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“Passera, l’election day, il caos Pdl Dove nasce la vendetta di Silvio”, da unita.it

Apparentemente sarebbe stata una frase di troppo di Corrado Passera. Ovvero la stigmatizzazione del ritorno di Silvio Berlusconi da parte del ministro dello Sviluppo. «Tutto ciò che può solo fare immaginare al resto del mondo, ai nostri partner, che si torna indietro, non è un bene per l`Italia. Dobbiamo dare la sensazione che il Paese va avanti». Il pollice verso del ministro ha dunque fatto infuriare il Cavaliere, ma è solo l’ultimo atto di quella che per Berlusconi è una sorta di guerriglia continua, in cui deve fronteggiare i suoi (da Meloni a Crosetto a Alemanno fioccano i no al suo ritorno), il Pd che cresce nei sondaggi e un governo a cui vorrebbe staccare la spina. Ma la frase di Passera è solo un pretesto, l’ultimo, tra l’altro. Mettiamo dunque le cose in fila per tracciare il filo rosso a cui è appeso il destino del governo, filo che Berlusconi ha intenzione di strattonare sempre di più, a quanto pare.
Ieri il vertice fiume a Palazzo Grazioli. Dura ore, dopodiché escono i vari Alfano, Gasparri. Facce scure, e silenzio. Nessuno che vuole rilasciare dichiarazioni. Ci sarà una conferenza del segretario, dicono. Ma Alfano diserta e lascia tutti con un freddo comunicato stampa in cui ormai parole come “unità” e “progetti” si svuotano di significato.
In serata, la bomba. Berlusconi annuncia il ri-ritorno. «La situazione oggi – annuncia – è ben più grave di un anno fa quando lasciai il governo per senso di responsabilità e per amore del mio Paese». Di più: «Oggi – rincara la dose – l’Italia è sull’orlo del baratro». Il Cavaliere vede nero. Anche «le imprese chiudono», «l’edilizia crolla», «il mercato dell’auto è distrutto». L’unica luce che vede in fondo al tunnel, guarda caso, è la sua. Una costrizione, per come lui stesso vede le cose.
Parole che gelano tutti, financo quel Crosetto che stamattina, dopo l’annuncio del fondatore del Pdl, si trova sbaragliato in Tv e abbandona lo studio perché non sa letteralmente che dire, lasciando spazio alle lacrime.
Le parole del ministro, dunque, non sono che l’ultima goccia per un partito che già trabocca di veleni propri. E che ha degli interessi che vanno oltre il Dl Sviluppo su cui oggi ha disertato la votazione. Uno dei veri nodi per Berlusconi e i suoi fedelissimi è l’election day. Il consiglio dei ministri deve decidere quando stabilire il voto in Lombardia, e per il partito del predellino sarebbe un suicidio votare assieme alle altre regioni. A questo nodo si deve guardare, per capire bene dove nasce l’imboscata e la vendetta di Berlusconi.
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“Il Tar del Lazio guasta la festa del Cavaliere”, di Andrea Carugati

Tra legge elettorale ed election day, questo fine legislatura si presenta decisamente bizantino e dominato da un tatticismo esasperato e talvolta incomprensibile, in cui la parte del leone la fanno Berlusconi (con le sue minacce al governo e le continue giravolte sul Porcellum) e la governatrice dimissionaria del Lazio Renata Polverini.
Fatto sta che a ieri sera l’accordo su una nuova legge elettorale era in alto mare, il Tar del Lazio ha deciso che il Lazio deve votare il 3-4 febbraio, e non una settimana dopo (Polverini aveva indicato il 10-11) e che oggi il Consiglio dei ministri si troverà sul tavolo questa ingarbugliata matassa. Con il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri convinta che il 3-4 febbraio non sia la data giusta, per via del rischio che la raccolta delle firme per le liste debba svolgersi nel pieno delle feste natalizie e che per eventuali ricorsi sia necessario aprire gli uffici nel giorno dell’Epifania. Il ministro, spiegano fonti a lei vicine, sembra orientato a proporre oggi al Cdm di «aggirare» la sentenza del Tar del Lazio, e di trovare una soluzione che consenta di votare nel Lazio il 10 febbraio (con la possibilità di accorpare anche Lombardia e Molise). Mentre i legali della Regione Lazio suggeriscono addirittura un ricorso alla Consulta contro la sentenza di ieri del Tar.
Sulla data del voto per le politiche pesano altre incognite. Un election day il 3-4 febbraio è ritenuto impossibile. Per votare in quelle date, infatti, le Camere andrebbero sciolte questa settimana, senza approvare dunque né la legge di Stabilità e neppure la nuova legge elettorale. Uno scenario ritenuto impercorribile al Quirinale.
Sul tavolo del Consiglio dei ministri peseranno anche le minacce di Berlusconi, che non vuole che si voti nelle regioni in una data diversa dalle politiche e medita una sfiducia contro Monti. Tra i ministri nessuno vuole correre il rischio di essere sfiduciato. E questo elemento è destinato a pesare mnella discussione. Anche se la minaccia del Cavaliere viene ritenuta “a salve.”
Quanto al Lazio, a fissare le elezioni non sarà più la governatrice ma il Viminale, nella figura del suo commissario Giuseppe Pecoraro, prefetto di Roma, entro tre giorni dalla notifica. Nel caso in cui la sentenza non fosse aggirabile, è probabile che il governo si orienti a lasciare il Lazio al suo destino (le urne il 3-4 febbraio), e ad accorpare le regionali in Lombardia e Molise e le politiche al 10 marzo. Un’ipotesi che, a quanto pare, potrebbe placare le ire di Berlusconi, che ha già dato per scontata la vittoria di Nicola Zingaretti nel Lazio, e punta tutte le sue fiches sul Pirellone, dove intende sostenere Maroni in cambio del sostegno della lega alle politiche.
L’altro fronte bollente è quello della legge elettorale. E qui, se possibile, la situazione è ancora più caotica. Dopo che il Pd aveva aperto sul cosiddetto lodo Calderoli (che prevedeva un premio progressivo per il primo partito o coalizione che restasse sotto il 40%), martedì Berlusconi ha imposto ai suoi rappresentanti in Senato di presentare una nuova proposta, che prevede solo 50 seggi di “premietto” per il primo partito e un premio di maggioranza solo per la coalizione che superi il 40%, ma di tutti i voti validi (conteggiando anche le liste che non superano lo sbarramento del 4%). Un modo per spostare più in alto la soglia vera per accedere al premio di maggioranza, e per far saltare la trattativa col Pd. Non è un mistero che il Cavaliere abbia deciso di tenersi il Porcellum, per nominare lui i parlamentari e per tentare di boicottare in Senato la vittoria del centrosinistra (a palazzo Madama infatti il premio è regionale e Berlusconi è convinto di conquistarlo in alleanza con la Lega in Lombardia e Veneto).
Ieri la legge elettorale avrebbe dovuto iniziare il suo iter in aula al Senato. Ma, vista l’assenza di un accordo, tutto si è fermato. Il Pd ha fatto una sua controproposta (premietto di 58 seggi invece di 50), che sarebbe stata respinta dal Pdl. Oggi comunque la Commissione Affari costituzionali di palazzo Madama riprenderà l’esame del testo, e l’approdo in Aula dovrebbe essere la settimana prossima. Tra ieri sera e oggi nuova serie di contatti tra i due “sherpa” Denis Verdini (Pdl) e Maurizio Migliavacca (Pd), ma le possibilità di un’intesa in extremis non sembrano molte.
La novità è che il Pd sembra disposto a ragionare anche sulla base dell’ultima proposta del Pdl, forte dei sondaggi. Gasparri fa capire che Il Pdl è intenzionato ad andare avanti in Aula con la sua proposta, anche senza accordo. Calderoli si dice convinto che «il maiale può dormire sonni tranquilli». «È interesse sia del Pd che del Pdl andare a votare con l’attuale legge elettorale», assicura il padre del Porcellum. Resta il fatto che l’ultima proposta del Pdl (firmata Quagliariello) ancora non è stata depositata in commissione. Una proposta fantasma, in attesa dell’ultima giravolta di Berlusconi. Enrico Letta assicura: «Se resta il Porcellum faremo le primarie per i parlamentari».
L’Unità 06.12.12

“Il ruolo mediterraneo che compete all’Italia”, di Umberto De Giovannangeli

Le speranze di una “primavera” rischiano di sfiorire in un “inverno” insanguinato. Le notizie che giungono dall’Egitto raccontano di un Paese il più popoloso del mondo arabo, cruciale per la stabilità del Medio Oriente, lacerato, ad un passo dalla guerra civile. I Fratelli Musulmani hanno vinto, a giugno, le elezioni presidenziali, e il loro leader, Mohamed Morsi, ha inaugurato l’era del dopo-Mubarak. Ma il «nuovo Egitto» aveva, ed ha, bisogno di un presidente, non di un «faraone». Ma la forzatura costituzionale decisa da Morsi rappresenta un salto nel vuoto per il Paese delle Piramidi. E segnala una pericolosa involuzione totalitaria dell’Islam politico. Un segnale che va al di là dell’Egitto e interroga sulla contraddittoria transizione che investe altri Paesi protagonisti della «Primavera araba», a cominciare dalla Tunisia. L’Egitto spaccato, la Siria in guerra, il conflitto israelo-palestinese che s’inasprisce dopo la decisione del governo di Gerusalemme di rilanciare la politica degli insediamenti in reazione al voto con cui l’Onu ha elevato la Palestina a Stato non membro.
L’Europa non può assistere da spettatrice all’esplosione del Vicino Oriente. Soprattutto, non possono farlo i Paesi euromediterranei. Perché ciò che avviene alle nostre «porte» avrà una immediata conseguenza sulle nostra vite, sulle scelte che Roma, come Parigi, come Madrid, saranno chiamate a prendere in un futuro che si fa presente. Sicurezza, e non solo. La forza di un «Patto euromediterraneo» si misura oggi, nella capacità di incidere sugli eventi che si consumano al Cairo come a Tunisi, a Tripoli come a Gerusalemme e Ramallah. Un discorso che vale in particolare per l’Italia. Bene ha fatto il leader del Pd Pier Luigi Bersani, a svolgere la sua prima missione all’estero da candidato premier a Tripoli, incontrando la leadership del post-Gheddafi. E bene ha fatto il presidente del Consiglio Mario Monti a ribadire, ricevendo a Palazzo Chigi il primo ministro libanese, Najib Mikati, che l’Italia «non sta considerando ulteriori riduzioni del nostro contingente in Libano, perché riteniamo che oggi la missione Unifil sia più necessaria che mai». Nel mondo si conta se si pratica, e non si predica, se alle parole seguono i fatti: è stato così in Libano, quando il governo di centrosinistra, guidato da Romano Prodi e con Massimo D’Alema alla Farnesina, trainò l’Europa, e gli Stati Uniti, nella missione Onu che ha garantito, in questi sei anni, stabilità alle frontiere tra il Paese dei Cedri e Israele.
Una missione, quella di Bersani in Libia, e un’affermazione, quella di Monti sul Libano, che riaffermano, sostanziandola, la «vocazione mediterranea» del nostro Paese. Una vocazione che si riflette anche nel voto favorevole all’Onu sulla Palestina. Un voto sofferto, ponderato, coraggioso, anche se giunto in extremis (e i tempi, anche in politica estera contano e molto). Un voto che rafforza la leadership moderata di Abu Mazen e, per questo, offre una chance al dialogo con Israele; un dialogo che punti decisamente alla realizzazione dell’unica pace possibile: quella fondata sul principio «due popoli, due Stati».
Le «Primavere arabe», come gli accadimenti in Terrasanta, hanno liquidato l’illusione di quanti ritenevano possibile mantenere lo status quo nel Maghreb e nel Vicino Oriente, affidandosi a gerontocrazie che avevano fatto bancarotta morale, sociale, politica, dilapidando ricchezze, impoverendo i popoli, facendo scempio di diritti. La storia non si ferma. O si prova a orientarne gli eventi oppure se ne resterà travolti. Non si tratta certo di demonizzare l’Islam politico, la cui inclusione in processi democratici è una conquista e non un ostacolo: vale per l’Egitto come per la Palestina. Morsi non è Mubarak, così come i nuovi leader della Libia sono ben altra cosa del colonnello Gheddafi.
La scelta dell’Italia è quella del dialogo con tutte le parti in campo: una scelta giusta, da sviluppare. Ma questa linea non esime dal prendere posizione, dal dire, qui ed ora, da che parte stare. E, guardando all’Egitto in fiamme, la parte è quella dei ragazzi di Piazza Tahrir, è nel sostenere le ragioni di chi, come il premio Nobel per la pace, Mohamed El Baradei, chiede al presidente Morsi di concordare con le opposizioni una Carta costituzione condivisa, in cui tutti gli egiziani possano riconoscersi. Solo così potrà essere evitata una frattura insanabile, che avrebbe un pericoloso effetto domino nell’intera Regione. La vocazione mediterranea dell’Italia passa oggi per la «prova egiziana». Una prova durissima.
06.12.12

Tra candele e diagrammi «I quiz? Girone infernale», di Emiliano Sbaraglia

Non voglio nascondermi, e dico subito che forse di queste 70 batterie composte ciascuna di 50 domande, con le quali ogni notte (a 40 anni e passa di giorno si prova a lavorare, per provare a sopravvivere) sono costretto a confrontarmi ormai da una settimana, ne avevo bisogno anch’io. In fondo non è così male rispolverare un po’ le vecchie formule matematiche, tornare sulle equazioni, verificare i diagrammi degli insiemi, cimentarsi grammaticalmente con una lingua straniera, fare il punto sulle conoscenze informatiche acquisite in questi anni di pratica forzata (continuo a preferire un libro letto sulla spiaggia, o anche un giornale/rivista, e prendere appunti a mano): è una pratica che aiuta a fermarsi un attimo, per riflettere sulle proprie capacità, e le proprie lacune. E poi con questi test siamo tutti un po’ coinvolti. Ancora una volta «la scuola siamo noi», ancora una volta varie categorie, non solo quella degli insegnanti o aspiranti tali, si sentono parte in causa quando si tratta di scuola. E così torni a cena dai tuoi, dopo tanto tempo, per rifocillarti nella maniera giusta prima di affrontare la battaglia (50 domande, 50 minuti, 35 il punteggio richiesto, la risposta sbagliata mezzo punto in meno); telefoni a vecchi compagni di università, con i quali improvvisamente ti ritrovi sulla stessa barca, per cercare soluzioni («ma quante pesate serviranno per queste maledette candele?»); ti porti il foglietto in tasca con le domande scritte per l’esperto di computer, che ormai quando arrivi a lavoro ti guarda e scappa via («prendo il caffè e arrivo…») per paura dell’ennesimo interrogatorio; il fratellino o la sorellina ti danno una mano ogni tanto, perché un tocco di freschezza mentale, generazionale, a fine giornata ci vuole («Non è la 4, è la 3, è la stessa dell’altro concorso che ho provato io… …Qui parti dalle risposte, non dalle domande, che così fai prima»); la compagna (o il compagno) di sempre scrive tutto pazientemente su un grosso blocco, «altrimenti che vai avanti a fare?». Insomma, un piccolo e atipico girone infernale, dal quale sembri inghiottito senza scampo e per il quale neanche la coppia Dante-Virgilio, di solito così taumaturgica, pare riesca a consolarti, quando la incontri ormai quasi all’alba, iniziando a preparare anche l’eventuale prova scritta. D’altronde, parola di ministro, l’ultimo concorso è datato 1999, e il mondo è progredito. Vero, assolutamente vero. Però già qui si insinua (se volete vi sparo pure un paio di sinonimi a bruciapelo) un primo dubbio: ma quelli che quel concorso lì lo avevano vinto, e la cattedra ancora non ce l’hanno, che fine faranno? E se lo vincessimo anche noi, la nuova sfornata di nuovo secolo, che fine facciamo? Nel senso: va bene il test d’ingresso, ingurgitiamo tutte le batterie, peseremo le candele nel modo giusto, capiremo quale risposta corretta segnare nel caso in cui sia assolutamente certo che «quando viene fotografato Alfonso sorride. Ma se nessuno fotografa Alfonso, Mario telefona a Giuseppe» (inutile dire che «Ieri Alfonso non è stato fotografato»). Poi, se tutto procede, supereremo anche le prove scritte, e la lezione frontale da tenere agli studenti come prova orale (sono ammessi scongiuri). Ma finito tutto questo, cosa succederà? Ci saranno anche le cattedre (nel nostro gergo di supplenti disperati si chiama «concorso a cattedra», per l’appunto) o ci resterà soltanto la gratificazione di aver individuato il diagramma che soddisfa la relazione insiemistica esistente tra «conducenti di autobus, cittadini di Sassari e persone simpatiche»? Perché se così fosse ditelo subito, così ci prepariamo anche a quello (ormai ci prepariamo a tutto, per tutto, su tutto). Ci sono poi altri dubbi. E provengono non tanto da alcune risposte che non convincono nei test (ce ne sono, e in rete cominciano a spuntare come funghi), ma dalla valutazione generale del candidato. Perché un docente, meglio, un insegnante, non si può giudicare attraverso un criterio da settimana enigmistica. Un insegnante deve essere valutato non soltanto per le sue capacità cognitive o di prontezza nel rispondere a un questionario. Se si vuole veramente cambiare la scuola, se si vuole veramente cambiare questa scuola, credo che altrettanto valore debba essere attribuito anche alle sue capacità di stare in classe, di saper attirare l’attenzione degli studenti attraverso argomenti e metodi didattici adeguati, funzionali non solo ai tempi ma anche alle persone, le persone che ti trovi di fronte ogni mattina, che vivono un periodo della loro vita delicato e decisivo; e che cambiano, perché crescono giorno dopo giorno davanti ai tuoi occhi. Molti professori, diciamoci la verità, di tutto questo non si accorgono, o forse fanno finta di non accorgersene, o non se ne preoccupano. Molti altri sì, invece, e se riescono a coniugare questa loro attitudine con le competenze specialistiche adeguate risultano essere i professori migliori, a detta di tutti: dirigenti scolastici, genitori, studenti. Allora perché una volta, magari la prossima volta, non cambiamo l’ordine degli addendi? Perché al prossimo concorso, per fare selezione a monte (perché questo è il naturale scopo dei test) invece che iniziare dai quiz non cominciamo proprio dalle aule, dal clima di rispetto reciproco e di lavoro comune che un insegnante deve esser capace, sin da subito, a creare nella «sua» classe? Si potrà obiettare che non tutti siano portati a una prova del genere. Ma stavolta la risposta è piuttosto semplice: non è il dottore che ci ordina di esercitare questa professione, che al di là delle denigrazioni subìte in questi anni, nel pubblico e nel privato, rimane tra le più belle e importanti che esistano al mondo, in qualsiasi circostanza, ad ogni latitudine. Per imparare a risolvere un quesito di logica in fondo basta qualche giorno di applicazione. Essere insegnanti è tutta un’altra storia.
L’Unità 06.12.12

“La scuola che funziona meglio è quella finlandese. Sarà perché investono il 12% del Pil nell’istruzione?”, di Flavia Foradini

La ricetta proposta: «Una scuola con standard elevati, piani di studio solidi, insegnanti competenti e tutt’attorno, un’atmosfera culturale positiva nei confronti dell’istruzione». Mentre in Italia i 321.210 iscritti studiano per il concorsone della scuola del 17 e 18 dicembre è ancora una volta la Finlandia ad ottenere il primo posto nel nuovo studio sullo stato dei sistemi di istruzione in 50 Paesi del pianeta, lasciando l’Italia in 24° posizione per risultati cognitivi, al 27° per gli esiti formativi. Condotta da Pearson, la più grande casa editrice britannica, e dalla “Intelligence Unit” dell’Economist, la ricerca The Learning Curve ha considerato una sessantina di parametri e ha prodotto inoltre una serie di classifiche che fotografano la situazione sotto diversi punti di vista: investimenti governativi, reclutamento e trattamento degli insegnanti, rapporto docenti-alunni, anni complessivi di formazione, background culturale di ciascun Paese, numero di laureati.
I prof della Corea guadagnano due volte più del salario medio
Al secondo posto si è piazzata un’altra nazione spesso fra i primi della classe, la Corea del Sud, il cui sistema totalmente differente da quello finlandese, rende ineludibile una riflessione, e conferma che le vie verso il traguardo di un sistema efficiente possono essere molto diverse. Se nel Paese asiatico, nelle scuole di ogni ordine e grado regnano disciplina e rigore, e contenuti studiati a memoria e verificati da continui test, in quello scandinavo la parola magica è infatti flessibilità e creatività, e studio basato sulla comprensione, piuttosto che sulla ripetizione. Inoltre, se in Corea un docente guadagna due volte più del salario medio nazionale e ha classi numerose, in Finlandia lo stipendio di un docente a inizio carriera è in linea con la media degli altri laureati del Paese, ma le ore di insegnamento giornaliero non sono più di 4.
Investire, investire, investire
Entrambi i sistemi tuttavia, hanno alla base il comun denominatore di grandi investimenti nella scuola: il 12% del PIL la Finlandia, il 15% la Corea del Sud, e il risultato finale è in Estremo Oriente come nel Nord-Europa un elevato numero di laureati.
«Benché sembrino lontani anni luce l’uno dall’altro – si sottolinea nel Rapporto – i due sistemi sono molto simili negli esiti. Entrambi mostrano un alto livello di ambizione scolastica, ma declinato in modo diverso: in Corea attraverso test ed esami, in Finlandia attraverso un focus sull’apprendimento cooperativo. Inoltre il sostegno culturale dato da entrambi i Paesi alla scuola e all’istruzione in generale è molto elevato: un profondo impegno morale e socio-politico nei confronti della scuola in Finlandia, e per la Corea del Sud la convinzione che l’istruzione sia un dovere morale ed etico verso la famiglia e la società, oltre che nei confronti del proprio progresso personale. Alla figura del docente entrambi attribuiscono grande importanza, investendo molto nella fase di reclutamento e di addestramento».
Vengono scelti i migliori
Proprio l’accesso alla professione di insegnante, unito alla considerazione del suo ruolo da parte dell’opinione pubblica, è un ulteriore punto di contatto fra i due sistemi: in entrambi i Paesi, ai docenti si chiedono competenze di alto livello – il reclutamento avviene fra i migliori laureati, in Finlandia solo fra chi ha un master – e il loro status sociale è elevato.
Fra tutti gli elementi in gioco, gli estensori dello studio concordano sul fatto che la chiave di volta di un buon sistema scolastico non stia insomma nei metodi: «La variabile più importante è la qualità dell’insegnamento. Istruire è un’arte. I docenti non devono essere visti e trattati come tecnici, bensì come professionisti».
«Tuttavia – si ammonisce – se non c’è un azione di rinforzo dei traguardi educativi anche al di fuori della scuola; se, per esempio, la cultura imperante in un Paese glorifica celebrità che sanno a malapena leggere, – si avrà un problema enorme».
La conclusione di The Learning Curve: «L’istruzione conviene. È provato che nella maggior parte dei Paesi il livello di istruzione produce più alti guadagni, una maggiore aspettativa di vita, scelte personali più ponderate, un minor numero di comportamenti a rischio».
La ricetta proposta: «Una scuola con standard elevati, piani di studio solidi, insegnanti competenti e tutt’attorno, un’atmosfera culturale positiva nei confronti dell’istruzione».
Il Sole 24 Ore 06.12.12

“Quella ingiustizia da sanare al più presto”, di Cesare Damiano e Maria Luisa Gnecchi

Il tema della cosiddetta ricongiunzione dei contributi per poter avere un’unica pensione è più che mai all’ordine del giorno. Il ministro Fornero ha promesso di affrontarlo per trovare in queste settimane una soluzione per via normativa o amministrativa. La questione nasce da un errore compiuto nel 2010, al tempo del governo Berlusconi, quando al ministero del lavoro c’era Sacconi e a quello delle finanze Tremonti. Per comprendere il motivo per il quale si passò dalla ricongiunzione gratuita a quella onerosa, occorre fare un passo indietro.
Nel 2009 si è innalzata l’età pensionabile di vecchiaia delle donne del pubblico impiego a 65 anni lasciando inalterata a 60 anni l’età di pensionamento delle lavoratrici dei settori privati. Per impedire che, attraverso la ricongiunzione gratuita dei contributi, le donne iscritte all’Inpdap potessero trasferire i contributi all’Inps utilizzando in questo modo la possibilità di andare in pensione in modo anticipato, il governo varò una norma restrittiva.
Si tratta dell’articolo 12 della legge 122 del 2010 che ha abrogato: tutte le norme che consentivano la costituzione della posizione assicurativa presso l’Inps (legge 322 del 1958), qualora nel fondo del pubblico impiego non si fosse raggiunto il diritto alla pensione; la ricongiunzione volontaria verso l’Inps (articolo 1 della legge 29 del 1979), che era gratuita perché non comportava nessun miglioramento dell’assegno pensionistico. Si è prodotto in questo modo un effetto perverso che ha coinvolto indistintamente tutti i lavoratori con una iscrizione previdenziale in due o più fondi.
Il passaggio dalla gratuità alla onerosità da Inpdap verso Inps (o da altri fondi: elettrici, volo, telefonici, giornalisti), ha comportato l’emergere della situazione attuale che vede i lavoratori nella condizione di dover pagare due volte i contributi e di doversi accollare ingenti oneri: in alcuni casi l’esborso è anche di alcune centinaia di migliaia di euro. A questa situazione occorre porre rimedio se crediamo a un principio di irrinunciabile giustizia sociale.
Noi abbiamo presentato come Pd una proposta di legge abrogativa dell’articolo 12 della legge 122 già il 4 agosto 2010. Nel novembre dello stesso anno abbiamo inoltre presentato una proposta di legge sulla totalizzazione dei contributi con un duplice scopo: risolvere il problema delle ricongiunzioni onerose e tenere conto della nuova realtà del mercato del lavoro che richiede di essere flessibili e di cambiare più attività nel corso della vita di lavoro. In questa nuova situazione diventa quindi normale essere iscritti a fondi previdenziali diversi. Alla commissione lavoro della camera abbiamo elaborato un testo unico, già all’inizio del 2011, frutto delle proposte di legge presentate da tutti i partiti a seguito della nostra iniziativa.
Ci sono stati due anni di forti discussioni, di audizioni, di relazioni tecniche e di dati, in continuo cambiamento, relativi a costi e platee coinvolte. Quello che ci ha sempre stupiti è il fatto che la ragioneria dello stato abbia contabilizzato con risorse zero i maggiori introiti che derivano dalla trasformazione della gratuità in onerosità del ricongiungimento, mentre viene pretesa una copertura finanziaria miliardaria per ritornare alla gratuità precedente (la richiesta più onerosa che ci è stata avanzata era di 2 miliardi e 500 milioni per il periodo 2012/2022).
A questo punto noi riteniamo che, prima che finisca la legislatura, il problema vada risolto o attraverso la proposta di legge che abbiamo elaborato unitariamente o attraverso una iniziativa del governo per via legislativa o amministrativa. Per evitare di avere nuove bocciature sulle coperture finanziarie abbiamo deciso di coinvolgere preventivamente tutti i soggetti interessati al fine di risolvere il problema: ministero del lavoro, dell’economia, ragioneria, Inps e commissione lavoro.
Questo intervento fa parte delle correzioni alla riforma previdenziale che dobbiamo continuare a pretendere: per tutelare i lavoratori rimasti senza reddito; per sanare la situazione di coloro che hanno versato 15 anni di contributi entro il 31 dicembre del 1992; per risolvere il problema delle ricongiunzioni e per stimolare l’Inps a produrre tutte le disposizioni utili a dare sicurezza ai lavoratori con interpretazioni omogenee in tutte le sedi territoriali. Ieri il ministro del lavoro ha dichiarato che la mancata ricongiunzione dei contributi sta producendo effetti «folli». Siamo d’accordo ed è per questo che vorremmo una soluzione.
da Europa Quotidiano 06.12.12

“Lavoro, spunta la staffetta tra lavoratori anziani e giocani”, di Giulia Pilla

Per porre un freno alla disoccupazione giovanile, si fa strada l’ipotesi di una staffetta tra generazioni. La misura è allo studio del governo e a parlarne è stata ieri da Bruxelles la ministra del Welfare Elsa Fornero. Si tratta, ha spiegato, «della possibilità per un lavoratore “anziano” di cambiare il suo contratto in part-time, e in cambio le aziende prendono un apprendista». Si attendono dettagli ma, occhio e croce, il lavoro per i figli lo creeranno i padri, ai quali, tra l’altro proprio per la riforma Fornero, viene chiesta una permanenza in attività più lunga per avere una pensione dignitosa. Se anche i contributi versati saranno “part-time” il rischio che più che verso un “patto” si vada verso un conflitto generazionale c’è tutto. Nell’attesa, è importante che il dramma della disoccupazione sia entrato nell’agenda del governo come pure in quella dell’Unione europea che oggi riunisce i ministri del Lavoro e si appresta a varare un piano per i giovani. L’aumento del numero di giovani sino a 25 anni (12,9% nel 2011) che né lavorano né studiano né si formano, i Neet (Not in employement, education or training) si traduce in una perdita di 153 miliardi di euro, pari all’1,2% del pil Ue, che sale al 2% per alcuni paesi come l’Italia, la Grecia e l’Irlanda. La Commissione europea ha deciso così di correre ai ripari. Al centro, lo “Youth Guarantee Scheme” (Garanzia per la gioventù), un meccanismo ispirato da quelli già esistenti in Austria e Finlandia che prevede che entro 4 mesi dalla fine degli studi o dall’entrata in disoccupazione tutti i giovani sino a 25 anni debbano vedersi proporre un lavoro, un apprendistato, un tirocinio o un nuovo ciclo dì studi. Spetterà agli stati membri darsi da fare.
260 MILA PRECARI NELLA PA
Tornando in Italia e precisamente all’esercito dei precari della pubblica amministrazione, ieri il ministro della funzione pubblica, Patroni Griffi, ha detto chiaro e tondo che sarà «impossibile stabilizzarli tutti». «Sono circa 260 mila e la stabilizzazione per t tutti non si può. Prima di tutto perché molti di loro lavorano nella scuola, che ha un regime completamente diverso e poi perché sarebbe incostituzionale visto che le assunzioni si regolano attraverso i concorsi. Infine perché con una stabilizzazione generalizzata dovremmo bloccare le assunzioni per dieci anni. Inoltre c’è il problema degli esuberi. Negli enti previdenziali e negli enti parco le eccedenze di personale, effetto della spending review, ammontano a 3.300 tra gli impiegati che, sommati ai 4.028 già individuati per le prime amministrazioni dello Stato, portano il totale a circa 7.300 lavoratori pubblici». «Il fenomeno dei precari pubblici» ha continuato il ministro «è un problema che si è accumulato nel corso degli anni ed è legato anche al blocco del turn over. Non si può pensare che sia un problema risolvibile in pochi mesi. L’orientamento del governo per risolvere il problema nell’immediato è quello di mandare a regime una norma già varata dal precedente governo, con una riserva di posti costante nei concorsi ad esame per il personale con contratti a termine, che abbia maturato esperienza triennale nella pubblica amministrazione». «Ci sarà anche la possibilità» ha concluso Patroni Griffi «di rinnovare i contratti di lavoro a termine anche oltre il termine dei 36 mesi previsto, sulla base di criteri definiti in sede di accordo collettivo. Proprio per questo è stato dato mandato all’Aran per la definizione di un accordo quadro che individui i casi, i settori e i tempi, dove è possibile derogare e procedere al mantenimento dei contratti a termine». Il responsabile dei Settori pubblici della Cgil, Michele Gentile, ha replicato dicendo che «serve un intervento urgente che dia prospettive di lavoro immediate ai precari pubblici in scadenza e, parallelamente, l’adozione di scelte politiche di segno drasticamente contrario a quelle che hanno creato questa mole enorme di precariato per garantire lavoro stabile».
L’Unità 06.12.12