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"La lezione di Rita, la scienziata che rifiutò la torre d’avorio", di Pietro Greco

Guardare sempre al futuro. E non chiudersi mai nella torre d’avorio, ma impegnarsi nella società, con un progetto politico preciso. Nel corso della sua lunga vita Rita Levi Montalcini ha regalato a noi tutti, ma soprattutto ai giovani ricercatori, molti insegnamenti. Ma sono questi i due lo sguardo rivolto al domani e l’impegno civile, sociale e politico per costruire un futuro desiderabile che, a una settimana dalla sua scomparsa, conviene ricordare. Dove il verbo convenire non indica un imperativo del politically correct, dettato dalla commozione per la sua morte, che pure c’è. Ma indica proprio un guadagno, per noi tutti e, in particolare, per i giovani ricercatori.
Rita Levi Montalcini è stata una scienziata che ha vissuto costantemente fuori dalla torre d’avorio, sia pure con quella elegante leggerezza che era frutto di un carattere umile e di un’educazione rigorosa. Si è impegnata non solo per la ricerca, per i giovani, per le donne, per i giovani e le donne dei Paesi in via di sviluppo, per la diffusione della cultura scientifica. Ma anche in battaglie politiche durissime, senza tentennamenti, anche quando è stata fatta oggetto di vergognose campagne di dileggio.
Questo suo vivere costantemente fuori dalla torre d’avorio, entro cui pure avrebbe potuto comodamente rifugiarsi, non l’ha distolta dalla sua attività di ricerca. La scienziata non è stata distratta dalla politica. Al contrario, la sua attività di ricerca è stata rafforzata dal suo impegno civile e sociale.
In ciò, Rita Levi Montalcini non rappresenta affatto un’eccezione. Anzi, è quasi una regola: tutti i grandi scienziati hanno avuto (e hanno) uno straordinario impegno nella società. Per questo il suo esempio rappresenta un autentico insegnamento per i giovani ricercatori. Non rinchiudetevi nei laboratori. Portate fuori le vostre capacità. Ne guadagnerà la società. E ne guadagnerà la scienza.
Gli esempi che corroborano queste affermazioni, in apparenza ardite, davvero non mancano. Tra i più significativi ci sono quelli di tre fra i più grandi uomini di scienza di ogni tempo: Albert Einstein, Galileo Galilei e Charles Darwin.
Il grande fisico tedesco ha sempre rifiutato di vivere nella torre d’avorio, anche quando – a partire dal 1919, anno della conferma empirica della sua teoria della relatività generale – divenne uno degli uomini più famosi del pianeta. Addirittura l’icona della scienza e il personaggio più rappresentativo del XX secolo. Ebbene in quei medesimi mesi Einstein era impegnato non solo nella ricerca di una teoria fisica ancora più generale, ma anche in un progetto politico piuttosto ambizioso: affermare la pace nel mondo. Proponendosi come un vero e proprio pacifista militante. Un attivo propagandista del disarmo. Guardato con sospetto dai servizi segreti di ogni parte del mondo: nella Germania che diverrà nazista, nell’America democratica che lo accoglierà, nell’Unione Sovietica comunista. E assurto a bandiera dei movimenti per la pace di tutto il mondo. Tuttora il testo scritto nel 1955 con Bertrand Russell – intriso di un umanesimo senza confini – è considerato «il» manifesto per il disarmo nucleare, capace di influenzare il pensiero e le azioni anche di uomini di governo al più alto livello, come ha riconosciuto Michail Gorbaciov.
Quanto ad ambizione non era da meno quello che si propose Galileo Galilei tra la fine del 1610 e l’inizio del 1611, all’indomani della pubblicazione del Sidereus Nuncius che, in pochi mesi, lo aveva reso l’uomo probabilmente più famoso d’Europa e appena dopo essere riuscito a costruirsi una comoda «torre d’avorio», facendosi nominare «primario filosofo e matematico» del granduca di Toscana, Cosimo II. Non esitò, Galileo, a uscire fuori da quella comoda e ben remunerata torre per portare a termine un progetto che, giustamente, Ludovico Geymonat ha definito «ardito»: convertire la Chiesa alla visione copernicana del mondo e, più in generale, sgombrare il campo dagli ostacoli che ponevano in rotta di collisione la fede con la «nuova scienza». Il mondo cattolico con la modernità. Galileo si è battuto per oltre trent’anni nel tentativo di portare a termine il suo «ardito progetto». Senza successo. Ma creando le premesse per un riconoscimento sempre più universale dell’autonomia della scienza.
Forse ancora più eclatante è la vicenda di Charles Darwin, come hanno di recente dimostrato due dei suoi più informati biografi, Adrian Desmond e James Moore, in un libro, La sacra causa di Darwin, da poco pubblicato in italiano presso l’editore Raffaello Cortina. Il naturalista inglese, nato il 12 febbraio 1809, lo stesso giorno in cui è venuto al mondo Abraham Lincoln, era un antischiavista convinto. Appartenente a una famiglia che aveva fatto della lotta alla schiavitù il proprio faro. Sia il nonno paterno, Erasmus Darwin, medico e poeta, sia il nonno materno, Josiah Wedgwood, esponente della nuova ed emergente classe degli industriali manifatturieri, erano infatti antischiavisti militanti. Ebbene, la sua «sacra causa», la lotta alla schiavitù, non solo non ha ostacolato la ricerca scientifica di Darwin, ma anzi è stata la leva che ha spinto l’inglese a cercare la cause dell’origine (comune) delle specie e a formulare la teoria dell’evoluzione biologica che taglia alla base ogni concetto di razza e di gerarchia tra le razze. Eccolo, dunque, il messaggio di Rita. Giovani ricercatori, non illudetevi di poter costruire le vostre carriere nel chiuso dei laboratori. Ma uscite fuori e costruite il vostro futuro. E il futuro di noi tutti.

L’Unità 06.01.13