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“Allarme al Sud: 417mila minori in povertà e dispersione scolastica al 20 per cento”, di Valeria Chianese

Nelle regioni del Sud Italia è emergenza infanzia: 417mila minori in povertà assoluta su 720mila, spesa sociale e asili nido ai minimi nazionali, dispersione scolastica oltre i120%. Sono i dati sconcertanti che emergono dal rapporto “Fare comunità educante: la sfida di vincere” di Crescere al Sud, la rete di associazioni e organizzazioni attive nel Mezzogiorno promossa un anno fa da Save the Children e Fondazione con il Sud per avviare un approccio diverso in materia di welfare. Presentato ieri a Napoli, il dossier fotografa un’Italia che ha dimenticato bambini e adolescenti, non li tutela, non investe su di loro e sul loro futuro, che è poi il futuro del Paese. «Di fronte al fatto che i bambini nati al Sud sono sempre più ai margini ed esposti da subito al disagio è indispensabile un’inversione di rotta ha speigato Claudio Tesauro, presidente di Save the Children Italia -. I servizi per l’infanzia e l’adolescenza sono uno strumento imprescindibile anche in tempo di crisi e a maggior ragione dove questa colpisce di più. La spesa pubblica, soprattutto se destinata ai minori non è un costo, ma un investimento fondamentale che paga in termini di tutela dei diritti e in un’ottica di razionalizzazione e risparmio per il futuro». Al Sud, tra il 2010 e il 2011, le famiglie povere con minori sono aumentate del 2% mentre è diminuita la spesa sociale comunale: 61 euro in media nelle principali regioni meridionali, ma sono 25 euro in Calabria, contro i 282 dell’Emilia-Romagna e i 262 del Veneto. Povertà e disagio economico colpiscono chi è più fragile, come le mamme con meno di 20 anni (3,38% a Napoli contro lo 0,97% di Milano). A ostacoli il percorso educativo: in Sicilia, Calabria, Campania e Puglia solo 5 bambini su 100, da O a 2 anni, sono presi in carico negli asili nido pubblici o nei servizi integrati, contro i 27 dell’Umbria e i 29 dell’Emilia-Romagna. Il tempo pieno a scuola supera di poco il 7% in Sicilia e in Campania contro la media nazionale del 29% mentre l’abbandono scolastico precoce in queste regioni riguarda un adolescente su 5 e spesso è connesso allo sfruttamento nel lavoro. All’esterno della scuola ci sono i veleni della criminalità organizzata (681.942 i minori residenti in comuni sciolti per mafia al Sud) e quelli delle aree inquinate da impianti industriali e discariche fuori controllo (840mila solo in Campania e Puglia). Tra le proposte presentate a Governo ed enti locali, spicca l’invito a prevedere l’impiego specifico e definito in favore di bambini e adolescenti dei nuovi fondi europei 2014-2020 e a puntare allo scorporo dal patto di stabilità della spesa per infanzia e famiglie con minori.
da Avvenire 12.12.12

“La nuova stagione”, di Pietro Spataro

Il nostro Bobo ha colto lo spirito del tempo con un giorno di anticipo. Lo ha fatto con la consueta pungente ironia: «Voi che fate per queste feste?», chiede una coppia sullo sfondo di una città illuminata per Natale. E lui, quasi con orgoglio: «Noi del Pd, le primarie». La vignetta di Sergio Staino è apparsa su questa pagina martedì. E ieri il Pd ha dato il via libera alle primarie per la scelta dei parlamentari, proprio nei giorni delle feste.
Sarà un’altra prova di democrazia che sicuramente sottopone a uno sforzo enorme quei centomila volontari che si sono già sobbarcati, solo qualche giorno fa, i due turni del voto per decidere il candidato premier. E che allo stesso modo chiede a quei tre milioni che sono andati ai gazebo di trovare il tempo e l’impegno per neutralizzare uno degli effetti perversi del Porcellum che il Pdl non ha voluto cancellare: i parlamentari nominati. In questo modo Bersani, insieme con Vendola che ha compiuto la stessa scelta, conferma la sua linea di massima apertura, mantiene spalancata la porta del Pd. Una connessione attiva con l’elettorato, infatti, può dare la forza necessaria – popolare e di massa – a un partito che ha l’ambizione di portare il Paese fuori dalle secche in cui lo ha cacciato il ventennio del populismo. Non sarà un’impresa facile, bisogna esserne consapevoli. Anzi, sarà un’impresa piena di ostacoli, forse anche di trappole. Però il centrosinistra può affrontare questa sfida, e combattere per vincerla, solo se riesce a interpretare un nuovo spirito nazionale e a dare respiro a una comunità di donne e di uomini che sentono che il Paese ha bisogno di prendere finalmente un altro cammino. È questa in fondo, nel legame tra democrazia e uguaglianza, la vera partita che si è aperta in Italia e in Europa.
La nuova stagione che è cominciata domenica 25 novembre, il primo giorno delle primarie, ha quindi un segno di novità che va oltre i confini di una forza politica o di una coalizione e persino dei suoi leader. Si è aperto un sentiero che può condurre, infatti, a un’idea diversa della politica e della democrazia.
Un’idea alternativa a quella interpretata non solo dal «ghe pensi mi» di Silvio Berlusconi, ma anche agli istinti leaderistici che spingono in queste ore poteri più o meno forti a presentarsi come i giustizieri della casta (secondo l’adagio del sono tutti uguali, tutti rubano alla stessa maniera) dopo aver puntellato a lungo l’edificio di una destra aggressiva e a tratti sovversiva. È il modello che ha permeato di sé la Seconda Repubblica che oggi mostra le sue crepe vistose e va archiviato al più presto: l’io invece che il noi, l’uomo solo al comando invece che un leader espressione di un popolo e dei suoi valori.
Basta guardarsi attorno, proprio in questi giorni così convulsi, per misurare la distanza che separa queste due concezioni della politica. C’è un partito, tenuto in pugno per venti anni dallo stesso capo in modo padronale che non riesce a trovare il coraggio – e gli uomini che lo abbiano quel coraggio – per archiviare una fase e il leader che l’ha guidata. Berlusconi ha deciso quattro o cinque volte di ricandidarsi e poi di scandidarsi per candidare altri al suo posto, ha aspettato che il segretario (tra l’altro nominato da lui) convocasse le primarie per poi cancellarle con la velocità di una dichiarazione. Insomma, quasi un caso di decadente monarchia assoluta che forse un intrigo di palazzo (o di palazzi, visto il discredito che si è conquistato in giro per il mondo) può buttar giù.
Ma poi, se si volge lo sguardo più in là, appare l’altro prodotto del ventennio: un movimento «nuovo», guidato da un comico e da un mago del web, che con le sue promesse dissacratorie rischia di imbrogliare tante brave persone che cercano un’altra politica. E lo fa usando una specie di versione 2.0 del vecchio partito totalitario. Con il contorno di condanne, epurazioni, espulsioni e autodenunce pubbliche e il grido liberatorio «fuori dalle palle».
Il faticoso tentativo di Bersani va in un’altra direzione. Certo, non saranno tutte rose e fiori, perché quando si fa entrare aria nuova c’è sempre qualcuno che ha paura di prendersi il raffreddore e corre a chiudere porte e finestre. Oppure c’è chi perde di vista la luna per concentrarsi sul dito. E quindi mettiamo nel conto qualche resistenza e qualche nuova polemica sulle procedure, sulle date e sulle regole. Va bene così, ogni cambiamento non è un pranzo di gala. Ma cerchiamo di guardare avanti e di vedere la storia nella sua interezza: la strada imboccata dal Pd, da Sel e dal centrosinistra è una sfida difficilissima, ma bella e possibile. Se si vince, la democrazia può tornare a essere il luogo dove s’incontrano governanti e governati, senza bisogno di uomini della provvidenza. E la politica può riacquistare il suo significato: la passione unitaria per il bene comune e non la cura degli interessi privati.
L’Unità 13.12.12

“Il laboratorio di Bersani”, di Curzio Maltese

La scelta di Bersani di fare le primarie anche per i candidati del Pd al Parlamento, subito imitata da Vendola e Sel, è la più onesta e la più intelligente che si potesse compiere. La scelta di Bersani è segno che le due cose insieme sono possibili perfino nella politica italiana. La più onesta, perché restituisce agli elettori, almeno a quelli del centrosinistra, la facoltà costituzionale di scegliersi i propri rappresentanti. Un diritto ormai da anni sequestrato dalle segreterie dei partiti, grazie alla vergognosa barricata eretta dalla destra intorno al Porcellum. La più intelligente, perché segnala a tutti gli elettori, non soltanto al popolo di sinistra, qual è oggi l´unica parte interessata a riformare la politica, nei fatti e non nei proclami.
Se tutto sarà concepito con la massima trasparenza, come vogliamo pensare, si tratterà di una rivoluzione in potenza più esplosiva delle primarie per la guida del centrosinistra appena celebrate. In pratica, il 29 e 30 dicembre si decreterà la vera fine della seconda repubblica e del modello che l´ha contraddistinta, il partito padronale. Inventato a suo tempo da Bettino Craxi sulle ceneri della tradizione socialista, perfezionato e incarnato da Silvio Berlusconi per un ventennio, imitato poi a destra e a sinistra, il partito padronale è stato la principale causa del livello di corruzione, trasformismo, incompetenza e discredito interno e internazionale cui è giunta la politica italiana, inedito finanche per il paese delle eterne tangentopoli. Il padrone, alla fine, si sceglie sempre una corte di servi. E i servi alla lunga o sono sciocchi o sono traditori o sono ladri. Oppure tutte e tre le cose insieme, come testimoniano molti degli scandali della seconda repubblica. La selezione del personale politico funziona inevitabilmente al peggio. I competenti, gli onesti, le persone coerenti e quindi anche capaci di dissenso, dignità e critica, sono sistematicamente fatti fuori dai cortigiani. È accaduto negli anni all´azienda-partito di Berlusconi, con l´aggravante del conflitto d´interessi del principale. Ma il meccanismo si è ripetuto in tutti gli altri partiti padronali, dalla Lega Nord di Umberto Bossi all´Idv di Antonio Di Pietro. Con storie di ruberie e tradimenti fra il losco e il grottesco, che ricordano l´immortale satira di Johnatan Swift, Istruzioni per la servitù. Una lettura da consigliare all´ultimo Beppe Grillo, passato in un attimo dalla grande comicità all´umorismo involontario del «chi dice che non sono democratico se ne va fuori dalle palle».
Non per caso, la struttura del partito governato da un “caudillo” con diritti assoluti sui seguaci è sconosciuto nelle democrazie classiche, ma tipico di finte democrazie dell´Est europeo, del Sudamerica e dell´Africa. Con la decisione del Pd e di Sel non soltanto si riporta il nostro sistema nell´alveo occidentale, ma si traccia una via d´uscita per la crisi delle democrazie europee. Come del resto è già successo per le primarie chiamate a eleggere il candidato premier. A condizione naturalmente che si tratti di un voto vero, aperto, pulito. Primarie vere, svolte nel territorio, con i cittadini. Non giochini di apparato e tantomeno trucchi virtuali spacciati per democrazia online e in realtà facilmente manipolabili da chi detiene il marchio di fabbrica, come le recenti “parlamentarie” del Movimento 5 Stelle, una nuova pagliacciata della quale la lunga tradizione della nostra politica in questa materia non aveva sinceramente bisogno.
Sarebbe un´ottima cosa per la famosa immagine dell´Italia nel mondo, e perfino per l´altrettanto celebre spread, se il nostro paese, dopo essere stato per due decenni il teatrino di pupi che è stato, tornasse a essere come in epoche più gloriose, un vero e interessante laboratorio politico.
La Repubblica 13.12.12

“Uscire dalla crisi con più lavoro alle donne”, di Titti Di Salvo*

C’è un filo doppio che tiene insieme l’assemblea di giugno, i semintari di questi tre giorni, le assemblee territoriali che faremo e la prossima Assemblea nazionale:la convinzione che il lavoro produttivo e riproduttivo delle donne crei valore per tutti e che dunque per uscire dalla crisi l’Italia e l’Europa debbano investire sul lavoro delle donne. Per farlo non serve un capitolo di una relazione, il comma di un decreto, la citazione in un discorso politico. Serve un approccio differenti alla crisi e l’analisi delle cause strutturali che l’hanno determinata senza la quale è impossibile definire le scelte giuste per superarla. E una delle cause principali è l’emarginazione delle donne dal lavoro, dal discorso pubblico, dalle classi dirigenti. Lo dice la Banca d’Italia, l’Ocse, le statistiche. L’Italia dell’86° posto nel Gender Gap, della disoccupazione giovanile e femminile che sfiora il 50 per cento al Sud, delle 800.000 donne che lasciano il lavoro per le dimissioni in bianco, del Parlamento maschile con meno del 20 per cento di parlamentari, della maternità che può diventare un evento da nascondere per non essere licenziata. Questa Italia non saprà e potrà uscire dalla crisi verso un Paese migliore. Eppure Banca d’Italia ha quantificato nel 7% l’aumento del Pil se l’occupazione femminile raggiungesse il 60%. D’altra parte esiste un rapporto quantificabile tra il lavoro delle donne e l’esistenza qualitativa e quantitativa dei servizi. E in Italia una donna su quattro lascia il lavoro alla nascita del primo figlio. «Il dilemma italiano» cosi l’Ocse definisce la tenaglia tra lavoro e cura delle donne certo si fonda anche su stereotipi culturali. Quelli che la ricerca presentata qualche giorno fa dall’associazione Arel sugli scenari socioculturali indica in aumento: dall’importanza differente di un buon lavoro per un uomo e una donna, all’effetto negativo del lavoro della madre sull’educazione dei figli. Perché la crisi alimenta la paura e il pregiudizio. Di nuovo quindi il diritto al lavoro e la libertà delle donne devono essere il centro di una battaglia politica e sindacale di cambiamento. Noi, donne della Cgil, intendiamo contribuire a creare questo nuovo senso comune, una nuova Italia, una nuova Europa. Portando in quella ricostruzione del Paese l’idea del valore del lavoro delle donne, della fertilità della cura, della funzione di motore per sviluppo del welfare, della conversione ecologica dell’economia. Idee che oggi non hanno la forza di proporsi come centro di un nuovo modello sociale e economico. Per tante ragioni. Perché la solitudine del lavoro è un dato reale; perché sono idee che oggi non hanno rappresentanza politica; perché il movimento delle donne anche nei momenti di maggiore forza si è esercitato con più efficacia su temi importanti, quelli della libertà e della dignità, della rappresentazione del corpo delle donne, della violenza, della rappresentanza. Più in ombra è rimasto e rimane il rapporto tra il diritto al lavoro delle donne, il loro cambiamento e il cambiamento di un intero ordine sociale e economico. Noi donne della Cgil ci proviamo a tessere quel filo. Immaginiamo l’Europa sociale e un Manifesto dei diritti sociali, del lavoro e delle libertà delle donne perché sappiamo che la crisi colpisce soprattutto le donne in tutta Europa; proponim) di consolidare e cambiare il welfare italiano, né costo né lusso, ma scelta necessaria per la crescita; vogliamo svelare il luogo comune sul carattere lavorista ed escludente dello stato sociale italiano e mostrare la realtà del welfare sempre più assicurativo e non solidale che concede poco a chi ha un rapporto di lavoro subordinati) e molto poco a chi non ce l’ha; vogliamo qualificare la contrattazione e cambiare l’organizzazione del lavoro rigida, maschile, nella quale si confonde qualità e competenza con rispetto delle gerarchie e soggezione; pensiamo che il principale cambiamento delle classi dirigenti tutte nel Paese sia rappresentata dalla democrazia paritaria. In tempi di crisi, come quelli che stiamo vivendo, si tratta di un ambizione non semplice da realizzare, ma segna una direzione di marcia e ci serve da metro di misura per valutare la realtà e orientare le nostre scelte contrattuali.
* CGIL – Ufficio Politiche di Genere
L’Unità 13.12.12

“I due nodi al tavolo del vertice Ue”, di Enzo Bettiza

Gli eventi di maggiore impatto europeo, tra cui la confusione politica in Italia e l’accelerato distacco dell’Inghilterra dalla comunità continentale, conferiscono un peso alquanto secondario ai temi di protocollo pur importanti che il vertice dei ventisette capi di Stato e di governo dovrebbe esaminare e discutere tra oggi e domani a Bruxelles. Sarà questo l’ultimo vertice, preceduto da nervosissime riunioni istituzionali e parlamentari, di un anno disagevole che l’Unione Europea chiude ora in un’atmosfera di cupe inquietudini e allarmanti incertezze su tutto.Sul proprio futuro, la propria identità, la propria integrazione o federalizzazione onirica.
Una fine d’anno per niente allegra che, per tanti aspetti, fa pensare quasi al tramonto di una lunga epoca creativa. Come se la sopravvivenza stessa dell’Europa, unitaria e indissolubile, fosse venuta ormai a noia alle più vecchie nazioni fondatrici che ne favorirono in altri tempi vitali la nascita.
Non dominerà più la scena il disastro greco, avviato, così sembra, a una faticosa soluzione con prestiti finanziari a rate garantiti dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca di Francoforte. Non dominerà neppure la questione centrale, punto uno del dibattito, quella della creazione per l’Eurozona di una unione bancaria che dovrebbe, in effetti, trasferire il controllo nazionale delle banche deboli alla supervisione delle autorità di Bruxelles: tema controverso e spinoso, che comporta una cessione di sovranità, e che si è quindi deciso di rimandare a un probabile summit di febbraio. Tipica contraddizione, questa, dei grandi incontri comunitari che spesso si organizzano, con perdita di tempo e danaro, per rinviare un problema anziché per risolverlo.
Ma veniamo al concreto. Di fatto il vertice reale, accanto a quello protocollare, continuerà a spezzettarsi per quarantott’ore nelle confidenze di corridoio e nei discreti contatti bilaterali. E’ nell’intimità diplomatica delle cene da separé che, evitato lo scoglio greco e congelato per il momento il deficit spagnolo, i principali protagonisti del vertice, tedeschi e francesi, affronteranno i due più grossi «incidenti» che oggi minacciano coesione e tenuta internazionale dell’Unione: la deriva politica dell’Italia e la contestazione euroscettica e antiburocratica della Gran Bretagna.
Le dimissioni di Mario Monti, causate e accompagnate dalla spavalda ricomparsa sul proscenio italiano di un Berlusconi populista, antieuropeo, antitedesco, con forti tinte lepeniste, aprono indubbiamente un buco oscuro e contagioso nell’Occidente comunitario. L’Italia, che neppure le energiche terapie di Monti sono riuscite a sospingere oltre la linea del grande debito e della paralizzante stasi di sviluppo, appare tuttora, nel giudizio dell’austera Germania merkeliana e dei soci filotedeschi, un Paese economicamente vulnerabile e politicamente instabile. Monti però, sul piano etico e direi quasi estetico, ha saputo dissolvere con la sua azione e il suo stile sobrio l’incantesimo negativo ereditato da un passato più che mai dubbio e inquietante agli occhi del mondo. Per un anno il governo Monti ha presentato al mondo un primo ministro operativo e calmo, con ministri altrettanto calmi e operativi; niente insulti, scandali, promesse impossibili, giochi d’azzardo o di capricciosa fantasia con il bene pubblico.
Una simile metamorfosi di stile e di comportamento, dopo la mazurka berlusconiana, non poteva non impressionare gli interlocutori di Monti. Il premier è stato per esempio capace d’instaurare con la cancelliera Merkel un rapporto di stima e fiducia reciproca, al contrario di Belusconi che ieri la dileggiava dietro le spalle e oggi la attacca brutalmente di fronte. Lo stile nuovo si è tramutato in un patrimonio politico per Monti sul piano personale, e per gli italiani sul piano nazionale; purtroppo, tale patrimonio almeno per ora è andato perduto con le dimissioni del premier «tecnico» prediletto dal Quirinale. La scena italiana riappare di nuovo simile a una voragine incerta, riempita dal frastuono delle scimmie urlatrici.
I maggiori capi di governo, i dirigenti ed esponenti dell’Unione Europea, i grandi giornali occidentali, non solo tedeschi, che rischiano di rafforzare il «nemico populista» schernendolo esageratamente, non sanno comunque ciò che potrà succedere in un’Italia sbandata dopo le elezioni di febbraio. Non sanno e, spaventati, si dolgono di non saperlo giacché l’Italia, nonostante tutte le magagne, resta una insostituibile componente storica europea troppo vasta e troppo importante: impensabile poterla isolare, o perderla addirittura, a causa della sua proteiforme altalena tra un montismo che non è affatto morto e un berlusconismo che è ancor sempre vivo. Per fortuna, nella stessa Berlino, dove taluni ministri prendono forse troppo sul serio il «pericolo Berlusconi», si stanno levando voci inclini alla saggezza. E’ la saggezza che sembra già consigliare alla Merkel una posizione d’attesa intelligente nei confronti dell’eredità montiana, che domani potrebbe chiamarsi «agenda» o «lista» o, semplicemente, «esecutivo Monti».
Per quanto concerne l’Inghilterra, le riflessioni e le discussioni che nel merito non mancheranno ai margini del vertice di Bruxelles, o fors’anche in seno allo stesso vertice, saranno indubbiamente sottili e prudenti. La permanenza o l’uscita dei britannici dall’Unione presenta incognite pericolose per Londra quanto spiacevoli per l’Europa nel suo insieme. La Germania se ne preoccupa, la Francia un po’ meno.
Gli amletici governanti inglesi vorrebbero e non vorrebbero compiere il gran passo all’indietro. David Cameron preferisce per adesso i passetti allusivi. Non è andato a Oslo alle celebrazioni del Nobel per la pace conferito all’Europa. Ha inviato in Norvegia a rappresentarlo il suo vice Nick Clegg, il quale, sedicente europeista, se l’è cavata con parole scarse però estremamente ambigue: «Questo è un premio per le genti d’Europa, non per un’istituzione». Nello stesso momento Cameron, partecipando a Londra ad un pranzo offertogli dai giornalisti, brindava col calice alzato: «Vi ringrazio per avermi dato, con questa piccola baldoria, la scusa di non andare a Oslo». E’ noto, fra l’altro, che Cameron ha già chiesto alla Commissione di Bruxelles di ridurre il contributo inglese al bilancio dell’Ue per il settennio 2014-2020.
Intanto la maggioranza del Parlamento, del partito conservatore, del partito laburista, tutti incalzati dall’eurocinismo dell’Ukip (United Kingdom Independence Party) premono per il referendum che, con la crisi che logora i Paesi dell’euro, oggi sfocerebbe senz’altro in una vittoria popolare del no all’Europa. Al «no» secco fa da riscontro simultaneo un «ni» equivoco: restare sì nell’Europa del libero mercato e libero scambio, ma rifiutare le regole e i canoni restrittivi di Bruxelles. L’«Economist», che realisticamente scrive che la fuoriuscita ridurrebbe il prestigio e il volume d’affari del Regno Unito nel mondo, ribatte con il solito distacco ironico: «Restare, non accettando regole, equivarrebbe a mangiare in un ristorante senza pagare il coperto».
Ma sono tanti ormai nell’Europa dei 27, saranno 28 con l’ingresso della Croazia in luglio, quelli che vorrebbero mangiare di frodo al pur sempre ricco piatto europeo «senza pagare il coperto». Vedremo nelle prossime ore che cosa pensano in proposito i convitati al gran vertice di Bruxelles.
La Stampa 13.12.12

“L´occasione dell´Italia”, di Thomas Schmid

Rieccolo, Berlusconi. Ma quel sabato, quando ha annunciato la sua intenzione di ripresentarsi, a mio parere non è stata una brutta, ma una bella giornata. Permettetemi di spiegare il perché. Da quando il Cavaliere ha scelto di ridiscendere in campo, uno spettro si aggira di nuovo per l´Europa. Molti pensano che se le sue indiscutibili doti di potenza e genialità nel condurre campagne elettorali dovessero riportarlo al governo, l´Italia e l´Europa intera rischierebbero la catastrofe. Perché, a differenza della più piccola Grecia, l´Italia, membro fondatore dell´Ue, è uno dei suoi Stati più importanti.
Effettivamente, se questo Paese dovesse ricadere in una condizione instabile, perdendo il capitale di affidabilità conquistato dal governo Monti, sarebbe un duro colpo per l´Unione europea. È noto che da qualche tempo la Commissione dell´Ue e il governo tedesco si preoccupano del futuro dell´Italia; a Bruxelles come a Berlino, molti si sono già chiesti – seppure in via ufficiosa e dietro le quinte – cosa accadrà dopo la fine del “governo tecnico”. Senza dubbio per Angela Merkel il ritorno dell´irresponsabile illusionista di Arcore sarebbe un vero incubo. D´altra parte, la cancelliera tedesca non è l´unica in Europa a vedere con qualche perplessità la prospettiva di un governo a guida Pd. È già accaduto infatti che governi di centrosinistra abbiano fallito a causa della loro dipendenza dall´appoggio di partiti della sinistra radicale e di gruppuscoli dalle mosse imprevedibili. A fronte di queste due alternative, molti in Europa ritengono che la soluzione migliore sarebbe una prosecuzione dell´esperienza del governo tecnico. Una cosa è comunque certa: Mario Monti sa bene qual è la posta in gioco. Ha sempre dato prova di rigore e di grande attenzione per l´economia, i mercati e la reputazione dell´Italia. E si rende conto che per il suo Paese esistono solo due alternative: compiere i grandi sforzi necessari per tornare ad essere un membro e pieno titolo, e uno dei motori dell´Ue, oppure rinunciare – probabilmente per sempre – al proprio rango nella compagine europea.
Detto questo, non credo che chi ha paura di Berlusconi sia ben consigliato. Le sue dimissioni, 13 mesi fa, non furono il risultato di un´azione della classe politica, e neppure della società civile italiana. Fu l´Unione europea a imporre le dimissioni di un uomo che era diventato qualcosa come un fuoco fatuo nella politica europea. Certo, una mortificazione per quei milioni di italiani che da molti anni manifestavano il loro dissenso nei confronti dello stile e dei metodi del Cavaliere. Se però oggi Berlusconi si ripresenta, gli elettori italiani hanno la possibilità di liberarsi di lui in via ufficiale, in un confronto diretto, una volta per tutte. Allora non potrebbe più filarsela da un´uscita sul retro del palazzo, come ha fatto tredici mesi fa, ma sarebbe semplicemente messo alla porta. Certo, è un azzardo. Ma lo ritengo necessario, in nome della dignità e dell´amor proprio degli italiani. Dal 1994 ad oggi, lo spirito berlusconiano ha pervaso la politica italiana. Ora è venuto il momento di porre fine in maniera corretta alle anomalie e all´imbarbarimento di questi due decenni.
Berlusconi ha fallito perché si è dimostrato incapace di fare esattamente ciò che con più insistenza aveva promesso. Non ha liberalizzato né svecchiato l´Italia, ma ha contrapposto alla vecchia partitocrazia una forma nuova e bizzarra di dominio, una sorta di autocrazia da fiction. Anziché modernizzare il Paese, ha portato avanti la battaglia obsoleta del suo ottuso anticomunismo. Eppure, all´inizio era partito da considerazioni del tutto condivisibili. Quello che mancava in Italia era una rivoluzione, o quanto meno un´apertura liberale. Berlusconi affermava di voler aprire nuovi spazi in questo senso, ma presto si è visto che il suo era puro e semplice illusionismo propagandistico. Il suo è un liberismo egoista, basato sul disprezzo dello Stato, che rivela in definitiva la sua natura nichilista, di negazione dei valori. E che ha lasciato il segno, come mi hanno sempre confermato gli italiani con cui ho avuto occasione di parlare: questo Paese si è abituato a toni sempre più rozzi, aggressivi e volgari.
I commenti a Nord dell´Italia, per quanto espressi a mezza voce, sono chiaramente udibili. Molti guardano al Pd con qualche perplessità. È l´effetto dell´antico scetticismo (peraltro non ingiustificato) verso la tradizione dell´ex Pci: il timore che qualcosa del suo avanguardismo e della sua megalomania tatticista sia tuttora presente. Sono preoccupazioni che in parte condivido; ma le critiche in questo senso mi sembrano eccessive e ingiustificate. Innanzitutto perché la recente esperienza delle primarie, con la straordinaria partecipazione di milioni di italiani, è stata un´occasione di dibattito e mobilitazione politica su cui pochi avrebbero scommesso, in questi tempi di opacità e rassegnazione. In secondo luogo, perché il vincitore di queste primarie, un uomo di sinistra come Bersani, si è dimostrato in grado di portare avanti anche riforme decisamente scomode. E in terzo luogo, perché il successo di Matteo Renzi ha conferito autorevolezza a un esponente del Pd che si è lasciato alle spalle ogni traccia di sentimentalismo o di folclore di sinistra. Ho l´impressione che il Pd sia sulla buona strada per diventare un partito saggiamente riformista. Un partito in cui un D´Alema giovane, malgrado le sue indubbie competenze, non troverebbe alcuno spazio. Certo, al tempo della crisi dell´Ue il nuovo premier si troverà ad affrontare responsabilità enormi; ma non vedo alcun motivo per temere che un governo guidato da Bersani si comporti in modo avventuroso. È accaduto altre volte che nei momenti cruciali, la sinistra si sia dimostrata pronta, nell´interesse comune, a portare avanti le più drastiche riforme. Lo dimostra l´esempio dell´Agenda 110 di Gerhard Schröder, senza la quale oggi la Germania sarebbe sicuramente in condizioni assai peggiori.
Già da tempo si ha sentore di diversi tentativi in direzione di una nuova legislatura con Mario Monti presidente del consiglio. È comprensibile. Ma sarebbe un bene per l´Italia? Monti e il suo governo non sono stati eletti. Una grande coalizione apolitica come quella che l´ha appoggiato potrebbe rivelarsi necessaria in caso d´emergenza, come lo è stata dopo che Berlusconi ha messo a rischio il suo Paese nel contesto politico europeo; ma a condizione di tornare il più presto possibile a un governo regolarmente eletto. E non solo perché il tecnico Monti ha rivelato di avere anche i suoi lati deboli, ma soprattutto perché in questi tempi difficili un governo deve essere legittimato dalla sovranità popolare. A mio parere, nulla vieta a Monti di candidarsi, non più in veste di tecnico, ma stavolta come politico. Mi sembrano però poco convincenti i tentativi di architettare una coalizione qualsiasi, per poi mettere avanti Mario Monti come galeone. Se è vero che la democrazia si affida a un´élite, quest´ultima deve però avere l´espresso consenso dei più. A questo non si può rinunciare, soprattutto in tempi difficili, quando la posta in gioco è alta.
Non c´è dunque da aver paura di Berlusconi. Anche perché i cittadini italiani potrebbero dimostrarsi assai più refrattari alle sue bordate antieuropee e al suo volgare populismo di quanto credano il cavaliere e i suoi media.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
L´autore è direttore di “Die Welt”
La Repubblica 13.12.12
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“Il Cavaliere della confusione”, di CONCITA DE GREGORIO
LE AMAZZONI, desolate, ammutoliscono. Si erano disposte in falange compatta, in trenta nelle prime cinque file alla destra del capo, ben visibili da Lui.
Una distesa di chiome bionde ad ogni gradazione di ossigeno, dal platino al miele, impegnate nella lunga attesa della Sua apparizione a carezzarsi vicendevolmente i capelli freschi di piastra, pronte a scattare in piedi nel “bravo” all´unisono alla notizia, imminente, della Sua e della loro ricandidatura. A un passo dal revival di giubilo, eccoci tutte qui come ai vecchi tempi, e invece guarda che scherzo. L´evviva si spegne in gola, alle confuse parole del Capo: potrei anche, se Monti, allora io, regista del rassemblement, tornare a dirigere, non penso che lo farà ma se lo facesse, non gli conviene certo ma semmai, nessuna obiezione a ritirare, candidatura a premier, potrei tornare a, passo indietro, in fondo ho avuto, De Gasperi peggio di me. Come? Che ha detto? Si incrociano gli sguardi nervosi di Micaela Biancofiore e Laura Ravetto, si sgranano interrogativi gli occhi di Alessandra Mussolini e di Stefania Prestigiacomo. C´è anche Rosi Mauro, in piedi da una parte, lei nera di chioma d´abito e d´umore. Nel senso che se si candida Monti si ritira? Ma non si sono insultati fino a stamattina? Cioè come: Monti dovrebbe fare il candidato premier di una coalizione guidata da Silvio? E noi? E poi Monti non lo farà mai… Serpeggiano fra le prime file domande non avvezze all´evidenza, sussurrate appena mentre Lui continua, fluviale. A professarsi europeista mentre denigra Von Rompuy («uno sconosciuto, uno che non c´entra niente con la storia d´Europa, un fantoccio voluto da Merkel e Sarkozy»), a minacciare la Lega di far cadere le giunte del Nord mentre ne afferma sicuro la lealtà nell´alleanza, a ritirare in ballo l´appena licenziato Alfano e liquidare come incandidabile il fidatissimo sodale della primigenia Sicilia, Marcello Dell´Utri, in un´olimpiade della contraddizione con se stesso, un campionato mondiale del non senso. Poi, dopo quasi venti minuti di monologo, smentisce Vespa. Il “caro Bruno” appena blandito come il migliore della specie. No, quel colloquio con Tremonti che riporta nel suo libro non è mai avvenuto. Vespa, seduto accanto a lui, imperturbabile conferma. È il sigillo dell´epilogo. La pietra tombale sulla festa che non c´è né mai più potrà esserci com´è stata ai tempi belli. Vespa, il caro Bruno, conferma: è Silvio che mente. Oppure, mitiga subito con atavico riflesso di prudenza, «non ricorda bene».
Ecco, è andata così. Il giorno della presentazione del ventiquattresimo libro di Vespa che doveva segnare la sesta candidatura di Silvio Berlusconi passerà alla storia come uno scampolo di Novecento finito nel Duemila, tutti i protagonisti e le comparse vestiti e truccati come in un film di fantascienza anni Settanta. Tra il pubblico anziani calvi con un residuo di caschetto bianco sulle spalle, vecchie fulve, giovani in pantacollant di similpelle. Il Candidato-che-oggi-non-lo-è parla dal palco con voce meccanica e confusa, ha ormai gli occhi a mandorla, lievemente asimmetrici. Attacca la magistratura rossa, il Capo dello Stato che «riposa il lunedì dalle fatiche del week end», la Corte costituzionale ed altre architravi dell´assetto democratico senza mai arrivare ad affondare il colpo. La claque aspetta per due ore il momento che non arriva mai. L´idea che l´odiato Monti, appena sfiduciato e dal Pdl indotto a dimettersi, possa diventare il leader di loro stessi non riesce a penetrare la capacità di comprensione delle amazzoni e lascia perplesso persino Vespa, che qualcosina obietta. L´unica cosa che risulta evidente, nello tsunami frusto di abusata retorica, è che Silvio Berlusconi ha una serissima difficoltà nella sua stessa coalizione di eventuale governo, che non sa su quali e quanti alleati può davvero contare, che i sondaggi non rispondono ai comandi. In sala lo capiscono tutti. Lasciare il cerino a Monti è una trovata mal riuscita, non fa breccia oltre la seconda fila. Forse era il giorno sbagliato, oggi, per presentare il libro. Aveva già rinviato e forse doveva rimandare ancora ma la casa editrice di sua proprietà avrà fatto pressione usando su di lui l´argomento principe: presidente, anche se non sa cosa dire dica qualcosa, lei è Maestro. Siamo a dodici giorni da Natale, sennò il libro non si vende. Ci stupisca come ha sempre fatto, vedrà che Le riesce.
La Repubblica 13.12.12

“Il diritto sospeso all´Ilva di Taranto”, di Adriano Sofri

Il governo contro una giudice. O piuttosto il governo e l´Ilva contro una giudice e la sua città. E i lavoratori in mezzo. A Taranto e poi a Genova e a Novi e così via. Stamattina l´azienda comunica ai sindacati le decisioni cui la giudice l´ha “sorprendentemente costretta”. Ma no! Si sapeva che la giudice Patrizia Todisco avrebbe confermato il sequestro del materiale prodotto illegalmente dall´Ilva, come le chiedeva di fare la Procura tarantina. La sorpresa è finta. Questa volta gli avversari sentivano di avere una carta in più nella lunga partita per far passare la signora giudice come fondamentalista: in missione per conto di qualcosa di estraneo al codice. C´erano – ci sono ancora – un milione settecentomila tonnellate di prodotti giacenti sulle banchine in attesa di essere smerciati a clienti o forniti alle altre lavorazioni in Italia e fuori: il buon senso stava per intero dalla parte dell’autorizzazione a usare quei prodotti, che oltretutto andavano sgomberati perché la produzione andasse avanti. Si è letto che il miliardo di valore attribuito a quei prodotti sarebbe andato (promuovendolo da lordo a netto, e altruista) alla auspicata bonifica. Dunque fuori da Taranto lo scandalo contro il puntiglio della signora Todisco ha fatto dei passi avanti. A Taranto no, perché il decreto, già costituzionalmente dubbio, era apparso ai cittadini e a molti lavoratori come un cedimento al Pil e alle esigenze produttive a scapito del primato della salute. Anche perché il decreto vanta l´osservanza di un´Aia rafforzata e delle prescrizioni della magistratura, ma è oscuro sul quando e da dove arriveranno i moltissimi soldi necessari alla mitica bonifica. Il decreto si era anche dimenticato che un governo, e un parlamento, può dettare legge, ma non retroattivamente, dunque non poteva “ripulire” il materiale prodotto in violazione della legge. A ridosso del pronunciamento della giudice, erano già pronte le mosse da copione. L´azienda ha annunciato di lasciare a casa “a cascata” – una colata continua – migliaia di lavoratori a Taranto e altrove. Il governo, e per lui il fervido ministro Clini, ha annunciato un emendamento che, “interpretando autenticamente” il decreto, dissequestrasse i prodotti in attesa. Ora, se una duttilità e una capacità di disarmo unilaterale è il vantaggio della politica nei confronti della magistratura, trasformare per emendamento un corpo di reato in prodotto commerciabile equivale a liquidare l´autonomia della magistratura e prima della legge. Si invoca ancora una volta uno stato di necessità, avvalorata dal buon senso. Gli innumerevoli stati di necessità demoliscono lo stato di diritto. Quando un´istanza ulteriore desse ragione al tribunale tarantino, quei corpi di reato sarebbero fusi. Intanto, il conflitto di attribuzione sta per essere sollevato dai magistrati tarantini, e anche questo era scontato.
Di Patrizia Todisco si dice che “non guarda in faccia nessuno”. Ho pensato a questo modo di dire. Vorrebbe essere una parafrasi, solo più severa, del motto: “La legge è uguale per tutti”. Com´è noto, non tutti sono uguali per la legge. Quel “non guardare in faccia nessuno” viene sempre e solo interpretato come una equanime inflessibilità nei confronti dei potenti. Non si immagina che riguardi le facce dei poveracci. Ieri in quel tribunale di Taranto è stata pronunciata la sentenza di primo grado per la morte di un lavoratore. Antonio Mingolla, vicecapocantiere di una società di manutenzione all´Ilva, si sobbarcò un lavoro che sapeva pericoloso il 18 aprile del 2006 e fu ucciso dalle esalazioni di gas: due suoi compagni rischiarono la vita per soccorrerlo. Era la quarantaduesima vittima delle 46 fra il 1995 e oggi. Ieri 6 fra tecnici e capireparto dell´Ilva e della ditta – gli alti dirigenti erano rimasti fuori – sono stati condannati a due anni. Non andranno in carcere, e non era quello il punto: ma, sia pure con un ritardo oltraggioso, la sentenza dice che sicurezza e salute, in fabbrica e fuori, non possono essere sacrificate impunemente.
La Repubblica 13.12.12