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Monti al Pd: Silenziare la Sinistra. La risposta del segretario: «Rispetti il nostro partito», di Simone Collini

Ribadisco il rispetto ma chiedo il rispetto. Per tutto il Pd». A Pier Luigi Bersani non è per niente piaciuto il consiglio che dalle telecamere di Unomattina gli ha inviato Mario Monti, quello cioè di avere il coraggio di «tagliare le ali estreme», quello di «silenziare» Stefano Fassina. E la risposta che dà a distanza al presidente del Consiglio è questa. «Siamo un partito liberale che non chiuderà la bocca mai a nessuno, che troverà sempre una sintesi e credo che il coraggio che mi si chiede l’ho dimostrato. Il coraggio non è quello di chiudere la bocca alla gente, ma di lasciarla parlare, partecipare e trovare una sintesi. Questa è la mia idea». Nel commentare le uscite del premier con i suoi è anche più duro, ma in pubblico il leader del Pd prova a rispondere giocando sul tasto dell’ironia: «Tutti i difetti del Pd si scoprono oggi? Per un lungo anno non si sono visti?», col sorriso a mezza bocca. E l’occupazione degli spazi televisivi da parte del premier? «Non sto lì a bilanciare i minuti, non mi impressiona un minuto in più o in meno in televisione», risponde a chi gli rivolge la domanda quando esce dal ristorante in cui ha pranzato insieme a Matteo Renzi. «Io dico una cosa e ci credo aggiunge rivolgendosi a giornalisti e telecamere che davanti se volete togliermi dei minuti, dateli alla Siria. Ci sono 60mila morti e non se ne sta occupando nessuno. Cerchiamo di guardare un po’ fuori, di allargare lo sguardo».
Se Bersani evita di attaccare frontalmente Monti nonostante le «critiche ingiuste» che gli bruciano, nonostante l’attacco personale sferrato a uno come Fassina che ha dimostrato alle primarie del 30 dicembre di essere tra gli esponenti del Pd più apprezzati, è perché sa che non gli conviene. Per più motivi. Il primo: il Pd è stabilmente il partito che gode di maggiori consensi, quello che ha già la vittoria in tasca alla Camera e che comunque è il solo da cui non si può prescindere per governare l’Italia. Il secondo motivo riguarda il post voto: quale che sia il risultato elettorale, Bersani vuole proporre al fronte moderato di collaborare, in quella che dovrà essere una legislatura costituente e durante la quale il Paese dovrà affrontare sfide molto ardue.
GLI INTERESSI DEL PAESE
Il 2013 sarà un anno molto difficile per l’economia italiana, bisognerà approvare manovre dure, e nessuno può permettersi di andare avanti con la «sbornia dell’autosufficienza», è il ragionamento che Bersani fa con i suoi. «Posso capire la competizione, ma un canale di dialogo va lasciato aperto è il suo sfogo dopo aver saputo delle parole pronunciate da Monti e comunque se questo non verrà fatto da loro, io continuerò a muovermi su questa strada, non intendo chiudere a ogni possibilità di collaborazione».
Non sarà però facile mantenere questo profilo per i prossimi cinquanta giorni, se Monti dovesse continuare ad attaccare il Pd, il suo alleato nella coalizione progressista Nichi Vendola, un sindacato come la Cgil. Le risposte a brutto muso a Monti non tardano ad arrivare sia da parte del leader di Sel che da parte del segretario Susanna Camusso. «Chi ha deciso di candidarsi dovrebbe discutere dei suoi programmi invece di criticare gli altri, sembra invece che abbia poche proposte e molte critiche», dice il leader del sindacato di Corso d’Italia. «Il governo tecnico ha scelto l’inasprimento della tassazione sui lavoratori e sui pensionati, basti pensare a come ha utilizzato l’Iva o all’Imu. La disoccupazione cresce a livelli tali che c’è solo buio, non luce. Ci vorrebbe qualche coerenza tra le cose praticate e quelle che oggi si raccontano. Abbiamo sempre detto che non si esce dalla crisi se non si riparte dal lavoro. Bisogna selezionare un intervento pubblico per far ripartire il lavoro. Il welfare non è un costo da tagliare, ma come una risorsa che crea lavoro».
Molto duro è anche il commento di Vendola, per il quale in quanto a occupazione degli spazi televisivi «Monti è il virtuoso discepolo di Berlusconi» e sta dimostrando un atteggiamento «arrogante» che va respinto. «C’è qualcuno talmente in alto, di élite, di etnia speciale, che pensa che la democrazia sia un imbarazzante fardello nella corsa alla conquista del potere e che probabilmente fa fatica a capire quanto la democrazia sia davvero importante».

L’Unità 04.01.13

"Damiano: errori nelle riforme Fornero, le cambieremo", di Enrico Marro

Mandare in pensione con le vecchie regole tutti gli esodati, anche se fossero altri 260 mila oltre i 130 mila già tutelati. Ripristinare da subito l’indicizzazione ai prezzi delle pensioni superiori a tre volte il minimo. Garantire le attuali durate dell’indennità di mobilità (massimo 48 mesi) finché il Paese non sarà uscito dalla crisi. Cancellare l’articolo 8 della legge Sacconi che consente agli accordi aziendali di derogare alle norme anche in materia di licenziamento. Queste le intenzioni di Cesare Damiano, Pd, ex Fiom-Cgil ma della minoranza riformista, che da ministro del Lavoro del governo Prodi smontò nel 2007 la riforma delle pensioni Maroni, sostituendo lo “scalone” con le più morbide “quote”. Ora ha vinto le primarie a Torino e punta a tornare tra i protagonisti della prossima legislatura. Ma, pur censurando l’operato dell’attuale ministro Elsa Fornero, di cui è stato compagno di banco all’Istituto tecnico commerciale Luigi Einaudi di Torino, assicura: «Se torniamo al governo non butteremo le riforme Fornero nel cestino, ma le correggeremo perché contengono errori fondamentali».
Quali?
«L’abolizione delle pensioni d’anzianità e l’accorciamento della durata degli ammortizzatori sociali, decisi in una crisi economica grave e prolungata, ha prodotto una situazione strutturale in cui le persone finiscono per trovarsi senza lavoro e senza pensione, anche per 4-5 anni».
Gli esodati?
«Sì. Avevamo avvertito il governo, poi abbiamo dovuto rimediare in parte, ma se vinciamo le elezioni dobbiamo gradualmente fare in modo che nessuno resti senza reddito, consentendo a tutti, esodati, contributori volontari e le altre categorie interessate, di poter andare in pensione con le regole precedenti alla riforma Fornero».
Quanti sono oltre ai 130 mila cui questo è già stato concesso?
«L’Inps aveva stimato in 390 mila tutti i lavoratori interessati. In questo caso ne resterebbero 260 mila. Secondo altri sono meno. In ogni caso vanno tutelati».
Dove prenderete i soldi, se per salvaguardare 130 mila sono già stati stanziati 9 miliardi?
«I soldi li troveremo perché gli interventi saranno graduali».
Ma ce la farete, considerando che volete trovare risorse anche per ripristinare l’indicizzazione delle pensioni?
«Certo, il blocco della perequazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo è già previsto che salti nel 2014, ma se andremo al governo dovremo intervenire già per quest’anno, aprendo subito un tavolo di concertazione con i sindacati dei pensionati».
A parte queste modifiche l’impianto della riforma, cioè le nuove età pensionabili, resterà?
«Per ora posso dire che questa riforma ha bisogno di correzioni profonde, a partire dalla questione degli esodati».
E l’altra riforma Fornero, quella del mercato del lavoro?
«Sulla flessibilità in uscita, dico subito che la soluzione trovata sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (licenziamenti, ndr) va bene e che quindi sono contrario al referendum promosso da Sel mentre sono favorevole a cancellare l’articolo 8 introdotto da Sacconi. Sulla flessibilità in entrata bisogna convocare un tavolo imprese-sindacati per trovare soluzioni idonee a rilanciare le assunzioni. Sugli ammortizzatori sociali, invece, bisogna intervenire subito, garantendo la copertura dell’indennità di mobilità fino a quando la crisi non sarà finita».
Il premier Mario Monti dice che voi, riferendosi a Fassina e Vendola in particolare, volete conservare un mondo del lavoro cristallizzato e iperprotetto, impedendo la modernizzazione del Paese.
«Forse è Monti che è arroccato. Non si può andare avanti solo guardando ai mercati finanziari trascurando la realtà del mondo del lavoro».
Col Pd si candida anche Carlo Dell’Aringa, portatore di una linea vicina alla Cisl e alla Confindustria, che la Cgil non volle come ministro del Lavoro del governo Monti. Una Cgil che potrebbe condizionare un eventuale governo Pd. Come farete, in ogni caso, a conciliare Dell’Aringa con la Cgil e con Vendola?
«Quella di Dell’Aringa è un’ottima candidatura: una persona di competenza, di prestigio e di grande equilibrio. Siamo un partito plurale e faremo sintesi tra posizioni diverse. Quando alla Cgil, basta con le favole metropolitane: è finito il tempo della cinghia di trasmissione. Ormai c’è indipendenza, anche se non indifferenza. E comunque il Pd guarda all’insieme del sindacato».

Il Corriere della Sera 03.01.13

"Usa: per i poveri, andare all’università è una rovina", di Francesco Sylos Labini

Siamo costretti a tornare sull’argomento delle tasse universitarie per riprendere l’articolo del New York Times: “For Poor, Leap to College often Ends in a Hard Fall”. Da diverso tempo in Italia si moltiplicano le dichiarazioni di chi vuole aumentare le tasse universitarie alla cifra di 7mila o 10mila euro l’anno da un valore medio di circa 1400 euro/anno. Per supportare questa tesi si parte da una ipotetica “verità incontrovertibile”: in Italia i poveri pagano l’università ai ricchi, e l’unico modo per porre fine a tale “macroscopica e odiosa ingiustizia” è liberalizzare le tasse universitarie e introdurre prestiti d’onore proprio per permettere agli studenti di pagarle. Abbiamo già discusso la questione diverse volte, spiegando come non sia affatto vero che i poveri pagano l’università ai ricchi. Vogliamo dire di più: liberalizzare le tasse e introdurre prestiti d’onore non aiuta i meno abbienti, li penalizza. A questo proposito segnaliamo un lungo articolo del New York Times, secondo il quale negli Stati Uniti l’università non aiuta i meno abbienti né aumenta la mobilità sociale. Al contrario, tasse elevate e prestiti d’onore inibiscono la mobilità sociale e producono diseguaglianza. “I ricchi sono avvantaggiati e la diseguaglianza tra ricchi e poveri sta crescendo”, recita l’articolo.

L’articolo narra la storia di Angelica Gonzales, figlia di immigrati messicani, e delle sue amiche Bianca e Melissa, tutte lower class e low income, che quattro anni fa si sono iscritte rispettivamente a Emory, in un community college e alla Texas State University. “Sembrava come dovessimo spiccare il volo, da una vita all’altra”, dice Melissa. Quattro anni dopo, scrive il New York Times, “la loro storia sembra non tanto un tributo alla mobilità verso l’alto ma uno studio degli ostacoli che uno studente deve affrontare in un’epoca di crescente diseguaglianza economica. Nessuna di loro ha ottenuto una laurea in quattro anni”, spiega il giornale, piuttosto “una sola continua a studiare a tempo pieno e le altre due hanno debiti insostenibili. Angelica, che ha lasciato Emory con un debito di 60 mila dollari, fa l’impiegata in un negozio di mobili di Galveston. Tutte hanno […] dimostrato di eccellere. Ma il bisogno di guadagnare implica una serie di vincoli”.

Angelica, studentessa “straordinariamente brillante e dedicata”, è piena d’entusiasmo al momento dell’iscrizione a Emory, università in cui la retta normalmente costa circa 50 mila dollari l’anno. “Quante volte nella vita ti capita l’occasione di reinventarti completamente”, si chiede Angelica prima di iscriversi. Angelica ha ragione, scrive il New York Times: “solo il 30% degli studenti nell’ultimo quartile di reddito si iscrive a una laurea di quattro anni, e di questi se ne laureano meno della metà”. Eppure, quattro anni e mezzo dopo, Angelica e Melissa hanno 105 mila dollari di debito, mentre le loro famiglie hanno un reddito annuo rispettivamente di 35 e 27 mila dollari.

Di fatto, lungi dall’aiutare i cosiddetti “meritevoli ma privi di mezzi”, il prestito d’onore condiziona l’intera carriera universitaria, disincentivandola e ostacolandola. Oggi: “gli studenti che in terza media avevano risultati superiori alla media pur provenendo da famiglie con reddito più basso della media, arrivano alla laurea nel 26 per cento dei casi – una percentuale inferiore a quella dei laureati provenienti da famiglie abbienti con risultati peggiori. Trent’anni fa, c’era una differenza di 31 punti percentuali tra la quota di studenti ricchi e poveri che arrivavano alla laurea. Ora il divario è di 45 punti”, recita il New York Times. È uno degli esempi di quella che l’editorialista David Brooks, rifacendosi al lavoro dell’eminente politologo di Harvard Robert Putman, ha definito la “biforcazione” della società americana, quel processo di produzione di diseguaglianza che inizia precisamente nell’istruzione.

La storia di queste studenti, scrive il New York Times, è “la storia di qualcosa di più ampio”. Indica: “il ruolo crescente che l’istruzione gioca nel proteggere le divisioni di classe. […] L’istruzione, una forza pensata per erodere le barriere di classe, sembra oggi aumentarle”. “Tutti pensano all’istruzione come uno strumento di eguaglianza”, dice Greg J. Duncan, economista alla University of California, Irvine, “il luogo in cui inizia la mobilità sociale“. Ma quanto avviene è il contrario. “Pressoché tutti gli indicatori che abbiamo mostrano che il divario tra ricchi e poveri sta aumentando. È avvilente”.

Secondo Matthew M. Chingos della Brookings Institution, oggi la classe di appartenenza incide sul futuro dei singoli di più della razza di appartenenza, dato assai significativo in un paese che ancora porta le cicatrici dello schiavismo. “Gli studenti provenienti da famiglie a basso reddito finiscono l’università meno spesso dei coetanei ricchi, anche quando dimostrano abilità maggiori“. La cosa frustrante è che ”si tratta di studenti che hanno già dovuto superare ostacoli significativi per avere risultati al di sopra della media”, ha detto Chingos. ”Vedere che pochi sono messi in condizioni di arrivare alla laurea è davvero fastidioso”.

Insomma, più che essere una soluzione, liberalizzare le tasse e introdurre il prestito d’onore pare aumentare quella “macroscopica e odiosa ingiustizia” che sulla carta si vorrebbe prevenire. In particolare in Italia, c’è una sola soluzione per aumentare la mobilità e l’eguaglianza sociale a partire dall’università: sostenere le famiglie con reddito pari o inferiore ai 40,000 euro, aumentare la fasciazione delle aliquote, porre fine a quella anomalia tutta italiana che sono gli “idonei senza borsa”, e rifinanziare l’istruzione a partire dal diritto allo studio.

Questo articolo è coautorato da Francesca Coin e Francesco Sylos Labini

Il Fatto Quotidiano 03.01.13

Il Pd replica a Monti: «Scivola nella demagogia», di Simone Collini

Osservando le prime mosse del premier in vista del voto, però, risultano evidenti altri terreni che evocano le abitudini del predecessore. Il Presidente del Consiglio è intenzionato a giocarsi la partita di Palazzo Chigi puntando su un’offensiva mediatica che annebbia i confini tra la guida di un governo tecnico e la leadership di un’aggregazione politica che sarà presente con proprie liste nella contesa elettorale. Ieri Monti è stato ospite di Radio Anch’io, oggi tornerà a Unomattina, nei prossimi giorni si dedicherà ad altre trasmissioni radiotelevisive.

«Sta occupando tutti gli spazi ­ accusa Nichi Vendola ­ Non dice barzellette come Berlusconi, ma ha imparato benissimo cosa sia l’uso e l’abuso dei mass-media». Altro che «super partes», espressione che lo stesso Monti aveva messo in soffitta definendosi «extra partes» e rivendicando una missione oltre gli schieramenti e le bandiere politiche.

Quello del Quirinale, spiega, «non è mai stato» il suo «obiettivo», oggi, tra l’altro assai “meno probabile”. Il premier si colloca in una zona che va oltre formazioni politiche alquanto «vecchiotte», al di là di una distinzione tra destra e sinistra «che ha avuto un significato in passato e oggi lo ha molto meno». La differenza «fondamentale è tra chi vuole cambiare le cose», e chi nel Pdl ma anche nel Pd vorrebbe mantenere lo status quo.

«Vendola e Fassina vogliono conservare per nobili motivi e in buona fede un mondo del lavoro cristallizzato, iperprotetto rispetto ad altri paesi», attacca Monti, in diretta radio. Bersani lo esorta a dire da che parte sta? Il Professore non scioglie il rebus. «Io ­ afferma – sto per le riforme che rendano l’Italia più competitiva e creino più posti di lavoro». Anche sull’Europa ­ dove la «vecchia» distinzione tra destra e sinistra è tutt’altro che «superata» ­ l’europeista Monti risponde al leader Pd in modo evasivo.

«Dove mi siederò? Io sono conosciuto per ciò che ho fatto. Credo di avere un posto mio nell’opinione dei colleghi e dei leader». Ma à sulla riduzione della pressione fiscale che punta il premier. Monti tenta di scrollarsi di dosso l’handicap dei sacrifici impopolari che gli alienano le simpatie di molti italiani e promette di «ridurre la tassazione sul lavoro» nelle stesse ore in cui debuttano nuovi balzelli sulla scena: dalla Tares, alla Tobin, all’Ivie.
Tutto questo mentre annuncia «la luce alla fine del tunnel più vicina di prima». Tagliare di un punto la pressione fiscale nel 2013, quindi: «Ridurre la tassazione che grava su lavoro, sui lavoratori e sulle imprese” e abbattere “la spesa». «Gli italiani hanno bisogno di alleggerimenti nella situazione per le famiglie, soprattutto per quelle numerose, di un sistema sanitario che funzioni meglio e a costi minori, e di un sistema fiscale che consenta la redistribuzione del reddito dai più ricchi ai più poveri».

Il Professore promette equità e cerca di scrollarsi di dosso il vestito del tecnocrate e l’accusa di insensibilità sociale. Tenta di indossare un nuovo abito utile per invertire i sondaggi non entusiasmanti e farsi largo in campagna elettorale. E annuncia, così, meno tasse, più crescita e più occupazione. La «strana maggioranza» che lo ha sostenuto «ha permesso di superare una gravissima emergenza finanziaria e mettere a posto i conti pubblici», sottolinea. Ma adesso che «l’obiettivo è la crescita bisognerebbe coalizzare chi è disponibile per le riforme e non per la conservazione». Il disegno del Professore, in realtà, prefigura un nuovo bipolarismo che ­ come spiegano dalle parti del governo – «calamiti verso un centro moderno ed europeo l’elettorato deluso che si è identificato con Berlusconi».

Se i risultati elettorali non dovessero premiare subito questo approdo e dovessero imporre un rapporto – «non subalterno e paritario» – con il Pd, il seme (in ogni caso) «sarà stato gettato». Per raggiungere i suo porto Monti non può mettere la sordina all’appoggio esplicito del Vaticano. «Non so se sono stato benedetto ­ spiega – Ma per un impegno così difficile (quell’endorsement, ndr.) è importante come lo sono anche altri». E ancora, nei confronti di «alcuni esponenti del Pdl»: «Considero i valori etici fondamentalissimi. Detesto i partiti politici che li usano in modo goffo».

La commissione d’inchiesta ipotizzata dall’ex premier? «La trovo stravagante, ma ben venga…», sfida il Professore. Monti è in piena campagna elettorale. Al Senato la lista unica che farà capo a lui correrà sotto lo slogan «Con Monti per l’Italia». Per la Camera ancora incertezza sul «marchio», la decisione fino a ieri sera era congelata. «Oggi lo spread ha finalmente toccato i 287 punti» scrive il premier su twitter. Un modo per ricordare l’obiettivo raggiunto e per mettere le mani avanti di fronte alle critiche inevitabili sulle promesse elettorali illusorie come quelle del marinaio Berlusconi.

L’Unità 03.01.13

"Il grande deserto dei diritti", di Stefano Rodotà

Si può avere una agenda politica che ricacci sullo sfondo, o ignori del tutto, i diritti fondamentali? Dare una risposta a questa domanda richiede memoria del passato e considerazione dei programmi per il futuro. Ma bilanci e previsioni, in questo momento, mostrano un’Italia che ha perduto il filo dei diritti e, qui come altrove, è caduta prigioniera di una profonda regressione culturale e politica. Le conferme di una valutazione così pessimistica possono essere cercate nel disastro della cosiddetta Seconda Repubblica e nelle ambiguità dell’Agenda per eccellenza, quella che porta il nome di Mario Monti. Solo uno sguardo realistico può consentire una riflessione che prepari una nuova stagione dei diritti.
Vent’anni di Seconda Repubblica assomigliano a un vero deserto dei diritti (eccezion fatta per la legge sulla privacy, peraltro pesantemente maltrattata negli ultimi anni, e alla recentissima legge sui diritti dei figli nati fuori del matrimonio). Abbiamo assistito ad una serie di attentati alle libertà, testimoniati da leggi sciagurate come quelle sulla procreazione assistita, sull’immigrazione, sul proibizionismo in materia di droghe, e dal rifiuto di innovazioni modeste in materia di diritto di famiglia, di contrasto all’omofobia. La tutela dei diritti si è spostata fuori del campo della politica, ha trovato i suoi protagonisti nelle corti italiane e internazionali, che hanno smantellato le parti più odiose di quelle leggi grazie al riferimento alla Costituzione, che ha così confermato la sua vitalità, e a norme europee di cui troppo spesso si sottovaluta l’importanza.
La considerazione dei diritti permette di andare più a fondo nella valutazione comparata tra Seconda e Prima Repubblica, oggi rappresentata come luogo di totale inefficienza. Alcuni dati. Nel 1970 vengono approvate le leggi sull’ordinamento regionale, sul referendum, il divorzio, lo statuto dei lavoratori, sulla carcerazione preventiva. In un solo anno si realizza così una profonda innovazione istituzionale, sociale, culturale. E negli anni successivi verranno le leggi sul diritto del difensore di assistere all’interrogatorio dell’imputato e sulla concessione della libertà provvisoria, sulla delega per il nuovo codice di procedura penale, sull’ordinamento penitenziario; sul nuovo processo del lavoro, sui diritti delle lavoratrici madri, sulla parità tra donne e uomini nei luoghi di lavoro; sulla segretezza e la libertà delle comunicazioni; sulla riforma del diritto di famiglia e la fissazione a 18 anni della maggiore età; sulla disciplina dei suoli; sulla chiusura dei manicomi, l’interruzione della gravidanza, l’istituzione del servizio sanitario nazionale. La rivoluzione dei diritti attraversa tutti gli anni ’70, e ci consegna un’Italia più civile.
Non fu un miracolo, e tutto questo avvenne in un tempo in cui il percorso parlamentare delle leggi era ancor più accidentato di oggi. Ma la politica era forte e consapevole, attenta alla società e alla cultura, e dunque capace di non levare steccati, di sfuggire ai fondamentalismi. Esattamente l’opposto di quel che è avvenuto nell’ultimo ventennio, dove un bipolarismo sciagurato ha trasformato l’avversario in nemico, ha negato il negoziato come sale della democrazia, si è arresa ai fondamentalismi. È stata così costruita un’Italia profondamente incivile, razzista, omofoba, preda dell’illegalità, ostile all’altro, a qualsiasi altro. Questo è il lascito della Seconda Repubblica, sulle cui ragioni non si è riflettuto abbastanza.
Le proposte per il futuro, l’eterna chiacchiera su una “legislatura costituente” consentono di sperare che quel tempo sia finito? Divenuta riferimento obbligato, l’Agenda Monti può offrire un punto di partenza della discussione. Nelle sue venticinque pagine, i diritti compaiono quasi sempre in maniera indiretta,
nel bozzolo di una pervasiva dimensione economica, sì che gli stessi diritti fondamentali finiscono con l’apparire come una semplice variabile dipendente dell’economia. Si dirà che in tempi difficili questa è una via obbligata,
che solo il risanamento dei conti pubblici può fornire le risorse necessarie per l’attuazione dei diritti, e che comunque sono significative le parole dedicate all’istruzione e alla cultura, all’ambiente, alla corruzione, a un reddito di sostentamento minimo. Ma, prima di valutare le questioni specifiche, è il contesto a dover essere considerato.
In un documento che insiste assai sull’Europa, era lecito attendersi che la giusta attenzione per la necessità di procedere verso una vera Unione politica fosse accompagnata dalla sottolineatura esplicita che non si vuole costruire soltanto una più efficiente Europa dei mercati ma, insieme una più forte Europa dei diritti. Al Consiglio europeo di Colonia, nel giugno del 1999, si era detto che solo l’esplicito riconoscimento dei diritti avrebbe potuto dare all’Unione la piena legittimazione democratica, e per questo si imboccò la strada che avrebbe portato alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Questa ha oggi lo stesso valore giuridico dei trattati, sì che diviene una indebita amputazione del quadro istituzionale europeo la riduzione degli obblighi provenienti da Bruxelles a quelli soltanto che riguardano l’economia. Solo nei diritti i cittadini possono cogliere il “valore aggiunto” dell’Europa.
Inquieta, poi, l’accenno alle riforme della nostra Costituzione che sembra dare per scontato che la via da seguire possa esser quella che ha già portato alla manipolazione dell’articolo 41, acrobaticamente salvata dalla Corte costituzionale, e alla “dissoluzione in ambito privatistico” del diritto del lavoro grazie all’articolo 8 della manovra dell’agosto 2011. Ricordo quest’ultimo articolo perché si è proposto di abrogarlo con un referendum, unico modo per ritornare alla legalità costituzionale e non bieco disegno del terribile Vendola. Un’agenda che riguardi il lavoro, oggi, ha due necessari punti di riferimento: la legge sulla rappresentanza sindacale, essenziale strumento di democrazia; e il reddito minimo universale, considerato però nella dimensione dei diritti di cittadinanza. E i diritti sociali, la salute in primo luogo, non sono lussi, ma vincoli alla distribuzione delle risorse.
Colpisce il silenzio sui diritti civili. Si insiste sulla famiglia, ma non v’è parola sul divorzio breve e sulle unioni di fatto. Non si fa alcun accenno alle questioni della procreazione e del fine vita: una manifestazione di sobrietà, che annuncia un legislatore rispettoso dell’autodeterminazione delle persone, o piuttosto un’astuzia per non misurarsi con le cosiddette questioni “eticamente sensibili”, per le quali il ressemblement montiano rischia la subalternità alle linee della gerarchia vaticana, ribadite con sospetta durezza proprio in questi giorni? Si sfugge la questione dei beni comuni, per i quali si cade in un rivelatore lapsus istituzionale: si dice che, per i servizi pubblici locali, si rispetteranno “i paletti posti dalla sentenza della Corte costituzionale”, trascurando il fatto che quei paletti li hanno piantati ventisette milioni di italiani con il voto referendario del 2011.
Queste prime osservazioni non ci dicono soltanto che una agenda politica ambiziosa ha bisogno di orizzonti più larghi, di maggior respiro. Mostrano come un vero cambio di passo non possa venire da una politica ad una dimensione, quella dell’economia. Serve un ritorno alla politica “costituzionale”, quella che ha fondato le vere stagioni riformatrici.

La Repubblica 03.01.13

"Come aiutarci", di Gad Lerner

Dopo più di quattro anni di crisi ininterrotta, ciascuno di noi ha almeno un parente o un amico in difficoltà perché ha perso il lavoro; il traguardo della pensione appare distante; i figli restano a carico. Facciamo i conti con i problemi immediati del reddito venuto a mancare e col turbamento determinato da un inatteso cambiamento di status sociale. Senza contare i giovani, che ormai ci siamo abituati a sopportare precari per definizione. Come aiutarli, come aiutarci? Impossibile voltare le spalle: anche i fortunati hanno relazioni che li coinvolgono in un dramma fino a ieri vissuto privatamente, con vergogna; ma che ora s’impone dappertutto come esperienza da condividere.
Come aiutarli, come aiutarci? L’urgenza degli interrogativi pratici non trova certo risposta nelle futuribili riforme degli ammortizzatori sociali propagandate nelle agende della campagna elettorale: sussidio di disoccupazione, reddito minimo garantito (o di sopravvivenza)… per ora sono solo chiacchiere. Intanto che si fa?
Si calcolano i risparmi, la possibilità di sospendere il mutuo, quanto dureranno i soldi della liquidazione, ospitalità provvisorie, lavoretti-tampone, durata ulteriore delle spese universitarie, vendita di beni superflui. La società reagisce allo smottamento attivando spontanee reti di sostegno molecolare che naturalmente funzionano meglio là dove si erano distribuite in passato quote significative della ricchezza nazionale. Percepiamo di dover fronteggiare ancora a lungo una stagione di penuria. Quali che siano le previsioni “macro” degli esperti sulla crescita del Pil, vera e propria mitologica araba fenice, è la dimensione «micro» dell’economia che s’impone nella quotidianità delle persone.
Fin troppo facile sarebbe ironizzare sul distacco fra questo dato esistenziale e le diatribe interne della politica (o dell’antipolitica). Più rilevante a me pare indagare le contromisure già in atto, dettate dall’urgenza, nei reticoli di un organismo sociale disomogeneo e sofferente ma tutto sommato consapevole di dover fare da sé.
È chiaro che il compito prioritario della politica nel 2013 e negli anni a venire dovrà essere l’organizzazione di una risposta collettiva all’impoverimento causato dalla perdita del lavoro e dalle sofferenze che essa comporta. Anche in termini di lacerazioni familiari, oltre che di compressione dei consumi e sconvolgimento delle abitudini di vita. Il governo e la classe politica saranno chiamati a dedicarsi alla ricostruzione di uno spirito comunitario senza cui non c’è protezione sociale che tenga. Ma su quali energie vitali, su quale sensibilità civile potrà far leva la buona politica, per assolvere a un compito che si presenta immane in un’Italia che ha già visto l’85% delle famiglie tagliare i consumi e perderà altre centinaia di migliaia di posti di lavoro nei prossimi mesi?
Fu nel 1932 che Roosevelt si presentò alla società americana sconvolta dalla Grande Depressione cominciata tre anni prima come il leader intenzionato a «preoccuparsi dell’uomo dimenticato in fondo alla piramide economica», dichiarando la volontà di trasferire nella sfera politica l’impulso religioso della carità per porre fine all’«epoca dell’egoismo», dominata dai “sultani della proprietà”. Roosevelt denunciava la “mancanza di comprensione dei principi elementari della giustizia e dell’equità” di cui si erano macchiati i detentori di grandi ricchezze; da ribaltare – in un’epoca di scarsità permanente – sotto forma di nuovo spirito pubblico: l’America doveva stringersi intorno ai suoi poveri e riorganizzarsi come società solidale nel New Deal. I suoi toni e i suoi argomenti nell’Italia contemporanea sarebbero forse tacciati di estremismo anticapitalista, ma esercitarono dentro alla crisi, che pure si prolungò drammaticamente per tutto il decennio, un effetto culturale straordinario: legittimarono uno spirito di resistenza che si fondava dal basso sul senso di comunità; più precisamente su una galassia di comunità riunitesi intorno alla cura dei soggetti precipitati nell’indigenza.
Avvertiamo la mancanza di un tale impeto nel nostro discorso pubblico. Ma anche queste sono solo parole, suggestioni storiche. Meglio chiederci, allora, quali insegnamenti trarre dalle pratiche già in atto di auto-aiuto tra persone e famiglie in difficoltà. Per usare una parola antica e gloriosa del lessico cooperativo: restituiamo il valore che merita all’esperienza del mutuo soccorso.
È vero che, un secolo dopo, in una collettività come la nostra che ha mitizzato il lusso alla portata di tutti e trasformato i bisogni in desideri di consumo, la disperazione sociale può dare luogo a reazioni inconsulte. Ce lo confermano i pellegrinaggi nei centri commerciali divenuti luoghi di ritrovo anche per chi ha essiccato la sua carta di credito (o non l’ha mai posseduta). Giungono come avvertimenti sinistri i saccheggi perpetrati da bande di giovani dropouts nei negozi di elettronica per impossessarsi dei tablets e degli altri status symbol, a Londra come in Argentina. E domani, chissà, forse anche nella nostra penisola: non c’è solo l’Italia degli operai licenziati e dei precari del pubblico impiego; siamo anche il paese dei forconi, dei clan, delle corporazioni, degli allevatori e dei camionisti affiliati a un sindacalismo intrecciato con poteri opachi. La sistematica delegittimazione dei corpi intermedi della nostra società – dalle strutture democratiche dei partiti all’associazionismo solidale fino alle organizzazioni di base del lavoro dipendente – ha lasciato un vuoto di cui oggi avvertiamo i danni. A chi rivolgersi, nel momento della necessità?
Eppure l’aspirazione a una nuova socialità diffusa sta già esprimendosi, lontano dalla ribalta mediatica in cui predominano la politica e l’antipolitica. Intorno ai nostri amici e ai nostri parenti che hanno perso il lavoro si manifesta, con il bisogno, la pulsione spontanea a rigenerare comunità fra simili. Una nuova società più conviviale nella quale ritrovare il modo di aiutarci, la trasformazione delle sedi pubbliche mortificate dalla burocrazia in luoghi comunitari, non sono un’utopia ma una necessità vitale. Qui e ora, coinvolgendo le troppe energie rimaste a spasso. La politica potrà trarne insegnamento, ritrovare il senso della comune cittadinanza che nasce – nella penuria – dall’obbligo del mutuo soccorso.

La Repubblica 02.01.13

"Nuove indennità per chi perde lavoro", di Marco Ventimiglia

Fra le molte necessità dei cittadini per il nuovo anno, non figurava certo l’esigenza di prendere confidenza con un nuovo acronimo, Aspi, che sta per Assicurazione sociale per l’impiego. Eppure così è, ed anzi sarà bene abituarsi in fretta perché la materia su cui va ad incidere l’Aspi non è di quelle da prendere sottogamba, trattandosi di una nuova regolamentazione della cassa integrazione e della disoccupazione. Dal primo gennaio è dunque entrata in scena la nuova assicurazione per l’impiego, anche se la riforma avrà un’applicazione progressiva: infatti, per garantire la gradualità del cambiamento è previsto un periodo transitorio (2013-2016). E per capire gli effetti dell’Aspi è opportuno fare il punto sulla precedente regolamentazione. Fino al 31 dicembre 2012, il sistema degli ammortizzatori sociali prevedeva un anno di cassa integrazione ordinaria e un anno di «straordinaria». Quella straordinaria poteva poi essere estesa fino a tre anni. Ed ancora, la cig era riservata ad alcuni settori (essenzialmente l’industria escludendo il terziario come anche il trasporto aereo e marittimo) anche se poteva essere eccezionalmente estesa ad altri comparti ricorrendo alla cosiddetta cassa integrazione in deroga. Al termine della Cassa integrazione era poi prevista la mobilità che garantiva ai lavoratori un reddito di circa l’80% del salario con un tetto (oggi poco al di sotto di 1.200 euro). Ebbene, ora si cambia con un’estensione dell’ambito di applicazione della cassa integrazione e la progressiva cancellazione dell’indennità di mobilità e di quella per la disoccupazione, che verranno appunto sostituite dall’Aspi. In particolare, per quanto riguarda la cig l’ambito di applicazione da quest’anno è esteso in maniera definitiva: alle imprese commerciali con più di cinquanta dipendenti; alle agenzie di viaggio (compresi gli operatori turistici) con più di cinquanta dipendenti; imprese di vigilanza con più di quindici dipendenti; alle imprese del trasporto aereo a prescindere dal numero di dipendenti come alle aziende del sistema aeroportuale a prescindere dal numero di dipendenti. Riguardo all’ Aspi, è da notare che la durata di questo strumento di sostegno al reddito sarà un po’ più lunga rispetto all’indennità ordinaria di disoccupazione ma molto più breve rispetto alla mobilità: potrà infatti arrivare ad un massimo di 18 mesi contro un limite massimo di 48 mesi della vecchia mobilità. In relazione, poi, all’ età anagrafica, l’Aspi durerà non più di 12 mesi per i lavoratori con meno di 55 anni di età, che diventano 18 mesi se si superano i 55 anni di età. Con la riforma viene anche introdotto un ulteriore istituto di sostegno del reddito, denominato mini-Aspi.

LA MINI ASPI Quest’ultima sostituisce l’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti, condizionandola alla presenza e permanenza dello stato di disoccupazione. In particolare, la mini-Aspi può essere concessa in presenza di almeno 13 settimane di contribuzione di attività lavorativa negli ultimi dodici mesi, e consiste in un’indennità di pari importo dell’Aspi. Il nuovo regime degli ammortizzatori sociali è stato criticato anche ieri dalle forze sociali. Per la Cgil la riduzione significativa del periodo di sostegno al reddito rispetto al precedente regime della mobilità (per giovani e meno giovani, al Nord come al Sud), accompagnata dalla riforma sulle pensioni con l’allungamento dell’età pensionabile, produrrà una significativa difficoltà nella gestione delle crisi aziendali. «Ci saranno minori uscite volontarie di lavoratori anziani spiega il segretario confederale della Cgil, Elena Lattuada e questo a scapito dei più giovani, in quanto si applicheranno i criteri della legge 223/91 sui licenziamenti collettivi: anzianità di servizio e carichi familiari».

L’Unità 02.01.13