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Bersani. "Serve un welfare senza povero né ricco"

“Se tocca a me nella Sala Verde di Palazzo Chigi si vedranno i Comuni, il privato sociale e il volontariato”, ha scritto su Twitter il segretario del PD, Pier Luigi Bersani, incontrando le associazioni del terzo settore ad Albano Laziale in provincia di Roma, insieme ad Enrico Gasbarra e al candidato per il centrosinistra alla presidenza della Regione Lazio, Nicola Zingaretti.
“Miracoli non può prometterne nessuno. In questo momento abbiamo una grande questione sociale aperta, che ci deriva da antiche debolezze e dalla recessione in corso, ma la crisi sociale è un tema troppo trascurato – ha aggiunto – è stato abbandonato dalla destra e responsabilità ne ha anche il governo tecnico. Il PD invece si impegna ad assumerlo come priorità”.

Bersani intende condurre la campagna elettorale del partito sulla realtà del Paese. “Non mi piace il tanto politicismo – ha chiarito – il cabaret di una discussione che non riesce a prendere in mano la realtà. I nostri fratelli e sorelle italiani sono in un momento molto difficile. Tocca al pubblico, non al mercato, organizzare il sistema del welfare, per il quale non c’è né povero, né ricco”. Quanto alla vicende MPS Bersani ha risposto secco: “Il PD fa il PD, le banche fanno le banche”.

Il leader democratico intende “rimettere in piedi i pilastri culturali dispersi in dieci anni di regressione culturale. Il pubblico deve essere il grande soggetto di regolazione. E la parola sussidarietà, tirata come una gomma americana da tutte le parti, è diventata una vera e propria abdicazione al ruolo pubblico che ha delegato al volontariato e alle autonomie locali.

Durante il Governo Prodi non c’era la recessione – ha ribadito Bersani – e c’erano un paio di miliardi sul Fondo sociale, è arrivata la recessione e ci siamo ridotti a un Fondo sociale di qualche decina di milioni di euro. Non è possibile, c’è un disagio sociale enorme che in un qualche modo bisogna sopperire. Non credo che né dal miliardario né dai tecnici ci possa essere orecchio alla grande questione sociale che è in atto. Non accetto di farmi fare le pulci da chi ha provocato problemi come quello degli esodati. Non c’è più tempo, c’è troppa gente che ha bisogno e bisogna prendere in mano la questione”.

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"Consigli al Professore", di Michele Prospero

Monti adesso ha paura di Bersani e, davanti a ogni telecamera, grida forte il suo «attenti al lupo». Pare che dietro il suo struggente innamoramento per i toni caricaturali, prediletti da certi media sia vecchi che nuovi, ci sia lo zampino del guru di Barack Obama. Sembra anche che proprio da oltreoceano gli sia venuto il suggerimento di surriscaldare ad arte il volume della polemica per conquistare così un po’ di visibilità. Certo, lascia sgomenti un senatore a vita che sale in politica perché i vecchi professionisti erano alla guida di macchine urlanti e rissose, e poi assume anche lui un tono muscolare e aggressivo degno del peggior tempo antico.
Il caldo febbraio del Professore, che preannuncia una inverosimile escalation della sua verve polemica, desta un immenso stupore. Poiché la comunicazione è sempre al servizio di una politica, altrimenti è solo una innocua esibizione in attesa di una porzione magica, non guasterebbe che Monti chiarisse a se stesso il senso della sua operazione politica. Che un tecnico, che ritiene giusto assegnare le pagelle sulla capacità e
sul rendimento degli altri politici, diventi all’improvviso il terminale irriflessivo di una strategia di marketing studiata in America è in fondo l’attestato di un fallimento. L’ethos con il quale Monti intende presentarsi all’opinione pubblica è quello del competente che sfida gli altri leader a un confronto serrato sui contenuti o è invece quello assai indefinito di un cavillatore eristico, lo chiamerebbe Aristotele, che fugge dalla referenzialità delle sue proposte economiche e fiscali?
La comunicazione è una sorta di rito sciamanico, e non porta ad alcun giovamento sul piano del consenso, se prima non si ha in mente una efficace strategia politica alla quale innervarla. E quale sia la reale proposta politica di Monti è oggi davvero un’impresa disperata comprenderlo. Recita un ruolo e simula un altro, annuncia aperture e poi fa marcia indietro, nello stile del
più vetusto teatrino della politica. D’accordo, i sondaggi non gli sono favorevoli, ma come è credibile una risalita ottenuta con delle figure mediatiche surreali che mettono Bersani e Berlusconi sullo stesso piano e civettano nientemeno con Grillo? Monti dovrebbe chiarire se intende giocare con la seduzione di un populismo mite e antipolitico, oppure assumere un ruolo costruttivo nell’uscita dalla crisi italiana con un bipolarismo ritrovato.
Forse sarebbe utile per il professore una vitale distrazione dal ruolo poco suggestivo di neofita dei media incantato dalle alchimie ingannevoli della comunicazione. Il ritorno ad un po’ di concentrazione sul pensiero delle cose della politica lo aiuterebbe a uscire dalle nebbie. Il «magismo» della comunicazione come arcana scienza lo danneggia, lo rende un apprendista stregone.

L’Unità 24.01.13

"L'incubo dell'Italia: pensione a 70 anni", di Rosaria Tallarico

Dopo che ieri si sono riaccese le polemiche intono agli esodati, una mezza bacchettata al ministro del Lavoro Elsa Fornero arriva anche dall’Europa. La sua riforma non è in linea con le regole Ue in materia di protezione dei diritti sindacali dei lavoratori a termine. Così almeno risulta da un documento della Commissione europea, che oggi annuncerà l’invio di un parere motivato contro l’Italia per la non corretta applicazione della direttiva del 1999.

La colpa in effetti sarebbe quella di non avere sanato una violazione preesistente. «Il nostro giudizio complessivo sulla riforma resta positivo, e in particolare sul suo obiettivo di contrastare la frammentazione del mercato del lavoro» si è affrettato comunque a precisare il portavoce del commissario Ue al lavoro, Lazslo Andor, che lancerà domani il secondo passaggio della procedura.

Sempre ieri, sono stati diffusi i risultati di una ricerca Censis-Covip secondo cui gli italiani sarebbero sempre più preoccupati per le future pensioni e il lavoro precario. Il 24,7% teme che dovrà aspettare i 70 anni prima di potersi ritirare. I giovani lavoratori (18-34 anni) credono che quando andranno in pensione riceveranno un assegno pari in media al 53,6% del loro reddito da lavoro. E il 30% di essi si aspetta una pensione di base inferiore alla metà del reddito attuale. Preoccupati da una vecchiaia da trascorrere in ristrettezze economiche (39%), sono consapevoli di dover integrare la pensione pubblica con qualche forma di risparmio: titoli mobiliari (38,8%), il mattone (19%) e la previdenza complementare (17,4%).

Ai timori di una vita precaria non sfuggono neanche i dipendenti pubblici: il 21,4% teme di perdere il lavoro e di non riuscire a versare i contributi, il 24,1% di finire nel precariato e di poter versare i contributi solo in modo intermittente. Preoccupazioni che «non hanno ragione d’essere» per il ministro Fornero perché il sistema previdenziale pubblico è sostenibile, mentre non sono invece assenti rischi demografici, economici e finanziari. «Bisogna concentrarsi sull’economia reale» ha aggiunto il ministro «e sui redditi che soprattutto per i giovani sono troppo bassi e non consentono di destinare risorse ai fondi integrativi».

Ieri inoltre si è riaccesa la polemica sugli esodati (i lavoratori che rischiano di rimanere senza pensione e senza lavoro in seguito alla riforma previdenziale) che, secondo alcuni calcoli dell’Inps riportati dal Messaggero, sarebbero 150 mila in più. I sindacati sono partiti subito all’attacco. Di un problema suscitato «dall’imperizia» del governo parla Luigi Angeletti, segretario della Uil: «Ogni anno, fino al 2015, si porrà la questione di nuove persone, svariate decine di migliaia, da salvaguardare». Per Vera Lamonica segretario confederale della Cgil il nuovo governo dovrà raccogliere questa «brutta eredità e trovare una soluzione per tutti, come abbiamo sempre sostenuto».

L’Inps intanto smentisce di avere «effettuato ulteriori elaborazioni statistiche sul numero degli esodati». «Per conto mio ha detto Fornero – abbiamo salvaguardato 140 mila persone». L’Inps dovrebbe mandare nei prossimi giorni le prime lettere di salvaguardia a coloro che rientrano nel decreto sui primi 65 mila esodati. Dopo questi, è previsto che si lavorino le domande per il decreto appena pubblicato in Gazzetta ufficiale, che prevede altri 55 mila salvaguardati. Poi ci sono 10 mila posti per gli esodati della riforma Sacconi e 10 mila per i quali sono stati inseriti fondi nella legge di stabilità. Per questi 140 mila esodati da salvaguardare sono previsti 9,3 miliardi.

La Stampa 24.01.13

ROSARIA TALARICO

"Ambrosoli: porterò il tasso di occupazione al 70%", di Luigina Venturelli

Per entrare nei dettagli del programma di Umberto Ambrosoli per rilanciare l’occupazione in Regione Lombardia, o per anticipare i contenuti del Piano Lavoro che Susanna Camusso presenterà domani alla stampa e, soprattutto, al mondo politico in piena campagna elettorale, è sufficiente ascoltare le parole di Giuseppe, di Enrica, di Massimo e di Mimose. Le parole delle centinaia di lavoratrici e lavoratori che ieri si sono riuniti a Bergamo, in occasione dell’attivo della Cgil regionale.

LA PRIORITÀ AL LAVORO
Le loro storie personali, i racconti delle crisi aziendali che stanno affrontando, le denunce delle tante ingiustizie e discriminazioni che la crisi economica sta addossando soprattutto sulle loro spalle, sono quelle che meglio spiegano l’importanza della «centralità da dare al tema del lavoro» su cui continua ad insistere la segretaria generale di Corso Italia. Quelle che meglio dicono della necessità di «portare il tasso d’occupazione dal 65% al 70%» come promesso dal candidato presidente del centrosinistra alla guida del Pirellone. «Ho fatto il turnista per una vita intera» ha raccontato Giuseppe, 57enne di Como, «pensavo di essermi ormai guadagnato il diritto a qualche certezza. Invece sono esodato, non so se devo cercarmi un altro lavoro, non so se sarò salvaguardato, e non so quanto dovrò aspettare per la pensione. Sarà perchè ho fatto le scuole serali…» ha ironizzato il delegato. Un mare di incertezze è quello in cui naviga anche Mimose Talai, che riesce a mantenere i due figli con due lavori part-time, come inserviente alla mensa dell’ospedale di Bergamo e facendo le pulizie in una scuola: «Noi lavoratori dei servizi non sappiamo mai che cosa ci riserva il futuro. Ogni volta che cambia un appalto ci prende l’ansia: a che cosa ci chiederà di rinunciare il nuovo datore di lavoro? Come peggiorerà ancora le condizioni d’impiego? Quanti di noi saranno lasciati a casa? Siamo stanchi di essere trattati come lavoratori di serie B, come se non concorressimo anche noi a fornire servizi ai cittadini». Nel nuovissimo ospedale di Bergamo, anzi, sono costretti a pagare 1,20 euro per ogni ora di lavoro con esborsi fino al 25% dello stipendio perchè il parcheggio della struttura non è gratuito per il personale esternalizzato. Condizioni che danno concretezza all’appello di Susanna Camusso, che ieri, invocando «discontinuità politica», hadato «un nome e un cognome al cambiamentoche deve chiudere una stagione di diseguaglianze e precarietà». Sono «il lavoro e la dignità», a lungo dimenticati in «una Lombardia che ha smesso di essere la locomotiva del Paese perchè ha smesso di occuparsi di sviluppo, di innovazione e di istruzione» ha puntualizzato la leader Cgil davanti alla platea dei delegati della regione. Un ruolo trainante che è stato perduto in vent’anni per precise scelte politiche targate Pdl-Lega, che hanno condotto la Lombardia ad essere «l’unica regione in Italia ad aver abbassato l’obbligo scolastico da 16 a 15 anni, come se l’unico orizzonte di ragazze e ragazzi fosse quello di andare a lavorare presto e per pochi soldi, per mettere insieme pranzo e cena, e non quello di costruirsi un progetto per il futuro». SERVE SOLIDARIETÀ Una mancanza di orizzonte, ha insistito anche Umberto Ambrosoli nel suo intervento all’assemblea sindacale, che tradisce lo spirito profondo dell’articolo 1 della Costituzione: «La nostra è una Repubblica fondata sul lavoro perchè crede nella possibilità della mobilità sociale». Una possibilità che in passato ha reso grande la Lombardia e che tornerà a renderla «punto d’eccellenza dello sviluppo, della solidarietà e della democrazia». Questo, ha spiegato il candidato presidente del centrosinistra, è l’obiettivo ultimo a cui condurrà l’innalzamente dell’indice d’occupazione al 70%, pari ad oltre 300mila nuovi posti di lavoro: «Una sfida ambiziosa, ma possibile se decidiamo di investire moltissimo sull’occupazione femminile che oggi è ferma al 56%, anche creando asili nido e forme di assistenza domiciliare integrata per anziani e non autosufficienti». Del resto, ha concluso Ambrosoli, «se non siamo ambiziosi in Lombardia, dove possiamo esserlo?». Un programma, quello del candidato del centrosinistra, che dovrà rispondere anche alle domande di Massimo Bulla, delegato Fiom della bassa bresciana, «ormai un deserto dal punto di vista industriale, perchè le fabbriche stanno chiudendo tutte», come la Brandt Italia, l’azienda produttrice di elettrodomestici che ha fermato l’attività lasciando a casa tutti i dipendenti. Secondo i dati presentati dal segretario lombardo della Cgil Nino Baseotto, sono stati quasi 62mila i licenziamenti in regione nel corso del 2012: «La Lombardia deve voltare pagina per ridare linfa all’intero Paese».

L’Unità 24.01.13

"Ilva, duello infinito tra governo e procura ora 9mila operai a rischio cassa integrazione", di Adriano Sofri

La conferenza stampa che uomini del governo, dell’Ilva e dell’attuando Decreto (donne niente: è pur sempre acciaio) hanno tenuto ieri è stata delle più sciolte e lunghe. Dunque è tanto più significativo che alla fine ne sia rimasto una specie di vasto ronzio esausto, come di mosche in un bicchiere, mosche di domande e mosche di risposte. Anche i beneducati che fingevano di credere che una soluzione ci sia, e anzi sia alle porte sanno di girare in tondo. L’unica cosa data per certa, e dilazionata per pudore — «Ancora un minutino, signor boia…» — è la decisione di mettere in cassa integrazione fino a novemila operai. L’ennesima istanza dell’Ilva sul dissequestro, corredata dal proposito di devolverne il ricavato a salari e bonifiche, non ha un gran futuro, né un futuro qualunque. Resta il tentativo disperato di un “dissequestrino”: come con la ragazza madre del vecchio proverbio, che aveva fatto un bambino ma lo aveva fatto piccolo piccolo.
Ho posto un problema alle autorità di governo e di azienda. L’Ilva sostiene di non avere i fondi sufficienti al normale svolgimento della attività produttiva, e al pagamento degli stipendi, se non attraverso la vendita del materiale giacente, il cui valore presunto è di un miliardo. Questo vuol dire che l’azienda da cui dipende il 75 per cento del Pil della provincia di Taranto, il 40 per cento delle forniture nazionali di acciaio e più di mezzo punto del Pil italiano, ha un assoluto
bisogno, per pagare i lavoratori e ottemperare al risanamento, di incassare il prezzo di una merce prodotta in violazione della legge. In altre parole, salari, bonifica e continuità produttiva dipendono dallo smercio di un corpo di reato da parte dell’autore del reato. A un profano, una tal situazione finanziaria sembra assai vicina al fallimento. Paolo Bricco, sul Sole 24 ore di ieri, menzionava il rifiuto dei Riva ad attingere al proprio patrimonio, e spiegava che è la fortissima esposizione debitoria dell’Ilva nei confronti delle banche a protrarne l’agonia. Con diversa competenza Bruno T., uno dei due o trecento operai che presidiavano la propria fabbrica ieri fuori dai cancelli mentre due o trecento giornalisti la tenevano da dentro, diceva: «Una pompa di benzina qui a Statte aveva uno sversamento a mare e l’hanno chiusa subito: senza uno straccio di decreto». Demagogia, direte: una pompa di benzina non è la più grande acciaieria d’Europa. Appunto. In quei capannelli di operai chiedevo spiegazioni sui nuovi incoraggianti dati dell’Agenzia regionale per la prevenzione ambientale.
Ascoltiamo prima di tutto il responsabile dell’Arpa, Giorgio Assennato. «Un dato schiacciante è fornito dalle centraline di qualità dell’aria da settembre ad oggi: praticamente annullati i superamenti, il valore medio del pm10 è molto vicino a quello di un parco cittadino. L’effetto “miracoloso” è dovuto alla gestione del processo industriale imposta dai custodi, sia per i parchi minerali, sia per le cokerie: abbassamento dei parchi minerali, allungamento dei tempi di raffreddamento. Il tutto con una modesta riduzione annua della produzione, 7 milioni di tonnellate rispetto agli 8 massimi previsti dal-l’AIA. La prova sta nel fatto che nel 2009, quando ci fu un dimezzamento della produzione (4,5 milioni di tonnellate) l’inquinamento diminuì di poco, perché la gestione degli impianti era immodificata. Questi dati sono davvero impressionanti e in verità non sono graditi a nessuno: ad Ilva, perché dovrebbe ammettere la sua responsabilità nella gestione dei processi, a molti ambientalisti perché dimostrano la possibile ecosostenibilità dell’acciaieria». Chiedo a Cataldo Ranieri, operaio diventato famoso ma attento a non staccarsi dal gruppo (per esempio, a non accettare candidature): «I custodi non hanno avuto il tempo di attuare veri lavori, come la copertura dei parchi minerali o dei nastri, che esigono un impegno enorme: ha influito l’abbassamento dei parchi minerali (sono montagnole di minerali, che il vento “spolvera” in giro: vedete qui una foto dal rione Tamburi). Ma la cosa principale è che la presenza dei custodi giudiziari ha imposto all’Ilva di fare quello che dovrebbe fare per regola. Mettiamo che per svuotare un convertitore siano prescritti 4 minuti e tu lo faccia in 30 secondi. Immagina di versare birra in un bicchiere: se la versi velocemente, la schiuma cresce e finisce fuori. L’acciaio non è diverso dalla birra, a parte le conseguenze. Troppo spesso non c’è una manutenzione programmata: si interviene in extremis, e mettendo toppe. Con le macchine, e anche con gli uomini. Ecco che cosa è successo negli ultimi mesi: che tempi e metodi normali sono stati rispettati di più, e i risultati si sono visti. Oggi ci dicono, ed è la cosa più offensiva, che non siamo in grado di spegnere gli altoforni, che non garantiamo la sicurezza con le comandate: cioè che non sappiamo fare quello che facciamo da sempre».
A proposito del rispetto dovuto agli umani, c’è una notizia “minore”, ma importante come la riparazione a una vergogna. Massimo Battista, diventato anche lui noto per essere stato confinato, dopo tante tensioni in fabbrica e nel sindacato, in un circolo Ilva dismesso sul Mar Grande, “a contare le barche”. È stato reintegrato, non nella sua mansione di elettricista ma come manutentore ai rulli. I suoi compagni se ne rallegrano, ma qualcuno fa dell’umor nero: «Se hanno deciso di riprenderlo, vorrà dire che chiudono».
Da oggi in poi, si terrà il fiato sospeso. Le competenze, si dice, passeranno dall’Economia agli Interni. Interni e Difesa hanno una inclinazione peculiare per Taranto (al contrario del ministero della Salute, di cui la giudice Todisco deplora l’assenza nel contesto del decreto). Ieri Taranto è stata bloccata per l’intera giornata, per l’arrivo di un ministro, il quale non è qui popolarissimo, ma è pur sempre un ministro dell’ambiente, e Taranto è pur sempre la città in cui finora non è stato compiuto un solo atto rilevante di violenza da parte di lavoratori e cittadini. Se non sarà più così, nessuno potrà dire che non ci fosse stato il tempo di prevedere e prevenire.
Intanto il sindaco ha convocato un referendum consultivo sulla chiusura del-l’Ilva, o sulla sua durata senza l’area a caldo, o la sua continuazione così com’è. Il referendum comunale è solo consultivo, e può essere una buona cosa (superata, del resto) avere un conto più esatto dell’opinione dei cittadini. Ma non può bastare che si registri l’opinione dei cittadini di Taranto e non di Statte, la più colpita dopo il quartiere dei Tamburi, e di tanti altri comuni dai quali proviene il 70% dei lavoratori che l’aria dell’Ilva la respirano ogni giorno dentro. Del resto, a Taranto, salvi i militanti dell’una o dell’altra posizione definita, le persone, e gli stessi operai, non hanno tanto un’opinione quanto uno stato d’animo, esasperato e diffidente, e respinto da un estremo all’altro. Se si annunziasse la chiusura della fabbrica, le persone ne sarebbero spaventate come se se ne annunziasse la continuazione. Quanto al risanamento, fra le tante cose cui a Taranto si è smesso di credere, le promesse sono quelle cui si crede meno.

La Repubblica 24.01.13

"Il mestiere della verità", di Giovanni Tizian

«GLI spariamo in bocca ». E io ignaro corro ogni giorno a caccia di una notizia, piccola o grande
che sia. tra precarietà e pericolo. È incredibile come un pezzo di novanta righe scritto su un quotidiano locale possa mettere in crisi un sistema dai contorni mafiosi ben radicato. In questo Paese raccontare la verità può costare molto caro. Possono fartela pagare con la violenza. Sguainando le pistole. Oppure attraverso metodi più raffinati. Esercitando pressioni sulle persone giuste, sugli insospettabili, per esempio. Pur se meno grave per l’incolumità personale, è drammatico dal punto di vista etico. È sintomatico di un’Emilia, e del Nord ingenerale, dove è diventato fin troppo facile per i mafiosi agganciare professionisti disposti a muovere le pedine giuste per agevolare gli scopi dell’organizzazione criminale. In cambio di un’entrata extra a fine mese e di una protezione armata ai loro affari.
Nella mia situazione ci sono altri bravissimi colleghi. Penso a Lirio Abbate, Rosaria Capacchione, Roberto Saviano. E ai tanti cronisti di provinciain terre di frontiera costretti a subire
minacce quotidiane. Esempi di giornalismo vero, di “giornalismo giornalismo”. Armati di pc, penna e quaderno, cerchiamo di svolgere al meglio la nostra funzione: informare. Raccontare ai cittadini il lato nascosto della realtà.
Da un anno e qualche mese vivo sotto scorta. La protezione è stata decisa d’urgenza il 22 dicembre 2011, dopo avere ascoltato la telefonata tra Guido Torello e don Nicola Femia, detto“ Rocco” in cui progettano di zittirmi. Il re delle slot, Femia, chiede aiuto al dottor Torello, che prende carta e penna per appuntarsi nome del giornale e del giornalista. Le loro intenzioni? Ammazzarmi, forse. O più probabile fare pressioni su qualcuno di importante a Modena per incatenarmi le mani e spezzarmi la penna.
Ma che segreti nasconde “Rocco” da temere le inchieste giornalistiche di un giovane cronista di provincia. Cela un passato di arresti per narcotraffico, da alleato delle cosche della Locride. E un presente da impresario del gioco legale. Da ricco imprenditore delle videoslot, forte dei suo metodi mafiosi, secondo l’accusa, con cui si è imposto nel mercato. Controlla attraverso familiari e prestanome decine di società chenoleggiano le macchinette mangiasoldi e le ricariche per il poker online.
L’impero della Holding Femia, sconosciuto fino al 2-010, più di tutto teme la parola, la carta, l’informazione. Di lui avevo riportato affari, amicizie, trascorsi. Provocando una reazione brutale.
Mi occupai la prima volta di “Rocco”, conosciuto agli atti anche come “u-Curtu”, nel 2010. Un’inchiesta di due pagine sul controllo mafioso dei videopoker prima e delle slot dopo. Raccontavo di un passaggio di testimonetra clan dei Casalesi — dagli anni ‘9-0leader del settore nel Modenese — e la‘ ndrangheta. La mafia calabrese è oggiin grado di fornire consulenze alle altre organizzazioni intenzionate a investire nel gioco d’azzardo legale, la quale, va ricordato, è la terza economia del Paese. E proprio di offerta di servizi sitrattava quando tra le pagine di un’inchiesta sul clan dei Casalesi trovai il nome di Nicola Femia. Era il 2009 e lui un perfetto sconosciuto agli investigatori locali e ai giornali.
In quell’inchiesta il clan di Gomorrachiama di continuo “Rocco”. A lui richiedono ricariche per il poker online.
Gli uomini del boss Nicola Schiavone, il figlio del noto “Sandokan”, hanno affidato a Femia il compito di rifornirli della materia prima: le card con cui i clienti possono giocare migliaia di euro a serata. Da lì partì per mettere insieme i pezzi della futura indagine giornalistica. Intrecciai semplicemente alcuni fatti emersi da documenti di diverse procure. A qualcuno però quelle due pagine non andarono giù. Ma, avranno pensato, sarà un caso, e lasciarono correre.
L’anno successivo, a dicembre 2011, la Guardia di Finanza di Caltanissetta sequestra alcune società di noleggio videoslot.
Tra queste una ditta con sede a Modena e legata a Cosa nostra. Il capo servizio, oltre a raccontare lacronaca con carte alla mano, mi chiede un approfondimento. Ne vienef uori un articolo in cui racconto lalunga vita imprenditoriale di “Rocco”. Ma soprattutto lo metto in relazione alla ‘ndrangheta lombarda.
Metto a nudo le amicizie di cui gode il“ re” emiliano del gioco. Amico del boss Leonardo Valle e del suo braccio economico Giulio Lampada. Entrambi, secondo gli investigatori, espressione raffinata del potente clan Condello di Reggio Calabria.
Racconto di quando Giulio Lampadac hiama “Rocco” per organizzare una cena elettorale in Emilia. In previsione delle politiche del 2008 e a sostegno di un candidato dell’Udc di Reggio Emilia. Infine ho scritto delle avventure societarie di Femia la settimana scorsa. Raccontando il suo rapporto di conoscenza con un altro nome di primo piano delle ‘ndrine lombarde: Paolo Martino, fedelissimo, secondo i magistrati, della famigerata cosca De Stefano di Reggio Calabria.
Al secondo approfondimento apparso sulla Gazzetta, Femia decide che devo smettere di scrivere. Forse impaurito dalla possibilità che partano indagini sul suo patrimonio. Telefona al faccendiere di Asti, Torello, per chiedere un disperato aiuto: zittirmi, in qualsiasi modo. E il professionista, che Femia chiama “Dottore”, si dimostra disponibilissimo.
«Dammi il nome », «lo facciamo smettere », e via discorrendo, fino a ipotizzare una cordata tra giornale e magistratura fatta di scambio di notizie sul conto di Femia. Conclude Torello: »Seno gli spariamo in bocca ». Frasi glaciali, pronunciate con una calma che fa tremare ancor più della minaccia stessa. Come se stessero elaborando un piano industriale in cui la vita umana passa in secondo piano.
Le parole, a volte, fanno più maledelle pistole. E ora, un pezzo della storia si è chiusa con l’arresto del gruppo imprenditoriale —“ criminale” di Femia e dei suoi complici. Per quanto riguarda me, nessun dubbio o ripensamento. Con la testa e gli occhi continuerò a raccontare la cruda verità e le ingiustizie di questa Italia fatta a pezzi da interessi e giochi criminali, che più di ogni altra cosa temono le parole e l’informazione.

La Repubblica 24.01.13

Shoah e solitudine, di Giulio Busi

La Shoah, spina che lacera il XX secolo, è stata anche un dramma della solitudine. Che sei milioni di vittime possano essere “sole” sembra a prima vista un paradosso. Eppure, nella Germania della persecuzione e in gran parte dell’Europa teatro dello sterminio, gli ebrei furono deportati ed eliminati in una indifferenza pressoché totale, abbandonati al loro terribile fato senza alcun clamore o indignazione, in uno spettrale silenzio. Lasciati morire mentre gli “altri”, con poche benché straordinarie eccezioni, facevano finta di non accorgersi di nulla. In tedesco esiste un verbo che descrive con efficacia questo processo di negazione: “wegschauen”, “distogliere lo sguardo”, rifiutare la propria attenzione e privare così chi soffre della più possente e misteriosa dote umana, la compassione.
Certo, mentre i treni viaggiavano verso Auschwitz, la guerra divampava ovunque, e tutti – chi più chi meno – avevano i loro guai. Altrettanto indubbio è che i nazisti mettessero molto impegno nell’occultare le dimensioni e la vera natura della soluzione finale. Ma la tragedia comune e la campagna di disinformazione non smussano gli angoli acuminati dell’abissale disinteresse. Per di più, la condanna alla solitudine perdurò anche dopo la fine del conflitto. Per molto tempo, dell’Olocausto si parlò poco e assai mal volentieri, quasi che la “damnatio memoriae” gravasse ancora, assurdamente, sui perseguitati e non sui persecutori. La svolta giunse solo con il rapimento, il processo e l’esecuzione in Israele di Adolf Eichmann, nel 1961.
Lo scalpore suscitato dal colpo di mano del Mossad in Argentina, l’eco del dibattito pubblico sulle responsabilità del funzionario tedesco, il collegamento, inedito e per molti inaspettato, tra il giovane Stato ebraico e la punizione dei crimini perpetrati dai nazisti, sono gli elementi che portarono, se non a un risveglio tardivo delle coscienze, almeno a un primo, decisivo riconfigurarsi della memoria. Quale che sia il giudizio sul l’evento, e sulla legittimità giuridica del l’operazione, è indubbio che, dopo Eichmann, la Shoah abbia trovato l’attenzione mediatica che non aveva mai conquistato in precedenza.
Per una singolare, e macabra ironia della Storia, la vicenda di questo burocrate delle SS fu la “novità” che indusse l’Occidente a ripensare l’Olocausto. Si trattò, bene inteso, di un valore simbolico, che trascendeva il ruolo effettivamente svolto da Eichmann. È fin troppo chiaro che nessuna responsabilità individuale può fare da contrappeso al sovraccarico morale dell’Olocausto. Ma proprio il fatto che, nel processo Eichmann, i metodi dello sterminio avessero acquisito un volto, e fossero stati teatralmente legati a un individuo, attirò gli sguardi su quanto si era preferito non vedere.
Quale volto, e che razza di individuo? L’interpretazione di gran lunga più influente del personaggio o, se si vuole, della maschera Eichmann, è quella che ne diede la pensatrice ebreo-tedesca Hannah Arendt. Un’interpretazione a caldo, durante le fasi del dibattito, negli articoli scritti da Gerusalemme per il «New Yorker». Esegesi tagliente, provocatoria, persino scandalosa, quella della Arendt, che ben si presta a una messa in scena, parallela e simmetrica al processo. In un film appena uscito in Germania, Margarethe von Trotta ha sfruttato con molta abilità il contrasto tra Eichmann e la Arendt. La regista tedesca ci ha abituato a brillanti riletture di figure femminili del passato, come la mistica Ildegarda di Bingen o la rivoluzionaria Rosa Luxemburg. Nel caso di Hannah Arendt, impersonata da un’intensa Barbara Sukowa, il tema fondamentale è quello della dignità. Alla Arendt, Eichmann non parve un grande criminale ma un grigio esecutore di ordini, un individuo mediocre animato da un ottuso desiderio di efficienza. È la celebre tesi della «banalità del male», che all’epoca provocò aspre polemiche, poiché sembrava sminuire i delitti nazisti e annacquare le efferatezze dei singoli.
A ben guardare, però, la Arendt lasciava a Eichmann e ai suoi compari una colpa grave e radicale. Quella di aver abdicato alla propria dignità, ovvero alla capacità di pensare. Nella trasposizione cinematografica, la von Trotta trasforma questa facoltà di pensiero nello spunto che sostiene tutta la trama. Solo chi mantiene il discrimine interiore tra bene e male può alleviare la solitudine delle vittime.
da Il Sole 24 Ore