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“I due nodi al tavolo del vertice Ue”, di Enzo Bettiza

Gli eventi di maggiore impatto europeo, tra cui la confusione politica in Italia e l’accelerato distacco dell’Inghilterra dalla comunità continentale, conferiscono un peso alquanto secondario ai temi di protocollo pur importanti che il vertice dei ventisette capi di Stato e di governo dovrebbe esaminare e discutere tra oggi e domani a Bruxelles. Sarà questo l’ultimo vertice, preceduto da nervosissime riunioni istituzionali e parlamentari, di un anno disagevole che l’Unione Europea chiude ora in un’atmosfera di cupe inquietudini e allarmanti incertezze su tutto.Sul proprio futuro, la propria identità, la propria integrazione o federalizzazione onirica.
Una fine d’anno per niente allegra che, per tanti aspetti, fa pensare quasi al tramonto di una lunga epoca creativa. Come se la sopravvivenza stessa dell’Europa, unitaria e indissolubile, fosse venuta ormai a noia alle più vecchie nazioni fondatrici che ne favorirono in altri tempi vitali la nascita.
Non dominerà più la scena il disastro greco, avviato, così sembra, a una faticosa soluzione con prestiti finanziari a rate garantiti dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca di Francoforte. Non dominerà neppure la questione centrale, punto uno del dibattito, quella della creazione per l’Eurozona di una unione bancaria che dovrebbe, in effetti, trasferire il controllo nazionale delle banche deboli alla supervisione delle autorità di Bruxelles: tema controverso e spinoso, che comporta una cessione di sovranità, e che si è quindi deciso di rimandare a un probabile summit di febbraio. Tipica contraddizione, questa, dei grandi incontri comunitari che spesso si organizzano, con perdita di tempo e danaro, per rinviare un problema anziché per risolverlo.
Ma veniamo al concreto. Di fatto il vertice reale, accanto a quello protocollare, continuerà a spezzettarsi per quarantott’ore nelle confidenze di corridoio e nei discreti contatti bilaterali. E’ nell’intimità diplomatica delle cene da separé che, evitato lo scoglio greco e congelato per il momento il deficit spagnolo, i principali protagonisti del vertice, tedeschi e francesi, affronteranno i due più grossi «incidenti» che oggi minacciano coesione e tenuta internazionale dell’Unione: la deriva politica dell’Italia e la contestazione euroscettica e antiburocratica della Gran Bretagna.
Le dimissioni di Mario Monti, causate e accompagnate dalla spavalda ricomparsa sul proscenio italiano di un Berlusconi populista, antieuropeo, antitedesco, con forti tinte lepeniste, aprono indubbiamente un buco oscuro e contagioso nell’Occidente comunitario. L’Italia, che neppure le energiche terapie di Monti sono riuscite a sospingere oltre la linea del grande debito e della paralizzante stasi di sviluppo, appare tuttora, nel giudizio dell’austera Germania merkeliana e dei soci filotedeschi, un Paese economicamente vulnerabile e politicamente instabile. Monti però, sul piano etico e direi quasi estetico, ha saputo dissolvere con la sua azione e il suo stile sobrio l’incantesimo negativo ereditato da un passato più che mai dubbio e inquietante agli occhi del mondo. Per un anno il governo Monti ha presentato al mondo un primo ministro operativo e calmo, con ministri altrettanto calmi e operativi; niente insulti, scandali, promesse impossibili, giochi d’azzardo o di capricciosa fantasia con il bene pubblico.
Una simile metamorfosi di stile e di comportamento, dopo la mazurka berlusconiana, non poteva non impressionare gli interlocutori di Monti. Il premier è stato per esempio capace d’instaurare con la cancelliera Merkel un rapporto di stima e fiducia reciproca, al contrario di Belusconi che ieri la dileggiava dietro le spalle e oggi la attacca brutalmente di fronte. Lo stile nuovo si è tramutato in un patrimonio politico per Monti sul piano personale, e per gli italiani sul piano nazionale; purtroppo, tale patrimonio almeno per ora è andato perduto con le dimissioni del premier «tecnico» prediletto dal Quirinale. La scena italiana riappare di nuovo simile a una voragine incerta, riempita dal frastuono delle scimmie urlatrici.
I maggiori capi di governo, i dirigenti ed esponenti dell’Unione Europea, i grandi giornali occidentali, non solo tedeschi, che rischiano di rafforzare il «nemico populista» schernendolo esageratamente, non sanno comunque ciò che potrà succedere in un’Italia sbandata dopo le elezioni di febbraio. Non sanno e, spaventati, si dolgono di non saperlo giacché l’Italia, nonostante tutte le magagne, resta una insostituibile componente storica europea troppo vasta e troppo importante: impensabile poterla isolare, o perderla addirittura, a causa della sua proteiforme altalena tra un montismo che non è affatto morto e un berlusconismo che è ancor sempre vivo. Per fortuna, nella stessa Berlino, dove taluni ministri prendono forse troppo sul serio il «pericolo Berlusconi», si stanno levando voci inclini alla saggezza. E’ la saggezza che sembra già consigliare alla Merkel una posizione d’attesa intelligente nei confronti dell’eredità montiana, che domani potrebbe chiamarsi «agenda» o «lista» o, semplicemente, «esecutivo Monti».
Per quanto concerne l’Inghilterra, le riflessioni e le discussioni che nel merito non mancheranno ai margini del vertice di Bruxelles, o fors’anche in seno allo stesso vertice, saranno indubbiamente sottili e prudenti. La permanenza o l’uscita dei britannici dall’Unione presenta incognite pericolose per Londra quanto spiacevoli per l’Europa nel suo insieme. La Germania se ne preoccupa, la Francia un po’ meno.
Gli amletici governanti inglesi vorrebbero e non vorrebbero compiere il gran passo all’indietro. David Cameron preferisce per adesso i passetti allusivi. Non è andato a Oslo alle celebrazioni del Nobel per la pace conferito all’Europa. Ha inviato in Norvegia a rappresentarlo il suo vice Nick Clegg, il quale, sedicente europeista, se l’è cavata con parole scarse però estremamente ambigue: «Questo è un premio per le genti d’Europa, non per un’istituzione». Nello stesso momento Cameron, partecipando a Londra ad un pranzo offertogli dai giornalisti, brindava col calice alzato: «Vi ringrazio per avermi dato, con questa piccola baldoria, la scusa di non andare a Oslo». E’ noto, fra l’altro, che Cameron ha già chiesto alla Commissione di Bruxelles di ridurre il contributo inglese al bilancio dell’Ue per il settennio 2014-2020.
Intanto la maggioranza del Parlamento, del partito conservatore, del partito laburista, tutti incalzati dall’eurocinismo dell’Ukip (United Kingdom Independence Party) premono per il referendum che, con la crisi che logora i Paesi dell’euro, oggi sfocerebbe senz’altro in una vittoria popolare del no all’Europa. Al «no» secco fa da riscontro simultaneo un «ni» equivoco: restare sì nell’Europa del libero mercato e libero scambio, ma rifiutare le regole e i canoni restrittivi di Bruxelles. L’«Economist», che realisticamente scrive che la fuoriuscita ridurrebbe il prestigio e il volume d’affari del Regno Unito nel mondo, ribatte con il solito distacco ironico: «Restare, non accettando regole, equivarrebbe a mangiare in un ristorante senza pagare il coperto».
Ma sono tanti ormai nell’Europa dei 27, saranno 28 con l’ingresso della Croazia in luglio, quelli che vorrebbero mangiare di frodo al pur sempre ricco piatto europeo «senza pagare il coperto». Vedremo nelle prossime ore che cosa pensano in proposito i convitati al gran vertice di Bruxelles.
La Stampa 13.12.12