si potrebbe osservare, e non si può fare troppa demagogia, non ci si può sempre scandalizzare. L’ingiustizia che patisce il lavoro in Italia è testimoniata dalla dinamica della distribuzione della ricchezza nazionale: la quota di pil destinata a rendite e profitti continua a crescere mentre quella per i salari precipita. La percentuale di pil indirizzata ai profitti è salita dal 23% del 1983 al 31% nel 2005, per i salari invece si è partiti dal 76% per scendere al 68% e oggi è ancora inferiore. Il sociologo Luciano Gallino ha stimato in 250 miliardi di euro all’anno la ricchezza uscita dai salari a favore dei profitti. Ancora: secondo la Banca d’Italia circa il 10% della popolazione italiana controlla oltre il 50% della ricchezza nazionale. Ecco come siamo messi, oggi gennaio 2013, a un mese dalle elezioni politiche. Possiamo andare avanti così?
La crisi finanziaria esplosa negli Stati Uniti nel 2008 è diventata una prolungata scossa sistemica dell’intera economia mondiale, in cui è stata coinvolta direttamente e drammaticamente l’Italia. La nostra economia è stata travolta da una profondarecessioneche,alimentata anche da speculazioni e manomissioni finanziarie, si è rivelata non più una semplice crisi momentanea, che arriva e dopo un anno o due se ne va, ma una tempesta continua, imprevedibile nella sua durata e nella sua estensione. Questo terremoto nasce dal fallimento delle politiche neoliberiste che da trent’anni ci opprimono e che proprio nel momento più drammatico del disastro riescono a trovare freschi predicatori, nuovi sostenitori, fedelissimi adepti i quali, anziché finire sul banco degli imputati come meriterebbero, “scoprono” nei debiti sovrani, nell’insufficiente produttività e nella rigidità del lavoro, nell’eccessiva protezione sociale dei sistemi di Welfare, negli sprechi dello Stato o delle eventuali “caste” le vere cause della crisi. A fronte di questo ribaltamento della verità, la politica, la società, la cultura si adeguano, quasi tutti, tristemente all’elogio dei tecnocrati che, come conoscitori della tecnica, sono in grado di sostituirsi alle classi di governo, quelle politiche ma anche quelle imprenditoriali ormai poco affidabili, riducendo la democrazia, comprese le elezioni, a un semplice inutile esercizio. Viviamo, dunque, non una banale recessione economica, con la chiusura delle imprese e la crescita della disoccupazione, ma un cambiamento del capitalismo, del suo modo di pensare e di agire, sempre più individualistico, manageriale, socialmente irresponsabile, dotato di privilegi e retribuzioni impensabili, condizionato solo dall’andamento dei corsi di Borsa e dai capricci dei grandi azionisti, dei fondi e delle banche di investimento. Viviamo, anche in Italia, un passaggio dominato dall’allargamento delle ingiustizie, dall’alterazione intollerabile delle capacità di reddito tra chi sta sopra e chi sta sotto, con la cancellazione di diritti, contratti, interessi, regole di convivenza in fabbrica, in ufficio, a scuola.
In questo sistema, che nemmeno il fenomenale Obama è riuscito a ostacolare nonostante già la sua prima vittoria del 2008 fosse basata sull’impegno a tagliare le unghie ai nuovi predatori, il lavoro è stato ridotto a una semplice, secondaria, componente del processo economico. Il lavoro vale poco, sempre meno. Stiamo vivendo una regressione culturale, una deriva di cui il Paese non pare accorgersi nella sua drammatica gravità, siamo investiti da una bufera che cambia i termini della nostra democrazia, ma andiamo avanti, applaudiamo come dei cretini il bocconiano di turno o il manager campione di stock options come prototipi del sicuro successo. È in questa situazione che oggi e domani la Cgil, il più grande sindacato italiano, presenta il suo piano per il lavoro. Una proposta che evoca fin dal titolo altre emergenze sociali in altri periodi storici. Che Susanna Camusso e la sua organizzazione abbiano deciso di chiamare i leader del centrosinistra a confrontarsi su questa priorità assoluta è un segno di consapevolezza e di responsabilità verso il Paese. Anche se Mario Monti non riesce a comprenderlo. È proprio il caso di augurare buon lavoro.

L’Unità 25.01.13