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"Quando la politica spettacolo", di Giovanni Valentini

Il boom degli ascolti registrato dall´ultima puntata di “Servizio Pubblico” con Silvio Berlusconi ospite d´onore stabilisce un record assoluto. Un record di ascolti, innanzitutto, per La 7 e più in generale per i talk-show. Ma anche un record per la telepolitica, per quella che si chiama in genere la politica-spettacolo. E di questo, sul piano tecnico e professionale, va dato atto a Michele Santoro. Ma a che cosa è servita, oltre che a fare “audience” e quindi a raccogliere pubblicità, quella trasmissione? Non è servita certamente a fare informazione né tantomeno informazione politica. È servita, appunto, a fare spettacolo: a vantaggio pressoché esclusivo dei due attori principali, interpreti e protagonisti di un “copione” non scritto, ma certamente non improvvisato e neppure tanto originale.
Chi non ha mai lavorato nei giornali o nelle tv di Berlusconi, e ha cominciato a segnalare il pericolo della sua concentrazione televisiva quando altri invece erano ancora alle sue dipendenze, può dire con estrema franchezza che questa volta a guadagnarci di più è stato proprio il Cavaliere. Da uomo di spettacolo più che uomo politico, ne è uscito vincitore. Non solo perché s´è difeso e ha contrattaccato con la disperata determinazione di chi sta giocando la partita decisiva. Ma anche perché è rimasto sul ring fino all´ultimo minuto, non s´è alzato dalla sedia come molti prevedevano e, forse, ha perfino incassato o fatto incassare ai suoi amici un bel gruzzolo di scommesse.
Alla fine, Berlusconi ha detto tutto quello che voleva dire, compresi gli insulti rivolti a Marco Travaglio e a tutti i giornalisti che rischiano l´accusa di diffamazione per cercare e scoprire le verità occulte. Ognuno, davanti al video, è rimasto convinto della propria opinione. E probabilmente l´elettorato di centrodestra allo sbando si sarà sentito gratificato, rinfrancato, galvanizzato dalla straordinaria “performance” del suo impavido leader, un eroe eponimo “senza macchia (?) e senza paura”.
Non confondiamo, allora, gli ascolti con i voti. L´audience con la politica. I talk-show non devono “divertire”: cioè – in senso etimologico – distrarre, distogliere, allontanare il pensiero o l´attenzione dai temi seri e complessi che riguardano la vita della collettività. E questo vale, in generale, per tutta l´informazione televisiva, tanto più nei periodi elettorali. A cominciare, naturalmente, dai telegiornali e dai giornali radio, fra cui si distinguono per equilibrio – secondo gli ultimi dati forniti dall´Autorità di garanzia sulle Comunicazioni – il Tg 2 diretto da Marcello Masi e i Gr della Rai diretti da Antonio Preziosi.
Per l´intero sistema televisivo, pubblico e privato, nazionale e locale, vige il regime di concessione che qui abbiamo richiamato tante volte per le reti Mediaset. Tutte le emittenti, infatti, utilizzano un bene comune come l´etere: e perciò, anche quelle che non incassano il canone e vivono di pubblicità, sono tenute a svolgere comunque un “servizio pubblico”; a rispettare il pluralismo dell´informazione e in particolare, durante la campagna elettorale, la “par condicio”.
In forza di una concentrazione abnorme di potere mediatico, a cui s´è aggiunto poi il conflitto d´interessi, Berlusconi controlla già direttamente una metà della tv in Italia. E indirettamente una parte dell´altra metà, attraverso i suoi emissari all´interno della Rai. Non è il caso, per fare spettacolo, di consegnargli anche quel poco che resta.

La Repubblica 12.01.13

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“I dieci falsi del Cavaliere”, di MASSIMO GIANNINI

Senza verità non c´è democrazia. Non c´è bisogno di rievocare Anna Harendt, per capire quanto pesi l´irriducibile «incultura» democratica nella parabola di Silvio Berlusconi. Anche in questa sesta, titanica e disperata «discesa in campo», la verità raccontata dal Cavaliere agli italiani naufraga miseramente di fronte alla storia e alla cronaca. E com´è sempre accaduto nel corso di questi rovinosi diciassette anni, la sua propaganda politica affonda mestamente di fronte all´evidenza dei fatti. Come la manipolazione della realtà è stata il suo «metodo di governo», la menzogna è tuttora il format della sua campagna elettorale. Dagli ultimi due Truman show andati in onda sulla Rai a «Porta a Porta» e su La7 a «Servizio Pubblico», è possibile tracciare un «decalogo» delle falsità più clamorose. Le nuove, dieci bugie dell´imbonitore di Arcore. Afferma l´ex premier, per spiegare la drammatica caduta del suo governo nell´autunno di due anni fa: «Quello che è successo per farmi cadere è stata una congiura, nazionale e internazionale, e anche per la storia serve istituire un´indagine con una commissione d´inchiesta».
Nella fantasiosa ricostruzione «complottarda», Berlusconi non dice mai il vero, unico motivo che l´ha costretto alle dimissioni: l´8 novembre 2011 il suo governo cade di fatto alla Camera, dove il Rendiconto generale dello Stato passa con appena 308 sì, rispetto ai 316 del voto di fiducia. Lui stesso, allora, commenta: «Mi dimetto, per colpa di otto traditori». Nessuna «congiura», dunque. Semplicemente, la maggioranza di centrodestra si è sfasciata.

LO SGAMBETTO
TEDESCO SUGLI SPREAD

Nella teoria del complotto, il Cavaliere chiama in causa anche i «nemici» tedeschi: «A innescare l´impennata dello spread fu la Bundesbank, che a luglio diede ordine a tutte le banche tedesche di vendere i Btp italiani».
Non è vero, e lo stesso leader del Pdl si è dovuto in parte correggere. La banca centrale tedesca è del tutto estranea ai movimenti sui titoli di Stato. Ad alleggerire le posizioni in Btp è la Deutsche Bank, banca privata, che vende titoli pubblici sul mercato secondario nell´aprile 2011, cioè tre mesi prima che in Italia si profili lo spettro del default sul debito sovrano.

L´ITALIA È FORTE,
LA CRISI NON ESISTE

Nei suoi ultimi tre anni di governo, l´ex presidente del Consiglio nega fino al paradosso l´esistenza della crisi e della recessione. A maggio 2009 dichiara: «Il momento peggiore è passato, ci sono chiari segni di miglioramento». Al G20 di Cannes, il 4 novembre 2011, in piena tempesta europea sull´Italia, aggiunge: «Siamo un´economia forte, la terza del mondo. Il nostro stile di vita è quello di un Paese benestante, i consumi non diminuiscono, i ristoranti sono pieni, negli aerei non si riesce a prenotare».
Era falso già nel 2009: per Eurostat allora il Pil italiano crolla del 5,5%. È ancora più falso nel 2011: la Borsa di Milano cede in un anno il 25,6%, secondo Confcommercio chiudono 9 mila ristoranti, l´Istat certifica un -16,5% nei viaggi aerei. Non è tutto. Giovedì scorso, da Santoro, Berlusconi insiste: «Non devo chiedere scusa, non annetto nessuna responsabilità al mio governo nella crisi, e confermo tutto quello che dissi nel 2009: la crisi finanziaria è esplosa due anni dopo». Appunto: il suo leggendario «discorso sui ristoranti pieni» non è del 2009, ma dell´autunno 2011. A crisi già drammaticamente deflagrata.

LA BATTAGLIA
SULL´IMU

Per giustificare la feroce campagna contro Mario Monti sull´Imu, Berlusconi ricorda: «Non è in questa direzione che doveva andare l´Imu. Doveva comprendere tutte le imposte locali, e colpire gli immobili ma non la prima casa che per noi è sacra. Abbiamo fatto tutti i tentativi per farla cambiare, ma non ci siamo riusciti».
Anche questa è una mezza menzogna. Intanto l´Imu fu introdotta comunque dal suo governo, con il decreto legislativo numero 23 del 14 marzo 2011. E in ogni caso, mentre risulta un pacchetto di emendamenti presentati nel corso dell´iter parlamentare, nessuna contrarietà è mai stata manifestata dal segretario del Pdl Alfano, durante i tre vertici con Monti e Bersani che portano, nel dicembre 2011, al varo del decreto Salva-Italia. Se battaglia c´è stata, non è apparsa così «convinta».

LA LOTTA CONTRO
L´EVASIONE FISCALE

È la più falsa, nel gioco delle tre carte del Cavaliere. Mercoledì scorso, nel salotto di Vespa, declama: «Non ho mai sostenuto l´evasione fiscale. Lei sta parlando al presidente del Consiglio che ha combattuto di più l´evasione fiscale».
È vero l´esatto contrario. Già nel 2004, in conferenza stampa a Palazzo Chigi, definisce «moralmente autorizzati» gli evasori ai quali «lo Stato avanza la richiesta scorretta superiore al 50%». E mercoledì scorso, sempre da Vespa, lo ripete: «C´è un clima di terrore per colpa di Equitalia… È moralmente accettabile non pagare tasse ingiuste». Non solo. Il primo atto del suo ultimo governo, nel giugno 2008, è la legge che azzera la norma sulla «tracciabilità» introdotta dal governo di centrosinistra: il limite all´uso del contante, fissato da Prodi in 100 euro, viene alzato a 12.500 euro. Gli evasori ringraziano. Non a caso, tre anni dopo, lo stesso Tremonti deve fare retromarcia, e riportare il limite a 500 euro. Ma ormai è troppo tardi.

IL FALSO PROBLEMA
DEL DEBITO PUBBLICO

«Il nostro debito pubblico è un falso problema – sentenzia il leader azzurro da Santoro – perché intanto bisogna considerare che a fronte di questo debito c´è un´attivo infinitamente più grande, e poi in rapporto al Pil bisogna considerare l´economia sommersa».
La teoria è stravagante. La bugia è provata: l´Istat, nel quantificare il Prodotto interno lordo, tiene conto del sommerso già dal 1987, per una quota pari al 17%.

IN ITALIA NON SI POSSONO
FARE I DECRETI

Per articolare il suggestivo «movente» che spiega la necessità di una «profonda riforma della nostra architettura politico-istituzionale», Berlusconi a «Servizio Pubblico» afferma: «L´Italia è ingovernabile. Da noi il governo, al contrario di quello che accade in tutti i Paesi occidentali, non può intervenire con lo strumento del decreto legge, immediatamente esecutivo, ma solo con i disegni di legge, che hanno tempi di approvazione tra i 450 e i 600 giorni».
È l´ultima «invenzione» della settimana, la più folkloristica. Nella Storia repubblicana, il Berlusconi III della legislatura 2001/2006 vanta il record assoluto nel ricorso ai decreti legge (di vigenza immediata e da convertire entro 60 giorni) nel solo primo anno di governo: ben 54. Nel primo anno del Berlusconi IV, il Cavaliere presenta e fa approvare 34 decreti legge, dal salvataggio Alitalia ai rifiuti in Campania. Nell´intero arco dell´ultima legislatura, cioè nei 42 mesi che corrono tra il 2008 e il 2011, il suo governo presenta e fa approvare 80 decreti legge.
MAI PAGATO UNA DONNA
PER FARE L´AMORE

Di fronte alle domande rimaste sempre senza risposta sui suoi rapporti con Noemi Letizia, Ruby Rubacuori, le Olgettine e i soldi erogati a Barbara Matera fino alla sua candidatura alle elezioni europee, il Cavaliere giura: «Non ho mai pagato una donna per fare l´amore».
In realtà, la «letteratura» giudiziaria e processuale sulle escort a disposizione dell´ex presidente del Consiglio nelle «serate eleganti» di Palazzo Grazioli, Arcore e Villa Certosa, è veramente infinita. Agli atti dell´inchiesta di Napoli sulla presunta estorsione di Tarantini e Lavitola nei suoi confronti, il procacciatore di donne barese parla al telefono delle ragazze che porta ogni fine settimane a casa del Cavaliere: «Berlusconi le ha sistemate tutte. Sabina Began (la famose “Ape Regina”) si è sistemata per tutta la vita…». Nell´inchiesta barese, innescata dalle rivelazioni di Patrizia D´Addario, quest´ultima il 5 novembre 2009 al telefono con Tarantini dice: «Stanotte con Silvio non abbiamo chiuso occhio. È andata bene, ma niente busta però. Come mai? Mi avevi detto che c´era una busta…». Presso il tribunale di Milano, infine, pende ancora il giudizio sul caso Ruby, dove Berlusconi è imputato per prostituzione minorile.

SU RUBY DIFFAMAZIONE
SENZA PARI

Proprio il processo Ruby è per l´ex premier il nodo più intricato. A «Otto e mezzo» si difende: «C´è stata una diffamazione senza pari. Non ho mai detto che era la nipote di Mubarak… E non è vero che la Camera ha approvato una mozione che diceva che Ruby era la nipote di Mubarak».
Qui la manomissione del reale diventa impudenza esistenziale. Negli atti del processo milanese nei suoi confronti esiste il verbale della telefonata che l´allora capo del governo fa la notte del 27 maggio 2010 al funzionario della Questura Pietro Ostuni: «Dottore, volevo confermarle che conosciamo questa ragazza, soprattutto spiegarle che ci è stata segnalata come la nipote del presidente egiziano Mubarak». Quanto al voto parlamentare, il 3 febbraio 2011 la maggioranza di centrodestra si impone alla Camera, negando le perquisizioni richieste per il Rubygate e riconoscendo l´incompetenza della procura di Milano, con una mozione che si basa sul seguente assunto formale, e surreale: «Il presidente del Consiglio era realmente convinto che la ragazza fosse nipote di Mubarak».

LA SCHIAVITÙ
DEL TELEFONINO

Il Cavaliere detesta i cellulari. Lo assicura a «Servizio Pubblico»: «Non ho il telefonino, mi priva della libertà e non mi lascia lavorare».
È la frottola più «lieve», ma se vogliamo la più simbolica. Lo dice, negli studi di Santoro, poco dopo il servizio televisivo, ormai celebre in tutto il mondo, che lo ritrae al cellulare a passeggio sul lungofiume di Baden Baden, mentre la Merkel lo aspetta inutilmente per il vertice internazionale che deve nominare Rassmussen segretario della Nato. E agli atti del processo Tarantini-Lavitola fioccano ovunque telefonini e schede telefoniche, in uso all´ex presidente del Consiglio. Spesso non intestati a lui, ma a oscuri trafficanti sudamericani. Il telefono è la sua voce, ma anche la sua croce.

La Repubblica 12.01.13

"Il diritto laico", di Stefano Rodotà

È accaduto con la sentenza della Corte di Cassazione che ha respinto la tesi secondo la quale il “vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale” sia dannoso per “l´equilibrato sviluppo del bambino”. Una operazione di supplenza o, peggio, un´indebita invasione delle competenze parlamentari, come vuole il copione che da tempo viene adottato quando si vuole respingere una decisione giudiziaria politicamente o ideologicamente sgradita? Niente affatto, e per molte ragioni.
Considerando le argomentazioni finora rese note, la Cassazione si è mossa su diversi piani. Ha affermato che, di fronte alla mancanza di evidenze scientifiche, l´affermare l´incompatibilità tra pieno sviluppo del minore e vita in una famiglia omosessuale altro non è che un “pregiudizio”, che non può essere posto a fondamento di una decisione giudiziaria (anche se ora viene invocata un´unica e controversa ricerca sugli effetti negativi). Ha preso atto della situazione concreta, sottolineando come fossero proprio le pretese del padre a creare una situazione dannosa per il bambino. Ha adottato una idea ampia di famiglia, che corrisponde al riconoscimento di tutte le “formazioni sociali” contenuto nell´articolo 2 della Costituzione e alla parificazione dei diversi modelli familiari operato dall´articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea. Nessuna forzatura, dunque, ma un coerente svolgimento di principi ben radicati nell´ordinamento italiano e in quello europeo, che mostrano come non possa essere attribuito valore normativo alla tesi che collega il corretto sviluppo della personalità dei bambini all´esistenza di una “doppia figura genitoriale”, dunque a genitori di sesso diverso.
Si possono comprendere le ragioni per le quali, in particolare l´Arcigay, ha definito quella di ieri una sentenza “storica”. Ma è bene ricordare piuttosto che si tratta di una decisione che si inserisce in un orientamento della Cassazione già molto chiaro per quanto riguarda il riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali. Sviluppando una linea indicata nel 2011 dalla Corte costituzionale, che ha riconosciuto la rilevanza costituzionale delle unioni omosessuali, proprio la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4184 del 2012, ha affermato che, in specifiche situazioni, alla coppia omosessuale spetta “il diritto a un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata”. Una volta di più, con la sentenza di ieri, la prima sezione civile della Cassazione, presieduta da un giudice lungimirante come Maria Gabriella Luccioli, ha mostrato come sia possibile seguire con rigore la strada che conduce al pieno riconoscimento dei diritti delle persone.
Ma questa sentenza interroga direttamente la politica. In un momento in cui si moltiplicano le “agende”, dunque le indicazioni che dovrebbero guidare negli anni prossimi l´azione delle forze politiche, scopriamo quasi ogni giorno un fondo di omofobia, al quale si accompagna il tentativo di confinare le questioni riguardanti le scelte sessuali in un´area preclusa a qualsiasi intervento del legislatore, perché saremmo di fronte a “valori non negoziabili”. Proprio ieri un giornale pubblicava in prima pagina una foto con la quale si dileggiava un omosessuale candidato nella lista Monti. E le gerarchie vaticane stanno “negoziando” il loro sostegno a liste e candidati riproponendo appunto una richiesta di fedeltà alle posizioni della Chiesa.
Viene così aperta non solo la questione della laicità della politica, ma della sua legittimazione di fronte ai cittadini come politica “costituzionale”. Non è possibile ignorare, infatti, che la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati, vieta esplicitamente ogni discriminazione che sia fondata sulle “tendenze sessuali”, riprendendo una indicazione già contenuta nel trattato di Maastricht. Più che il riferimento alle norme, tuttavia, sembra oggi che un mutamento venga proprio da un´accresciuta consapevolezza sociale della necessità di affrontare le questioni riguardanti le persone Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali, transgender) grazie a significative manifestazioni pubbliche e all´azione appassionata di associazioni e di singoli parlamentari.
Nei programmi delle forze di sinistra vi sono espliciti impegni ad intervenire su queste materie. Ma questa è solo una dichiarazione di intenzioni, che dovrà superare un duplice test. Il primo riguarda il modo in cui saranno affrontate specifiche questioni, che possono essere sinteticamente indicate parlando del riconoscimento dell´omogenitorialità. E soprattutto: come si reagirà alle prevedibili resistenze che verranno da quelle forze moderate con le quali sembra indispensabile il dialogo? Ancora una volta i diritti civili saranno sacrificati sull´altare di un povero realismo politico? Se le cose continueranno ad andare in questo modo, speranze e fiducia avranno nella magistratura l´unico riferimento, e la politica si scoprirà ogni giorno più povera.

La Repubblica 12.01.13

"Se il voto di un lombardo vale più di quello di un umbro", di Francesco Cundari

Da tempo su tutti i giornali si discute dell’importanza del voto in lombardia, che deciderà se il vincitore delle prossime elezioni avrà o no la maggioranza anche in Senato (e potrà quindi, effettivamente, governare). Il motivo, si spiega, è che il premio di maggioranza – cioè quel meccanismo che dovrebbe assicurare alla coalizione che arriva prima un numero di seggi sufficiente a formare, appunto, una maggioranza – al Senato è suddiviso in diciotto diversi premi di maggioranza regionali (Valle D’Aosta e Molise non ne assegnano), ragion per cui non solo non assicura alcunché, ma è anzi da tutti considerato il principale ostacolo alla possibilità che chi arriva primo a livello nazionale possa effettivamente formare una maggioranza anche in Senato. Più che di premio, pertanto, bisognerebbe parlare di punizione.
Si tratti di una fatalità o di un disegno preordinato, si potrebbe sostenere che con un simile sistema, di fatto, gli elettori delle Regioni più popolose, e primi tra tutti i lombardi, pesino più degli altri (il fatto che a firmare l’attuale legge elettorale sia stato il leghista Roberto Calderoli, obiettivamente, non depone a favore della fatalità).
Questa controversa tesi è comunque l’oggetto di un ricorso che sarà discusso il 30 gennaio in Cassazione e che solleva un delicato problema di costituzionalità. L’articolo 48 recita infatti che il voto è «personale ed eguale, libero e segreto».
Con «eguale», naturalmente, nessuno intende che l’unica legge elettorale ammissibile sia il proporzionale puro, ma che, in presenza di un premio di maggioranza, il voto di ogni elettore abbia la stessa possibilità di concorrere alla sua assegnazione. Ma al Senato con l’attuale sistema, dicono i contestatori del Porcellum, l’elettore lombardo della lista vincente, attraverso il suo voto, attribuisce un numero di seggi-premio molto superiore a quelli attribuiti dal voto di un umbro o di un campano. Per restare alla Lombardia, che assegna complessivamente 49 seggi, se per assurdo la lista più votata ottenesse appena due seggi, ne riceverebbe in omaggio ben venticinque.
L’argomento dei sostenitori dell’incostituzionalità del Porcellum si può dunque spiegare così: il singolo elettore marginale che per assurdo facesse vincere di un voto una lista in Lombardia, con quel suo voto potrebbe attribuire decine di seggi; nella stessa situazione, e a parità di tutte le altre condizioni, il voto dell’elettore umbro o campano varrebbe invece parecchi seggi di meno; quello dell’elettore marginale del Molise, dove non c’è alcun premio, sempre e soltanto uno.
Silvio Berlusconi e Roberto Calderoli hanno sempre respinto ogni critica alla legge elettorale del Senato attribuendone la responsabilità alla richiesta dell’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi di mantenerne il carattere regionale, previsto dalla Costituzione. Ma la nostra Carta fondamentale non parlava né immaginava premi di maggioranza di alcun genere. Il problema di fondo, infatti, è sempre quello: l’alterazione di tutti gli equilibri, dell’intero sistema di pesi e contrappesi previsto dalla Costituzione. Una torsione plebiscitaria che dalla fine della Prima Repubblica a oggi è stata portata avanti attraverso referendum, leggi elettorali maggioritarie e anche attraverso la prassi di inserire il nome del candidato premier nel simbolo della coalizione, così da dare l’impressione agli italiani di eleggerlo direttamente (e quindi facendo gridare al golpe quando il Parlamento si permetta di revocarlo).
Questa deriva è giunta oggi al parossismo con la proliferazione di liste ciascuna con il nome del proprio leader nel simbolo, comprese l’Udc di Pier Ferdinando Casini e il Futuro e libertà di Gianfranco Fini, che pure vorrebbero presidente del Consiglio Mario Monti, anche lui presente con il suo nome nella lista «scelta civica» (ma solo alla Camera, dove comunque Monti non può candidarsi nemmeno a semplice deputato, perché è già senatore a vita).

L’Unità 11.01.13

Bersani: «Niente Imu per chi paga fino a 500 euro», di Maria Zegarelli

̀ E’ la pressione fiscale il tema caldo di questa campagna elettorale. Come alleggerirla e rendere meno duro per le famiglie italiane far quadrare il bilancio. Pier Luigi Bersani, ospite del salotto buono della Rai, Porta a Porta, non promette miracoli, «useremo parole di verità», aveva promesso subito dopo la vittoria delle primarie, e quindi punta a quello che è concretamente possibile fare. Primo: abolire l’Imu – «un calice amaro per il ceto medio e non solo per quello» – per chi ora paga fino a 500 euro, compensando il minor gettito nelle casse dello Stato con un innalzamento progressivo delle altre aliquote e inserendo «un’imposta personale sui grandi patrimoni immobiliari», quelli cioè che superano «1,5 milioni di euro catastali, che equivalgono a circa 3 milioni sul mercato. Mi pare che ci si può stare», dice rispondendo alle domande di Bruno Vespa. Eliminarla del tutto, come promette Silvio Berlusconi, sarebbe impensabile, «in tutti i Paesi del mondo c’è una tassazione sugli immobili e la tassazione sugli immobili ha una sua logica. Per noi bisogna alleggelirla: ma dire non alla prima casa non ha senso, perché uno può aver come prima casa anche la Reggia di Caserta». Secondo: detassare il lavoro stabile e rendere più oneroso per le aziende quello precario. Dunque, nessuna proposta rivoluzionaria, quella che l’altra sera il Cavaliere ha lanciato dagli stessi studi, «mi spiace che Berlusconi non abbia notato che una delle nostre battaglie in Parlamento, ai tempi della legge Fornero, era questa». E sulla tanto temuta patrimoniale, il leader del centrosinistra chiarisce: «Non ho mai parlato di patrimoniale in senso stretto. Io sto parlando di tassazione sugli immobili, credo che possiamo fare un’operazione redistributiva, non di aggravio nel complesso». Pensa anche ad una tassa sui valori mobili, purché affiancata da un meccanismo che consenta di fare «emergere la ricchezza», senza mandare al diavolo i ricchi (come ha detto l’alleato Nichi Vendola), ma facendogli pagare il giusto per restare qui nel loro Paese. Escluso il redditometro, «non lo ritengo efficace», niente affatto esclusa, invece, una nuova manovra correttiva nel 2013, « non la ritengo affatto inevitabile – spiega – . Certamente dovremo valutare il tema in base alla crescita e se c’è un po’ di polvere sotto il tappeto. A febbraio-marzo si vedrà, aspettiamo i dati. Io non dico niente, io non la indico».
Ma se agli italiani il messaggio che manda è di un centrosinistra al governo che punta all’equità e al lavoro, a Mario Monti e a Pier Ferdinando Casini ne invia diversi e tutti squisitamente politici. Innanzitutto: anche nella «denegata ipotesi» che il centrosinistra non riuscisse a raggiungere la maggioranza al Senato al governo andrà il leader che avrà preso più voti, perché «non mi piace l’idea che comincia a correre di nuovo che il business per l’Italia sarebbe azzoppare la vittoria di qualcuno per essere determinante, secondo lo schema logico che deve governare chi ha preso meno voti, lo schema-Casini. Io ho fatto le primarie per far capire che i voti ci vogliono». Dunque Casini e Monti non pensino di far pesare un eventuale terzo posto per reclamare Palazzo Chigi, anche perché «c’è un Presidente della Repubblica che guiderà il traffico».
Bersani pur senza risparmiare critiche al suo competitor – per il presente ma anche per il passato, compresa la spending rewiev di Bondi, «che assomiglia di più ai tagli lineari» – non chiude la porta. L’unica via che vede complicata è quella del Professore verso il Colle, ipotesi che oggi vede «meno probabile», come ammesso dallo stesso Monti.
Per il futuro, invece, dice Bersani, «l’Italia ha problemi tali da dover avere un governo con il 51% e chi governa deve saper ragionare come se avesse il 49%, quindi continuare a cercare quel dialogo «con tutte le forze che non sono antieuropee e populiste». Annuncia che sabato presenterà il programma della coalizione, anticipa le prime misure se vincerà le elezioni: «I primi provvedimenti li voglio dedicare al tema del civismo e della moralità pubblica. Per esempio ci vuole una legge sui partiti e norme più drastiche contro la corruzione, conflitto di interessi e norme antitrust perché i mercati funzionano. E poi alcuni diritti: io non sopporto che i figli di immigrati non sono nè immigrati nè Italiani».
Assicura: le tensioni con il Psi a causa delle liste sono ormai superate; aggiunge che Antonio Ingroia non lo convince, «la questione della legalità – spiega – non può diventare il tema di una fazione, di un magistrato contro l’altro. E brandire il tema della legalità in una maniera che non è coerente con la funzione di governo non mi convince». E all’immancabile domanda sulla sua alleanza con Vendola e i fantasmi dell’Unione replica: «Guardarci come fossimo quelli di una volta non ha senso, non ha senso guardare le cose con occhiali vecchi». Idem sentire con l’Ue: «rispetteremo gli impegni presi», ma qualcosa deve cambiare se è vero come è vero che adesso «l’Ue dice che alcune cose si possono fare, a differenza di un mese fa». Sì all’austerità ma anche misure per la crescita e l’occupazione. Per questo al presidente dell’eurogruppo, Jean Claude Junker dice: «Deve fare un passo avanti in questo ragionamento».

L’Unità 11.01.13

"L'Europa prova la ricetta americana "Basta austerity", è l'ora dello sviluppo", di Federico Rampini

Il dopo austerity sta cominciando. Dai vertici dell’Unione europea arrivano segnali, ancora discreti ma inequivocabili, di un cambiamento di rotta. Nessuno vuole prendere atto in modo brutale che le terapie fin qui applicate nell’eurozona erano proprio sbagliate.UNA tesi che invece ha autorevoli sostenitori su questa sponda dell’Atlantico: da Barack Obama al Nobel Paul Krugman. Senza ripudiarla troppo esplicitamente, l’austerity viene liquidata con uno stillicidio di dichiarazioni. Messe insieme, anticipano la fine di un’èra. Il presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso, ora finge che i feroci salassi al Welfare non abbiano mai avuto un imprimatur da Bruxelles: «E’ un mito che l’Unione europea imponga politiche dure, non è vero». Più drastico e anche autocritico, il presidente uscente dell’Eurogruppo, il lussemburghese Claude Juncker: «L’Europa sta sottovalutando la tragedia della disoccupazione, supera l’11% e non ce lo possiamo permettere. Dobbiamo realizzare politiche più attive per il mercato del lavoro». Alla Bce Mario Draghi ammette che ancora «non si vedono segnali di miglioramento dell’economia reale» (l’unica che conta per i cittadini: investimenti, lavoro, reddito). Draghi rifiuta di pronunciarsi sulla sconcertante previsione di Angela Merkel, che in un’intervista del 2012 parlò di altri cinque anni di crisi. Rischia di essere la classica profezia che si autoavvera: sia per l’influenza che ha la cancelliera tedesca sul clima di fiducia generale, sia perché da Berlino viene la ricetta che ha prolungato finora l’austerity. «Gli Stati Uniti ci interpellano — aggiunge ancora Juncker che in passato era spesso allineato con la Germania — e noi abbiamo risposte di cortissimo respiro».
Gli Stati Uniti non solo l’Amministrazione Obama. C’è anche un’istituzione multinazionale con sede a Washington, il Fondo monetario, che ha fatto una clamorosa autocritica. In un importante studio che porta la firma del suo direttore generale, Olivier Blanchard, il Fmi ammette di avere sbagliato sistematicamente le sue previsioni durante questa crisi. E sempre in una direzione sola: ha sottovalutato la pesantezza della recessione. Come si spiega questo perseverare nell’errore, a senso unico? Secondo l’autodiagnosi del Fmi, sono stati «sotto-stimati gli effetti moltiplicatori dell’austerity come freno alla crescita». Questi effetti sono tanto più pesanti se «l’austerity non è uno shock una tantum», bensì una terapia protratta su più anni. E’ esattamente la tesi keynesiana di Obama, Krugman, Joseph Stiglitz e tanti altri qui in America: «Non si esce dalla crisi a colpi di tagli». I salassi al Welfare e ai servizi sociali riducono il potere d’acquisto e i consumi; la mancanza di domanda deprime gli investimenti e le assunzioni; il saldo finale è il calo del Pil che “aritmeticamente” fa salire proprio quel peso relativo del deficit e del debito che si vorrebbe ridurre. Un altro studio che circola qui a New York, sfornato dalla Goldman Sachs, individua un solo caso nella storia in cui l’austerity sia stata accompagnata alla crescita. E’ il caso del Belgio, un paese così piccolo che l’andamento della sua economia è quasi interamente legato alla domanda dei paesi vicini come Germania, Francia, Olanda. Esclusa questa minuscola eccezione, austerity e crescita non coincidono mai nei fatti. La controprova la fornisce proprio l’economia degli Stati Uniti. L’Amministrazione Obama ha la fortuna di non sottostare all’“ ordo- liberismo” della Merkel, né ai parametri di Maastricht o altre versioni aggiornate di “fiscal compact”.
Washington ha chiuso il 2012 con un deficit federale superiore all’8% del Pil, un livello che nella Ue vecchia maniera farebbe invocare commissariamenti esterni. E’ anche grazie al motore keynesiano della spesa pubblica che l’America ha una crescita che sfiora il 3% annuo, genera costantemente oltre 150.000 nuove assunzioni al mese da due anni a questa parte, e ha ridotto la disoccupazione dal 10% al 7,8%. Tutte quelle economie mondiali che hanno scongiurato la crisi o ne sono uscite in fretta — vedi le potenze emergenti dei Brics — hanno fatto ricorso a qualche variante della ricetta keynesiana.
L’Europa ci sta arrivando in ritardo, sulla scorta di un ravvedimento. E’ ancora Juncker il più colorito, che rispolvera addirittura l’autore del Manifesto comunista: «Occorre ritrovare la dimensione sociale dell’Unione economico- monetaria, con misure come il salario minimo in tutti i paesi della zona euro, altrimenti per dirla con Marx perderemmo credibilità verso la classe operaia». Molto dipende ancora dalla Germania, e dall’esito delle sue elezioni. Il tedesco Martin Schulz, socialdemocratico che presiede l’Europarlamento, dà un’idea dell’orientamento nel suo partito quando ricorda di aver sostenuto l’azione di Mario Monti «sul principio di ricostruzione della fiducia », ma precisa che questo sostegno non si applica «ai dettagli delle misure». Le grandi manovre sono in atto, per prendere le distanze da una politica che non ha dato i risultati promessi.

La Repubblica 11.01.13

"Tutti i paesi Ue dovrebbero fissare un salario minimo", di Marco Zatterin

Alla fine del mandato, dopo otto anni di regno sull’Eurogruppo, JeanClaude Juncker decide di dire la verità, la «sua» almeno. «Ho dubbi sul modello di risanamento che abbiamo applicato in alcuni paesi», confessa il lussemburghese. Pensa alla Grecia, in particolare, e non solo. L’austerità gli è parsa eccessiva, soprattutto rispetto agli scarsi progressi conseguiti nel sociale. «Stiamo sottovalutando l’enorme tragedia della disoccupazione che ci schiaccia – avverte -, occorrono politiche più attive». Ad esempio, «ogni paese dovrebbe introdurre un salario minimo per legge, così da impedire che la crisi pesi sul reddito delle fasce più deboli: altrimenti, perderemmo credibilità e il sostegno della classe operaia, ma non me la attribuite, non è mia, è di Marx».

Discorso d’addio, franco, non privo di battute salaci sui «filosofi del Nord», i signori del rigore condotti da Frau Merkel. «Il peggio è passato ha stimato Juncker davanti alla Commissione Economia dell’Europarlamento -, eppure ciò non toglie che ci attendano tempi difficili». Una linea precisa, la sua, la stessa (solo ben più tagliente) dei discorsi con cui il presidente della Commissione, Josè Manuel Barroso, e del premier di casa libcon Enda Kenny, hanno inaugurato ieri il settimo semestre di presidenza irlandese dell’Ue nei saloni del Dublin Castle verniciati di fresco. «Dobbiamo tenere ben da conto la grave situazione sociale di alcuni paesi – ha rilevato il portoghese -. E dobbiamo mettere tutte le risorse insieme per battere la crisi, il che richiede un ritorno della fiducia».

Barroso pianifica come da protocollo, elenca progetti e decisioni. Propone diligentemente l’agenda istituzionale delle cose da fare, il che appare essere proprio ciò che Juncker è arrivato finalmente a contestare nel suo «mea culpa» conto terzi. «Avevamo promesso che l’euro avrebbe corretto gli squilibri sociali». Invece nulla. Così il lussemburghese concede il suo rammarico per l’accordo dicembrino annacquato sul rafforzamento dell’Unione monetaria, «non c’è accordo sulla strada da imboccare nei prossimi anni, gli Usa e gli altri ci interpellano a proposito e noi abbiamo solo risposte di cortissimo respiro».

E’ la mancanza di ambizione che il capo uscente dell’Eurogruppo mette ai ferri. Ma anche un pericoloso dogmatismo, che lo riporta alla Grecia, per dire «che siamo divenuti arroganti, abbiamo dimenticato la storia e non amiamo chi non è come noi», se trascuriamo il ruolo che Atene ha avuto e può avere nella costruzione europea: «Nei confronti dei greci nutro una simpatia e un’amicizia che non è sempre stata condivisa dai filosofi del Nord», ovvero i tedeschi e gli altri falchi rigoristi. «Solo se amiamo gli altri possiamo toglierci dai guai», è il suo monito.

Il che riporta al sociale, l’imperativo di stagione coi 26 milioni di cittadini senza un posto di lavoro, e alla necessità di capire «che ogni paese ha bisogno di politiche differenti». Inoltre, «non si possono chiedere gli sforzi più grandi ha chi a meno, pensando che visto che sono di più la politica avrà successo». Il che, puntualizza, richiede un salario minimo sotto il quale non si possa andare, e «non è uno stupido gauchismo», perché «non dico che bisogna far pagare i miliardari, ma sono contrario al fatto che i miliardari non pagghino». Belle parole, indebolite dalla natura lussemburghese di paradiso fiscale.

Il messaggio è forte. L’Europa deve pagare il dividendo della crescita per non essere declassata dai cittadini. Ci sono la congiuntura che soffre e il lavoro che sanguina, mentre il risanamento di bilanci e banche non è ultimato. Juncker, come Barroso, è favorevole a un’azione retroattiva della Bce o del fondo salvastati Esm per la ricapitalizzazione del credito, l’Irlanda ne ha un bisogno disperato per non cadere ancora (e Berlino non vuole). Si deciderà in primavera. Intanto il lussemburghese rivela che alla testa del board per la vigilanza unica da varare quest’anno ci sarà una francese, Daniele Nouy, segretaria dell’autorità prudenziale della Banca di Francia. Poi conferma che il suo successore sarà olandese, come atteso, Jeroen Dijsselbloem. Juncker se ne andrà presto, con una tristezza. Gli hanno chiesto se sarebbe stato un presidente della Commissione migliore dell’attuale. Ha risposto «sì».

La Stampa 11.01.13

"La nuova strada per le donne in politica", di Mariella Gramaglia

Partito democratico e Sinistra ecologia e libertà, le prime due formazioni politiche che hanno presentato le liste elettorali, hanno fatto una scelta piuttosto netta a favore della democrazia paritaria, di una strategia, cioè, che renda il Parlamento specchio fedele di un Paese popolato da due sessi. Sedici donne su 38 capilista e 40 per cento di presenze femminili nelle liste per il Pd. Qualche decimale in più per Sel: 50 per cento di capilista e 46 per cento nelle liste.

Naturalmente, dato che il sistema a «chiusura lampo» (un uomo che si alterna a una donna, giù giù fino alla fine dell’elenco) non è stato rispettato in maniera notarile, non è detto che la quota delle elette corrisponderà esattamente a quella delle chiamate, soprattutto per la formazione più piccola e più soggetta agli umori imprevisti dell’elettorato. Ma tant’è: siamo di fronte a un’ottima volontà, mentre in queste ore le altre formazioni stanno per chiudere le loro partite.

C’è da augurarsi che lo spirito di emulazione abbia la meglio ovunque e la scelta di un nuovo equilibrio fra i sessi diventi mentalità comune. Delle «parlamentarie» del movimento Cinque stelle già sappiamo: ottima affermazione di giovani e giovanissime, 17 in cima alla lista su 31. Berlusconi giura che nel Pdl le elette saranno il 40 per cento. Monti, nell’Agenda, fa un’affermazione di principio molto impegnativa: «Le donne oggi vogliono, devono e possono contare di più». Tuttavia non prevede nessun vincolo pratico per definire la percentuale di candidature. Come in molte formazioni che devono comporre anime diverse (tipicamente «Rivoluzione Civile» di Antonio Ingroia) spinte antagoniste contenderanno fra loro fino all’ultimo minuto.
Non c’è dubbio, infatti, che le primarie abbiano misurato la temperatura, di una parte almeno dell’elettorato, e l’abbiano fatta rilevare anche ai più refrattari nei gruppi dirigenti. Esprimere una seconda preferenza, da destinarsi a una donna se la prima era andata a un uomo, non era un obbligo, ma uno strumento. L’hanno usato praticamente tutti, elettori ed elettrici. E forse molti hanno votato una donna e basta. A Bologna – un esempio fra i tanti possibili – nella lista delle primarie del Pd c’erano otto uomini e sei donne. I più votati sono stati esattamente alla pari, quattro uomini e quattro donne: la base ha spostato il baricentro.

I movimenti della società civile hanno fatto da moltiplicatore di un sentimento diffuso nell’opinione pubblica fino a costruire un melting pot inedito: femministe con i giusti quarti di nobiltà a lungo refrattarie all’impegno istituzionale, intellettuali e professioniste, giovani ambiziose che spesso si sono fatte le ossa nelle autonomie locali, donne rianimate al gusto della politica dopo la nascita di Se non ora quando.

Questo movimento è stato più una scintilla che una sigla. Dopo il successo strepitoso della manifestazione del 13 febbraio 2011, uno dei fattori determinanti della caduta del governo Berlusconi, avrebbe avuto le forze per competere con il vecchio establishment alla maniera di Grillo o di Ingroia, o anche per promuovere direttamente candidature femminili nelle varie liste. Ha scelto altrimenti: di non candidare nessuna e di promuovere tutte, attraverso due campagne di comunicazione. Una, affidata alle grandi reti televisive, che già guarda al futuro: «Senza le donne non si governa». L’altra – «Le parole per dirlo» – che raccoglie dalla base centinaia di voci e visi che dettano le loro priorità per l’Italia che ci attende.

Più donne nel prossimo Parlamento, di sicuro. Meno notabili e forse più ingenue della politica e ancor più di quella politicante. Unite su qualcosa? E’ presto per dirlo. Ma la spinta che le incoraggia a rappresentare italiane e italiani implicitamente chiede loro non poco. Famiglie meno sole nella cura, più moralità nella politica, più lavoro per i giovani, sostegno alla maternità come pane e sale di un Paese che invecchia, diritti e rispetto per le coppie gay, più verità spirituale e meno furbizie nel rapporto con la Chiesa. La luna? Forse, ma anche sulla luna si può prima o poi poggiare un piede.

La Stampa 11.01.13