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"Carroccio, meglio solo o male accompagnato?", di Ilvo Diamanti

L’Accordo fra la Lega e il Pdl, molto probabilmente, si farà. Nonostante i dubbi della Lega. Ma Berlusconi non può farne a meno. Per non finire ai margini. Sconfitto dal Pd – vincitore annunciato. Vincitore annunciato, il Pd, con fin troppo anticipo, per non comportare qualche rischio. Ma anche, soprattutto, da Monti e dalle sue liste. Per coltivare la speranza di contare, nel futuro Parlamento, grazie a un buon risultato al Senato. Nel Nord e soprattutto in Lombardia, dove si vota anche per rinnovare il governatore e il Consiglio regionale. Un accordo, quindi, obbligato. Ma non è detto che convenga davvero a tutti. O meglio, conviene sicuramente a Berlusconi. Il quale rischia, altrimenti, non solo di perdere le elezioni, ma, soprattutto, la dissoluzione del Pdl. Il suo partito personale. Che da solo, non ha chance di competere. Ma se il Pdl e lo stesso Berlusconi non esercitassero, almeno, un potere di interferenza e di veto, in ambito parlamentare perderebbero anche il loro potere sul territorio. In altri termini: si perderebbero. Molto diversa è, invece, la posizione della Lega. Per oltre dicei anni alleata fedele di Berlusconi. Oggi rischia di diventare ostaggio del Cavaliere. Il quale, nel caso di mancato accordo, minaccia di far cadere tutte le giunte del Nord, dove la Lega è al governo con il centrodestra. Perché non è detto che l’intesa con Berlusconi e il Pdl offra alla Lega di Maroni benefici superiori ai costi – politici ed elettorali.
La Lega, infatti, attraversa una stagione difficile – da cui non è ancora uscita. Dopo essere stata coinvolta da scandali che hanno investito i suoi gruppi dirigenti e, in primo luogo, la leadership di Umberto Bossi. Insieme al “cerchio” stretto dei suoi fedeli (e dei suoi familiari). Con effetti pesanti sul piano elettorale. In poche settimane, infatti, il peso elettorale leghista, stimato dai sondaggi, si è quasi dimezzato. Da oltre il 10% a meno del 5%. Per ragioni evidenti. La Lega ha costruito il proprio consenso sul principio della “diversità”. Dagli altri partiti. Dal “ceto politico”. Si è proposta e imposta come “alternativa”. Ha alimentato e intercettato il clima antipolitico perché considerata, a sua volta, non un partito. Ma un “anti-partito”. Alternativo e antagonista rispetto ai partiti “romani”. Lontani dal territorio e dalla società. Dal Nord – patria della rivolta contro il potere politico corrotto e inefficiente. Gli scandali dell’ultimo periodo hanno seriamente danneggiato il “principio della diversità” leghista. La Lega di lotta e di governo. Per questo motivo Roberto Maroni ha dovuto agire “contro” Bossi (suo amico di sempre). Ma soprattutto contro il cerchio di amici e familiari che gli stava intorno. E contro Berlusconi. Complice di Bossi. Interprete, ma anche simbolo, dell’intreccio fra politica e affari. Che riguarda il Cavaliere, sul piano personale, ma, ancor di più, il ceto politico del partito, a livello nazionale e locale. Reclutato sulla base della fedeltà e degli interessi, assai più che dei valori e della competenza. Forza Italia e il Pdl: partiti-azienda, emblemi della politica come marketing.
La Lega di Maroni, non a caso, ha preso le distanze da quel modello e dal suo artefice. Dal Cavaliere e dalla sua corte. Dalla classe politica del Pdl. Ha, invece, investito sugli amministratori locali e regionali, per fronteggiare, almeno sul territorio, i principali concorrenti. La “delusione” – che ha spinto molti elettori leghisti nell’area dell’indecisione e dell’astensione. Verso il M5S di Beppe Grillo, che ha intercettato l’insoddisfazione e la frustrazione di molti leghisti contro i partiti. Anche – soprattutto – nei confronti della Lega. Maroni. Ha rotto, per questo, con il centrodestra, insieme a cui governava la Lombardia. Ha, inoltre, fatto opposizione dura al governo Monti. Sostenuto, fino a novembre, anche da Berlusconi e dal Pdl.
Maroni. Per rappresentare la Lega all’esterno, si è affidato a figure molto diverse. Ma, comunque, visibili e presenti sui media. Un “antagonista”, dal linguaggio esplicito, come Matteo Salvini. Ma, soprattutto, un amministratore poco leghista, come Tosi. Sindaco di Verona. Ri-eletto, nel maggio 2012, in piena “crisi” della Lega, con il 57%, alla testa di una civica “personale”.
Il rischio, per la Lega di Maroni, è che l’accordo con Berlusconi e il Pdl vanifichi questo faticoso percorso di “riabilitazione”. Che, negli ultimi mesi, ha cominciato a produrre qualche piccolo risultato. Visto che i sondaggi la danno in – lenta – risalita. Oltre la soglia del 5%. (Più di quanto aveva ottenuto alle politiche del 2006.) D’altronde, gli elettori “delusi”, che hanno abbandonato la Lega nell’ultimo anno, si mostrano diffidenti nei confronti di Berlusconi. Gli preferiscono Grillo. Mentre gli stessi elettori “fedeli” appaiono tiepidi verso il Cavaliere. L’ipotesi, avanzata da Berlusconi, di affidare a un altro – Alfano o perfino Tremonti – il ruolo di premier, non risolve il problema. Perché il leader della coalizione rimarrebbe lo stesso. Visto che nel Pdl a comandare è – e resterebbe – uno solo. Berlusconi.
Da ciò il dubbio (confermato da alcuni sondaggi). La Lega, presentandosi da sola, con un proprio candidato premier (per esempio: Tosi), potrebbe allargare notevolmente gli attuali consensi. Molto più che se si presentasse in compagnia di Berlusconi e del Pdl. La Lega, tuttavia, è indotta a siglare l’accordo per il timore di perdere la rappresentanza in Parlamento. Per competere alla presidenza della Lombardia. Per non rischiare la presidenza del Veneto e del Piemonte.
In questo caso, però, l’immagine dei lunedì, ad Arcore, con Bossi e il figlio a cena da Berlusconi: riapparirebbe. E comprometterebbe la ricostruzione – della credibilità – avviata la primavera scorsa. Ancor più delle inchieste della Procura. (È di ieri l’ultima, sulle spese del gruppo al Senato).
L’accordo tra Berlusconi e la Lega appare, dunque, probabile, anzi quasi certo. Berlusconi ne ha bisogno ed è disposto a tutto pur di siglarlo. Mentre alla Lega pone un’alternativa insidiosa. Un dilemma difficile. Perdere – subito – il governo delle regioni del Nord. O rischiare di perdere, per sempre.
Voti e identità.

La Repubblica 07.01.13

"La lezione di Rita, la scienziata che rifiutò la torre d’avorio", di Pietro Greco

Guardare sempre al futuro. E non chiudersi mai nella torre d’avorio, ma impegnarsi nella società, con un progetto politico preciso. Nel corso della sua lunga vita Rita Levi Montalcini ha regalato a noi tutti, ma soprattutto ai giovani ricercatori, molti insegnamenti. Ma sono questi i due lo sguardo rivolto al domani e l’impegno civile, sociale e politico per costruire un futuro desiderabile che, a una settimana dalla sua scomparsa, conviene ricordare. Dove il verbo convenire non indica un imperativo del politically correct, dettato dalla commozione per la sua morte, che pure c’è. Ma indica proprio un guadagno, per noi tutti e, in particolare, per i giovani ricercatori.
Rita Levi Montalcini è stata una scienziata che ha vissuto costantemente fuori dalla torre d’avorio, sia pure con quella elegante leggerezza che era frutto di un carattere umile e di un’educazione rigorosa. Si è impegnata non solo per la ricerca, per i giovani, per le donne, per i giovani e le donne dei Paesi in via di sviluppo, per la diffusione della cultura scientifica. Ma anche in battaglie politiche durissime, senza tentennamenti, anche quando è stata fatta oggetto di vergognose campagne di dileggio.
Questo suo vivere costantemente fuori dalla torre d’avorio, entro cui pure avrebbe potuto comodamente rifugiarsi, non l’ha distolta dalla sua attività di ricerca. La scienziata non è stata distratta dalla politica. Al contrario, la sua attività di ricerca è stata rafforzata dal suo impegno civile e sociale.
In ciò, Rita Levi Montalcini non rappresenta affatto un’eccezione. Anzi, è quasi una regola: tutti i grandi scienziati hanno avuto (e hanno) uno straordinario impegno nella società. Per questo il suo esempio rappresenta un autentico insegnamento per i giovani ricercatori. Non rinchiudetevi nei laboratori. Portate fuori le vostre capacità. Ne guadagnerà la società. E ne guadagnerà la scienza.
Gli esempi che corroborano queste affermazioni, in apparenza ardite, davvero non mancano. Tra i più significativi ci sono quelli di tre fra i più grandi uomini di scienza di ogni tempo: Albert Einstein, Galileo Galilei e Charles Darwin.
Il grande fisico tedesco ha sempre rifiutato di vivere nella torre d’avorio, anche quando – a partire dal 1919, anno della conferma empirica della sua teoria della relatività generale – divenne uno degli uomini più famosi del pianeta. Addirittura l’icona della scienza e il personaggio più rappresentativo del XX secolo. Ebbene in quei medesimi mesi Einstein era impegnato non solo nella ricerca di una teoria fisica ancora più generale, ma anche in un progetto politico piuttosto ambizioso: affermare la pace nel mondo. Proponendosi come un vero e proprio pacifista militante. Un attivo propagandista del disarmo. Guardato con sospetto dai servizi segreti di ogni parte del mondo: nella Germania che diverrà nazista, nell’America democratica che lo accoglierà, nell’Unione Sovietica comunista. E assurto a bandiera dei movimenti per la pace di tutto il mondo. Tuttora il testo scritto nel 1955 con Bertrand Russell – intriso di un umanesimo senza confini – è considerato «il» manifesto per il disarmo nucleare, capace di influenzare il pensiero e le azioni anche di uomini di governo al più alto livello, come ha riconosciuto Michail Gorbaciov.
Quanto ad ambizione non era da meno quello che si propose Galileo Galilei tra la fine del 1610 e l’inizio del 1611, all’indomani della pubblicazione del Sidereus Nuncius che, in pochi mesi, lo aveva reso l’uomo probabilmente più famoso d’Europa e appena dopo essere riuscito a costruirsi una comoda «torre d’avorio», facendosi nominare «primario filosofo e matematico» del granduca di Toscana, Cosimo II. Non esitò, Galileo, a uscire fuori da quella comoda e ben remunerata torre per portare a termine un progetto che, giustamente, Ludovico Geymonat ha definito «ardito»: convertire la Chiesa alla visione copernicana del mondo e, più in generale, sgombrare il campo dagli ostacoli che ponevano in rotta di collisione la fede con la «nuova scienza». Il mondo cattolico con la modernità. Galileo si è battuto per oltre trent’anni nel tentativo di portare a termine il suo «ardito progetto». Senza successo. Ma creando le premesse per un riconoscimento sempre più universale dell’autonomia della scienza.
Forse ancora più eclatante è la vicenda di Charles Darwin, come hanno di recente dimostrato due dei suoi più informati biografi, Adrian Desmond e James Moore, in un libro, La sacra causa di Darwin, da poco pubblicato in italiano presso l’editore Raffaello Cortina. Il naturalista inglese, nato il 12 febbraio 1809, lo stesso giorno in cui è venuto al mondo Abraham Lincoln, era un antischiavista convinto. Appartenente a una famiglia che aveva fatto della lotta alla schiavitù il proprio faro. Sia il nonno paterno, Erasmus Darwin, medico e poeta, sia il nonno materno, Josiah Wedgwood, esponente della nuova ed emergente classe degli industriali manifatturieri, erano infatti antischiavisti militanti. Ebbene, la sua «sacra causa», la lotta alla schiavitù, non solo non ha ostacolato la ricerca scientifica di Darwin, ma anzi è stata la leva che ha spinto l’inglese a cercare la cause dell’origine (comune) delle specie e a formulare la teoria dell’evoluzione biologica che taglia alla base ogni concetto di razza e di gerarchia tra le razze. Eccolo, dunque, il messaggio di Rita. Giovani ricercatori, non illudetevi di poter costruire le vostre carriere nel chiuso dei laboratori. Ma uscite fuori e costruite il vostro futuro. E il futuro di noi tutti.

L’Unità 06.01.13

"Da Belsito a Bricolo, il vizietto padano", di Piero Colaprico

Il principio della fine fu forse “il Trota”, il giovane consigliere regionale Renzo Bossi, asino a scuola più del padre Umberto, entrato anche lui in politica. Per “Trota” c´era la laurea albanese. E i diplomi, la paghetta mensile di 5mila euro in contanti, le auto lussuose. Vennero scoperte, si seppe che il tesoriere Francesco Belsito «rubava», gonfiava conti, e Bossi, capo assoluto, e papà, e marito, firmava. Le sezioni leghiste scoprirono così, quasi un anno fa, per via giudiziaria, quella tragica realtà che molti intuivano, e temevano: loro facevano fatica a trovare l´intonaco per i muri scrostati, la famiglia Bossi, quelli del «cerchio magico» con Rosy Mauro in prima fila, più i vari caporioni, vivevano alla grande. Come i «partiti romani». E quindi non sarà una sorpresa per i padani apprendere che oggi è la procura di Roma che si sta occupando dell´uso distorto dei fondi leghisti del Senato, degli euro che diventano un supplemento d´indennità, del denaro pubblico impiegato non per fare campagna (elettorale), ma farsi casa (propria).
Erano state l´»informativa preliminare del procedimento penale 37651/2011», firmata dai carabinieri del Noe, e le perquisizioni del 3 aprile dell´anno scorso, a descrivere nei dettagli molte storie in grado di sconcertare. Chi pagava gli alimenti a Maruska, l´ex moglie di Riccardo Bossi, figlio primogenito del leader? La Lega. E che cosa se ne faceva la Lega dei soldi che lo Stato italiano versava al partito nordista italiano? Acquistava dieci lingotti d´oro e undici diamanti. Anzi, come se fossero in un film, la vicepresidente del Senato Rosy Mauro e il suo collega Piergiorgio Stiffoni vennero scoperti mentre aprivano conti correnti, facevano bonifici alla Intermarket Diamond Business spa (Idb), acquistavano i preziosi e, come rivelò un impiegato, «Entrambi i clienti effettuavano un´attenta verifica e specifica spunta dei singoli preziosi che, alla fine dell´incontro, provvidero a portare via in borse».
Un po´ di diamanti vennero riconsegnati: partirono da Genova verso via Bellerio su un altro simbolo delle allegre spese leghiste, l´Audi A6 acquistata sempre per il Trota, il principe ereditario, con i fondi del partito. Come si può dire questo? Perché dentro una cartella intestata – scritta in un riquadro – a «The Family», c´era vario materiale, come le multe del Trota, la polizza e i lavori sulla casa di Gemonio, l´intervento chirurgico del dentista di Sirio Eridanio. «Se esce qualcosa è la fine», era stata la profetica frase della responsabile amministrativa della Lega Nord, Nadia Dagrada, intercettata al telefono con l´allora tesoriere Belsito. «Se parlo io finiscono tutti in carcere», minacciava lui, mentre l´ex ministro Roberto Castelli e la corrente maroniana del partito chiedevano conto dei buchi di bilancio.
Come quelli per i soldi al Simpa, il sindacato padano gestito dalla «nera» Rosy, consistente come la nebbia, con un numero di iscritti ridicolo, ma sempre foraggiato, perché, come raccontava un´altra segretaria leghista, Daniela Cantamessa, fedelissima di Bossi, «nel cerchio dei familiari bisogna inserire anche Rosy Mauro che di fatto, dopo la malattia del capo, si era “installata” in un´abitazione attigua a quella di Bossi, dal quale non si staccava praticamente mai». Lei e il suo segretario particolare Pier Moscagiuro, cantante e poliziotto in aspettativa, restano indimenticabili. Come la frase con cui la bollò una segretaria: «Per me deve stare attenta, tra un po´ quella non può uscire da casa».
Espulsa dalla Lega, Rosy Mauro è tornata da poco alla ribalta perché quando nel 2008 era consigliera lombarda ha speso ben 7mila euro in computer. Un´altra indagine è in corso e, rispetto a lei, dimostra di aver avuto più fantasia il simbolico Bossi junior, che s´è fatto rimborsare – forse viste le multe che prendeva? – un localizzatore di autovelox (189 euro), una sveglia, un frigo, e anche Mojito, Spritz, Vigorsol e Alpenliebe, Fonzies e Pocket coffee. Quanto all´ex ministro alla Semplificazione Roberto Calderoli, firmatario della legge elettorale definita «porcata», bisogna ricordare un´intercettazione: «… e invece quelli di Cald come faccio? Come li giustifico quelli?». «Quelli» erano sempre rimborsi.
La Lega ha mutato faccia, come si sa Roberto Maroni la guida, Matteo Salvini le dà voce, però è diventato evidente come l´antico ceppo avesse contratto un virus, un «vizietto», un male poco curabile: quello dei partiti della fu Prima Repubblica, per mantenere le correnti; o di Silvio Berlusconi, con i suoi paradisi off shore, per frodare le tasse e pagare chi gli chi serve. A Roma i magistrati indagano sulle dissipazioni dei senatori leghisti, a Milano ormai da otto mesi il truce Belsito, la sua cassaforte svizzera «Aurora», i presunti rapporti con la ‘ndrangheta sono nel mirino del procuratore aggiunto Alfredo Robledo. C´erano una volta i barbari del Nord che si sentivano autorizzati a parlare di «Roma ladrona», e raccontavano agli elettori delle valli di essere diversi. Ora dove sono? Spariti. Umiliati. Indagati.

La Repubblica 06.01.13

Il premier e il martello della «società civile», di Michele Ciliberto

È interessante assistere alle esibizioni televisive del presidente del Consiglio, vedere le parole che usa, i concetti su cui insiste. Quale è il centro di questo messaggio? È il primato della cosiddetta «società civile» nei confronti della «politica». Quella stessa politica rispetto alla quale il presidente del Consiglio non si stanca di ribadire la sua lontananza, anzi la sua estraneità. Da qui discende una serie di corollari che egli scolpisce con notevole vigore retorico: 1) come la maggior parte degli italiani ai quali si rivolge con spirito professorale, anche lui sa quanto la politica italiana sia diventata una palude da cui bisognerebbe tenersi lontani; 2) ha deciso di prendere posizione, perché ci sono momenti nei quali anche i più riluttanti devono sporcarsi le mani, mettendo in gioco la propria persona e il proprio ruolo; 3) intende farlo senza identificarsi con una parte, guardando con occhio di ghiaccio all’«interesse generale» del Paese e buttando a mare antiche categorie come quella di «destra» o di «sinistra» che non rispecchiano più lo stato delle cose; 4) vuole essere riformatore, cioè moderno, ma in forme nuove, avviando una nuova epoca della nostra storia; 5) per farlo si propone di «ritornare ai principi» (direbbe Machiavelli), cioè ridare la parola alla «società civile» di cui tesse l’elogio con lo stesso trasporto di un economista del Settecento.
Con questo torniamo all’architrave del suo discorso: la «società civile», intesa come il luogo delle energie primigenie del Paese, calpestate dalla politica e dallo Stato («Paese»: lemma che, se non mi inganno, Monti preferisce a quello di «Nazione»). E tutto è presentato con stile, parole e gesti adeguati e convergenti nel mostrare che nell’arena politica Monti è stato costretto a scendere per senso di responsabilità, non per ambizione personale o altri motivi poco nobili. Se però lo stile è nuovo e rispettabile, non sono nuovi né il richiamo alla «società civile», né l’ideologia conservatrice in cui esso è situato. Anzi. Quando gli storici futuri studieranno il lessico politico della Repubblica, potranno constatare che l’espressione «società civile» è stata, nei nostri anni, una delle più frequentate, in contesti diversi ma con due caratteri comuni: è usata in genere da quelli che si sono presentati come iniziatori di un nuovo ciclo della storia nazionale; questo nuovo inizio si è espresso costantemente in una critica, talvolta in un rifiuto delle forme ordinarie della politica che a sua volta si è risolto generalmente in una discesa (o in una «salita»: bel colpo retorico anche questo) alla politica di tipo strettamente conservatore imperniato sui valori sopra citati (interesse generale, fine della destra e della sinistra, rifiuto del moderatismo ed elogio del radicalismo «centrista»: un ircocervo degno dei fratelli Grimm….).
Da questo punto di vista non c’è rottura fra Monti e il berlusconismo. Sul piano ideologico sono utilizzati gli stessi strumenti, con lo stesso obiettivo: mantenere al potere, con gli ammodernamenti indispensabili, le classi dirigenti tradizionali, senza toccare, non dico i rapporti proprietari, ma la condizione del lavoro e la «questione sociale», di cui non c’è mai alcuna traccia nelle allocuzioni di Monti. E impedire, soprattutto, che le forze del cambio arrivino al governo del Paese.
Quelli che mutano sono però i contenuti specifici di questa ideologia: per Berlusconi il richiamo alla società civile era un mezzo per risvegliare gli spiriti animali e gli istinti individualistici, spezzando ogni vincolo di carattere comunitario; nel caso di Monti sono presenti motivi del societarismo cattolico, resi evidenti dalla presenza nella sua lista di personalità come Riccardi e dall’aperto consenso dell’Osservatore romano. Ma l’obiettivo è chiaro, ed è stato ben esplicitato da Casini, dallo stesso Riccardi e anche dal lessico traditore, ma rivelatore del presidente del Consiglio quando ha invitato Bersani a «silenziare» Fassina e la Cgil. Del resto, per questo Monti è sceso in politica: per dare a questa operazione un respiro europeo e mettere in campo una leadership come la sua in grado di raccogliere un ampio arco di forze politiche e sociali, in grado di contrapporsi alle scelte strategiche che un forte e autonomo governo di centrosinistra sarebbe in grado di fare.
Dal suo punto di vista Monti ha ragione: in Italia è in corso una battaglia decisiva su chi guiderà il nostro Paese nei prossimi decenni. E in queste elezioni sono di fronte due schieramenti sociali, certo variamente articolati ma che tali restano, nonostante le tante chiacchiere sulla fine della destra e della sinistra.
Ma l’insistenza sulla società civile ha altri significati, di carattere propriamente ideologico. La battaglia che si sta svolgendo coinvolge, con quello politico, anche il piano dei valori, né è difficile immaginare le trombe che Monti e i suoi seguaci faranno suonare in campagna elettorale: Europa, modernità, sviluppo, credibilità del Paese e delle sue «nuove» classi dirigenti. E appunto primato della «società civile», con due obiettivi precisi: ribadire anzitutto che Pd è espressione di un vecchio mondo, di un’epoca finita insieme a Berlusconi e perciò incapace di «modernizzare» il Paese, come è invece possibile fare se si sceglie un leader capace di rivolgersi alle energie sane e vitali del Paese cioè alla società civile -, cancellando la «vecchia» politica. E poi legittimare e valorizzare, sia sul piano ideologico che elettorale, il confluire nella sua lista di importanti rappresentanti del mondo cattolico, reso a sua volta possibile da importanti elementi comuni: il netto rifiuto del concetto di classe, l’interesse per modelli «produttivistici» incentrati sulla collaborazione tra capitale e lavoro e, appunto, il «societarismo».
È giusto, ed è saggio, non alzare il livello della polemica, pensando alle scelte che potranno diventare necessarie dopo le elezioni. Ma al di là della scorza retorica, questa è la sostanza del discorso di Monti sulla «società civile», ed esso carica di responsabilità il centrosinistra e anche i cattolici che hanno scelto di stare da questa parte dello schieramento. Siamo a un passaggio decisivo, destinato a cambiare in un senso o nell’altro il volto dell’Italia, anche sul piano degli ideali e degli obiettivi comuni, condivisi. Perciò è necessario che il centrosinistra faccia sentire con energia la sua voce, e data l’entità e il carattere della posta in gioco, è indispensabile che esso proclami con forza la sua visione dell’Italia e del futuro in una parola: i suoi valori ultimi e penultimi, raccogliendo tutte le forze interessate al cambiamento -. Un cambiamento effettivo, non retorico, come troppe volte è accaduto nella nostra storia.

L’Unità 06.01.13

"Ilva in mezzo al guado. Lavoro e stipendi a rischio", di Marco Tedeschi

Il caso Ilva torna in mezzo al guado. Lavoro e stipendi sono a rischio. Adesso che la Procura ha detto no al dissequestro di coils e lamiere e quindi respinto l’istanza che gli avvocati dell’Ilva avevano presentato in base alla legge approvata dal Parlamento prima di Natale, la situazione del complesso siderurgico di Taranto si complica di nuovo e rischia di diventare di difficile soluzione, con la nascita di nuove tensioni. Il no dei pm, al quale farà presumibilmente seguito nei prossimi giorni anche quello del gip Patrizia Todisco, rimette in discussione un percorso che governo, azienda e sindacati ritenevano di aver stabilizzato. La legge, la numero 231 del 24 dicembre scorso pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale», stabilisce infatti che l’Ilva possa continuare la produzione per un periodo di 36 mesi il tempo fissato dall’Aia per la messa a norma della fabbrica e anche commercializzare i prodotti finiti realizzati prima del 3 dicembre scorso, giorno in cui è stato pubblicato il decreto n. 207 da cui è poi nata la legge n. 231. I magistrati, però, nelle settimane scorse hanno reimmesso l’Ilva nel possesso degli impianti dell’area a caldo, consentendo quindi alla fabbrica di produrre, mentre ieri hanno detto no al dissequestro di un milione e settecentomila tonnellate fra coils e lamiere il cui valore commerciale è di un miliardo di euro. Nessuna anomalia, rilevano fonti di Palazzo di Giustizia, fra quanto deciso per gli impianti e quanto invece deciso per i prodotti finiti e i semilavorati. L’ALLARME Già domani i sindacati chiederanno all’ Ilva un incontro per capire che intende fare ora che la Procura ha bloccato il dissequestro di semilavorati e prodotti finiti. «Con la legge commenta Franco Castronuovo della Fim Cisl pensavamo che si andasse verso un graduale sblocco dell’area a freddo del siderurgico, invece questa prospettiva resta ancora molto incerta». Crisi di mercato e stretta giudiziaria: l’area a freddo dell’Ilva, sottolinea il sindacato, sta attraversando un momento difficilissimo. «Esclusi i treni nastri 1 e 2 che stanno lavorando e nemmeno al massimo continua Castronuovo tutto il resto dell’area a freddo è praticamente fermo. Parliamo dei tubifici 1 e 2, del treno lamiere, della produzione lamiere, dei rivestimenti, dell’Erw dove si producono i tubi di piccolo diametro. In seria difficoltà anche la finitura nastri, dove c’è solo qualche attività. Parliamo di almeno 3mila persone coinvolte». Questi lavoratori, dicono i sindacati, sono inattivi da diverse settimane «e sono tra ferie residue e cassa integrazione ordinaria per crisi di mercato». Questa è stata attivata dall’Ilva, per un periodo di 13 settimane, a fronte della mancanza di ordini di lavoro. In seguito, a fine novembre, sull’area a freddo si sono scaricati anche gli effetti del sequestro di coils e lamiere «che hanno ulteriormente complicato la situazione. Per questo ultimo problema l’Ilva aveva chiesto la cassa integrazione in deroga, che però non è stata materialmente attivata in quanto l’azienda non ha presentato formale richiesta. Da quel che ci risulta, l’Ilva adesso dovrebbe rifare la richiesta di cassa in deroga. Vedremo, certo che la situazione è molto difficile». Circa il possibile slittamento degli stipendi, che dovrebbero essere pagati il 12 gennaio, i sindacati sono sensibili alle preoccupazioni che circolano nei reparti della fabbrica ma dicono che di ufficiale non c’è nulla. Anzi, l’azienda avrebbe garantito il pagamento forse con uno o due giorni di anticipo poichè il 12 gennaio cade di sabato. Il fatto che sino a questo momento si dica che non ci sono problemi per gli stipendi, non vuol dire che non ce ne possano essere e i lavoratori sono molto preoccupati. A dicembre proprio a causa della crisi di liquidità aggravata dal contemporaneo calo degli ordini e dal blocco delle merci, l’azienda del gruppo Riva ha pagato con quattro giorni di ritardo le tredicesime, corrisposte alla vigilia di Natale anzichè il 20 dicembre.

06.01.13

"Perchè Monti mi ha deluso", di Eugenio Scalfari

Scrissi domenica scorsa che esistono varie “agende” sulle quali confrontarsi e varie personalità che le hanno formulate e che concentreranno su di esse – cioè sugli obiettivi programmatici – le rispettive campagne elettorali per ottenere il consenso dei cittadini. Confrontai anche le due agende principali, quella di Mario Monti e quella di Bersani, cioè del Pd e dei suoi alleati. Monti ha detto venerdì scorso nella trasmissione “Otto e mezzo” che non accetterebbe mai di partecipare come ministro ad un governo del quale non condividesse il 98 per cento della linea politica.
I due programmi, il suo e quello di Bersani, nelle parti principali coincidono. Entrambi si dichiarano pronti a mantenere gli impegni presi con l´Europa per quanto riguarda il rigore dei conti pubblici, l´equità, la crescita economica. Questi impegni Monti li ha indicati fin dall´inizio ma non è riuscito a realizzarli tutti dovendo dare la priorità al rigore in poche settimane per evitare il crollo dell´economia italiana e il default del debito pubblico che incombevano nel novembre del 2011 quando fu chiamato dal Capo dello Stato alla guida del governo. Perciò di equità se ne è vista pochissima, di crescita non si è visto nulla, ma nell´agenda ci sono, sia in quella di Monti sia in quella di Bersani.
C´è anche in tutte e due una nuova e molto più incisiva legge sulla corruzione l´estensione altrettanto incisiva delle liberalizzazioni, una radicale revisione delle strutture burocratiche dello Stato a cominciare dalle Province e dalle Regioni. epoi c´è – più importante di tutto – un´ulteriore diminuzione della spesa corrente e delle evasioni fiscali per realizzare nuove risorse da destinare alla riduzione della pressione fiscale in favore dei lavoratori, delle imprese e delle famiglie nonché di un sistema moderno dello Stato sociale.
Infine entrambi i programmi, del centro e del centrosinistra, prevedono una migliore redistribuzione territoriale e sociale del reddito e un contributo efficace alla costruzione dello Stato federale europeo attraverso graduali cessioni di sovranità nazionale.
Esaminati questi due programmi si direbbe trattarsi del medesimo documento nelle sue linee fondamentali, tanto che dal canto mio scrissi che essi ben potevano esser chiamati “agenda Italia” per l´attuazione della quale un´alleanza pre o post elettorale tra il centro e il centrosinistra risultava opportuna data l´importanza ed anche la difficoltà di realizzare le finalità condivise.
Naturalmente permane una differenza tra i protagonisti, le forze politiche da essi guidate e i ceti sociali di riferimento.
Prima di passare all´esame di questi aspetti tutt´altro che trascurabili voglio però ricordare il messaggio con il quale la sera del 31 dicembre Giorgio Napolitano ha salutato gli italiani. È stato soprattutto un messaggio sociale. L´equità, i giovani, l´occupazione, il Mezzogiorno, l´Europa, il senso di responsabilità di ciascuno e di tutti, il rispetto dei diritti, il costo della cattiva politica, il rinnovamento della struttura burocratica: questo è stato il senso del messaggio. Vogliamo dire che esiste anche un´agenda Napolitano?
Sì, esiste. Non indica gli strumenti ma evoca un sentimento, un valore, un modo di pensare e di comportarsi. Costituisce la premessa essenziale dell´agenda Italia, lo spirito con il quale dovrà essere realizzata, la passione e la fedeltà alle due patrie delle quali siamo cittadini, la patria Italia e la patria Europa.
Chi andrà al Quirinale nel prossimo maggio erediterà un lascito di altissimo livello. Auguriamoci che il nuovo Parlamento sappia scegliere un successore capace di far propria quell´eredità. Non sarà una facile scelta.

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Mario Monti, in appena un anno, ha salvato l´Italia dal peggio in cui stava precipitando ed ha recuperato al Paese la credibilità internazionale che da tanti anni aveva perduto.
La nascita del suo governo fu dovuta a varie circostanze e a vari protagonisti che è opportuno ricordare. Anzitutto al voto con il quale la Camera dei deputati bocciando il rendiconto di bilancio mandò in minoranza il governo Berlusconi. Uscì da quel voto una nuova maggioranza formata dal Pd, dall´Udc e da Fini. Su questa svolta parlamentare, sull´aggravarsi della situazione economica, sulla totale caduta della credibilità del governo e sulla lettera di commissariamento indirizzata a Berlusconi dalla Banca centrale europea il Cavaliere dette le dimissioni e Napolitano, dopo averlo nominato senatore a vita, incaricò Monti di formare un nuovo governo.
In quel frangente il Partito democratico avrebbe potuto chiedere lo scioglimento delle Camere e nuove elezioni. Il Pdl era allo stato comatoso, il Terzo polo valeva al massimo il 6 per cento, Grillo ancora non esisteva o quasi. Il Pd avrebbe stravinto ma sciogliere il Parlamento in quelle condizioni avrebbe spalancato le porte all´assalto dei mercati e il debito italiano sarebbe stato preda d´una vera e propria macelleria speculativa. Prevalse il senso di responsabilità di Bersani e del gruppo dirigente del Partito democratico.
Mario Monti ha cominciato la sua campagna elettorale con molta aggressività. È normale per una forza politica nuova che si batte per vincere. Ma l´azione di governo di cui porta legittimamente il vanto fu resa possibile dal Pd e il ricordo di quest´antecedente rappresenta un´omissione ingenerosa da parte di chi, utilizzando quel disco verde, si mise e mise il Paese sulla giusta strada.

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Due domeniche fa pubblicammo su queste pagine una mia lunga conversazione con l´amico Mario Monti. Ci siamo conosciuti mezzo secolo fa, non era quindi un´intervista tra un giornalista e un capo di governo ma un incontro tra vecchi amici che resi pubblico senza preavvisarlo e me ne scusai a fatto compiuto. Del resto avevo riferito esattamente quanto ci eravamo detti e lui stesso lo riconobbe.
Sennonché a pochi giorni anzi a poche ore di distanza le sue scelte cambiarono: da uomo “super partes”, come lo stesso Presidente della Repubblica avrebbe gradito, è diventato uomo di parte inalberando un´agenda più che accettabile ma nelle parti qualificanti identica o analoga a quella del partito con il quale compete affermando quel suo programma come il solo capace di condurre l´emergenza al suo termine e prospettare nuovi orizzonti per il futuro.
Purtroppo Monti ha cominciato la campagna elettorale con la promessa di diminuire le imposte personali sui redditi minimi. Non mi pare abbia indicato la copertura di questa promessa ma soprattutto ha dimenticato che nel prossimo luglio scatterà l´aumento di un punto dell´Iva, un´imposta regressiva quant´altre mai che colpirà soprattutto i redditi dei più deboli. Se ci sarà spazio per diminuire le tasse è proprio dall´Iva che bisognerebbe cominciare.
Ma non è per questo “dettaglio” che il nuovo Monti mi ha deluso. Parlo in prima persona perché per un anno sono stato tra i suoi più motivati sostenitori. Mi ha deluso e mi preoccupa molto perché la sua azione avrà come risultato inevitabile quella di rendere ingovernabile il nuovo Parlamento gettando il Paese (e l´Europa) nel caos. Vi sembra un´affermazione azzardata? È facile spiegare che purtroppo non lo è affatto ed ecco la spiegazione.
1. Pensare che le liste di Monti superino tutte le altre è estremamente illusionistico. Nei sondaggi effettuati in questi giorni è all´ultimo posto. Se gli va bene supererà Grillo; se gli va benissimo supererà Berlusconi. Per superare il centrosinistra ci vorrebbe un miracolo. È vero che il Vaticano è con lui, ma non credo che basti.
2. È tuttavia possibile che al Senato nessun partito abbia la maggioranza. Gianluigi Pellegrino ha spiegato ieri la vergogna dell´attuale legge elettorale specialmente per il Senato.
3. Superare quest´eventualità in teoria non è difficile, basterebbe un´alleanza tra centrosinistra e centro, cioè tra uno schieramento che avrebbe la maggioranza assoluta alla Camera e un altro schieramento (il centro) che non ha la maggioranza al Senato ma può renderla possibile.
4. A quali condizioni? Monti e Casini l´hanno già detto: vogliono la presidenza del Consiglio, vogliono un governo che sia il loro governo anche nell´eventualità che il centrosinistra abbia raggiunto nel complesso un consenso doppio a quello da loro ottenuto. E gli elettori? E il popolo sovrano?
5. Risultato: o il Pd accetta di pagare il pedaggio ad un nuovo Ghino di Tacco o la legislatura diventerebbe ingovernabile con le conseguenze che ciò comporterebbe sui mercati e in Europa.
Ho più volte indicato a Monti l´esempio di Carlo Azeglio Ciampi che, dopo aver risollevato il Paese da una gravissima crisi economica ed aver modificato la legge elettorale, si ritirò dopo un anno di governo a vita privata e ritornò poi a dare il suo contributo al bene pubblico come ministro del Tesoro di Romano Prodi con il quale fece la più grande delle riforme del secolo portando l´Italia nella moneta comune europea. Ma potrei aggiungere l´esempio di Giuliano Amato che da presidente del Consiglio cedette d´accordo con il Presidente della Repubblica la sua carica a Ciampi dopo essersi assunto la responsabilità d´una manovra economica di proporzioni inusitate nonché la svalutazione necessaria della lira e poi, quando ne fu richiesto, fu di nuovo ministro dell´Interno, delle Riforme o tornò alla sua vita di studi e di cultura.
La classe politica ha i suoi gravi difetti ma anche qualche virtù.
C´è un ultimo punto che mi preme chiarire. Cambiamento, riforme, conservazione: questi secondo Monti sono gli spartiacque tra le forze politiche in campo. Detto così è molto vago. Riforme? Quali? Quelle che propone Monti le propone anche Bersani. Alcune sono state fatte e il Pd le ha votate in Parlamento.
Cambiamento. Quale? Robespierre cambiò la Costituzione ereditata dagli Stati generali dell´Ottantanove. Naturalmente cambiò a suo modo. Il Direttorio che venne dopo cambiò all´incontrario. Poi arrivò Napoleone e cambiò anche lui. Per dire: la storia cambia di continuo e procede a balzelloni, non c´è un disegno divino ma la forza dei fatti e delle idee. Renzi, tanto per fare un esempio, voleva un cambiamento nel suo partito e c´è riuscito anche se ha perso le primarie. Poi ha mantenuto la parola data, non come Ichino. A me, quando faceva il rottamatore, mi sembrò troppo semplicista e rozzo nel pensare e nel dire. Adesso m´è diventato simpatico perché anch´io cambio.
Anche tu, caro Mario, sei cambiato. Mi piaci molto per quello che hai fatto e che eri, mi preoccupi per quello che sei ora e riesci perfino a spaventarmi per quello che potresti fare se, non vincendo il piatto, lo vorrai comunque tutto per te.

La Repubblica 06.01.13

"Consultazione nazionale per salvare la scuola", di Benedetto Vertecchi

Nel considerare le proposte di politica scolastiche che incominciano ad essere formulate in vista delle prossime elezioni, conviene tener presenti quali siano stati gli aspetti che hanno caratterizzato l’azione dei governi della destra, e che sono stati in gran parte confermati dal governo dei tecnici. La politica scolastica della destra ha teso, nominalmente, a conferire maggiore efficienza al sistema dell’istruzione, a rendere più efficaci le decisioni a livello nazionale e locale, a ridurre i costi degli interventi attraverso il ridimensionamento della consistenza del servizio fornito dalle scuole pubbliche. È stato affermato il principio della parità delle condizioni d’intervento da parte delle scuole pubbliche e di quelle private, ponendo a disposizione di queste ultime risorse aggiuntive. Rispetto agli orientamenti prevalenti nel resto d’Europa (e, in genere, nei Paesi industrializzati), sono state compiute scelte in direzione contraria: in Italia è diminuito il tempo di funzionamento delle scuole (da distinguersi dalla durata delle lezioni), mentre altrove si è affermato un modello di scolarizzazione che organizza l’attività degli allievi dal mattino al pomeriggio avanzato e, talvolta, rende disponibili le dotazioni – edilizie e strumentali – anche di sera. In Italia, di fronte all’incalzare della crisi economica, si è ritenuto che il contenimento della spesa pubblica potesse essere ottenuto attraverso la riduzione delle spese per l’educazione, e (con un accostamento non privo di significato) per la sanità, mentre altrove si sono limitate o rinviate le spese in altri settori della vita pubblica, senza ridurre le risorse a disposizione delle scuole. Non si è proceduto sulla via dell’innovazione, che avrebbe richiesto una politica di sviluppo della ricerca, ma si è posta l’enfasi sulla modernizzazione strumentale (identificata con le apparecchiature digitali), trascurando gli interventi per la qualificazione del personale, iniziale e in servizio. L’assenza di un disegno innovativo ha trasformato le nuove strumentazioni in oggetti di consumo. Lo strumentario tecnologico è stato accreditato di una valenza per l’educazione senza che tale valenza potesse essere dimostrata con riferimento a dati obiettivi. La modernizzazione così interpretata ha prodotto un progressivo impoverimento delle scuole, dal punto di vista operativo, come da quello inventariale: le risorse per l’educazione non si accumulano più nel tempo, né dal punto di vista fisico (le dotazioni tecnologiche devono essere rinnovate in tempi sempre più brevi), né da quello della capacità di utilizzarle. Per di più, le scuole sono state spinte ad affermare un loro profilo ponendosi in concorrenza le une con le altre. In altre parole, sono stati utilizzati elementi di senso comune (come sono quelli dei benefici derivanti dalla modernizzazione tecnologica) per esibire una capacità educativa che si andava attenuando. Le nuove risorse finivano col cacciare quelle preesistenti, prevalentemente orientate a conciliate l’apprendimento teorico con la sua applicazione: si pensi al laboratori di scienze naturali, a quelli per la progettazione e realizzazione di oggetti, agli spazi specializzati, alle biblioteche e alla catalogazione del patrimonio librario, all’orticultura e al giardinaggio, alla musica corale e strumentale, alle attività teatrali e via elencando. Il governo che si formerà dopo le elezioni dovrà ristabilire un rapporto di fiducia e collaborazione fra la scuola e la società, perseguendo tramite la proposta di educazione traguardi di equità. In Francia, alcuni anni fa, per riallineare le sensibilità e le interpretazioni del compito educativo della scuola, fu promossa una grande consultazione nazionale, coordinata da un comitato che aveva la più ampia autonomia. Alla consultazione parteciparono milioni di persone (politici, sindacalisti, ricercatori, esponenti del sistema produttivo, dei lavoratori della scuola, delle famiglie, singoli cittadini interessati ai temi in discussione). In Italia, si potrebbero prevedere diversi livelli di consultazione, nei comuni, in territori con caratteristiche affini, in ambito regionale. La consultazione nazionale assumerebbe un carattere di sintesi, mentre quelle locali porrebbero in evidenza esigenze specifiche (edilizia, trasporti, servizi, andamento della domanda eccetera). Un cambiamento importante nell’orientamento della politica scolastica dovrebbe essere costituito nella modifica dell’ottica di analisi e di decisione: la Destra (e i tecnici) hanno considerato prioritari obiettivi che investono il breve periodo (l’esempio più significativo è rappresentato dalla proposta delle tre i (inglese, impresa, informatica) che costituì la bandiera degli interventi del ministro Moratti, perché orientata a favorire l’acquisizione di capacità immediatamente spendibili nel mondo del lavoro. Un orientamento progressista, culturalmente e socialmente più consapevole, nella politica scolastica dovrebbe invece tener conto prioritariamente del medio e lungo periodo, favorendo la crescita di apprendimenti che restino per tutta la vita o per un tratto consistente di essa. Questa scelta strategica consentirebbe anche di contrastare le tendenze regressive che negli ultimi decenni si stanno manifestando nei profili culturali delle popolazioni dei Paesi industrializzati, esposte per le condizioni prevalenti di vita e di lavoro a una progressiva erosione del repertorio simbolico alla base del loro profilo culturale.

L’Unità 05.01.13