attualità, politica italiana

"Se il voto di un lombardo vale più di quello di un umbro", di Francesco Cundari

Da tempo su tutti i giornali si discute dell’importanza del voto in lombardia, che deciderà se il vincitore delle prossime elezioni avrà o no la maggioranza anche in Senato (e potrà quindi, effettivamente, governare). Il motivo, si spiega, è che il premio di maggioranza – cioè quel meccanismo che dovrebbe assicurare alla coalizione che arriva prima un numero di seggi sufficiente a formare, appunto, una maggioranza – al Senato è suddiviso in diciotto diversi premi di maggioranza regionali (Valle D’Aosta e Molise non ne assegnano), ragion per cui non solo non assicura alcunché, ma è anzi da tutti considerato il principale ostacolo alla possibilità che chi arriva primo a livello nazionale possa effettivamente formare una maggioranza anche in Senato. Più che di premio, pertanto, bisognerebbe parlare di punizione.
Si tratti di una fatalità o di un disegno preordinato, si potrebbe sostenere che con un simile sistema, di fatto, gli elettori delle Regioni più popolose, e primi tra tutti i lombardi, pesino più degli altri (il fatto che a firmare l’attuale legge elettorale sia stato il leghista Roberto Calderoli, obiettivamente, non depone a favore della fatalità).
Questa controversa tesi è comunque l’oggetto di un ricorso che sarà discusso il 30 gennaio in Cassazione e che solleva un delicato problema di costituzionalità. L’articolo 48 recita infatti che il voto è «personale ed eguale, libero e segreto».
Con «eguale», naturalmente, nessuno intende che l’unica legge elettorale ammissibile sia il proporzionale puro, ma che, in presenza di un premio di maggioranza, il voto di ogni elettore abbia la stessa possibilità di concorrere alla sua assegnazione. Ma al Senato con l’attuale sistema, dicono i contestatori del Porcellum, l’elettore lombardo della lista vincente, attraverso il suo voto, attribuisce un numero di seggi-premio molto superiore a quelli attribuiti dal voto di un umbro o di un campano. Per restare alla Lombardia, che assegna complessivamente 49 seggi, se per assurdo la lista più votata ottenesse appena due seggi, ne riceverebbe in omaggio ben venticinque.
L’argomento dei sostenitori dell’incostituzionalità del Porcellum si può dunque spiegare così: il singolo elettore marginale che per assurdo facesse vincere di un voto una lista in Lombardia, con quel suo voto potrebbe attribuire decine di seggi; nella stessa situazione, e a parità di tutte le altre condizioni, il voto dell’elettore umbro o campano varrebbe invece parecchi seggi di meno; quello dell’elettore marginale del Molise, dove non c’è alcun premio, sempre e soltanto uno.
Silvio Berlusconi e Roberto Calderoli hanno sempre respinto ogni critica alla legge elettorale del Senato attribuendone la responsabilità alla richiesta dell’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi di mantenerne il carattere regionale, previsto dalla Costituzione. Ma la nostra Carta fondamentale non parlava né immaginava premi di maggioranza di alcun genere. Il problema di fondo, infatti, è sempre quello: l’alterazione di tutti gli equilibri, dell’intero sistema di pesi e contrappesi previsto dalla Costituzione. Una torsione plebiscitaria che dalla fine della Prima Repubblica a oggi è stata portata avanti attraverso referendum, leggi elettorali maggioritarie e anche attraverso la prassi di inserire il nome del candidato premier nel simbolo della coalizione, così da dare l’impressione agli italiani di eleggerlo direttamente (e quindi facendo gridare al golpe quando il Parlamento si permetta di revocarlo).
Questa deriva è giunta oggi al parossismo con la proliferazione di liste ciascuna con il nome del proprio leader nel simbolo, comprese l’Udc di Pier Ferdinando Casini e il Futuro e libertà di Gianfranco Fini, che pure vorrebbero presidente del Consiglio Mario Monti, anche lui presente con il suo nome nella lista «scelta civica» (ma solo alla Camera, dove comunque Monti non può candidarsi nemmeno a semplice deputato, perché è già senatore a vita).

L’Unità 11.01.13