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"Il coraggio costituente", di Alfredo Reichlin

Penso che il Pd vincerà le elezioni, ma la condizione è che il messaggio che mandiamo al Paese sia alto e forte. Semplicissimo nella sua drammaticità. Dobbiamo dire meglio che cosa è in gioco. I programmi sono poca cosa se si dimentica che 15 mesi fa eravamo sull’orlo di una autentica catastrofe. Incombeva sull’Italia il seguente rischio: fallimento finanziario dello Stato, fino a mettere in forse il pagamento degli stipendi; inevitabile commissariamento politico del Paese da
parte di una autorità straniera. E inoltre: drastica riduzione del tenore di vita e del tessuto produttivo; ulteriore spaccatura tra Nord e Sud; impotenza del sistema parlamentare a reggere il peso del governo, e, quindi, spinte crescenti verso scorciatoie autoritarie.
Questa era la situazione: qualcosa di paragonabile a una grande slavina che rischiava di travolgere l’intero edificio dell’Italia repubblicana. L’abbiamo fermata, e non sto qui a parlare dei nostri meriti. Ma resta il fatto che le elezioni si svolgono in questo quadro. È vero che lo stiamo dicendo e che da qui partono tutte le nostre proposte sul fisco, sulle riforme dello Stato, sul rilancio dello sviluppo e dell’occupazione. Ma quanto mordono se non diventa più chiara nella sua semplicità drammatica la scelta che sta di fronte agli italiani? Una scelta che certo non è paragonabile a quella che fece la mia generazione mezzo secolo fa (Repubblica o monarchia) ma è in qualche modo anch’essa una scelta costituente. È il problema di come voltare una pagina della nostra storia moderna. Non si tratta solo di chiudere il disastroso decennio berlusconiano. È da più di venti anni che l’Italia perde colpi, non cresce e arretra in tutti i campi. Siamo quindi di fronte al problema di una ricostruzione. Non possiamo più sfuggire alle necessità di ricostruire su nuove basi morali e civili un Paese le cui strutture sia economiche che statali non reggono alla sfida del processo di internazionalizzazione. Al centro di tutto c’è l’Europa. La sfida di non finire ai margini della formazione di una nuova compagine europea. Il che significa che sono cambiati i luoghi del potere e le sue logiche, che sono diventati anacronistici i vecchi blocchi sociali e i vecchi compromessi che hanno finora tenuto insieme il Paese. Se non è qualcosa di simile al problema che si pose all’ex Regno di Napoli all’arrivo dei piemontesi, poco di manca.
Ecco, è il tema delle elezioni. Ed è su questa base che io misuro il ruolo fondamentale del Pd e l’enorme responsabilità che pesa sulle nostre spalle. Stiamo attenti. Questa sfida non è indolore. Metà del Paese non la capisce e la scambia con la cattiveria della signora Merkel, mentre gran parte delle forze dirigenti la temono e in realtà non la vogliono affrontare. Perciò fanno «cabaret». Non c’è nulla da ridere sull’eterno ritorno di Berlusconi. Costui non è solo un vecchio «clown» che ripropone il suo solito repertorio e ripete le «gag» che un tempo facevano ridere. Il consenso costui lo sta ricercando – e in parte ritrovando – nella contraddizioni e nella difficoltà di questo arduo passaggio storico. È un cinico gioco. Invece di spingere il Paese a ritrovare le sue speranze nelle nuove possibilità di sviluppo che si possono cogliere solo a livello europeo, Berlusconi fa leva sulle rabbie e le sofferenze della povera gente colpita duramente dalla crisi e le mescola con le paure di quei ceti che pensano di difendersi rifugiandosi nel localismo delle piccole patrie, nel populismo e negli egoismi sociali. Ciò mi convince sempre di più che spetta al Pd rappresentare non solo il lavoro dipendente ma quel vasto mon- do delle imprese che rischiano e innovano.
Il problema è cruciale. La troppo bassa produttività del «sistema Italia» dipende da molte cose ma, tra queste c’è il peso di un capitalismo senza capitali che si organizza non sul mercato ma nei «salotti buo- ni» e nelle consorterie e che cerca la produttività nel taglio dei salari. Quando vedo che certi professori rischiano di regalare la Lombardia ai resti del leghismo, con la possibilità che le tre maggiori regioni del Nord possano unirsi in nome della follia di una secessione dall’Italia, viene voglia di rileggere le pagine famose di Gramsci sul «sovversivismo» delle classi dirigenti. Devo confessare certe mie illusioni. Al di là di tutte le riserve, avevo dato un grande significato all’operazione Monti. Lessi (e commentai sull’Unità) l’appassionato appello del prof. Riccardi a tutti i moderati, in nome di una ricostruzione del Paese. Detti grande peso agli appoggi del Vaticano e della Conferenza episcopale e ancora di più all’appoggio esplicito del Partito popolare europeo. Ci siamo, pensai. Ecco che di fronte al collasso anche morale della destra e alla disgregazione del partito di Berlusconi i moderati si impegnano finalmente a costruire anche in Italia una destra di tipo europeo. Ma finora, stando almeno ai sondaggi il risultato è deludente: Monti 15,Berlusconi 26. Dico questo non perché io pensi che Berlusconi vincerà. Ma perché le forze moderate di tipo europeo dovrebbero riflettere molto più seriamente sulle condizioni in cui si svolge la battaglia politica italiana. Quali sono le forze reali in campo? E quindi le alleanze possibili? Basti solo il fatto che la somma dei berlusconiani, dei grillini e di altre frattaglie che sono con- tro la europeizzazione dell’Italia si avvicina al 50 per cento. È impressionante.
Non c’è, dunque, nessuna esagerazione nel ritenere che il Pd rappresenta oggi il perno di ogni possibile alternativa democratica e che la sua forza è la sola garanzia che il Paese possa uscire dalle sofferenze della crisi e in positivo tornando a pensare a un futuro migliore. Siamo un grande partito di popolo, organizzato, con una larga base sociale anche di giovani, aperto al dialogo e all’ascolto degli altri. Non mi nascondo i nostri limiti e penso che siamo in ritardo rispetto alla necessità di ridefinire tante cose, e tra queste anche un profilo geo-politico dell’Italia di domani. Lo dico perché se noi possiamo tornare contare è perché siamo quella penisola dell’Europa che sta al centro del Mediterraneo e parla al mondo arabo e africano. Penso anche che dobbiamo cominciare ad avere un progetto di società senza di che è impensabile un’uscita dalla crisi di questa economia finanziaria.
Posso però concludere con qualche battuta più superficiale? Trovo ridicolo l’insistente tentativo del prof. Monti di spaventare i bambini dipingendo con orrore Nichi Vendola e Stefano Fassina. Si calmi. Trovo tristissima la decisione dei nostri critici più di sinistra di cancellare ogni parvenza ideologica per presentarsi alle elezioni dietro un simbolo in cui campeggia una solo parola: «Ingroia».

L’Unità 22.01.13

Gay, donne, immigrati e clima il giuramento liberal di Obama “Non lasciamo indietro nessuno”, di Federico Rampini

I tempi cambiano dobbiamo cambiare noi, trovare nuove risposte alle sfide nuove. Insieme, come nazione, senza lasciare indietro nessuno». Barack Obama davanti a una folla di 600.000 persone a Washington inaugura il suo secondo mandato. E lo fa con un discorso più radicale di quattro anni fa, un’agenda di valori progressisti per il XXI secolo. Eguaglianza, inclusione di tutti nella crescita economica, apertura agli immigrati, diritti dei gay, lotta al cambiamento climatico. «La sfida della nostra generazione — dice il presidente — è realizzare nei fatti il principio della nostra costituzione, per cui tutti nasciamo eguali e con gli stessi diritti. Siamo fedeli a quei valori solo se una bambina nata nella povertà estrema può sapere di avere le stesse chance di altri, perché è americana, perché è libera ed eguale non solo davanti a Dio ma anche ai nostri occhi».
A 51 anni, Obama presta giuramento come 44esimo presidente degli Stati Uniti usando due Bibbie: quella di Abraham Lincoln che abolì la schiavitù, e quella di Martin Luther King che guidò il movimento per i diritti civili e al culmine delle sue battaglie fu assassinato. Obama cita King: «La nostra libertà individuale è inestricabilmente legata alla libertà di ogni essere sulla terra». In una cerimonia gioiosa e patriottica, l’animo «pop» del presidente riunisce alcuni suoi cantanti preferiti costruendo un ponte fra generazioni da James Taylor a Beyoncé. La coreografia accurata assegna a un poeta ispanico e gay l’orazione dopo il presidente; alla prima giudice costituzionale ispanica il giuramento del vicepresidente Joe Biden. Il presidente rivendica il suo successo nella sfida più grande, quella che avrebbe potuto stroncarlo e costringerlo a un solo mandato: «La crisi economica ha messo a dura prova la resilienza dell’economia americana. La ripresa ormai è cominciata. Ma ne trarremo beneficio solo quando tutti staranno meglio ». A più riprese usa il plurale della Costituzione, We The People: «Noi, il popolo, capiamo che il nostro paese non ha successo se il successo è riservato a pochi, e una maggioranza ce la fa a stento». Il tema dell’eguaglianza fa da filo conduttore per un duro attacco contro l’ideologia neoliberista. «Ogni cittadino merita una sicurezza sociale di base. Rigetto la tesi secondo cui l’America deve scegliere tra il benessere degli anziani e il futuro dei giovani». Tra le priorità indica una riforma fiscale redistributiva, il rilancio della scuola. Dedica un lungo passaggio al cambiamento climatico, legandolo con le catastrofi recenti come l’uragano Sandy: «Non possiamo tradire le future generazioni ignorando la minaccia ambientale, è nostro dovere costruire la strada verso un futuro di energie rinnovabili». E’ uno dei terreni su cui si prepara allo scontro con la destra, dove la lobby petrolifera resiste ad ogni carbon tax o altre misure contro le emissioni di CO2.
Sul tema dell’eguaglianza, «la stella polare della nostra Costituzione, che deve guidarci ogni giorno», il presidente insiste sulla parità retributiva per le donne, e paragona la battaglia per i diritti civili dei gay a quelle dei neri negli anni Sessanta. Conferma che uno dei primi progetti di riforma riguardera` l’immigrazione, «perché l’America deve trovare modi migliori per accogliere quegli stranieri che ci vedono come la terra delle opportunità ». Una corsia veloce per la regolarizzazione
degli immigrati clandestini, è il progetto che metterà in difficoltà la destra. I repubblicani si sono cuciti addosso l’immagine del partito «bianco» anti-immigrati, hanno pagato questo errore all’ultima elezione dove ispanici e asiatici hanno dato il 70% dei loro consensi a Obama. Tutto il discorso dell’Inauguration Day ha sullo sfondo la «nuova coalizione» su cui Obama ha costruito la vittoria: donne, giovani, minoranze etniche, gay. Il presidente torna al nuovo modo di fare politica, che fu il passaggio più toccante nel suo discorso della vittoria, la sera della rielezione il 6 novembre scorso a Chicago. «Voi ed io, come cittadini, abbiamo il potere di imprimere la direzione a questo paese». È un rinnovato appello alla mobilitazione politica anche fuori dalle elezioni, una fiducia nell’impegno civile quotidiano.
È anche un’indicazione sulla tattica di Obama Due: di fronte ai boicottaggi della destra al Congresso, il presidente è intenzionato a rivolgersi direttamente all’opinione pubblica. È la forza vera di un presidente soprattutto in un secondo mandato, quando non ha più bisogno di essere rieletto, e può appellarsi alla nazione per sbloccare un sistema parlamentare anchilosato.
In politica estera sottolinea che «la nostra sicurezza non richiede uno stato di guerra perpetua». Garantisce che continuerà a «sostenere la democrazia dall’Asia all’Africa al Medio Oriente». Nel suo primo mandato ha chiuso una guerra iniziata dal suo predecessore (Iraq) e avviato a conclusione la seconda (Afghanistan). Non ha esitato a mollare un alleato dell’America, Mubarak, per schierarsi dalla parte dei manifestanti di piazza Tahrir. Ma il bilancio delle primavere arabe resta incerto e problematico, e proprio in questo Inauguration Day arriva dall’Algeria la conferma che tre ostaggi americani sono morti nel conflitto tra l’esercito e Al Qaeda.
È un presidente meno «ingenuo»: quattro anni dopo la meravigliosa folla di un milione ottocentomila persone, Obama non rievoca come fece allora un vasto consenso bipartisan. Ha perso illusioni sulla sua capacità di costruire ponti fra destra e sinistra. È stato rieletto con il 51% e lo sa: ma la volontà d’imprimere cambiamento non si è piegata.

La Repubblica 22.01.13

"La Tammurriata degli Impresentabili", di Francesco Merlo

Dunque davvero Dell’Utri era la mafia e Cosentino la camorra? Alla Cassazione e ai tribunali di Napoli bisognerebbe portare la sceneggiatura della “Tammurriata degli Impresentabili” che è stata ballata a Palazzo Grazioli in queste misteriose notti delle liste elettorali. Ci sono infatti codici e linguaggi che valgono come prove di acciaio inconfutabilissime. Per esempio il «vorrei essere spiegato» pronunziato da Cosentino è come «le bugiarderie» che evocò Totò Riina, meglio di un fotogramma di Toni Servillo in “Gomorra” o del “Camorrista” di Tornatore. E il «mi candiderò fino alla morte» di Marcello Dell’Utri scandito un attimo prima di rinunziare è «la toccatina di polso» di cui parla Michele Pantaleone, il modo mafioso per sondare e capire sino a che punto ci si può spingere. Più in generale, tutto il film della messa fuori lista di Cosentino e di Dell’Utri — in gergo si direbbe che sono stati “posati” — è la riedizione o meglio ancora la riqualificazione della cerimonia mafiosa della punizione del perdente, come in passato fu la morte di Lima. La delinquenza infatti è come un albero che necessita la potatura anche di rami importanti e portanti pur di salvaguardare il tronco e le radici nascoste (e si capisce che uso qui, e in tutto l’articolo, le parole delinquenza, mafia e camorra soltanto come simboli e metafore politiche).
Contro la mafia e la camorra ha dunque vinto la malavita padana, da Milano a Firenze, da Berlusconi a Verdini, da Formigoni a Bossi. I due boss meridionali sono stati “consegnati”. Il malaffare del Nord si è liberato del malaffare del Sud perché se il bottino comincia a restringersi è ovvio che scoppino le faide all’interno delle cosche e tra cosca e cosca. E così alla fine l’operazione pulizia del Pdl ricorda “la cessione” alla polizia di Riina da parte di Provenzano, è l’amputazione della parte più esposta. E lo scopo non è tanto quello di imbrogliare gli elettori, visto che le liste sono comunque gonfie di impresentabili e il più impresentabile di tutti è Berlusconi, carico di processi e di sospetti, di insinuazioni e di condanne cadute in prescrizione. No, il vero scopo è salvare la famiglia,
la roba, il patrimonio. I soldati possono e devono essere sacrificati quando è in gioco il bene supremo del potere.
Ma Cosentino ha fatto il guappo e Dell’Utri il boss di “panza”. Cosentino insomma si è mangiato le schede, e alcune le ha risputate mentre altre se le è portate via, poi ha urlato e minacciato, ha tenuto in ostaggio Berlusconi per una settimana. Addirittura domenica notte “Nick o’ mericano” si è chiuso in una camera con Silvio e mentre questo cercava di comprarne il sacrificio quello gli rispondeva facendogli il gesto delle manette: «Se non mi candidate vi rovino ». E intanto le altre sontuose stanze di Palazzo Grazioli venivano ridotte a vicoli da una folla di questuanti, ex ministri ed ex sottosegretari in fila ad aspettare che il Signore medievale decidesse del loro destino.
Alla fine l’uscita di scena di Cosentino, con la sparizione delle firme e la tarantella contro il giustizialismo e contro «Berlusconi il burattinaio» all’Hotel Terminus e alla Stazione Centrale di Napoli, è stata così chiassosa e così volgare che forse il Pdl sarebbe stato più presentabile se Cosentino fosse rimasto in lista. Diciamo la verità: avrebbero fatto più figura a tenerselo dentro. Questa espulsione infatti non dà certo l’idea della pulizia visto che, andandosene, il guappo non ha mancato di sporcare tutto.
Lo stile di Dell’Utri è stato molto più raffinato. Si è ritirato o meglio ha tolto il disturbo e senza neppure tagliarsi le vene come fece Frank Pentangeli, il vecchio capomafia perdente del film “Il Padrino” che, non volendosi degradare a pentito e non potendo infamare se stesso, decise di liberare gli altri della sua presenza. Si immerse come i senatori romani in un bagno d’acqua calda per aprirsi i polsi.
Tammurriata, quadriglia o tango che sia, questa ballata degli impresentabili, questa potatura di Cosentino e Dell’Utri (Scajola e Milanese sono solo comparse) dimostra come sia inesauribile il paradosso berlusconiano che doveva portare alla rivoluzione liberale e doveva far volare il popolo della partita Iva. E invece ha portato sempre più allo scoperto l’Italia delinquenziale.
Una volta nell’Italia politica i ceffi della guapparia e i mammasantissima erano tenuti in disparte e ricevuti durante le battute di caccia nelle masserie, al riparo degli sguardi della pubblica decenza. Adesso invece Berlusconi nella sua agonia ci sta mostrando i fuochi d’artificio. Un tempo non riuscivamo ad abituarci ai comizi della Dc organizzati da Calogero Vizzini, e il presunto bacio di Andreotti ci sembrò un pagina postuma del “Giorno della Civetta”. Ma neppure Sciascia sarebbe riuscito a mettere in bocca a Dell’Utri frasi come quelle che ha detto al Corriere della Sera: «Tutti sanno dove io sono sempre stato» che vuole dire che di lui non si può fare a meno perché sa tutto e ha fatto tutto. E ancora: «Berlusconi sa di chi sono amico io». Ed è raffinatissima minaccia mafiosa quel «me ne vado a Santo Domingo dove mi aspetta una fidanzata» detto, e poi ridetto con una smentita, da un monogamico tutto d’un pezzo che disprezza «tutti sti fimmini» che hanno imprigionato il suo vecchio amico. Ecco perché in Cassazione bisognerebbe portare il linguaggio di questi giorni e di queste notti di Palazzo Grazioli, notti di buio e di incertezza, notti senza immunità. Ripeto: il «mi candiderò fino alla morte» di Dell’Utri voleva dire che qualcosa di veramente grande doveva essere preparata per farlo rinunziare. E noi tutti ora ci chiediamo: che cosa gli ha dato? Dell’Utri ha pure avvertito il suo amico che «le conseguenze di certi errori non finiscono mai». Chissà se voleva dire che Berlusconi, rinunziando ai suoi due campioni impresentabili di Napoli e di Palermo, ha dimostrato che i giudici anticamorra e antimafia non sono comunisti. A meno che non sia comunista
anche Berlusconi.

La Repubblica 22.01.13

Cie, Pd, Sel, Cgil: “Ancora troppi i problemi insoluti”

Si è svolta, nella mattinata di lunedì 21 gennaio, una nuova visita della delegazione composta da Cgil, Pd, Sel e rete Primo Marzo, al Cie di Modena. Presenti alla visita le parlamentari Pd Manuela Ghizzoni e Mariangela Bastico, assieme alla candidata alla Camera e portavoce nazionale della rete Primo marzo, Cécile Kyenge, a Paola Manzini di Sel, Fiorella Prodi, Cgil e Fatima Hasani, Cls-Cgil. La Cgil si prepara, tra l’altro, ad uno sciopero con presidio in Prefettura per il 25 gennaio.

Al Centro di identificazione ed espulsione di Modena, attualmente, vi sono 38 trattenuti, con un tempo medio di permanenza di 25 giorni, provenienti prevalentemente da Marocco e Tunisia “di cui almeno cinque con problemi di tossicodipendenza: un dato che indica alcune criticità in tema di diritto alla salute, garanzia di cure adeguate e compatibilità con il trattenimento. Sarebbero anche da perfezionare gli accordi fra Ausl e il consorzio Oasi per garantire le prestazioni in tempi più celeri” – ha dichiarato Cécile Kyenge. Il numero di coloro che arrivano dal carcere resta una percentuale ancora elevata “non si comprende perché non siano rimpatriate persone già in possesso di documenti identificativi” ha detto Fatima Hasani, Cls-Cgil, che, a seguito del suo primo ingresso al Cie, ha voluto lanciare un appello ai Consolati per il disbrigo delle pratiche. “Non tutti i trattenuti al Cie vengono direttamente rimpatriati: alcuni sono indirizzati ad altri Cie, qualcuno a Trapani per i colloqui con il console di riferimento, perciò riteniamo importante l’intensificazione dei rapporti diplomatici con i paesi d’origine in modo da rendere più tempestivi i tempi d’identificazione ed eventuale rimpatrio – ha commentato Manuela Ghizzoni – Questa ennesima visita costringe a riprendere valutazioni più complessive già fatte in precedenza sulla funzione di strutture nate con altra missione, poi disattesa da molti punti di vista. La prossima legislatura dovrà quindi assumersi l’impegno di ripensare completamente la funzione di queste strutture e, più in generale, dovrà affrontare il tema dell’immigrazione a partire dal diritto di cittadinanza per chi è nato in Italia: anche oggi abbiamo incontrato chi vi è trattenuto per irregolarità amministrative, ma che vive in Italia da vent’anni”. Dal punto di vista dei diritti resta sospeso l’avvio dello sportello legale richiesto anche dalla garante Desi Bruno “è confermato e pare d’imminente apertura ma deve essere formalizzato l’accordo fra Prefettura e Ministero: auspichiamo che giunga in tempi brevi per garantire ai trattenuti una maggiore conoscenza legale sulla loro condizione” ha spiegato Paola Manzini di Sel. Caldo anche il punto relativo al mancato pagamento dei salari dei lavoratori dell’Oasi verificatosi a Modena e, recentemente, anche in altre strutture gestite dal Consorzio. Secondo Mariangela Bastico “Il Ministero non paga le fatture da sei mesi e conseguentemente le Prefetture non stanno rispettando i tempi di pagamento al Consorzio: porremo al prefetto il problema della mancanza di stipendio per i lavoratori. Così come troppo lente sono le risposte della Prefettura per consentire alcune attività ai trattenuti: piccoli lavori, come tinteggiare le pareti, e corsi di lingua italiana per ridurre il grande vuoto nel quale vivono”. La Cgil, che in mattinata ha avuto accesso agli atti relativi alla convenzione tra Prefettura di Modena e consorzio Oasi, da mesi ha sollevato il problema dei lavoratori. “I dipendenti del Cie di Modena, 25 persone impiegate a diverso titolo e professionalità, sono fermi allo stipendio di ottobre. La SP-Cgil lancia uno sciopero con presidio dei lavoratori davanti alla Prefettura di Modena nella mattinata del 25 gennaio prossimo per rivendicare il regolare pagamento degli stipendi”.

Grasso: "Vorrei una legge di una sola riga: chi fa politica non può avere altri interessi"

Il rapporto tra politica e giustizia è ancora una volta centrale sia in campagna elettorale che per il futuro governo del Paese. Pietro Grasso, magistrato, ex procuratore nazionale antimafia e candidato capolista PD al Senato nel Lazio, in un’intervista a Repubblica Tv, ha ribadito che la prima legge da fare è quella sul conflitto di interessi.
“Forse è una proposta velleitaria, ma farei una legge di una sola riga che recita così: ‘Chi fa politica non può avere altri interessi. Voglio sganciarmi dal dato giudiziario – ha aggiunto – però una cosa devo dirla: come può un presidente del Consiglio essere tale nonostante sia proprietario di importanti aziende televisive e di informazione. Ripeto, chi fa politica non può avere altri interessi. Non solo chi fa parte del Governo, ma anche i singoli parlamentari.Dobbiamo avere come primo interessa la vita e il bene dei cittadini”

Grasso ha ricordato che “la riforma della giustizia è una cosa di cui si parla da anni. Innanzitutto c’è bisogno di smetterla di considerare riforme dei provvedimenti totalmente parziali. Servono leggi urgenti e altre di lungo termine per ricostruire l’intero ordinamento giudiziario. La riforma – ha sottolineato – deve essere accompagnata anche da altri provvedimenti e passare per tre stadi: varare una legge sul conflitto d’interessi, colpire l’economia criminale e riformare ulteriormente la legge anticorruzione perché quello che è stato fatto non basta. C’è bisogno di inserire tra i reati quelli di autoriciclaggio e falso in bilancio”.

Secondo Grasso questi provvedimenti devono essere accompagnati da altre due riforme: una della legge elettorale e l’altra della legge sulla prescrizione.
“I colletti bianchi – ha detto – con buoni avvocati la fanno franca mandando il processo in prescrizione. Dovemmo risolvere il problema alla radice; in altri Paesi una volta che inizia il processo non c’è nessuna prescrizione. La nostra è una corsa contro il tempo. I nostri processi durano da dieci a dodici anni, la media europea è di sei. Dovrà essere una riforma strutturale”.

L’ex magistrato ha concluso l’intervista dicendo: “Ho combattuto le mafie tutta la vita, ora cambierò funzione ma i miei obiettivi di legalità, giustizia e sicurezza resteranno gli stessi. Vorrei impiegare il mio spirito battagliero, speso in tanti anni di lavoro da magistrato, su un altro fronte”.

www.partitodemocratico.it

«Ora valorizzare gli insegnanti», di Francesca Barbieri

«L’Italia è sulla buona strada, ma il cammino da percorrere è ancora tanto, soprattutto sul fronte della qualità della didattica». Andreas Schleicher, vicedirettore per l’educazione dell’Ocse, apprezza le ultime riforme del nostro Paese, «che hanno aumentato l’autonomia delle scuole e messo in moto un meccanismo di valutazione dell’istruzione primaria e secondaria di primo grado», ma secondo l’ideatore del ranking Pisa – la classifica che misura la preparazione degli studenti – «resta uno “spread” del sistema scolastico italiano, che ottiene risultati al di sotto del proprio potenziale».
L’Italia investe il 4,9% del Pil sull’istruzione, contro una media Ocse del 5,8 per cento. Troppo poco?
Non è una questione di scarsità di risorse, visto che oggi la spesa per studente in Italia è in linea con la media Ocse (circa 9mila dollari). Le nostre analisi mostrano che c’è un forte gap territoriale, con le regioni del Nord che si dimostrano più virtuose sul fronte dell’istruzione: se tutto il Paese si allineasse alle aree migliori, nel periodo di tempo necessario per realizzare questo obiettivo il Pil potrebbe aumentare di addirittura 5mila miliardi di dollari. Rovesciando la medaglia, ciò significa che risultati poveri sul fronte dell’istruzione sono equivalenti a una recessione permanente pagata a caro prezzo. Il vero motore che può rilanciare l’economia è il capitale umano. E un sistema educativo migliore potrebbe anche favorire la mobilità sociale che in Italia è molto bassa. A Shanghai, per esempio, la spesa per studente è la metà di quella italiana, eppure nei ranking Ocse-Pisa la Cina ottiene le performance migliori. Investiamo in linea con la media Ocse, ma perdiamo in efficienza. Come rimediare a questo gap?
Il tassello fondamentale sono gli insegnanti. L’Italia ha molti docenti, ma non li valorizza. La linea di fondo è chiara: la qualità di un sistema educativo non può superare quella dei suoi insegnanti e presidi e, proprio come le aziende, i sistemi scolastici di alto livello devono prestare grande attenzione al modo in cui selezionare e formare il personale. Per raggiungere questo obiettivo bisogna stabilire norme chiare ed esigenti per la pratica professionale e incentivare i migliori laureati a diventare insegnanti: in Finlandia, Paese al top dei ranking internazionali, si tratta della seconda professione più ambita; in Italia quanti genitori augurano ai propri figli di intraprendere questa carriera? Per migliorare la qualità del corpo docente bisogna poi studiare strategie per rafforzare la pratica e la condivisione di conoscenze, per mettere gli insegnanti nella condizione di ampliare le proprie strategie pedagogiche e affrontare le diversità di interessi e di abilità degli studenti.
Non c’è il rischio di applicare modelli standardizzati, lontani dalla realtà?
Sì, per non fare passi falsi bisogna evitare la messa in pratica di interventi “preconfezionati”, realizzati in sequenza meccanica. Al contrario, sono necessarie la diagnosi dei problemi e la personalizzazione delle soluzioni. Ciò significa che i singoli docenti devono innanzitutto diventare consapevoli delle proprie debolezze, cambiando anche la mentalità di fondo. Apprendere best practices, in questo caso, può essere utile, ma soprattutto è fondamentale creare le giuste motivazioni. E non parlo di incentivi monetari, almeno non solo: bisogna riuscire a creare grandi aspettative, un senso comune d’intenti e la convinzione collettiva di poter riuscire a fare la differenza nell’educazione dei propri alunni. Tornando alla Cina, a Shanghai ai prof che puntano a fare carriera viene richiesto un passaggio obbligato nelle scuole più difficili, per dimostrare le proprie abilità nei contesti più impegnativi. I successi si conquistano sul campo: su questo fronte l’Italia ha ancora molta strada da fare.

Il Sole 24 Ore 21.01.13

"Sindacati inutili . Eliminiamoli …Parola di Beppe Grillo", di Pippo Frisone

Questa proprio ci mancava! Ne avevamo sentite di tutti i colori in questo avvio di campagna elettorale. Però che “ i sindacati sono una struttura vecchia come i partiti “ e come tali vanno “aboliti” questo no, non ce l’aspettavamo proprio. Nemmeno come battuta anche se a dirla è stato Beppe Grillo, durante il suo tour elettorale in Puglia, a Brindisi; anche se fosse stata rivolta agli operai dell’Ilva o agli abitanti di Taranto, preoccupati del loro destino e della loro salute.

Chissà se a prendere il sopravvento sia stato più lo sfogo del comico sprovveduto che quello del politico populista, sicuro di parlare più alla pancia del Paese che alla sua testa.

Dopo aver sdoganato i fascisti di Casa Pound, si vorrebbe nientepopodimeno che di cambiare la Costituzione ! I Sindacati, dovrebbe saperlo Grillo, hanno rilevanza costituzionale.

L’art.39 parla chiaro : ” L’organizzazione sindacale è libera…I sindacati registrati hanno personalità giuridica..Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.”

Quindi rappresentano, tutelano i lavoratori e persino firmano contratti erga omnes!!

E visto che ce l’ha con la Triplice in particolare, ricordiamo al sig. Grillo che in Italia ci sono 12milioni di lavoratori e pensionati che aderiscono volontariamente a CGIL-CISL-UIL.

Gli ricordiamo anche che neppure un anno fa nelle scuole, nelle università e nei centri di ricerca un milione di lavoratori ha votato per il rinnovo delle Rappresentanze sindacali unitarie ( RSU ) .

Un esercizio d’inutile e superata democrazia ? d’inutile e superata partecipazione ?

O l’unico modello di democrazia, come per le “parlamentarie”, è quella on line ?

Quanto ai sindacati , “struttura vecchia “, vogliamo solo ricordargli che le Trade Unions in Inghilterra esistono dal 1868, l’ American Federation of Labor (ora associata alla C.I.O.) ha avuto origine negli U.S.A. nel lontano 1886, la nascita della CGT in Francia risale al 1895, il sindacato tedesco già nel 1919 parlava di cogestione e democrazia economica!! E sono tutti vivi e vegeti.

La CGIL, il più grande sindacato italiano, nasce nel 1906, ricostituendosi dopo la caduta del fascismo nel 1944 col Patto di Roma, firmato da Di Vittorio, Grandi e Buozzi.

Cgil,Cisl e Uil fanno parte sia della C.E.S ( Confederazione europea)sia della C.S.I.(Confederazione Sindacale Internazionale ) che rappresenta oggi , 175 milioni di lavoratori di 155 Paesi .

A nessun politico, in nessun Paese a regime democratico è mai venuto in mente di abolire i sindacati. Neanche a Giannini, neanche a Licio Gelli.!! Quando ciò è avvenuto, col nazi-fascismo, fu abolita con la libertà sindacale anche la democrazia.

Il Sindacato è sopravvissuto al fascismo e al terrorismo .

Sopravviverà anche al sig.Grillo.

da ScuolaOggi 21.01.13