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Aggiusta l'Italia

“Questa è la coalizione che vuole lavorare per la vittoria. Noi governiamo già insieme e la nostra coalizione è stata verificata da milioni di persone e quindi siamo in condizione di offrire una prospettiva di governo”. Così il segretario del PD, Pier Luigi Bersani ha aperto la conferenza stampa di presentazione della coalizione del centrosinistra con Nichi Vendola, presidente di Sel e Bruno Tabacci, leader di Centro democratico. “L’esperienza dell’ultimo anno non poteva tracciare una grande prospettiva di cambiamento, un vasto programma di riforme e attenzione al sociale. Noi ci riteniamo in condizione di offrire una proposta di governo e allo stesso tempo di cambiamento” ha continuato Bersani.

“Voi ci vedete qui, io Vendola, Tabacci. Noi la facciamo, la foto. Vorrei sommessamente invitare Monti a fare la foto con Casini e Fini, Berlusconi con Storace e Maroni e compagnia bella. Perché così la gente vede e si fa un’idea. Anche perché noi veniamo continuamente vivisezionati, mentre agli altri non si dice mai niente”.

Meglio Monti o Ingroia, come alleato?. “E se noi vincessimo?”, chiede Pier Luigi Bersani ai giornalisti in conferenza stampa. “Noi siamo in condizione di farlo. Per il resto poi stiamo aperti”, aggiunge, spiegando che questo dell’alleanza “è un tema del giorno prima, il giorno dopo le elezioni non si ragionerà più così”.

MPS. “La destra deve inventarsi ogni cosa, ma dal 2001 il PD e’ impegnato in una battaglia parlamentare sui derivati mentre la destra stia zitta e si vergogni”. Pier Luigi Bersani torna così a rispondere sulla vicenda Mps affermando che “il PD non si è mai occupato in quanto tale di banche, noi facciamo politica”. “E’ una vicenda che suscita preoccupazione ma nessun imbarazzo, le banche sono gestite da privati, come in tutte le banche c’è una fondazione composta anche da comune e provincia. Non ci siamo mai occupati di banche”.

Donne eleggibili. “Il tema della presenza femminile è la cartina al tornasole del cambiamento. Ora per favore mi dicano Monti, Casini, Ingroia quante donne sono eleggibili nelle loro liste”. “Il rinnovamento – ha dichiarato Bersani – si fa coi fatti, non con le chiacchiere”.

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Nichi Vendola ha contestato la “pignoleria” con cui viene “sottoposto alle analisi del sangue”. Ma mette in chiaro che per il centrosinistra “Sel sarà il fattore di stabilità. Possiamo dare lezioni di buon governo a qualsiasi amministrazione”.

A proposito della composizione delle liste Vendola ha chiarito che “le rivoluzioni fatte alla mia sinistra e alla mia destra puzzano d’antico. Perché le rivoluzioni fatte solo dai maschi sono rivoluzioni incivili”.

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“Noi del Centro democratico ci candidiamo per governare con Sel e il Pd, ci presentiamo in tutte le circoscrizioni, e siamo solo tre partiti, non come l’Unione”. Lo ha detto il leader di Centro Democratico, Bruno Tabacci, nel corso della conferenza stampa.

“Noi scommettiamo sulla governabilità, Monti e Casini scommettono sullo stallo in Senato, il loro non può essere un programma di governo”, ha aggiunto Tabacci, che ha ricordato l’esperienza delle primarie del centrosinistra: “Hanno contribuito a rafforzarci”.

www.partitodemocratico.it

"Concentrarsi sull'Europa", di Alessandro De Nicola

L’Italia è certamente distratta dalla campagna elettorale. Ma non fino al punto di non rendersi conto di quel che sta succedendo in Europa e che potrebbe avere conseguenze estremamente negative per il nostro paese.
Il punto di partenza è il discorso del primo ministro britannico Cameron il quale mercoledì ha annunciato un referendum sull’Europa da tenersi entro il 2017 e ieri al World Economic Forum di Davos ha tentato di chiarire la sua posizione. Agli elettori britannici dovrebbe essere posta una domanda molto semplice: volete rimanere nell’Unione Europea o uscirne? La scommessa di Cameron è azzardata: pensa di poter rinegoziare condizioni più favorevoli con l’Unione, ottenerle, presentarsi davanti al popolo come lo statista duro ma moderato che, avendo migliorato la condizione del Regno Unito all’interno dell’Europa, ora fa appello ai sudditi di Sua Maestà affinché optino di rimanerci. Dovrebbe andare proprio tutto bene, però, ivi compreso il voto finale che, se fosse isolazionista nonostante il pacchetto di concessioni ottenute dal giovane premier, ne sancirebbe la fine politica.
Inoltre Cameron non sembra nemmeno considerare l’ipotesi che i partner europei non siano disposti a concessioni. Che farebbe in quel caso? Indirebbe il referendum raccomandando la separazione?
La partita, insomma, è molto complessa ma non riguarda solo il destino politico del leader conservatore (di cui, onestamente, poco ci interessa) o il futuro economico della Gran Bretagna. Infatti, i motivi di disagio alla base del malumore inglese non sono riconducibili solo alla tradizionale diffidenza isolana (“nebbia sulla Manica, il Continente è isolato”) o alla crisi dei paesi mediterranei dell’area euro. L’insofferenza si può ricondurre a temi molto pratici che devono interessare anche la politica italiana a oggi del tutto assente, se non ignara, del dibattito in corso.
Primo punto: l’Europa rischia di trasformarsi in una fortezza commerciale chiusa in se stessa? Nei discorsi di Cameron sono sempre presenti i riferimenti all’America, all’Asia e all’Africa. Uno dei punti più qualificanti dell’agenda europea dei prossimi mesi dovrebbe essere l’apertura di negoziati per concludere un trattato di libero scambio con il Nord America. Inutile dire che un’economia esportatrice come la nostra sarebbe la prima a trarre beneficio da un accesso non ristretto al mercato d’Oltre Oceano.
Secondo: la liberalizzazione del mercato interno. La Ue negli ultimi anni si è dedicata a imporre regole di bilancio e emanare regolamentazioni che spaziano nei campi più vari, ma si è dimenticata lo scopo originario della sua esistenza, quando ancora si chiamava Mercato Comune Europeo, vale a dire l’instaurazione di un vero mercato unico. L’ultimo tentativo europeo di liberalizzazione è stata la Direttiva Servizi. In Italia la sua piena attuazione è stata ostacolata da leggi regionali (sui maestri di sci, sulle agenzie di viaggio o sui centri commerciali, ad esempio) o regolamenti comunali ed in più i servizi professionali possono essere soggetti a regimi speciali anti-concorrenziali (prova ne sia la recentissima approvazione della restrittiva riforma forense). La direttiva stessa è stata annacquata rispetto all’intento originario e l’ultima fatica della Commissione, il Single Market Act, giace nei corridoi di Bruxelles.
La terza lamentela britannica riguarda la scarsa democraticità dell’intero processo di costruzione europea. Dal punto di vista di Cameron questo difetto si rimedia con un ruolo maggiore dei parlamenti nazionali. Chi ha un approccio più federalista, invece, reclama un ruolo più incisivo, sia dal punto di vista legislativo che di controllo, per il Parlamento Europeo. I referendum, per i passaggi più importanti, dovrebbero essere la regola e non l’eccezione.
Penultimo obiettivo degli strali inglesi è la politica agricola europea che è ormai una
enorme macchina di distribuzione di sussidi senza riuscire a realizzare alcunché sul piano della competitività.
Infine, Londra non apprezza per niente gli sforzi di armonizzazione in settori che dovrebbero essere prerogativa degli Stati nazionali per il principio di sussidiarietà. Balzano agli occhi i ricorrenti tentativi di armonizzazione fiscale che, se possono aiutare a diminuire i costi di transazione formando un quadro unico di regole a livello europeo, non possono spingersi fino a determinare le aliquote da applicare: gli stati virtuosi devono essere liberi di attrarre investimenti grazie al loro miglior trattamento fiscale o a un diritto del lavoro più competitivo.
Che ne pensano i politici italiani di queste sfide? Sono disposti a sfidare le lobby agricole o professionali, a indire referendum, a ridurre i poteri di blocco di regioni ed enti locali, a cedere sovranità nazionale in cambio di maggiore democrazia, a sopportare la concorrenza fiscale di paesi parte dello stesso mercato?
In una campagna elettorale in cui si discetta di alleanze e ci si trastulla tra chi appare più rigoroso, chi più tranquillo e chi più cabarettista, il tema dell’Europa, e quindi del nostro futuro, dovrebbe essere invece al centro del dibattito. Vediamo se qualcuno si distrae dal futile e ci parla dell’utile.

La Repubblica 25.01.13

"Ogni cosa è oscura", di Sudanna Nirenstein

Non è rimasto niente di Trochenbrod. Era una cittadina specialissima dell’Ucraina nata nell’inizio Ottocento. Polacchi, russi, sovietici se l’erano passata di mano varie volte, ma la sua natura era rimasta tale e unica, una comunità interamente ebraica, senza gentili. Piena di piccole industrie e di negozi attivissimi per tutto il circondario. Di scuole, cori e teatri. Di ogni organizzazione sionista possibile e immaginabile. Con nove sinagoghe, certo, lì tutti festeggiavano il sabato e tutti ballavano e cantavano ai matrimoni e ai bar-mitzvah.
E la sua particolarità stava anche nel fatto che erano contadini, contadini ebrei! Era da secoli che non se ne vedevano, e invece loro avevano drenato e coltivato e allevato bestiame con ardore, orgogliosi dell’autonomia conquistata. Trochenbrod sembrava quasi una bolla di Stato ebraico prima che nascesse Israele. Erano cinquemila ebrei. Tra l’agosto e l’ottobre 1942 furono sterminati dai nazisti e dalla milizia ucraina nelle fosse comuni di Jaromel. Quando nel 1950 uno dei cinquanta sopravvissuti alla Shoah andò a ricercare Trochenbrod, raccontò di non averne trovato traccia.
Avrom Bendavid-Val, un ebreo sessantatreenne di Washington, 15 anni fa di tutto questo non ne sapeva più o meno niente. Sì, aveva presente che suo padre Chagai era nato e vissuto a Trochenbrod con un fratello e una sorella che erano stati uccisi nella Shoah, e che lui invece nel 1933 era partito per la Palestina. Ma Chagai non ne parlava, su Trochenbrod si limitava a un certo sorriso misterioso, e Avrom non chiedeva, perché, come ci dice attraverso Skype, «come i miei coetanei ero preso da donne, amici e baseball. Quando mio padre morì a 56 anni, nel ’69, mi accorsi che non avevo idea da dove venisse ».
Nel 1997 però volle andare in quel posto misterioso. E avvenne un incantesimo. «Ero con mio fratello e una guida, camminammo in un enorme campo vuoto. Fu terribilmente commovente. C’era una stele messa a ricordo dagli israeliani, poi il niente circondato da una foresta. Mentre tornavo in macchina, guardai fuori nel buio, il cielo era il più stellato che avessi mai visto, e soprattutto era lo stesso che aveva guardato mio padre. In quel
momento decisi che volevo saperne di più. Appartenevo a quel luogo, perché aveva forgiato mio padre che mi ha passato i suoi valori, il suo sense of humour, e mi ha anche insegnato l’ebraico perché ha sempre pensato di voler tornare a vivere in Israele. Era una parte forte della mia identità».
Del suo essere ebreo? «Non l’ebraismo in sé, ma quella città era ebraica e aveva il suo modo di guardare le cose. Il mio legame con la Trochenbrod di prima dello sterminio è forte. Ce l’ho nel sangue. Non è ebraico, ma è ebraico». Avrom non è l’unico che negli ultimi anni ha avuto bisogno di tornare alla casa dei progenitori fuggiti o morti nella Shoah, basti pensare a Gli scomparsi di Mendelsohn, a Jonathan Safran Foer che proprio su un viaggio insieme al nonno a Trochenbrod (chiamato nel romanzo Trochimbrod) ha ruotato il bestseller Ogni cosa è illuminata.
Una forza trainante porta figli e nipoti a voler conoscere cosa è stato cancellato, cosa c’era prima di loro, a onorare i morti non più ad Auschwitz, luogo simbolo della fine, ma raccogliendo testimonianze sull’energia, le persone, i progetti che avevano abitato quelle comunità, e sulle ultime ore naturalmente, senza permettere che niente evapori, cada nell’oblio. Forse è semplicemente perché è crollata la Cortina di ferro e si può entrare laggiù, come dice Avrom da concreto economista qual è, forse è perché, ora che la storia della Shoah è scritta, vogliamo toccare con mano, sentire le voci, i profumi, vedere i paesaggi che circondarono chi fu assassinato, così come avere una visione intima dell’orrore che loro provarono.
Se Mendelsohn nel suo peregrinare ha cercato soprattutto di ricostruire come erano stati uccisi i suoi, per Bendavid-Val è diverso. È della vita che è andato a caccia, è quella che ha voluto ridare a Trochenbrod. Ne è uscito
I cieli sono vuoti. Alla scoperta di una città scomparsa (Guanda, con un’introduzione di Safran Foer), un affresco colorato e pieno di voci, come un vecchio film su uno shtetl, come Il violinista sul tetto, o come i racconti di Sholem Aleichem, con l’imbianchino Motty, Shmuel Shimon il calzolaio che andava a svegliare la gente per la preghiera, Yosel il maestro, Itzik il tessitore, Chuna il Lungo il macellaio, Berel che preparava il mangime per gli animali, Hirschke che aveva un’osteria, Yankel il fabbro… e gli unici tre gentili che vivevano lì, il poliziotto e la direttrice dell’ufficio postale Janina Lubinski insieme a suo figlio Ryszard che parlavano yiddish come gli altri.
Avrom, con i suoi testimoni ritrovati in Israele, Brasile, Stati Uniti anima quella cittadina annientata quasi avesse una macchina del tempo. «Riportare Trochenbrod in vita è stata la cosa più gratificante che abbia mai fatto: ora non morirà più». Anche perché Avrom è travolto dalle e-mail, e le presentazioni del libro sono sempre affollate, accorate. E tra poco uscirà un documentario. E un altro libro. Dopo la vita poi, il crepuscolo e le tenebre. Sotto i russi arrivati nel ’39 Avrom racconta l’economia della città che viene travolta e affamata, le organizzazioni sioniste che imparano a sparare e soprattutto a prepararsi ad andare in Palestina.
Partono Tuvia Drovi e i suoi amici, di notte. Passano senza un soldo in tasca per Vilnius, e poi la Turchia, ma anche la Russia, il Kazakistan, l’Uzbekistan, l’Iran, la Siria, l’Egitto perché attraversare l’Europa non è più sicuro. Hana Tziporen arriva ad Haifa, dopo molti mesi passati a Teheran, Shmulik Potash si ritrova nella Varsavia occupata e poi a Mosca, a Taskent…: solo nel 1949 riuscirà a raggiungere quello che ormai era diventato Israele! Furono tra i pochi a salvarsi.
I nazisti invasero la Polonia orientale in mano ai sovietici il 22 giugno 1941: insieme alle milizie ucraine devastarono e uccisero. Molti iniziarono a costruire nascondigli nelle case, altri bunker nascosti nella foresta. Il piano tedesco prevedeva l’eliminazione totale entro il 10 ottobre 1942. Bastarono due Aktion per sterminarli tutti. Bendavid-Val li segue nel sangue, osserva attonito il rabbino nudo ucciso per primo. Così come entra nei piccoli nove bunker del bosco in cui sopravvisse dodicenne per due anni Basia-Ruchel Potash (che ora vive in America), assieme alla sua famiglia, sdraiati, attanagliati dal freddo, la fame, il silenzio, il terrore. Un’epopea inimmaginabile. E racconta anche di Chaim Votchin, il ragazzo partito per fare il partigiano insieme a Gad Rosenblatt, prima in una piccola squadra di soli ebrei che si vendicava dei tedeschi e degli ucraini più feroci, poi insieme ai russi. A leggere la sua testimonianza sembra di guardare Inglorious Basterds di Tarantino: che senso di liberazione. Oggi Votchin vive ad Haifa. Sì, Trochenbrod rappresenta davvero della storia degli ebrei e della Shoah. È adatto per celebrare il Giorno della Memoria. Un popolo, una cultura, cancellati nel cuore dell’Europa. Eppure ancora in piedi.

La Reèubblica 25.01.13

"Le prime due cose da fare per la scuola italiana", di Mila Spicola

Su scala internazionale si è attivato negli ultimi anni, in campo educativo, un confronto tra le politiche scolastiche dei singoli paesi mirato al miglioramento globale in cui la scuola italiana si attesta su valori complessivi sotto la media. Questo significa che si conoscono e si possono applicare modelli e politiche sperimentate con successo altrove?Certo studiarli eviterebbe le superficialità che in più di un’«agenda» stiamo scorgendo, laddove prendono come esempio modelli o riforme scolastiche che si sono ampiamente dimostrati fallimentari (su tutti quella di Blair). Dimostrando superficialità e incompetenza. Il sistema d’istruzione di un Paese attiene al simbolico e all’identitario di una nazione, e non è detto che ciò che va bene in Finlandia o in Corea del Sud (in cima alle classifiche per qualità e risultati)possa essere trasferito toutcourt nelle nostre scuole a meno delle necessarie cautele sperimentali. In questi giorni siamo sommersi di proposte del tipo «le cinque cose da fare subito per salvare la scuola». Il «subito» non attiene ai tempi lunghi di sperimentazione delle decisioni assunte in ambito educativo.Le necessità comunicative elettorali devono semplificare problemi complessi, ma la semplificazione spesso è approssimazione. La scuola italiana è un sistema a macchia di leopardo, con eccellenze e carenze e concontesti così vari da non poterne prescindere quando si pensa a impossibili ricette unitarie salvifiche. Possiamo però dare dei margini di priorità di intervento. La prima è sicuramente l’edilizia scolastica. La seconda è l’azione sugli insegnanti: vera valvola di accensione del cambiamento. Se non si agisce sul fattore «docenti»non si agisce sul sistema. Lo dice il rapporto The learning curve illustrato recentemente a Bruxelles, che ha analizzato sistemi d’istruzione di 40 Paesi. Per Andreas Schleischer, vicepresidente del settore educazione dell’Ocse, «i sistemi scolastici di alto livello devono prestare grande attenzione al modo in cui selezionare, formare e aggiornare il corpo docente. Bisogna studiare strategie per rafforzare la pratica e la condivisione di conoscenze, per mettere gli insegnanti nella condizione di ampliare e aggiornare sempre meglio le proprie strategie pedagogiche». Quando si parla in Italia di valorizzazione degli insegnanti non leggo nulla di tutto ciò. Leggo,come fattori per valorizzare i docenti, di orari, di stipendi, di riconoscimento del merito: sono solo conseguenze (per lo più di tenore sindacale) di altre azioni che dovrebbero adottarsi. Si deve agire sulla qualità della formazione, sul rigore e sulla certezza nella selezione e sulla continuità dell’aggiornamento in servizio. Basterebbero queste tre corse per capovolgere il destino della scuola. Selezionare,formare aggiornare il corpo docente:ecco dove siamo enormemente carenti. Abbiamo un sistema di formazione universitaria inadeguato ai tempi e ai compiti: ha lo stesso impianto di 30 anni fa. La maggior parte dei colleghi non ha mai studiato tematiche inerenti la didattica o la pedagogia, perché non era richiesto nei concorsi e non era compreso nel loro corso di studi. Abbiamo un sistema di selezione della classe docente che definire folle è un eufemismo: non diventi insegnante perché risulti il più bravo in un processo selettivo, bensì per puro allineamento di costellazioni planetarie favorevoli. Abbiamo una pratica concorsuale non all’altezza nel selezionare. Non esiste concorso svolto negli ultimi venti anni che non sia stato funestato da migliaia di ricorsi. E infine l’assurdo: non esiste da almeno 30 anni un sistema nazionale di aggiornamento. La grande stagione riformista della scuola negli anni 70 basava il sistema scuola proprio sull’aggiornamento costante e in servizio del docente. L’insegnante è un ricercatore, insegnare è una scienza umana. Se smette di esserlo inficia la qualità del risultato. Si potrebbe obiettare: con la scuola autonoma tutto ciò è demandato alla singola scuola. La scuola autonoma non ha energie, risorse, né competenze per gestire da sola la questione dell’aggiornamento. Per le linee guida generali dovrebbe essere coordinato e monitorato a livello centrale e nazionale di concerto e in osmosi con gli istituti universitari locali di ricerca educativa, con immediate ricadute positive per entrambi, su tutte l’annullamento della marginalità di azione e considerazione sociale. Sono tre azioni da adottare subito per valorizzare gli insegnanti. Oltre che a migliorare la qualità del servizio offerto diventerebbe più semplice misurare e valutare la quantità e la qualità di formazione iniziale e di aggiornamento in servizio, le ore necessarie a farlo e la possibilità di produzione di azioni e di contenuti utili per il mondo educativo in termini di avanzamenti, aumenti o premialità. Per un docente continuare ad apprendere fondamentale per agire a livello motivazionale, per ricreare un senso comune d’intenti e a diffondere la convinzione personale e collettiva di poter riuscire a fare la differenza nell’educazione dei propri ragazzi.

L’Unità 24.01.13

"Scuola, iscrizione on line 'negata' agli stranieri irregolari", da unita.it

Tra i campi obbligatori da compilare nelle iscrizioni scolastiche on line cè anche il codice fiscale, il che escluderebbe tutti i figli degli immigrati privi di permesso di soggiorno. Lo scrive in una nota Daniele Lanni, portavoce nazionale della Rete degli Studenti Medi, secondo cui tutto ciò «è inammissibile». «L’iscrizione – spiega – deve essere possibile anche per i figli di immigrati privi di permesso di soggiorno, come ci spiega l’articolo 38 del testo unico immigrazione, e il ministero deve provvedere a modificare i campi di iscrizione immediatamente». «È incredibile – conclude Lanni – che le famiglie e gli studenti quest’anno debbano affrontare mille difficoltà per iscrivere i propri figli a scuola».

LA DENUNCIA DI MELTING POT
Da quest’anno le iscrizioni alle scuole elementari si effettueranno solo on line. Sito intasato, dati non salvati, dati stravolti dopo il salvataggio, sono solo alcuni degli effetti di questa nuova procedura che hanno colpito i genitori di tutta Italia. Per chi non dispone di una connessione internet e di un computer le difficoltà sono ovviamente maggiori anche se gli istituti comprensivi, un po’ ovunque, si sono resi disponibili per l’assistenza alla compilazione delle iscrizioni. Ma i disservizi non sono l’unico effetto prodotto dal nuovo sistema. La procedura di iscrizione on line infatti, con la richiesta tra i campi obbligatori del codice fiscale, esclude la possibilità di iscrizione dei figli alle scuole elementari da parte di genitori privi di permesso di soggiorno.

Inutile ricordare che la scuola elementare (scuola primaria) è scuola dell’obbligo. L’articolo 38 del Testo Unico immigrazione è assolutamente lapidario: i minori stranieri presenti sul territorio sono soggetti all’obbligo scolastico.

L’articolo 45 del Regolamento di attuazione poi chiarisce in maniera inequivocabile come i minori stranieri presenti sul territorio nazionale abbiano diritto all’istruzione indipendentemente dalla regolarità della posizione in ordine al loro soggiorno, nelle forme e nei modi previsti per i cittadini italiani.

La mancanza del codice fiscale per i genitori stranieri privi di permesso di soggiorno che vogliano iscrivere i loro figli a scuola risulta quindi un ostacolo inaggirabile per procedere all’iscrizione.

L’Agenzia delle Entrate, per il rilascio del codice Fiscale, richiede comunque l’esibizione del visto di ingresso o del permesso di soggiorno e a poco serve la soluzione “fai da te” di chi cerca di generare il codice fiscale autonomamente. nulla di ufficiale. In buona sostanza il sistema predisposto dal Ministero preclude l’esercizio dell’obbligo/diritto di frequenza alle scuole elementari, come denunciato da diversi insegnanti.

Ai Miur è indirizzata la diffida del Progetto Melting Pot Europa affinchè modifichi immediatamente il sistema dando indicazioni chiare perchè il diritto all’istruzione sia garantito a tutti i minori su tutto il territorio nazionale a prescindere dalla posizione di soggiorno dei loro genitori.

"Il Veneto torna contendibile. Bersani e Renzi vanno là per tentare il colpaccio", di Rudy Francesco Calvo

A precipitare nelle stime di voto è soprattutto il Carroccio, che potrebbe diventare terzo partito.
Di tutte le regioni in bilico era considerata la più difficile da espugnare. Oggi, invece, le speranze dei Democratici tornano a riaccendersi: in Veneto podemo farghela. A dirlo sono i sondaggi di questi giorni, che vedono il distacco tra centrodestra e centrosinistra passare dal 30 per cento delle regionali del 2010 ai pochi punti (3 o 4) di questi giorni, con il Pd primo partito intorno al 30 per cento. Ma soprattutto è il malumore diffuso tra gli ex elettori pidiellini e, soprattutto, leghisti a incoraggiare la corsa dei dem. I quali, non a caso, provano a giocare qui le loro carte migliori: lunedì Pier Luigi Bersani sarà al PalaGeox di Padova, seguito giovedì da Massimo D’Alema e il 15 febbraio da Matteo Renzi, che farà un tour nella regione (Verona, Vicenza, Belluno, Rovigo, Padova) su espressa richiesta del vertice nazionale del partito.
Qui, infatti, il sindaco di Firenze può contare su un bacino radicato di sostenitori, che lo portarono a superare (anche se di poco) la media nazionale dei suoi consensi alle primarie. Ma è soprattutto un altro il motivo per cui il Pd affida a Renzi buona parte delle proprie speranze in Veneto. Come mostrano i dati dell’Osservatorio Nord Est di Demos, Lega (16 per cento) e Pdl (17,3) sono precipitati nelle intenzioni di voto, alimentando la lista Monti (accreditata del 13,8 per cento, ben oltre le rilevazioni nazionali), il M5S (tra l’8 e il 9) e soprattutto il bacino degli indecisi e dei possibili astenuti, che rappresenta oggi quasi il 40 per cento dell’elettorato veneto. L’impegno di Renzi è rivolto soprattutto a recuperare i consensi di questi elettori, considerati tra i più sensibili ai suoi messaggi, spostandoli a favore del centrosinistra.
Il sindaco di Firenze può riuscire, insomma, laddove i candidati locali del Pd hanno più difficoltà. È vero, infatti, che i dem locali daranno vita nei prossimi giorni a una campagna a tappeto in tutti i 581 comuni della regione e che dal Nazareno hanno riservato al Veneto un “trattamento speciale” nel compilare le liste (è l’unica regione in cui sono presenti solo nomi locali, compresi quelli indicati dal listino), ma a scorrere gli elenchi per camera e senato si scorgono soprattutto personalità provenienti da esperienze di partito o sindacali. Con qualche difficoltà, quindi, a “parlare” al tessuto produttivo delle piccole imprese, che ha premiato in passato Pdl e Lega e oggi appare più disilluso.
A precipitare nelle stime di voto è soprattutto il Carroccio, che potrebbe diventare terzo partito, subendo il sorpasso di Pd e Pdl. Il tanto decantato federalismo si è rivelato un bluff, come dimostrato anche recentemente in un rapporto di Unioncamere Veneto. Inoltre, la nuova alleanza con Berlusconi, dopo mesi di attacchi all’ex premier, non è piaciuta all’elettorato leghista, che fatica a comprendere una scelta che avvantaggia solo gli “amici” lombardi, impegnati con Maroni nella scalata al Pirellone. In questa chiave va letta anche l’intervista del sindaco di Verona (nonché segretario della Lega veneta) Flavio Tosi ieri a La Stampa: l’annuncio di un nuovo divorzio dal Cavaliere dopo il voto (e la sconfitta, data per certa) rappresenta il disperato tentativo di tranquillizzare i propri elettori in fuga. I dem dovranno dimostrarsi più convincenti per provare a conquistare i 14 seggi (su 24) del premio di maggioranza previsto per il senato.
da Europa Quotidiano 24.01.13

"La finanza avvelenata", di Massimo Giannini

Come accadde già per il bubbone Bnl-Unipol di Consorte e per la Lodi-connection di Fiorani, il caso Montepaschi è uno scandalo finanziario ad altissima intensità politica. Il buco nero nei conti della banca «rossa» non è solo la fine indegna dell’ultimo residuo di «socialismo municipale» rimasto nel Paese. È anche una miccia innescata nel cuore fragile di un sistema creditizio opaco e autoreferenziale. Ed è anche una bomba incendiaria che deflagra in campagna elettorale, e che una destra ipocrita e disperata prova a scagliare contro una sinistra sbigottita e imbarazzata. Eppure non c’era nulla di più annunciato, nel clamoroso collasso della banca più antica d’Italia.
Mps ha chiuso il 2011 con una perdita di 4,7 miliardi. Ora crolla di schianto. Sotto i colpi delle sue velleità: l’operazione Antonveneta, comprata al prezzo folle di 9,5 miliardi, sulla quale pende un’inchiesta giudiziaria che promette sfracelli. E sotto i colpi dei suoi trucchi di bilancio, che spuntano come funghi avvelenati. Prima i 150 milioni di costi del personale non contabilizzati. Poi i passivi devastanti sui contratti derivati, sottoscritti tra il 2008 e il 2009 per ricoprirsi da un’enorme esposizione accumulata in titoli di Stato (25 miliardi, pari a due volte e mezzo il capitale). Dovevano servire a nascondere i buchi futuri, e invece hanno allargato a dismisura quelli esistenti.
Lo scandalo finanziario chiama in causa molte responsabilità. Prima di tutto ci sono i manager. L’ex presidente Mussari e l’ex dg Vigni, auto-retribuiti con bonus milionari, hanno trasformato un istituto sano in un baraccone. Mussari si è appena dimesso dalla presidenza dell’Abi: ma il vero paradosso è che ci sia rimasto per ben dieci anni. Poi ci sono i controllori. La Consob tace. La Banca d’Italia parla di «documenti tenuti celati all’Autorità di Vigilanza». Se è così – e conoscendo la rettitudine di Ignazio Visco non ne dubitiamo anche Via Nazionale (insieme agli azionisti, ai dipendenti e ai correntisti della banca) è «parte lesa» di una truffa che ricorda paurosamente il crac della Parmalat.
Tocca alla magistratura e alla Guardia di Finanza scoperchiare il verminaio di Siena. Ma quello che preoccupa, a questo punto, è la dimensione «sistemica» del rischio. Le banche continuano a soffocare l’economia reale (i prestiti alle imprese a novembre si sono ridotti di un altro 4%). Nel frattempo, le sofferenze hanno superato i 150 miliardi, e il valore nominale dei derivati che gli istituti hanno in pancia ha raggiunto la cifra monstre di 7.560 miliardi di euro. Quanti altri bubboni, sul modello Mps, sono stati nascosti nelle pieghe dei bilanci dagli altri Signori del credito?
C’è poi lo scandalo politico. Anche qui le responsabilità sono diffuse. Comune e provincia, a Siena, hanno fatto per troppi anni il loro comodo, amministrando come un setta la Fondazione che a sua volta controlla la banca. Lottizzazioni e clientele, tra Palazzo Comunale e Rocca Salimbeni, non sono mai mancate. La difesa anacronistica della «senesità» ha prodotto solo guasti. Al di là delle colpe specifiche degli amministratori locali, anche i leader nazionali del Pd devono fare qualche autocritica. Ma è penoso sentire la destra berlusconiana (pluri-condannata e pluri-inquisita) che invoca «chiarezza e giustizia».
Ed è ancora più penoso sentire Giulio Tremonti che attacca Mario Draghi. Lo stesso professore di Sondrio che, da ministro del Tesoro, provò a mettere le mani sulle banche con i Tremonti bond, e che erogò proprio all’Mps la bellezza di 1,9 miliardi. Questa destra ipocrita e bugiarda, in nome dei contribuenti italiani tartassati dall’Imu, piange per i 3,9 miliardi di Monti bond appena concessi all’istituto senese. Ma chi ci restituirà i miliardi che spese nel 2005 per salvare Credieuronord, la «centrale» bancaria della truffa sulle quote latte ordita per conto della Lega di Bossi e Maroni? C’è un vergognoso «azzardo morale», che accomuna la finanza predona e la politica stracciona. È difficile dire quale sia il male peggiore.

La Repubblica 24.01.13