Latest Posts

Nelle aule deserte dell’asilo di Scampia “Troppa paura, questa non è più vita”, di Conchita Sannino

Aule deserte. E tre grembiulini dal passo leggero, sotto gli occhi ancora turbati delle maestre. Pentolini colorati, nuovi Babbi Natale per distrarli. «Maestra, visto che cucino?». Le loro voci rimbombano, nella scuola c’è il vuoto. E fa freddo. E non ci sono i compagni. Tre bambini presenti su ottanta. È un giovedì irreale a Scampia, alla “Eugenio Montale”, il giorno dopo che il fuoco di camorra ha sfiorato le aule.
«Preside, io non li ho portati i miei figli, dovete chiudere tutti i cancelli. Però lo devo dire: siete stati bravissimi in quei momenti, mia figlia non aveva capito proprio niente, né della sparatoria, né del morto», li bacia Patrizia. «Professo’, abbiamo capito che non ci garantisce nessuno, e noi che facciamo, ce ne stiamo con le mani in mano, il governo non si è fatto sentire? », carica Patrizia. Il terzo è un padre, Franco, chiede pazienza per sé e tutti gli altri: «Mia moglie è molto impaurita, facciamole sbollire la rabbia, poi vi prometto che vengo io a riportare Antonio».
Solo tre famiglie, ieri mattina, se la sentono di riportare i loro figli
nell’asilo che ha visto l’uscio insanguinato dalla faida, una “materna” violentata dall’orrore dei sicari. Novanta per cento di assenze alla “Montale”, poco meno della metà alla materna comunale, qualche assenza di troppo qua e là in tutti gli altri istituti del quartiere scosso dall’ennesima faida.
Killer sempre più giovani, sempre più accecati di rabbia e cocaina. Come quelli che ancora ieri tornano a sparare, ancora in mezzo alla gente, ancora a mezzogiorno, in un comune vicino, a Calvizzano, solo nove chilometri dalla periferia nord di Napoli.
Stavolta cade Luigi Felaco, quarant’anni, una carriera criminale come tante ma un legame di parentela che scotta: è il nipote del padrino Angelo Nuvoletta, boss condannato all’ergastolo come mandante dell’assassinio del giornalista Giancarlo Siani. Anche ieri le pallottole volano tra la gente. La paura sfiora una pizzeria, il tam tam arriva ad altre scuole vicine. È la roulette russa delle esecuzioni. Funziona a Scampia come a Calvizzano. Può andare bene, può andare male: un lancio di moneta sopra la testa di tutti. L’ultima volta che è andata male è stato solo due mesi fa, 15 ottobre: un innocente che si chiamava Lino Romano, un onesto trentenne confuso con un “bersaglio”, fu fatto fuori con quattordici pallottole nel rione vicino a Scampia, è stato sepolto tra fiaccolate e cori. Fino alla prossima fatalità.
E come condannare i “disertori” di un giorno per lo choc, quei genitori che hanno voltato le spalle all’asilo di Scampia? Difatti. «Io li capisco profondamente», dice il preside, Enzo Montesano. «Quello che capisco di meno è quando mi si chiede di militarizzare o blindare anche i varchi pedonali, gli ingressi, Ma siamo matti? La scuola è aria aperta per eccellenza: se devo chiudermi dentro, allora tanto vale lasciare le chiavi ai criminali, dargliela vinta a questi nemici della vita». Montesano allarga le braccia qualsiasi cosa gli dicano, stamane. Alle 7.50 è lì con la dirigente della materna, Maria Mola, ad accogliere i pochi bimbi che arrivano e a rassicurare i genitori di chi non verrà. «È comprensibile questa assenza di massa, ce lo aspettavamo — riflette — però presto dobbiamo tornare alla normalità ». Parola che fa sorridere una madre.
Anna Persico, trentenne, casalinga, è infatti una di quelle che ogni mattina attraversa il quartiere a rischio da cima a fondo, accompagna i tre figli under 14 in tre diversi istituti. «Ho paura, certo che ce l’ho. Non riusciamo a vivere la vita che vorremmo. Ma qual è l’alternativa? Non ne ho né come madre, né come cittadina Perciò ho portato mia figlia qui all’asilo». Tina Esposito è un’altra delle tre. «Mia figlia è tornata a casa tutta eccitata, mi ha detto che c’era stata un po’ di ammuina perché Babbo Natale è venuto prima del tempo, lo dovevano fermare e per questo lei e i compagni sono usciti sul retro… ». Si commuove. «È stato un gioco, per loro».
Claudio Cecere, invece, tecnico di laboratorio, sta pensando di lasciare Napoli. «Non ero mai stato un disfattista, anzi. Alle ultime amministrative mi sono anche impegnato, sono un consigliere municipale, ma la paura che mi prende adesso ha a che vedere solo con la mia natura di padre. Ho tre figli e vedo che la città è preda degli istinti peggiori e della crisi più nera». Un altro padre, Michele, zaino su una spalla, e la riccioluta Federica sull’altra, si fa il segno della croce. Un affidamento laico per eccellenza: alla scuola. «Io metto mia figlia nelle mani sicure delle maestre, stamattina la porto alle elementari come sempre ». Poi aggiunge: «Ai primi di ottobre vennero a Napoli due ministri, la Cancellieri e la Severino: firmarono il solito Patto per Napoli, parlarono di Scampia, sembrava chissà quale passo avanti. Io ho rispetto delle istituzioni, ma le istituzioni ce l’hanno per i cittadini? Perciò mi fido solo di questi educatori, stanno con noi, resistono come noi». E poi, ride: «Non ci possiamo permettere babysitter. Perciò questa piccolina — accarezzandola la nuca — deve giocare qui. Se non credessi più nello Stato al punto da non affidarmi alla scuola, dovrei solo tirarmi un colpo. E non voglio darla vinta a quelli lì».
La Repubblica 07.12.12

“La scelta populista della destra è un danno per l’Italia”, di Claudio Sardo

Berlusconi si ricandida e il suo rientro in campo è un atto di destabilizzazione. Il governo Monti viene investito da un improvviso vento di crisi e lo spread si allarga, tornando a misurare il costo per gli italiani del populismo berlusconiano. Ma, a differenza del passato, il Cavaliere stavolta pare privo di una bussola. Minaccia di far cadere il governo, ma non ne ha la forza. Spinge i suoi senatori all’astensione, ma poi chiede a qualcuno di restare in aula per garantire il numero legale. Accusa Monti di aver portato il Paese sull’orlo del baratro (proprio lui!) ma la svolta propagandistica non produce comportamenti politici coerenti. Del resto, tutti sanno che il ricatto di Berlusconi punta alla legge sull’incandidabilità dei condannati (ancora la giustizia ad personam). E lo sanno bene nel Pdl, dove ormai c’è la baraonda: chi dice che Monti è un nemico, chi un amico, chi annuncia l’uscita dalla maggioranza, chi la permanenza, chi dissente dal Capo, chi dissente da Alfano, chi prepara le valige, chi non trattiene le lacrime. Siamo all’epilogo della legislatura, e probabilmente la rottura di Berlusconi è solo l’anticipo di una campagna elettorale all’insegna del peggiore populismo di destra. Peggiore di quanto lo stesso Cavaliere abbia finora espresso. Monti non sarà sfiduciato in Parlamento. Berlusconi però ha sfiduciato l’Italia, il buon senso, l’ipotesi di un approdo moderato (pur coltivato da qualcuno dei suoi), la responsabilità verso l’Europa e quegli impegni da lui stesso assunti nelle vesti di premier. Il Berlusconi rientrante dirà che l’Europa è male, che la moneta unica è male, che il rigore è male, che il risanamento di Monti non esiste, che il recupero di credibilità è una menzogna. Anziché lanciare un ponte verso i centristi vecchi e nuovi, tornerà dalla Lega e da Tremonti, e magari abbraccerà pure Borghezio.
I centristi non volevano Berlusconi, è vero. Ma lui poteva liberare nel Pdl un confronto democratico. È rimasto davanti a un bivio per molti mesi: poi ha imboccato una strada che porta danni al Paese. Perché l’Italia avrebbe bisogno di un centrodestra responsabile ed europeo. Avrebbe bisogno di ricostruire il sistema politico, devastato dalla demagogia della Seconda Repubblica. Avrebbe bisogno di una competizione dura, ma ancorata a valori condivisi. Avrebbe bisogno di un comune riconoscimento degli impegni internazionali dell’Italia. Invece quella tregua che ha consentito al governo Monti di operare nei punti più acuti della crisi (con gravi iniquità sociali, tuttavia favorendo una preziosa riduzione dei tassi) ora può evaporare in uno scontro sull’Europa. Berlusconi si illude di riconquistare consensi con gli argomenti di Grillo e della Lega. In questo modo porterà pure in Parlamento un drappello di fedelissimi, ma darà un colpo pesante alla credibilità dell’Italia. È come se tutti noi fossimo ancora sotto ricatto.
In realtà lo spettro di Berlusconi è persino sproporzionato all’estero. Lui non ha più ipoteche. La domanda di cambiamento che il Paese esprime, nelle forme più diverse, è incontenibile entro gli schemi dell’ultimo decennio. Le primarie del centrosinistra hanno aperto una nuova stagione. E il desiderio di innovazione preme da più parti.
Il dramma di questa convulsione berlusconiana è che rischia di bloccare ogni ipotesi di riforma del Porcellum. E quindi di gettare un’ombra di delegittimazione sulle prossime elezioni. Se resta imprigionata nella Seconda Repubblica, l’Italia rischia grosso. Senza un centrodestra europeo saranno menomati anche gli avversari. Ma da questa difficoltà deve nascere un supplemento di responsabilità nelle altre forze democratiche. Innanzitutto nel Pd, che oggi è il partito sul quale sono riposte le maggiori aspettative di cambiamento. Dovrà avere lo stesso coraggio che ha dimostrato aprendo le sue primarie: dovrà fare i salti mortali pur di cambiare il Porcellum, dovrà aprire consultazioni per la scelta dei suoi parlamentari qualora la legge elettorale fosse immodificabile, dovrà parlare apertamente del cambiamento necessario mentre assicura con lealtà la conclusione del mandato di Monti. Dovrà presentarsi al Paese per governare. Ma allo stesso tempo dovrà tenere aperta la porta alla collaborazione e all’impegno di tutti coloro che vogliono partecipare alla ricostruzione e sono disposti a tagliare i ponti con i populisti e i demagoghi.
L’Unità 07.12.12

“I responsabili del disastro”, di Patrizio Bianchi

Il ritorno di Berlusconi riapre l’otre dei veleni. Il cavaliere attacca Monti per riabilitare se stesso e disseminare di uova di serpente il percorso di ricostruzione di un Paese, la cui debacle porta inciso il suo stesso nome. La posizione del centrosinistra su Monti è chiara: il rigore ci vuole ma non basta.
La politica economica che ci porterà fuori dal disastro in cui ci ha precipitato il lungo governo berlusconiano ha come caposaldi un ritorno di credibilità in Europa, una maggiore efficienza della pubblica amministrazione, più autonomia alle comunità locali, una maggiore capacità del sistema produttivo, più diritti per i cittadini perché l’inclusione sociale è il modo per allargare e rafforzare la nostra società. In questa visione la scuola, la formazione, la ricerca e la sua trasformazione in nuovo benessere divengono le vie di un recupero di orizzonte, essenziale per uscire dalla continua emergenza in cui siamo stati costretti.
Nulla di più lontano dal tentativo berlusconiano di riabilitare una stagione di veleni a 360 gradi, che ci ha portato ai margini dell’Europa, addirittura derisi da quegli stessi governi di destra che pure a lungo hanno governato la scena europea. La politica economica si fa innanzitutto con la credibilità delle persone, con quella «moral suasion» che portò Prodi, presidente del consiglio, e Ciampi, suo ministro del Tesoro, a ridurre lo spread con il bund tedesco da 600 punti base a 37. Ciò dimostra che si può fare una politica di rigore di bilancio e nel contempo di espansione economica se, con il metodo di una concertazione solidale, si riesce a dare al Paese grandi obiettivi come era allora l’entrata nell’euro e oggi la costruzione di una vera e piena Unione europea sostenuta da una comune azione politica.
Questa politica economica ha bisogno di un protagonismo dell’Italia a Bruxelles e, se il governo Monti ha dimostrato più di una debolezza tecnica sul piano interno, in particolare in materia di lavoro e di sviluppo, il presidente Monti ha dimostrato quanto l’Unione abbia bisogno di un’Italia credibile e protagonista, fra una Germania sempre più impegolata nelle sue stesse spire conservatrici ed una Francia che non riesce ad assumere una chiara leadership politica progressista. La nuova politica economica richiede un grande spirito internazionale, incardinato nel cuore dell’Europa e non una politica estera basata su collusioni amicali e pacche sulle spalle, mentre riprendono ad intrecciarsi affari privati.
La politica economica del futuro governo richiederà una forte azione per rilanciare la crescita e questa può venire solo decidendo chiaramente di puntare sulla capacità di creare più valore aggiunto per le nostre produzioni. La ricerca di Mediobanca sulle grandi multinazionali che operano a livello mondiale dimostra che l’Italia resta il Paese che ha il più basso costo del lavoro e nel contempo il più basso valore aggiunto prodotto, con il risultato che proprio le grandi imprese italiane sono quelle che hanno il peggior rapporto tra costi e valore aggiunto. Per uscirne o vi è la via fallimentare di operare per tagliare il costo del lavoro, ridurre i diritti, precarizzare l’intero sistema produttivo nel tentativo vano di inseguire l’ultimo del Paesi asiatici, oppure vi è la strada di far crescere il valore aggiunto delle nostre produzioni agendo sulla creatività, sulla competenza, sulla capacità di essere quello che tutto il mondo si aspetta da noi, cioè la piattaforma globale dell’alta qualità. La politica industriale del Paese deve agire su questi elementi aumentando il numero dei giocatori capaci di essere i pivot di filiere internazionali in cui portare quei fattori chiave che rendo- no innovativo e di alta qualità tutto il sistema produttivo.
Per far questo è indispensabile investire sulle persone, sia per aumentarne le competenze, ma anche per consolidare quei legami di capitale sociale che rendono forte e dinamico un sistema produttivo, perché forte e dinamica è la struttura sociale che lo regge e lo giustifica. Tutto il contrario di quello che ha fatto il governo Berlusconi, che ha reso instabile e precario ciò che in- vece deve essere forte e solidale, sia nelle politiche del lavoro che nelle politiche della scuola e della ricerca, spingendo ancora più in basso quell’indice di spesa pubblica in educazione, formazione ed università, che ci vede buon ultimi nelle classifiche internazionali.
Vedremo dove porteranno le minacce di Berlusconi. Nel frattempo il centrosinistra deve essere pronto per una nuova fase orientandosi verso quella buona econo- mia, che ha le sue basi in uno sviluppo che si fonda sulla strada percorribile di un gran- de investimento sulle nostre persone, sul nostro ambiente, sulla nostra comunità.
L’Unità 07.12.12

“Dietro le tensioni anche il nodo incandidabilità”, di Donatella Stasio

Chi ha una condanna definitiva a più di 2 anni per un’ampia gamma di reati (mafia, terrorismo, corruzione, reati fiscali, truffa, riciclaggio ecc ecc) non potrà entrare in Parlamento per almeno 6 anni dalla condanna. Chi, però, è indagato, imputato o già condannato in primo e secondo grado per gli stessi reati potrà candidarsi ed essere eletto, e se in sede di convalida o durante la legislatura dovesse sopraggiungere la condanna definitiva a più di 2 anni con l’interdizione dai pubblici uffici, non decadrà automaticamente ma sarà la Camera a decidere se metterlo alla porta, né più né meno come avviene adesso in base all’articolo 66 della Costituzione. Cioè mai.
E tuttavia, ieri il Consiglio dei ministri ha inserito questa “postilla” nel decreto sull’incandidabilità. Le indiscrezioni dicono che Silvio Berlusconi si sia impuntato e che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Antonio Catricalà abbia caldeggiato la modifica per avere «la certezza» che non passasse l’interpretazione diversa, tante volte sostenuta dai magistrati, secondo cui in caso di condanna definitiva anche all’interdizione dai pubblici uffici la Camera deve limitarsi a prendere atto della decadenza del parlamentare e accompagnarlo, appunto, alla porta. Non solo non è mai andata così, ma ogni volta che le Camere hanno deliberato, non l’hanno mai fatto nel senso della decadenza (l’unico caso risale agli anni ’60 e riguardava il deputato Ottieri per una dichiarazione di fallimento). Piuttosto, si è tirato per le lunghe, ai limiti dell’insabbiamento, tant’è che Marcello Dell’Utri (condannato a 2 anni e 3 mesi per false fatturazioni) la scampò grazie allo scioglimento delle Camere (anche se poi gli tolsero l’interdizione in fase di esecuzione) mentre Cesare Previti (condannato per corruzione) si dimise (o fu fatto dimettere) il giorno prima che l’Aula decidesse. «Deliberare la decadenza – disse Elio Vito di Forza Italia, all’epoca all’opposizione – sarebbe un precedente gravissimo».
Il governo, comunque, ha approvato la “postilla”. Mentre ha tenuto fermo l’altro punto contestato dal Pdl, riguardante i reati la cui condanna fa scattare l’incandidabilità. Ci sono anche quelli fiscali, per cui Berlusconi sarebbe «a rischio» di decadenza se dovesse diventare definitiva la condanna a 4 anni (più l’interdizione dai pubblici uffici) per frode fiscale nel processo Mediaset. «Berlusconi non c’entra – ha subito detto Angelino Alfano – perché il presidente ha la certezza di essere assolto, visto che i suoi processi sono privi di fondamento». Ma i processi ci sono, e si saprà come finiranno solo dopo le elezioni. Con la modifica di ieri, però, il Cavaliere è un po’ più tranquillo (e non solo lui), anche se dovesse essere condannato nel processo Ruby: con la legge anticorruzione, infatti, la concussione per induzione è stata sostituita dall’«indebita induzione», punita meno severamente sia nel massimo (non più 12 anni, ma 8) che nel minimo (non più 4 anni, ma 3), senza più l’automatica interdizione perpetua dai pubblici uffici (quella temporanea potrà scattare solo se la condanna supera i 3 anni, non al di sotto). Quindi, senza interdizione non si porrà neanche il problema della decadenza da parlamentare.
Molti hanno pensato che la crisi minacciata dal Pdl fosse legata anche alle sorti del decreto sull’incandidabilità messo a punto dai ministri Cancellieri, Patroni Griffi e Severino. «Non appartiene al governo fare processi alle intenzioni», ha risposto Mario Monti a chi gliel’ha chiesto, escludendo che «particolari orientamenti o sentimenti delle parti politiche abbiano influenzato il lavoro del governo». È certo, però, che il testo “in entrata” prevedeva all’articolo 3, primo comma, che in caso di incandidabilità sopraggiunta «essa comporta la decadenza di diritto dalla carica che viene dichiarata dalla Camera di appartenenza», mentre nel testo “in uscita” sono state cancellate le parole «di diritto» (che potevano far pensare a un automatismo) e si è aggiunto, alla fine, «ai sensi dell’articolo 66 della Costituzione», che attribuisce alle Camere il potere di deliberare sulle cause sopraggiunte di «ineleggibilità»», come viene esplicitato alla fine del primo comma (anche questa un’aggiunta). Precisazione analoga anche nel secondo comma, riguardante la convalida dell’incandidabilità. Insomma, tutto resta più o meno come adesso.
Il Sole 24 Ore 07.12.12
******
“Il Cavaliere sogna il 2006”, di Roberto D’Alimonte
C’è profumo di crisi. Le elezioni forse sono alle porte. Se così fosse non ci sarà più nemmeno il tempo di fare una qualunque riforma elettorale. Si voterà probabilmente con il vecchio sistema. Forse è quello che Silvio Berlusconi ha sempre voluto. In fondo il cosiddetto porcellum è la sua legge. Deve esserci affezionato. Roberto D’Alimonte
M a perché andare al voto con un sistema che sulla carta in questo momento lo penalizza? C’è chi pensa che in realtà la minaccia di crisi sia una forma di pressione. In ballo ci sarebbero la questione dell’election day e quella della incandidabilità. Ma non è detto che sia così. Ci sono altre ragioni per cui il Cavaliere potrebbe preferire andare al voto subito. Per esempio, ricompattare il suo partito prima che si dissolva in vari pezzi. Niente di meglio da questo punto di vista di una campagna elettorale che trasferisca i conflitti dall’interno verso il “nemico” esterno. L’accoppiata Bersani-Vendola si presta alla bisogna. Un altro vantaggio del voto anticipato è quello di impedire ai possibili competitori all’interno dell’area moderata di organizzarsi. Certo, anche per il Cavaliere aver meno tempo a disposizione per mettere insieme il suo nuovo progetto è un problema ma molto meno degli altri. Lui una organizzazione ce l’ha. E soprattutto ha una grande esperienza di queste cose maturata nel corso di ben cinque campagne elettorali. I suoi competitors potenziali invece sono alle prime armi. Il vero problema è il sistema elettorale. Ma anche su questo terreno non tutto è negativo. Non cambiare nulla vuole dire tenersi anche le liste bloccate. Per il Cavaliere questo è un elemento essenziale. Che rimanga o meno il Pdl, Berlusconi sa di dover rinnovare profondamente i ranghi se vuole una minima chance di ottenere un risultato positivo. Questo lo si può fare molto meglio con le liste bloccate che con il voto di preferenza. Infatti molto difficilmente i nuovi candidati che il Cavaliere vuole attirare nella sua orbita accetterebbero un posto in lista se dovessero competere per le preferenze con i professionisti della politica. Inoltre una campagna con le preferenze gli costerebbe economicamente molto di più di una senza. E ancora: un candidato scelto dal capo è un parlamentare fedele che risponde solo a chi lo ha messo in lista e non a chi lo ha votato. Insomma i motivi per tenersi stretta la lista bloccata sono molti. E questo è un primo vantaggio del non fare la riforma. A questo se ne aggiunge un altro, un po’ più aleatorio ma da non sottovalutare. L’attuale sistema elettorale tende a bipolarizzare la competizione. Alla Camera chi ha un voto più degli altri ottiene la maggioranza assoluta dei seggi. Questo meccanismo crea una competizione del tipo “noi contro loro”, destra contro sinistra. Di là c’è il “comunista” Bersani, di qua c’è la rinnovata casa o polo delle libertà o addirittura l’Italia. Con una campagna elettorale efficace si può anche sperare di attivare in questo modo il voto utile. Da qui l’appello rivolto agli elettori moderati a non sprecare il
proprio voto scegliendo formazioni minori incapaci di impedire la vittoria del duo Bersani-Vendola o addirittura colluse con loro. In tutto ciò un ingrediente importante sarà la critica all’operato del governo Monti, che è stato sì appoggiato ma per causa di forza maggiore. E poi c’è la lotteria del Senato. Anche il Cavaliere forse si rende conto che la partita alla Camera è persa. Per vincere lì occorre arrivare almeno a “quota 35”, cioè bisogna avere almeno il 35% dei voti. Oggi questa è una stima conservativa della forza elettorale di Pd e Sel insieme. Ammesso che si rifaccia, grazie al sacrificio della Lombardia, una coalizione Pdl-Lega è molto difficile che possa arrivare al 35% dei voti partendo dal 20% più o meno di oggi. Ma il Cavaliere può sperare nel Senato. Lì non c’è un unico premio nazionale ma 17 premi regionali. Se Pd e Sel li vincono tutti la maggioranza assoluta è garantita. Ma sarà così? Cosa succederà in Piemonte, Lombardia, Veneto e Sicilia? Utilizzando una terminologia da elezioni presidenziali USA possiamo parlare di queste regioni come di “battlegrounds regions”, cioè quelle dove si combatterà la battaglia elettorale decisiva. Se Berlusconi riuscirà a vincere in due o tre di queste regioni l’esito potrebbe essere quello del 2006 e non quello del 2008. Nel 2006 Prodi ottenne una maggioranza di un seggio al Senato. Nel 2008 Berlusconi pescò il biglietto vincente della lotteria grazie a un notevole vantaggio di voti sulla coalizione di Veltroni. È troppo presto per dire come finirà nel 2013
07.12.12

“Il potere delle primarie Pd al 38%, Grillo in calo”, di Ilvo Diamanti

Le primarie si sono concluse domenica scorsa. Ma i loro effetti proseguono e si riproducono. Coinvolgono in modo diverso – ma egualmente violento – tutti i principali soggetti politici. Partiti, leader, lo stesso governo e il premier. Con effetti difficili da valutare. Come emerge dal sondaggio dell’Atlante Politico, condotto da Demos negli ultimi giorni.
1.Le primarie. Hanno accentuato tendenze già evidenti sul piano politico ed elettorale. Il PD, anzitutto, è rimbalzato ancor più in alto. Al punto che, nel sondaggio di Demos, avvicina il 38%. Il massimo raggiunto dalla fondazione, nel 2007. A livello elettorale ma anche nei sondaggi. Prima dell’estate era scivolato al 25%. Dopo l’estate è risalito in modo prepotente. Spinto, trainato dalle primarie.
Non a caso i duellanti, Bersani e Renzi, oggi svettano, nella graduatoria dei leader. Entrambi cresciuti di circa 20 punti Renzi, peraltro, è in testa, con oltre il 60%, in quanto intercetta consensi anche a centrodestra e soprattutto al centro. Ma Bersani, per la prima volta da quando è segretario del PD, supera il 50% dei consensi.
2.L’avanzata del PD, avviene mentre gli altri partiti ripiegano. Nel centrosinistra, infatti, si assiste al declino rapido dell’IdV, i cui consensi crollano, insieme a quelli di Di Pietro. Anche SEL arretra, seppure di poco. Mentre la fiducia in Vendola cresce di qualche punto. Anche così si spiega il largo sostegno espresso dagli elettori di centrosinistra all’alleanza con SEL. È come se SEL e Vendola apparissero, rispettivamente, la componente e il leader della sinistra PD. Soprattutto dopo le primarie.
3. Nel centrodestra, il PdL staziona, per inerzia, intorno al 18 %. Ma appare diviso, lacerato all’interno. Tra i “fedeli” a Berlusconi, che sognano una nuova Forza Italia. E quelli che, invece, vorrebbero andare oltre Berlusconi. Scegliere il leader attraverso le primarie, in-seguendo l’esempio del PD.
Oltre metà degli elettori del PdL, peraltro, vorrebbe riproporre l’alleanza con la Lega, ma anche con i partiti di Centro. Per non rischiare l’isolamento. Per non precipitare nello “sconfittismo”. La condizione, psicologica, di chi si sente sconfitto prima del voto. E in questo modo prepara la propria sconfitta.
4. La Lega, d’altronde, non sembra in grado di “correre da sola”. Continua, infatti, a galleggiare intorno al 4%. Come nel 2006, peraltro. Quando, però, insieme al PdL, aveva quasi pareggiato la sfida elettorale con l’Unione di Prodi.
5. Neppure i soggetti politici di centro sembrano in grado di allargare il loro spazio, che, anzi, si riduce. Assorbito, in parte, dal PD. In particolare da Renzi. I consensi di Casini, Fini, dello stesso Montezemolo non crescono. Anzi, si riducono, sul piano personale oltre che di partito.
6. Infine, il M5S, ispirato da Grillo, mantiene un peso elettorale notevole, intorno al 15%. Ma pare aver frenato la sua avanzata. Quasi che la mobilitazione politica degli ultimi mesi, prodotta dalle primarie, ne avesse circoscritto le ragioni, ma anche gli spazi di crescita.
7. È interessante – e significativo – osservare come l’area grigia degli elettori incerti se e per chi votare, in questa occasione, si sia ridotta sensibilmente. In due mesi, dal 45% è scesa al 30%. I “delusi” di centrosinistra se ne sono staccati. Coinvolti e sollecitati dalla mobilitazione di questa fase.
8. Il successo delle primarie, tuttavia, ha scosso anche le basi del governo. Secondo il sondaggio di Demos, infatti, il gradimento verso il suo operato, da settembre, è sceso di quasi 10 punti. Attualmente è intorno al 44%. Come nella scorsa primavera. Anche il giudizio su Monti appare meno positivo che in passato. Coloro che ne valutano positivamente l’operato sono il 47%: 8 punti meno dello scorso settembre. Per la prima volta da quando è divenuto premier, dunque, Monti si vede superato da due “politici”: Renzi e Bersani. A scanso di equivoci, occorre chiarire: Monti e i tecnici dispongono, comunque, di un grado di considerazione fra i più elevati degli ultimi 10 anni. Tanto più se si pensa alle difficoltà del momento. Oltre al fatto che Monti e i tecnici sono stati chiamati a governare proprio per condurre politiche “impopolari”. Tuttavia, non è un caso che il calo di fiducia nei confronti del governo avvenga proprio all’indomani delle primarie. D’altronde, secondo il 44% degli elettori (anche per la maggioranza di quelli del Pd), proprio le primarie avrebbero indebolito il governo Monti. Mentre solo il 23% ritiene, al contrario, che l’abbiano rafforzato.
9. Naturalmente, le primarie non hanno sanzionato Monti. Anche se il dibattito di questi mesi è stato scandito da critiche accese al suo operato. Tuttavia, le primarie hanno sicuramente “rafforzato” l’offerta politica del PD. Hanno garantito legittimità alla sua leadership. Rendendo, di conseguenza, più credibile il proposito espresso da Bersani – ma anche da Renzi – di fare il premier, dopo le prossime elezioni, in caso di vittoria. Senza tutele “tecniche” e presidenziali. Non è un caso che la quota di quanti auspicano un governo della coalizione che ha vinto le elezioni, nel sondaggio Demos, sia salita oltre il 55%. Quasi 20 punti più di coloro che continuano a preferire un governo tecnico, sostenuto da una “grossa” coalizione.
Le primarie hanno dunque scosso l’intero sistema politico italiano. Hanno dato evidenza e spazio alla domanda di politica diffusa, latente e frustrata in tanta parte della società. E hanno aperto direttamente, senza mediazioni, la campagna elettorale. Perché c’è una coalizione che dispone di un candidato eletto con la partecipazione e il voto di più di tre milioni di elettori. Ciò ha già prodotto sussulti evidenti, che hanno scosso alla base la maggioranza del governo Monti. Come si è visto ieri, al Parlamento. Per iniziativa del centrodestra, lacerato al suo interno.
Il fatto è che oggi, anzi, da domenica scorsa, la competizione elettorale si è aperta. Per il PdL, in crisi di consensi e di identità, vedersi “doppiato” dal PD nelle stime elettorali calcolate dai sondaggi, diviene traumatico. Insostenibile. Così “l’interesse nazionale” passa in secondo piano. Sovrastato dall’interesse di partito.
La Repubblica 07.12.12

“Cassa integrazione, il boom in novembre. In un anno è cresciuta del 27%. Oltre un miliardo di ore autorizzate dall’inizio 2012”, di Roberto Giovannini

A novembre vola ancora la cassa integrazione con un aumento del 5,1% su ottobre e del 27,5% su novembre 2011. Nei primi 11 mesi – rileva l’Inps – si è superato il miliardo di ore (1.004 milioni) con un aumento dell’11,8% rispetto allo stesso periodo del 2011 (erano 898 milioni). Nel mese sono state autorizzati 108,3 milioni di ore di cassa. A peggiorare la situazione anche il boom delle richieste di disoccupazione a ottobre: le richieste di sussidio per chi ha perso il lavoro sono state 161.150 con un aumento del 12,84% su ottobre 2011 e del 47,68% rispetto a settembre 2012. Volano anche le domande di mobilità con 17.074 richieste a ottobre (+69,47% tendenziale e +67% sul mese precedente). Nei primi 10 mesi 2012 sono state presentate 1.146.520 domande di disoccupazione (+16,05% rispetto allo stesso periodo 2011), e 120.736 di mobilità (+16,81% rispetto ai primi 10 mesi 2011).
Per quanto riguarda la Cassa integrazione, aumentano soprattutto le ore di cassa ordinaria chieste dalle aziende industriali con un +60,2% rispetto a novembre 2011. «Si conferma, rafforzata – sottolinea il presidente Inps, Antonio Mastrapasqua intervistato a «L’aria che tira» de «la 7» – la tendenza all’aumento di richieste di cassa integrazione riproponendo l’andamento del 2010, quando furono autorizzate 1,2 miliardi di ore, piuttosto che quello del 2011, quando non venne raggiunto il miliardo. La difficoltà del sistema produttivo e del mercato del lavoro si misura tutta in questi dati». Preoccupazione è stata espressa dai sindacati, tornati a chiedere l’aumento delle risorse per gli ammortizzatori sociali. La Cgil in particolare ha chiesto di rinviare la riforma del lavoro nella parte dei nuovi sussidi di disoccupazione (Aspi e mini Aspi) che a regime dovranno sostituire le attuali indennità di disoccupazione e quelle di mobilità.
Intanto però dal Senato arriva forse una boccata d’ossigeno almeno per gli ammortizzatori in deroga: i relatori al ddl stabilità Paolo Tancredi (Pdl) e Giovanni Legnini (Pd) hanno presentato un emendamento che eroga altri 422 milioni a questo fine.
Alla Camera, con il voto al decreto sviluppo, sono state però votate due importanti novità che cambiano – e non di poco – quanto stabilito dalla riforma Fornero. In tutti e due i casi si tratta di norme introdotte dal governo nel maxiemendamento che ha avuto la fiducia. La prima, a suo tempo proposta in nome della «coesione sociale» da Maurizio Castro (Pdl) – riguarda tutti i lavoratori, ma di fatto interesserà soprattutto i manager delle grandi aziende pubbliche, che potranno godere di uno scivolo pensionistico e andare in pensione anticipatamente. Servirà un accordo sindacale, e l’azienda dovrà pagare la pensione al dipendente, e i contributi previdenziali allo Stato, fino al momento del «vero» pensionamento. Ovviamente si tratta di un’operazione decisamente costosa, fatta su misura per aziende pubbliche come Rai e Poste, che devono liberarsi di stipendi alti senza conflitto o licenziamenti.
L’altra novità riguarda i lavoratori iscritti alle liste di mobilità. Finora le aziende che assumevano erano tenute, oltre che incentivate fiscalmente, ad assumere personale tratto dalle liste di mobilità. Da adesso in poi non ci sarà più il diritto di precedenza per i lavoratori in mobilità nel caso in cui le aziende interessate da licenziamenti collettivi decidano di fare nuove assunzioni. Questo, quando queste nuove assunzioni riguardino proprio «le unità produttive interessate dai licenziamenti».
La Stampa 07.12.12

“La pistola del cavaliere”, di Massimo Giannini

La destra disperata celebra l’unico rito pagano che ha imparato a conoscere in questi anni: l’Eterno Ritorno del Cavaliere. Non c’è altro dio, per i sedicenti “moderati” italiani, ancora una volta prigionieri del mito titanico e tirannico del demiurgo di Arcore. E Berlusconi riscende in campo nell’unico modo che sa e che ha imparato a recitare dal 1994 ad oggi: con la pistola in mano, puntata alla tempia degli amici e dei nemici, di Monti e del Paese.
La ricandidatura del Cavaliere e la doppia astensione del Pdl al Senato sul decretosviluppo e alla Camera sul decreto- costi della politica, sono due scelte strettamente collegate l’una all’altra. Quella di Berlusconi non è una semplice mossa tattica, o una reazione isterica innescata dalla battuta di un «untorello» (come Cicchitto definisce Corrado Passera). È invece un una vera e propria rottura politica, che imprime una torsione pericolosa a questo già tribolato finale di legislatura.
Il Cavaliere punta la sua pistola prima di tutto contro il suo partito allo sbando. La decisione di correre per la sesta volta alla premiership, dopo aver giocato infinite volte al ruolo improbabile di un saggio Cincinnato, fa piazza pulita di tutte le velleità di rinnovamento del Pdl. Altro che «primarie delle idee» e ricambio dei gruppi dirigenti: Berlusconi conosce un’unica dimensione, quella dell’uomo solo al comando, accudito dalle sue amazzoni e acclamato dai suoi fedeli. Altro che «padre nobile» e riposo a Malindi: Berlusconi può esistere solo nel villaggio globale del potere, non nel villaggio vacanze di Briatore. Altro che «nuova Forza Italia», altro che «Cosa azzurra»: il Pdl, oggi e per sempre, è cosa sua.
Lo dimostra la sorprendente solerzia con la quale i luogotenenti (a parte qualche lodevole eccezione alla Frattini o Crosetto) hanno eseguito l’ordine di boicottare i decreti all’esame delle Camere e di sabotare il governo. Lo dimostra la disarmante arrendevolezza con la quale Alfano (la «grande speranza dei modernizzatori» interni) si è piegato ai voleri superiori, confermando di non avere il “quid” e di essere il segretario del Cavaliere, non il Segretario del partito.
Ma il Cavaliere punta la sua pistola soprattutto contro il governo Monti, e la strana maggioranza che lo sostiene. Il movente è la disperazione: il leader del Pdl non può vincere le prossime elezioni, ma vuole almeno tenersi aggrappato a quel 15-20% di italiani ancora disposti a seguirlo in nome dell’ideologismo populista e della pregiudiziale anti-comunista, e a votarlo per arginare la probabile vittoria dei «rossi » guidati da Bersani ed eterodiretti da Vendola e dalla Cgil.
Per recuperare almeno una parte del suo «popolo» (in fuga dopo troppi anni di promesse tradite) la destra punta tutto sulla crisi economica e sul disagio sociale, che lei stessa ha prodotto con una gestione scellerata della finanza pubblica. Investe sul malessere profondo dei ceti medi, vellicando ancora una volta i soliti istinti sfascisti e scommettendo su tutto ciò che è «anti»: anti- tasse, anti-Imu, anti-Europa. Per questo la prima «vittima » della rottura è il governo Monti, che Berlusconi ha già cominciato a bastonare in Parlamento e che continuerà a picconare per l’intera campagna elettorale.
In questa svolta «peggiorista», il Cavaliere è agito non solo dall’istinto di sopravvivenza politica, ma anche dal solito istinto di conservazione personale. E dunque non rinuncia a tenere il governo sotto ricatto, su tutti i tavoli ancora aperti per il Pdl. Dall’election day (dove si tratta di evitare una sequenza di sicure disfatte tra voto nazionale e voto ammini-strativo nel Lazio, in Molise e in Lombardia) alla legge elettorale (dove si tratta a questo punto di blindare il «Porcellum », per consentire ancora una volta l’alleanza con la Lega e la «nomina» dei candidati con le liste bloccate). Dal decreto sull’incandidabilità (dove si tratta di salvare lo stesso Berlusconi condannato in primo grado nel processo Mediaset e poi di garantirsi un manipolo di opliti scelti e pronti a tutti anche nella prossima legislatura) all’asta per le frequenze (dove si tratta di impedire che l’impero televisivo del tycoon subisca altri danni dopo l’annullamento del beauty contest) .
Non è ancora chiaro se il ricatto berlusconiano possa spingersi al punto di innescare una crisi prima della data già fissata da Napolitano per lo scioglimento delle Camere. Quello che è certo, è che il via libera alla legge di stabilità è un impegno al quale il Paese non può venir meno. E quello che è altrettanto certo, è che di fronte alle fibrillazioni politiche di queste ore i mercati hanno già risuonato il campanello d’allarme dello spread, tornato oltre quota 330, a conferma di quanto sia ancora fragile il marchio tricolore nelle cancellerie e sulle piazze finanziarie internazionali.
Tutto questo, al leader di una destra italiana incapace di diventare «normale», non interessa. Oggi come ieri, il Cavaliere o è dirompente e tecnicamente eversivo, o non è. Ancora una volta, è disposto a sacrificare il bene comune sull’altare dei suoi interessi privati, e a giocare alla roulette russa con l’Italia. Speriamo solo che gli elettori lo abbiano capito. Forse la sua pistola, stavolta, spara solo a salve.
La Repubblica 07.12.12
******
“Gli ultimi giorni di Palazzo Grazioli”, di FILIPPO CECCARELLI
MOVIMENTI di folla uguali e contrari davanti al portone principale, barzellette sul retro, volti sconosciuti al di là delle transenne, stridore di gomme, sventolio di striscioni, presagi da marciapiede.
ECOMUNQUE sono gli ultimi giorni di Palazzo Grazioli. Ieri, prima che iniziasse il vertice, che poi è cominciato come una specie di pranzo leggero, s’è presentato lì, per strada, l’onorevole Lehner. Recava con sé alcuni amici che ha presentato ai giornalisti come ex minatori del Monte Amiata, antifascisti e anticomunisti, ha specificato, già fondatori di un antichissimo club di Forza Italia.
Sono giorni molto complicati e forse anche per questo la politica assume un tratto un po’ onirico. Gli ex minatori, a loro volta, portavano una bandiera del gruppo «Nuova Forza Italia» con uno stemma invero non bellissimo con tre capocchie di ibiscus tricolore, e poi hanno inalberato uno striscione che diceva: «Silvio, l’Italia crede in te».
L’affermazione è anche comprensibile, ma ormai suona eccessiva perfino sul posto. Qualche giorno fa, proprio dove ieri stazionavano i devoti lehneriani, si sono presentati alcuni giovani sempre del Pdl, però niente affatto fiduciosi nei confronti del Cavaliere, tanto da indossare provocatorie maschere tipo Anonymous e cerottoni sulla bocca.
Invocavano infatti quelle benedette primarie per organizzare le quali proprio lì a Palazzo Grazioli, dall’inizio di novembre, era stato impiantato un «tavolo delle regole», stesa una bozza e poi approvato un regolamento. Mancavano solo i garanti: «Li sceglierò io» aveva chiarito a scanso d’equivoci il presidentissimo, prima di cominciare inesorabilmente a traccheggiare e poi a cambiare definitivamente idea.
Di qui il flash mob di «Officina futura» a via del Plebiscito, con la partecipazione ordinaria degli onorevoli Augello e Angelilli, coppia ex An, e quella straordinaria di Giorgia Meloni che s’era affacciata da quelle parti, pur evitando di farsi fotografare dietro uno striscione che diceva: «Basta giravolte, basta dinosauri».
La faccenda del dinosauro, o Berluscosauro, è un’altra di quelle stranezze che s’impongono per qualche giorno sulla scena in quanto sostenute dalla stessa materia di cui sono fatti i sogni.
Incalzato dai giornalisti e pressato dalla sua stessa e più completa mancanza di prospettive sul futuro (suo, del Pdl, del governo, dell’Italia), Berlusconi se n’è uscito dicendo che avrebbe tirato fuori dal cilindro non il classico coniglio, che non è roba da megalomani, ma un dinosauro.
Poi si vede che l’immagine gli è piaciuta e una settimana fa, uscendo a piedi sulla piazzetta Grazioli, c’è ritornato su con l’aggravante dell’umorismo abbinandola alla circostanza del suo dimagrimento avvenuto nel resort kenyota «Lion in the Sun». Anche in questo caso è difficile tenere assieme i fili di un discorso logico. Ma quando crollano i poteri, tra ex minatori, ibiscus, garanti e cerottoni, il ragionamento lascia un po’ il tempo che trova; e con tale premessa si troverebbe anche il cuore di far presente che proprio la notte in cui il centrodestra ha perso le elezioni in Sicilia, un giovanotto ubriaco, per giunta alla guida di una Porsche, ha prima abbattuto una fioriera e quindi si è andato a schiantare sulla facciata di Palazzo Grazioli.
Agli amanti delle premonizioni si dirà che è il secondo incidente di questo tipo, in meno di due anni. Mentre per quel che riguarda il «normale» tran tran cortigiano, è bene sapere che Berlusconi ha sfoggiato un Borsalini di feltro modello «Fedora» e raccontato di nuovo la storiella del fratello che si sente una gallina. In pieno accordo con la favorita di Sua Maestà, Francesca Pascale, come tale con diritto di posteggio di Smart nel cortile, l’onorevole Mariarosaria Rossi ha preso pieno possesso della dimora, per di più procedendo a una apprezzabile spending review.
Così come, dopo la raccolta del mese scorso, grazie a una sollecita nota dell’AdnKronossi è venuto a sapere che il regista di Berlusconi, Gasparotti, produce un olio biologico dal suo podere in Sabina.
Nel frattempo hanno varcato il fatidico portone due governatori dall’incerto futuro come Formigoni e Polverini; due onorevolissimi Cristiano Popolari, Baccini e Galati, che si sono assunti il gravoso impegno di intrattenere ignari vecchietti trasportandoli nelle loro convention («Tristi episodi di deportazione popolare » secondo il Foglio);
e infine due amazzoni consacrate al Cavaliere come Santanchè e Biancofiore.
Quest’ultima ha salutato ieri la ridiscesa in campo non solo evocando la luce dell’alba, ma attribuendo all’evento il potere di «riportare il sole nell’asfittica politica italiana». Altre deputatesse non hanno mancato di esprimere un sostegno che ai maliziosi è parso tanto più caldo quanto più tardivo. Sia come sia, Ravetto ha invitato il leader a compiere un «ulteriore sacrificio», Bernini ha manifestato «entusiasmo», Bergamini ha citato Cesare e «il dado è tratto», Renzulli «un attaccante che faccia gol» e Giammanco «il carisma», «la lungimiranza» e, visto che c’era, anche «la forza del combattente».
In compenso l’ex ministro Bondi si è molto scocciato e non vuole più partecipare a questi vertici. Il gran rifiuto è a far data da ieri. Quando è sceso per strada, sul Plebiscito c’era davvero una luce sinistra e stava per grandinare.
La Repubblica 07.12.12