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Tre mosse vincenti, di Stefano Menichini

Un po’ fermi dopo la ripetuta sbornia delle primarie? Può darsi. La ripartenza del Pd però è sincronizzata col momento giusto (l’effettiva apertura della campagna elettorale, i trenta giorni davvero decisivi) e soprattutto schizza via in varie direzioni, coprendo settori di campo diversi.
Che oggi si chiamano: F-35, Financial Times , Matteo Renzi. In attesa, venerdì e sabato prossimi, di una importante ancorché delicata (si tratterà di modulare il messaggio giusto) conferenza della Cgil sul lavoro.
Il preannuncio della rimessa in discussione del programma di acquisti per la difesa varato dal governo Prodi è destinato a essere popolare, non solo a sinistra, in un momento di tagli alla spesa pubblica e ai bilanci famigliari. Vendola ovviamente plaude, la copertura sul fronte Ingroia è buona, e questo senza rinnegare l’ormai consolidata politica di sostegno alle missioni militari italiane nel mondo.
L’editoriale anonimo (dunque ufficiale) del Financial Times è uscito lunedì al termine di una giornata convulsa, sicuramente sotto la pressione di un importante leader europeo come Monti infuriato per l’attacco subito dall’altro commento del quotidiano inglese, quello di Münchau. Ma la confusione non può distrarre dal punto centrale, davvero una novità: l’organo della business community ha sdoganato il Pd e Bersani come soggetti affidabili per il governo di un paese a rischio com’è tuttora l’Italia. Chiaro che FT dichiari un investimento sulla coppia Bersani- Monti: mostra di collocarsi esattamente sul baricentro del probabile assetto politico italiano post-elettorale. Dopo i viaggi di autoaccreditamento di Bersani e Fassina, il risultato è acquisito: il Pd non è visto come la sinistra-spauracchio del tassa e spendi.
Infine, la serata del 1 febbraio a Firenze. Bersani e Renzi insieme sul palco, per quello che fin d’ora è considerato l’evento clou della campagna elettorale. Non è solo significativo che si svolga: è significativo che sia inteso e considerato, innanzi tutto dall’ entourage bersaniano, come un passaggio importante per il successo finale.
Potrebbe realizzarsi il miracolo nel quale speravamo: quello di un Pd inevitabilmente spostato a sinistra e però capace di mettere in campo personalità, idee e messaggi per un target più ampio. Ciò che serve non solo per vincere in modo non risicato, ma per conquistare per un periodo più lungo il centro della scena nazionale.
da www.europaquotidiano.it

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“Meno F35, priorità al lavoro”, di Goffredo De Marchis

— Raddoppiano gli appuntamenti comuni di Bersani e Renzi. Forse diventeranno tre. Nel giorno in cui viene ufficializzata la tappa di Firenze del “tandem” democratico (il primo febbraio, all’Obihall) filtra la notizia che ci sarà almeno un bis in Lombardia. E poi un’ulteriore replica in Veneto.
Una parte del tour elettorale, il candidato premier del centrosinistra la farà dunque con lo sfidante del primarie. Sono definitivamente superate alcune resistenze dei rispettivi entourage. Da Palazzo Vecchio Renzi conferma: «Sono disposto a fare il semplice presentatore. Pier Luigi mi faccia sapere». Il governatore dell’Emilia Romagna Vasco Errani tiene, come sempre, i contatti con il sindaco di Firenze e prepara il “cartellone”. «Mi hanno chiesto di portarlo anche in Emilia. La campagna elettorale del Pd è una, tutti sono coinvolti. Questo è il messaggio», annuncia. Altri inviti al primo cittadino sono arrivati dalla Campania e dalle Marche. Ci sarà. Il dalemiano Gianni Cuperlo gli ha chiesto di fare qualcosa assieme a Prato. Forse da qui è nata la voce, smentita, di un’iniziativa con Massimo D’Alema.
La macchina bersaniana si mette in moto. Anche il programma viene giorno dopo giorno definito. «Bisogna assolutamente rivedere la spesa militare sugli F35. E’ una spesa che va ripensata perchè le nostre priorità non sono i caccia, la nostra priorità è il lavoro», dice al
Tg2.
I 10 cacciabombardieri ordinati, ma non ancora acquistati, sono una voce di spesa che sfiora i 15 miliardi di euro. Di queste ore, poi, è la rivelazione di una “falla” nella progetto che li renderebbe pericolosi non
i nemici ma per i piloti. In caso di temporale infatti sono a rischio esplosione. È il giorno giusto dunque per lanciare la proposta di rivedere il contratto, magari riducendo il numero delle ordinazioni. La mossa fa felice Nichi Vendola: «Bravo Bersani. Tagliamo le ali agli F35», esulta il governatore pugliese riferendosi alle parole di Monti che contesta ogni giorni i condizionamenti delle estreme per i due principali partiti. Ma la scelta programmatica di Bersani vuole soprattutto parlare a sinistra. Non tanto all’alleato Sel ma all’avversario Ingroia. Accanto alla battaglia degli F35, il
segretario del Pd si prepara a a fare proposte sulla green economy e sullo sviluppo dell’edilizia della ricostruzione.
Il coinvolgimento di Renzi, più sostanzioso di quello previsto inizialmente, non serve a recuperare i consensi di Rivoluzione civile. Ma ad attirare i delusi del centrodestra e gli elettori della lista Monti. Firenze è una tappa obbligata visto il lavoro del sindaco. La Lombardia invece è decisiva per Palazzo Madama: elegge 49 senatori, di cui 27 vanno alla coalizione vincente. L’asse Pdl-Lega, in quella regione, ha molte chance aumentando il pericolo del pareggio al Senato. Lo stesso discorso vale per il Veneto. Alcuni sondaggi danno avanti il Pd, ma di soli due punti (35-33). È una regione in bilico, Renzi sarà chiamato a rafforzare il leggero vantaggio.
Stasera Renzi torna in televisione alle “Invasioni Barbariche” su La7.
Un appuntamento atteso ma la sua lealtà a Bersani ormai ha già superato molte prove. Già nel pomeriggio potrebbe diventare ufficiale il comizio comune in Lombardia, giorno e luogo. A Largo del Nazareno sono sta superate le preoccupazioni: «Matteo non fa ombra al segretario. Valorizzeremo le potenzialità di ciascuno. Possono stare benissimo sul palco insieme». E i risultati si vedranno il giorno del voto.
da La Repubblica

Perché il Ministro Profumo non rende noti i dati “sul massacro della nostra scuola”?, di Osvaldo Roman

Si verifica una singolare circostanza in questa fase di avvio della campagna elettorale. La Ragioneria Generale dello Stato, ai primi di dicembre, ha comunicato in Parlamento che i tagli previsti dalla cosiddetta riforma Gelmini non avrebbero, almeno per gli anni scolastici 2010-11 e 2011-12 raggiunto gli obiettivi che erano stati prefissati e che di conseguenza non si sarebbe potuto utilizzare il 30% delle risorse finanziarie, che ne sarebbero dovute derivare, per pagare gli scatti maturati dal personale docente e ATA negli anni 2011 e 2012. Si tratta di una comunicazione lacunosa e molto lontana dal vero.
In ogni caso, singolarmente, ma forse per non evocare quell’esito molto difficile da raccontare ai nostri cittadini, non risulta che ad esempio Berlusconi abbia mai parlato dei successi conseguiti con la riforma della sua pupilla Maria Stella, nelle centinaia di ore di invasione dell’intero sistema informativo radio televisivo.
Eppure il Nostro si è sbracciato largamente nel raccontare in tutte le salse i presunti successi della sua ventennale carriera di governante.
C’é da chiedersi come mai non abbia annoverato tra questi successi quelli conseguiti con il trattamento riservato in questi ultimi anni del suo governo alla scuola pubblica.
Ricordo che la politica dei tagli, fin al suo esordio, non fu esplicitamente collegata alla crisi economica, che Tremonti e soci volevano ignorare, ma fu presentata come una autentica riforma capace di rinnovare e qualificare il sistema scolastico rimuovendone insufficienze e sprechi.
Sarebbe il caso che chi ha prodotto le macerie che gli italiani ormai conoscono bene, perché hanno pesato sulla loro pelle, ci provasse a difendere le sue scelte di fronte all’elettorato.
Il ministro tecnico in carica, il prof. Profumo, dovrebbe aiutarli allo scopo fornendo tutte le notizie di tipo quantitativo e qualitativo che riguardano il nostro sistema di istruzione.
Purtroppo questo non sta accadendo e difficilmente accadrà nei giorni che ci dividono dal voto.
La conoscenza della situazione strutturale della nostre scuole, dopo l’entrata in vigore dei Regolamenti che dovevano ridurre di 87 mila e di 44.000 unità il numero dei docenti e degli ATA in servizio, rappresenta sicuramente un dato non sufficiente, ma sicuramente necessario per comprendere se con tale cura siano state aumentate ad esempio le capacità formative della nostra scuola primaria, se quel ruolo di cerniera debole assegnato da più parti alla scuola media sia stato contrastato o aggravato e se la scuola secondaria superiore, falcidiata nei suoi laboratori e nell’orario complessivo destinato all’insegnamento ma sostanzialmente rimasta ai vecchi programmi, fosse risultata più efficace nella formazione delle nuove generazioni.
L’opinione pubblica dovrebbe poter apprezzare concretamente in termini di risultati formativi, se ha avuto ragione un ministro che ha preteso di migliorare il nostro sistema scolastico con una semplice operazione di riduzione dell’offerta formativa, oppure i suoi critici che hanno preannunciato le funeste conseguenze di tale scelta.
Ma per l’intanto è singolare che un ministro tecnico, che ha fatto della necessità di trasparenza una delle cifre più significative della sua breve gestione, non sia ancora riuscito a fornire, almeno sugli aspetti strutturali, la documentazione in materia, di cui pure dispongono per legge i suoi uffici di statistica. Qui non si trattava di realizzare discontinuità di sorta, si trattava di documentare la realtà affinché i cittadini potessero comprendere le cause che determinano, in positivo o in negativo, determinati fenomeni anche in vista delle attuali scelte elettorali.
Ricordiamo che nell’anno scolastico 2009-2010 sono entrati in vigore i DPR n.89 e n. 81 recanti rispettivamente il Regolamento riguardante la revisione ordinamentale, organizzativa e didattica della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione e il Regolamento recante norme per la razionalizzazione della rete scolastica.
L’anno scolastico 2011-2012 è stato il terzo anno di attuazione della controriforma Gelmini.
Come segnalavo finora non sono stati resi noti i danni risultanti dal grave attacco portato alla scuola pubblica a partire da quelli arrecati alla sua offerta formativa e alla sua organizzazione didattica.
A tutto oggi solo con la pubblicazione ministeriale ”La Scuola in Cifre 2009-10”, peraltro carente di ogni termine di confronto con gli anni passati, si sono potuti accertare, alcuni effetti prodotti nella configurazione degli orari settimanali di frequenza delle attività didattiche nell’anno scolastico 2009-10.
Come è noto nella scuola primaria nell’anno citato, per le prime classi, è stata realizzata l’introduzione del cosiddetto “maestro unico” e per le classi successive, è iniziato lo smantellamento dei TEAM docenti (in genere tre docenti ogni due classi) e l’eliminazione delle compresenze nel tempo pieno.
Nella scuola secondaria di primo grado è stato gravemente ridimensionato il tempo prolungato e ridotta l’offerta formativa ordinaria.
Mentre per la scuola secondaria di I° grado la controriforma era ormai entrata a regime fin dal suo primo anno di attuazione, il nuovo assetto della scuola primaria ha investito, progressivamente le classi prime, seconde e terze e quarte e nel prossimo anno 2013-14 riguarderà le quinte.
Per i maestri la riduzione dell’organico di diritto, nel triennio 2009-10; 2010-11: 2011-12, ha riguardato circa 28 mila posti di cui 9.245 solo nell’anno scolastico 2011-2012.
Per i docenti di scuola media la riduzione dei posti nell’organico di diritto è stata nel triennio di 20.631 unità
Altre riduzioni di organico, tra l’altro non contemplate dalla legge di controriforma (art.64. legge 133/08) perché nell’anno 2011-12 dovevano essere raggiunti gli obiettivi previsti con una riduzione del numero complessivo dei docenti in servizio che hanno riguardato complessivamente 87 mila unità, si sono verificati nell’ anno 2012-13 e si verificheranno nel 2013-14. Non deve fuorviare il fatto che per quest’anno sia rimasto invariato l’organico di diritto perche l’espulsione del personale precario è continuata e continuerà con la progressiva entrata in funzione del maestro unico nelle quarte e poi nelle quinte classi.
La pubblicazione del MIUR “La scuola in cifre” nel numero del 2008, riferiva per la scuola primaria che nell’anno scolastico 2007/08 su un totale di 2.575.310 studenti 669.101 (26,0%) che frequentavano classi di 40 ore settimanali a tempo pieno (due insegnanti con 4 ore di compresenza e 4 a disposizione per la programmazione); 430.770 (16,7%) frequentavano classi con un orario settimanale variante dalle 31 alle 39 ore con mensa (i cosiddetti TEAM); 53.311 (2,1%) frequentavano classi da 31 a 39 ore senza mensa; 1.303.473 (50,6%) frequentavano classi con un orario variante tra le 28 e le 30 ore settimanali e 118.665(4,6%) frequentavano classi con 27 ore settimanali.
Per la scuola secondaria di I°grado la stessa pubblicazione riferiva che per lo stesso anno scolastico 2007-08, su un totale di 1.623.947 alunni, 381 627 avevano frequentavano classi con un orario normale di lezione di 30 ore settimanali e altri 86.122 avevano frequentato classi con un orario di 29 ore settimanali. Le classi di tempo prolungato da 31 a 33 ore settimanali erano state frequentate da 813.597 studenti e quelle da 34 a 36 ore da altri 246.839 studenti. Infine solo 95.989 studenti erano stati inseriti in classi con un orario settimanale tra le 37 e le 40 ore.
Nell’ultima edizione di La Scuola in Cifre. ci si riferisce agli anni 2009 e 2010, e si trattano prevalentemente i dati dell’anno scolastico 2009-2010. Poi la pubblicazione è stata di fatto soppressa. Un primo elemento molto significativo che emerge da tale analisi riguarda il fatto che, in tale anno scolastico, per la scuola primaria nelle classi dalla seconda alla quinta, non ancora pienamente investite dalla controriforma la percentuale degli alunni che hanno frequentato classi a tempo lungo, fino a 39 ore, è precipitata dal 19,2% dell’a.s. 2008-09 all’8,4% dell’anno successivo. Il passaggio a livello nazionale è da 492.674 a 214.935 unità.
Gli alunni frequentanti il tempo pieno a 40 ore settimanali senza compresenze sono stati nelle prime classi il 34,8% (177.480) nelle classi dalla seconda alla quinta il 27,9% (571.950) per un totale di 749.430 alunni pari al 29,2% sul totale (nel 2008-09 questi erano stati 685.908 pari al 26,7%).Rispetto all’a.s. 2007-08 tale percentuale risulta invariata.
Il tempo pieno a 40 ore senza compresenze è aumentato sul piano nazionale quindi di 65.682 unità mentre 286.224 alunni non hanno più avuto l’orario lungo in gran parte con mensa.
Se si considerano le percentuali di andamento dei servizi di tempo pieno (TP) e di tempo lungo (TL) per aree geografiche risulta che nel NORD il TP passa dal 36,9 al 40,8 e il TL dal 24,3 all’11,5. Nel CENTRO il TP passa dal 36,6 al 39,8 e i TL dal 23,5 al 9,6. Nel Mezzogiorno (sud e isole) il TP passa dal 7,7 al 10,9 e il TL dal 13,6 al 4,9.
Per la scuola secondaria di I° grado la situazione se è possibile è ancor più drammatica. Infatti in tale settore già nel primo anno di attuazione è stata attuata la parte più rilevante degli interventi.
Sono stati infatti ricondotti al tempo normale (30 ore) 1.283.318 alunni pari al 75,3% del totale dei frequentanti (1.704.274) con una differenza in più di 815.569 unità rispetto all’anno precedente!
Di conseguenza ben 717.877 alunni sono stati nel nostro paese privati del tempo prolungato e dei relativi anche se non generalizzati servizi di mensa. Del 1.060.436 alunni che frequentavano un tempo prolungato settimanale organizzato da 31 a 36 ore ne restano ad usufruirne, già nel primo anno di attuazione della riforma, solo 342.559.
Si verifica cioè che, servizi molto richiesti e spesso molto qualificati della scuola primaria e secondaria di primo grado, già dopo il primo anno della riforma, abbiano subito un calo vistosissimo.
Questo calo nella scuola primaria si ridistribuisce con un aumento di circa il 3% di un tempo pieno ridotto a 40 ore senza compresenze e talvolta messo insieme con una pluralità di docenti e con un incremento dell’orario ridotto settimanale di 30 o di 27 ore .
Le statistiche ministeriali non recano traccia delle notizie sul servizio di mensa pur presenti nella scheda di rilevamento statistico di quell’anno. Le riduzioni operate, a partire dal 2010, nei trasferimenti comunali in nome del federalismo fiscale già lasciavano presagire quale sarebbe stato l’andamento di tale fenomeno nei due anni successivi.
All’inizio di questo anno il MIUR ha resi noti solo i dati concernenti il tempo pieno nella scuola primaria nel presente anno scolastico che riguarderebbe 818.943 alunni pari al 30,06% degli alunni che frequentano tale scuola. Ma nulla si riesce a sapere sulla fine hanno fatto quei 492.674 alunni pari al 19,2% di alunni che nel 2008-09 (l’anno precedente alla riforma) frequentavano classi con i TEAM e con il tempo lungo fino a 39 ore settimanali, usufruendo al 90% del servizio di mensa?
Questi dati ministeriali inoltre ci dicono che l’organico complessivo dei docenti, compresi gli spezzoni rapportati agli orari di cattedra, per il 2012-13 è pari a 625.878 unità, che aggiunte ai 26.580 docenti di RC, stranamente sempre dimenticati nelle statistiche ministeriali e ai 97.6326 docenti di sostegno in servizio nell’a.s, 2011-12, fanno in totale 750.094 unità.
Ma perché i questa occasione non sono stati forniti anche quei dati che avrebbero potuto far comprendere se con tale riduzione del numero dei docenti fosse stato raggiunto o meno l’obiettivo posto dall’articolo 64 della legge 133/2008?
Come è evidente si tratta di due questioni cruciali per un bilancio politico, sociale ed economico degli effetti della riforma Gelmini.
Invece nessun dato ufficiale con la dimostrazione analitica territoriale e i confronti con gli anni precedenti) è stato pubblicato per quanto riguarda gli anni scolastici 2010-2011 e 2011-1012
Allo scopo risultano sospese le pubblicazioni come:
“La scuola in cifre” e “La scuola statale sintesi dei dati”.
“La scuola statale sintesi dei dati” non è stata pubblicata nelle edizioni 2010-11 e 2011-12.
“La Scuola in Cifre” non è stata pubblicata nelle edizioni 2010-11 e 2011-12.
Come trasparenza con il ministro Profumo non c’è che dire!
In questi casi al risparmio di carta stampata ha corrisposto anche il risparmio nelle pubblicazioni digitali (si va oltre la famigerata dematerializzazione!)

Dall’ultima pubblicazione ufficiale con dati in qualche modo analitici “La scuola in cifre 2009-10” (primo anno della riforma Gelmini nella scuola primaria) si poteva ricavare per l’a.s. 2009-10 (pag 65) l’esistenza di 149.845 classi (comprensive di circa 10.000 paritarie) con 749.637 alunni frequentanti il tempo pieno nelle sole scuole primarie statali. Considerando pari a (18,8) jl numero di alunni per classe si poteva dedurre l’esistenza di 39.874 classi a 40 ore settimanali

Per questo anno 2012-13 (il quarto della riforma) per le 39.670 classi di tempo pieno indicate in un file informativo apparso sul sito del MIUR, considerate in un organico di fatto in realtà ancora tutto da verificare, non esiste alcuna possibilità di riscontro tranne che l’aumento indicato (1.584 classi rispetto all’anno precedente) non è compatibile con il numero delle classi a t.p. esistenti nell’ anno 2009-10.
Monti e Profumo invece di scendere o di salire variamente in campo avrebbero avuto il dovere, come tecnici, di raccontare ai cittadini italiani quello che è realmente capitato di tragico alla nostra scuola, che provocherà danni certi alle generazioni che l’hanno frequentata e che sarà assai arduo da ricostruire nei prossimi anni.
da Retescuole

"Sinistra e imprese Il patto possibile", di Massimo D'Antoni

Ha da temere il mondo dell’impresa da un’affermazione del centrosinistra? Il prevalere all’interno del Partito democratico di una linea che afferma la centralità del lavoro, la difesa dei diritti e il ruolo dei sindacati, l’alleanza a sinistra con Vendola, sono forse il preludio di una nuova stagione di difficoltà nei rapporti con le realtà produttive del Paese? Intendiamoci: nessun ritorno ad una lettura dei rapporti tra lavoro e impresa nel segno della contrapposizione tra capitale e lavoro Anche senza negare la possibilità di una divergenza di interessi, è chiaro che nella sfida in corso, quella per tornare a creare occupazione e benessere, per recuperare uno spazio adeguato nel mercato globalizzato e rimettere in moto l’economia, lavoro e impresa stanno dalla stessa parte.
E tuttavia, sembra sopravvivere una diffidenza di fondo. La sinistra – si dice – privilegia da sempre il rapporto con la grande impresa, quella sindacalizzata, con cui è più facile venire a patti. Essa risulta invece estranea a quel magma di piccole e piccolissime imprese che pure hanno un ruolo importante nel nostro sistema produttivo; quel mondo fatto – si dice – di padroncini che sostituiscono il paternalismo al diritto, di realtà produttive che sopravvivono su un confine grigio dove è facile il ricorso al lavoro irregolare e all’evasione. Rappresentazioni di maniera, cui è facile contrapporre l’immagine di imprenditori poco distinguibili dai loro operai, perché fino a ieri erano anch’essi operai, che si sono messi in proprio e che oggi mettono in gioco anche il proprio patrimonio personale per tenere aperta l’attività, per salvare qualche posto di lavoro.
Imprese che sentono di ricevere poco dallo Stato, e per le quali quindi lo Stato si manifesta principalmente per il peso delle imposte. Imprese che sopravvivono solo grazie all’evasione o all’informalità; e quindi, si risponde, imprese che falsano il gioco concorrenziale, frenando la transizione a forme organizzative più efficienti e adatte per dimensione alle sfide della competizione. Già, la dimensione: sappiamo che non sempre è un fattore decisivo, che i casi di successo si trovano anche tra le imprese piccole. Ma sappiamo anche che al di sotto di una certa dimensione è difficile sostenere gli investimenti richiesti dall’innovazione e dalla globalizzazione, e che un sistema così polverizzato fatica ad impiegare ingegneri e tecnici laureati.
C’è, forse, un fondo di verità nella diffidenza reciproca. Ma è su questa diffidenza che ha costruito il suo consenso il centrodestra di Berlusconi. Il messaggio era in fondo chiaro: lo Stato farà poco, ma in cambio vi lascerà fare, anche tollerando e legittimando comportamenti disfunzionali; regole e norme sono vincoli e lacci da rimuovere; rinunciare a governare i processi è la migliore politica.
Quale risposta ha da dare una forza di centrosinistra, per evitare che lo schema si riproduca? Avendo maggiore difficoltà a giocare sulla naturale vicinanza, resta la possibilità di un patto, chiaro, onesto. Da un lato legalità e fedeltà fiscale contro qualità dell’azione pubblica, servizi pubblici adeguati che giustifichino l’elevata pressione fiscale (sono nell’interesse delle stesse imprese una sanità funzionante e poco costosa, un adeguato livello di istruzione, infrastrutture moderne).
Dall’altro la promozione della produzione di qualità, dell’investimento e dell’innovazione. Attraverso una politica fiscale che premi la capitalizzazione, nuovi strumenti di credito che finanzino la crescita, una politica industriale che assista specialmente le realtà produttive che hanno più difficoltà a provvedere in proprio ad innovare e a proiettarsi sui mercati internazionali, una politica del lavoro che favorisca l’investimento in capitale umano e quindi una concorrenza giocata sulla qualità invece che sul ribasso dei costi. E poi il piano macroeconomico: allentamento della stretta dell’austerità, ma entro il quadro della permanenza in Europa, contro rischiose e costose avventure che deriverebbero da un abbandono della moneta unica. Conviene, a tutti.

"Fiat: convochi immediatamente un tavolo di confronto con tutte le organizzazioni sindacali", di Cesare Damiano

Dopo la definitiva archiviazione del piano “Fabbrica Italia”, che prevedeva uno stanziamento di 20 miliardi di euro, i vertici della Fiat hanno deciso di intraprendere la strada degli investimenti stabilimento per stabilimento. Il fatto che si impieghino risorse per la produzione di nuovi modelli di auto è certamente apprezzabile, vista anche l’attuale offerta non all’altezza della concorrenza e la situazione disastrosa del mercato dell’auto. E’stato fatto a Pomigliano per la nuova Panda, a Grugliasco per la Maserati e adesso a Melfi per un piccolo Suv della Jeep. In totale tre miliardi, rispetto ai 20 sbandierati tre anni fa, ma pur sempre un segnale che non va sottovalutato e che contribuisce al radicamento territoriale di alcuni stabilimenti.

Questo non deve però far perdere di vista l’esigenza di veder definito un nuovo piano complessivo dell’azienda nel quale sia stabilito – stabilimento per stabilimento – quali siano le nuove vetture che dovranno essere prodotte, quanti lavoratori dovranno essere occupati e quali siano le innovazioni, di prodotto e di tecnologia, con le quali si intende lanciare la sfida ai mercati. Finora la Fiat su questi punti, fondamentali per lavoratori e sindacato, ma anche e soprattutto per il futuro dell’industria italiana, continua a essere reticente.

Anche per questo motivo è particolarmente preoccupante la decisione del Lingotto di chiedere l’attivazione della cassa integrazione straordinaria per ristrutturazione aziendale, per la durata di quasi due anni, per i 5.500 lavoratori dello stabilimento di Melfi. La scelta di far ricorso alla cig, notificata a sole tre settimane dagli annunci in pompa magna fatti da Marchionne e Elkan davanti al Presidente del Consiglio Monti, ospite dello stabilimento lucano, desta allarme soprattutto perché ancora non sono stati resi noti i dettagli degli investimenti previsti né i tempi di realizzazione del nuovo progetto. Se da Melfi, come era stato dichiarato da Marchionne in quell’occasione, deve partire la svolta nei rapporti tra la Fiat e l’Italia, non c’è da stare troppo tranquilli.

Per lo stesso motivo non convince l’idea di fare di Torino e di Grugliasco soltanto un polo dell’auto di lusso. Puntare a conquistare le fasce alte del mercato (e con la Maserati il traguardo è senz’altro raggiungibile), perla tradizione Fiatnon è mai stato l’obiettivo principale (Mirafiori ha sempre prodotto auto di cilindrata medio – bassa). Può essere un’idea suggestiva, ma è difficile immaginare che di punto in bianco possa essere anche un’idea vincente. Il polo del lusso può generare un valore aggiunto elevato per unità di prodotto, ma difficilmente può dar vita a numeri quantitativamente significativi. Tanto più che anche in questo caso l’azienda non ha risposto alle domande, fondamentali, sulle risorse che si intendono investire, sui prodotti che si vogliono realizzare, sugli addetti che si ritiene di occupare, sugli stabilimenti da coinvolgere e sulle quote di mercato che si vogliono conquistare. Cioè non ha proposto un piano industriale.

C’è infine un ulteriore motivo di preoccupazione, forse il più rilevante. La casa torinese, che punta in tempi brevi alla completa integrazione con Chrysler diventandone nel contempo l’unico azionista, si sente sempre più americana. Il rischio che la fusione possa rispondere, anche alla luce degli ultimi bilanci, solo agli interessi di quel mercato e che l’azienda possa di conseguenza ritenersi sciolta da qualunque vincolo con Torino e con l’Italia, non è da sottovalutare.

Per rassicurare il paese e i lavoratori sul futuro produttivo e occupazionale, serve conoscere la strategia complessiva del Lingotto e serve sapere, senza ambiguità, dove la proprietà intende collocare la “testa”, se a Torino o a Detroit. Marchionne ha grandi responsabilità verso i dipendenti degli stabilimenti Fiat e verso l’indotto che, come tutta l’industria italiana dell’auto, sta vivendo momenti di forte sofferenza e verso il paese che, se vuol restare a vocazione industriale, non può permettersi di perdere il settore dell’auto.

La Fiat deve convocare immediatamente un tavolo di confronto con tutte le organizzazioni sindacali al fine di chiarire con precisione i contorni del piano industriale con il quale intende muoversi, a Melfi e nel resto d’Italia. Mentre sarà compito del prossimo governo varare un piano nazionale per la mobilità e indicare le linee di politica industriale di sostegno al settore del trasporto in termini di innovazione di prodotto, al fine di favorire la sostenibilità ambientale e la sicurezza.

L’Unità 23.01.13

"Esodati, 150mila ancora senza tutele", di Luca Cifoni

Qualche piccolo passo avanti, e molta strada ancora da fare: mentre il ministro Fornero annuncia che a inizio febbraio partiranno le prime lettere ai lavoratori salvaguardati dalla riforma previdenziale, e in Gazzetta ufficiale fa la sua comparsa il decreto che dovrà tutelare la seconda ondata di 55 mila persone, resta da trovare una soluzione per circa 150 mila soggetti a vario titolo esodati, che da qui ai prossimi anni rischiano di ritrovarsi senza stipendio né pensione.
I numeri non sono ufficiali e la materia, già oggetto nei mesi scorsi di polemiche anche molto aspre, resta quanto mai delicata. Ma questo è l’ordine di grandezza su cui starebbe ragionando a livello tecnico all’Inps, nel momento in cui stanno per partire le operazioni di verifica relative alla seconda ondata di soggetti coinvolti. Toccherà al prossimo governo valutare quali margini di manovra esistono, sotto il profilo finanziario, per allargare ulteriormente la platea.
LA SCELTA DEL 2011
La vicenda parte com’è noto nel dicembre del 2011. Approvando una drastica riforma delle pensioni, che per molti lavoratori spostava in avanti il traguardo anche di 4-5 anni, l’esecutivo tecnico si era posto il problema di tutelare coloro che avevano lasciato il lavoro facendo conto sui requisiti precedentemente in vigore e che si trovavano in mobilità oppure versavano contributi volontari. Non si fissava un numero ma venivano stanziate risorse finanziarie per 5,1 miliardi complessivi, tra il 2013 e il 2019, sufficienti a salvare 65 mila persone.
Poco tempo dopo i criteri erano stati poi allargati, senza però modificare la copertura. Quindi in luglio, con la cosiddetta “spending review”, la platea è stata decisamente allargata – in particolare a coloro che a dicembre 2011 non avevano ancora lasciato il lavoro – e di conseguenza sono stati resi disponibili altri 4,1 miliardi tra 2014 e 2020. Venivano quindi aggiunte, in modo esplicito, altre 55 mila persone.
LA LEGGE DI STABILITÀ
Infine con la recente legge di stabilità venivano stabilite tutele per ulteriori 10 mila soggetti. Alla relativa spesa si sarà fronte con 100 milioni più se necessario i risparmi derivanti dal mancato adeguamento all’inflazione, dal 2014, delle pensioni al di sopra dei 3.000 euro al mese circa (già attualmente deindicizzate). Aggiungendo al conto altri 10 mila lavoratori già tutelati rispetto alla meno dirompente riforma del 2010, quella che introduceva le cosiddette finestre di uscita di un anno, si arriva ad un totale di 140 mila salvaguardati.
Ma quanto è grande la platea dei potenziali interessati? La stima soprattutto inizialmente non era facile: si trattava tra l’altro di acquisire, attraverso gli uffici provinciali del lavoro, tutti gli accordi aziendali di uscita anticipata stipulati sulla base delle vecchie regole previdenziali. Da un documento tecnico dell’Inps del maggio scorso uscì una stima di 389.200 persone: il numero suscitò reazioni polemiche anche dal ministero, ma la cifra non è stata mai smentita ufficialmente.Non tutte queste persone erano però toccate allo stesso modo: ad esempio per qualcuno il periodo da attendere era relativamente breve, di pochi mesi. Si valuta che 80-90 mila avrebbero raggiunto nel frattempo i requisiti richiesti dalla legge Fornero. Dunque ne resterebbero 300 mila o forse poco meno: sottraendo coloro che sono stati salvaguardati finora con i vari provvedimenti, ce ne sarebbero più o meno altrettanti, 150 mila circa, al momento senza tutele.
Il dossier passerà quindi al prossimo governo, e certo non sarà tra quelli più facili da gestire. Intanto con la pubblicazione in Gazzetta ufficiale del decreto ministeriale relativo ai 55 mila tutelati dalla spending revew si avviano le procedure di individuazione dei salvati di questa seconda tranche.

Il Messaggero 23.01.13

"L’Europa bendata alla guerra d’Africa", di Barbara Spinelli

È impressionante il mutismo che regna, alla vigilia delle elezioni in Italia e Germania, su un tema decisivo come la guerra. Non se ne parla, perché i conflitti avvengono altrove. Eppure la guerra da tempo ci è entrata nelle ossa. Non è condotta dall’Europa, priva di un comune governo politico, ma è ormai parte del suo essere nel mondo. Se alla sterminata guerra anti-terrorismo aggiungiamo i conflitti balcanici di fine ’900, sono quasi 14 anni che gli Europei partecipano stabilmente a operazioni belliche. All’inizio se ne discuteva con vigore: sono guerre necessarie oppure no? E se no, perché le combattiamo? Sono davvero umanitarie, o distruttive? E qual è il bilancio dell’offensiva globale anti-terrore: lo sta diminuendo o aumentando? I politici tacciono, e nessuno Stato europeo si chiede cosa sia quest’Unione che non ha nulla da dire in materia, concentrata com’è sulla moneta. L’Europa è entrata in una nuova era di guerre neo-coloniali con gli occhi bendati, camminando nella nebbia.
Le guerre – spesso sanguinose, di rado proficue – non sono mai chiamate per nome. Avanzano mascherate, invariabilmente imbellite: stabilizzeranno Stati fatiscenti, li democratizzeranno, e soprattutto saranno brevi, non costose. Tutte cose non vere, nascoste dalla strategia del mutismo. A volte le operazioni sono decise a Washington; altre volte, come in Libia, son combattute da più Stati europei. Quella iniziata il 12 gennaio in Mali è condotta dalla Francia di Hollande, con un appoggio debole di soldati africani e con il consenso – ex post – degli alleati europei. Nessun coordinamento l’ha preceduta, in violazione del Trattato di Lisbona che ci unisce (art. 32, 347). Quasi automaticamente siamo gettati nelle guerre, come si aprono e chiudono le palpebre. La mente segue, arrancando. C’è perfino chi pomposamente si chiama Alto rappresentante per la politica estera europea (parliamo di Katherine Ashton: quando sarà sostituita da una personalità meno inutile?) e ringrazia la Francia ma subito precisa che Parigi dovrà fare da sé, «mancando una forza militare europea». Fotografa l’esistente, è vero, ma occupando una carica importante potrebbe pensare un po’ oltre.
Molte cose che leggiamo sulle guerre sono fuorvianti: simili a bollettini militari, non sono discutibili nella loro perentoria frammentarietà. Invitano non a meditare l’evento ma a constatarlo supinamente, e a considerare i singoli interventi come schegge, senza rapporti fra loro. Anche in guerra prevalgono esperti improvvisati e tecnici. L’interventismo sta divenendo un habitus europeo, copiato dall’americano, ma di questa trasformazione non vien detta la storia lunga, che connetta le schegge e rischiari l’insieme. Manca un pensare lungo e anche ampio, che definisca chi siamo in Africa, Afghanistan, Golfo Persico. Che paragoni il nostro pensare a quello di altri paesi. Che studi la politica cinese in Africa, così attiva e diversa: incentrata sugli investimenti, quando la nostra è fissa sul militare. Scarseggia una veduta cosmopolita sul nostro agire nel mondo e su come esso ci cambia.
Una vista ampia e lunga dovrebbe consentire di fare un bilancio freddo, infine, di conflitti privi di obiettivi chiari, di limiti spaziali, di tempo: che hanno dilatato l’Islam armato anziché contenerlo, che dall’Afghanistan s’estendono ora al Sahara-Sahel. Che nulla apprendono da errori passati, sistematicamente taciuti. I nobili aggettivi con cui agghindiamo l’albero delle guerre (umanitarie, democratiche) non bastano a celare gli esiti calamitosi:
gli interventi creano non ordine ma caos, non Stati forti ma ancora più fallimentari. Compiuta l’opera i paesi vengono abbandonati a se stessi, non senza aver suscitato disillusione profonda nei popoli assistiti.
Poi si passa a nuovi fronti, come se la storia delle guerre fosse un safari turistico a caccia di esotici bottini.
Il Mali è un caso esemplare di guerra necessariae umanitaria.
In questo decennio l’aggettivo umanitario s’è imbruttito, ha perso l’innocenza, e annebbia la storia lunga: le politiche non fatte, le occasioni mancate, le catene di incoerenze. Era necessario intervenire per fermare il genocidio in Ruanda, nel ’94, e non si agì perché l’Onu ritirò i soldati proprio mentre lo sterminio cominciava. Fu necessario evitare l’esodo – verso l’Europa – dei kossovari cacciati dall’esercito serbo. Ma le guerre successive non sono necessarie, visto che manifestamente non fermano i terroristi. Non sono neppure democratiche perché come si spiegano, allora, l’alleanza con l’Arabia Saudita e l’enormità degli aiuti a Riad, più copiosi di quelli destinati a Israele? Il regno saudita non solo non è democratico: è tra i più grandi finanziatori dei terrorismi.
La degenerazione del Mali poteva essere evitata, se gli Europei avessero studiato il paese: considerato per anni faro della democrazia, fu sempre più impoverito, portandosi dietro i disastri delle sue artificiali frontiere coloniali. Aveva radici antiche la lotta indipendentista dei Tuareg, culminata il 6 aprile 2012 nell’indipendenza dell’Azawad a Nord. Per decenni furono ignorati, spregiati. Per combattere un indipendentismo inizialmente laico si accettò che nascessero milizie islamiche, ripetendo l’idiotismo esibito in Afghanistan. Sicché i Tuareg s’appoggiarono a Gheddafi, e poi agli islamisti: unico punto di riferimento, furono questi ultimi a invadere il Nord, all’inizio 2012, egemonizzando e stravolgendo – era prevedibile – la lotta tuareg. È uno dei primi errori dell’Occidente, questa cecità, e quando Prodi approva l’intervento francese dicendo che «non esistevano alternative all’azione militare», che «si stava consolidando una zona franca terroristica nel cuore dell’Africa», che gli indipendentisti «sono diventati jihadisti», dice solo una parte del vero. Non racconta quel che esisteva prima che la guerra fosse l’unica alternativa. I Tuareg non sono diventati terroristi; blanditi dagli islamisti, sono stati poi cacciati dai villaggi che avevano conquistato. La sharia, nella versione più cruenta, è invisa ai locali e anche ai Tuareg (sono tanti) non arruolati nell’Islam radicale. Vero è che all’inizio essi abbracciarono i jihadisti, e un giorno questa svista andrà meditata: forse l’Islam estremista, col suo falso messianismo, ha una visione perversa ma più moderna, della crisi dello Stato-nazione. Una visione assente negli Europei, nonostante l’Unione che hanno edificato.
Ma l’errore più grave è non considerare le guerre dell’ultimo decennio come un tutt’unico. L’azione in un punto della terra ha ripercussioni altrove, i fallimenti in Afghanistan creano il caso Libia, il semifallimento in Libia secerne il Mali. Il guaio è che ogni conflitto comincia senza memoria critica dei precedenti: come scheggia appunto. In Libia il trionfalismo è finito tardi, l’11 settembre 2012 a Bengasi, quando fu ucciso l’ambasciatore Usa Christopher Stevens. Solo allora s’è visto che molti miliziani di Gheddafi, tuareg o islamisti, s’erano trasferiti nell’Azawad. Che la guerra non era finita ma sarebbe rinata in Mali, come in quei film dell’orrore dove i morti non sono affatto morti.
È venuta l’ora di riesaminare quel che vien chiamato interventismo umanitario, democratico, antiterrorista. Un solo dato basterebbe. Negli ultimi sette anni, il numero delle democrazie elettorali in Africa è passato da 24 a 19. Uno scacco, per Europa e Occidente. Intanto la Cina sta a guardare, compiaciuta. La sua presenza cresce, nel continente nero. Il suo interventismo per ora costruisce strade, non fa guerre. È colonialismo e lotta per risorse altrui anch’esso, ma di natura differente. Resilienza e pazienza sono la sua forza. Forse Europa e Stati Uniti si agitano con tanta bellicosità per contendere a Pechino il dominio di Africa e Asia. È un’ipotesi, ma se l’Europa cominciasse a discutere parlerebbe anche di questo, e non sarebbe inutile.

La Repubblica 23.01.13

Bersani: "Taglieremo le spese per gli F35"

“Bisogna assolutamente rivedere e limitare le spese militari degli F35 perchè le nostre priorità sono altre. Alla luce della crisi, questa è una spesa che va rivista. Le nostre priorità non sono i caccia ma il lavoro”. Così Pier Luigi Bersani, in un’intervista al Tg2, ha spiegato la posizione del PD sulle spese militari. “Bisogna sollecitare l’attività economica e gli investimenti sul lavoro”, ha chiarito il leader democratico, intervistato sul rilancio dell’economia.

“L’edilizia è troppo bassa, bisogna ridarle fiato senza consumare il territorio. Quindi riqualificare l’esistente, che significa case, edilizia pubblica, alberghi, efficienza energetica e antisismisca. Inoltre ci vuole più fedeltà fiscale, vendere un po’ di patrimonio pubblico e ci si deve aspettare un abbassamento dei tassi di interesse”.