Pd e Pdl erano arrivati a un’intesa per superare il Porcellum. Poi è intervenuto Silvio Berlusconi. Oggi sarebbe dovuta approdare nell’aula del Senato la discussione sulla nuova legge elettorale. Il lavoro preparatorio è andato avanti per giorni, finché si era costruita un’ampia maggioranza sulla proposta Calderoli del premio di governabilità per «scaglioni» (più voti si prendono alle urne, più seggi aggiuntivi si ottengono in Parlamento). Questo, finché nella notte tra lunedì e martedì Berlusconi invia a Roma Denis Verdini per imporre a Gaetano Quagliariello e Lucio Malan il cambio di linea.
E infatti ieri mattina, nel corso della riunione della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama che doveva sancire il passaggio della discussione in aula, il colpo di scena. Quagliariello presenta un emendamento con una nuova formula: una coalizione può incassare il premio di maggioranza se supera la soglia del 40%, in caso contrario vengono assegnati 50 seggi al primo partito che prenda tra il 25% e il 39%.
I membri del Pd della commissione capiscono che non c’è più nessuna ipotesi di accordo su cui ragionare. Roberto Calderoli, al quale Verdini aveva chiesto di sottoscrivere insieme a Quagliariello il nuovo emendamento, la- scia la riunione scuotendo il capo, dicendo che rinuncia all’«accanimento terapeutico»: «Posso salvare un ferito ma non resuscitare un morto». Il morto è la possibilità di un’intesa, perché invece all’ideatore della «legge porcata» è ben chiaro che dopo l’intervento di Berlusconi la sua creatura gode di ottima salute: «Il Porcellum vedrà non solo il Natale ma pure le uova di Pasqua», profetizza. Ad aggirarsi infuriata per i corridoi di Palazzo Madama a questo punto è Anna Finocchiaro. «Ormai siamo in una condizione di sabbie mobili, se il Pdl cambia le carte in tavola in ogni momento, come pensiamo di andare in aula domani?». E infatti, dopo aver riconvocato la commissione a metà pomeriggio, al presidente della Affari costituzionali Carlo Vizzini non resta che prendere atto dello «stallo politico» e rivedere l’ipotesi di un passaggio della discussione in aula.
Quagliariello dice che «far saltare un accordo per 3 o 4 seggi in più o in meno sarebbe francamente il colmo». E a chi gli domanda se veda spazi per mediare con il Pd replica con un secco: «Non credo». Una rigidità di posizione che non fa che alimentare i sospetti tra i democratici, che vedono nella nuova proposta formulata dal Pdl un sistema elettorale pieno di insidie. A cominciare dal fatto che a differenza delle precedenti ipotesi Calderoli, la proposta Quagliariello fa riferimento per la soglia minima del 40% necessaria per ottenere il premio di governabilità non alle liste ammesse alla ripartizione dei seggi (cioè quelle che abbiano superato la soglia di sbarramento del 4%), ma al 40% di tutti i voti validi espressi.
Un sistema come questo, spiegano nel Pd, comporta di fatto non solo un notevole innalzamento della soglia minima, ma può essere strumentalmente utilizzato da chi sa già di perdere per rendere impossibile ad altri di raggiungere l’obiettivo. Come? Osserva il senatore Pd Stefano Ceccanti: «Spinge a presentare liste e listine, per attrarre voti e torglierne ad altri, pur sapendo che non si supererà la soglia di sbarramento. In cambio, a chi fa questi listini, si possono offrire posti nelle liste sicure». Che sia o meno questa la strategia della destra, è chiaro che un sistema che spinge a una moltiplicazione dei simboli sulla scheda elettorale porta inevitabilmente una maggiore frammentazione partitica e una minore governabilità.
Per questo il Pd giudica irricevibile, al di là del metodo, la nuova proposta. E ora? Chi nel Pdl non si rassegna all’ipotesi di andare al voto con una legge elettorale che lascia nelle mani di Berlusconi la decisione sulle candidature, proverà in un incontro fissato per stamattina a Palazzo Grazioli a far rivedere la linea all’ex premier. Finocchiaro, dopo aver riunito l’assemblea dei senatori Pd, fa sapere in ogni caso che il Pd è pronto a porre «una deadline di tempi e di merito perché la pazienza si sta esaurendo».
E il governo in tutto questo? Giampaolo D’Andrea, dice che sulla legge elettorale «il governo è neutrale al merito, ma auspica vivamente che si approvi». Quanto al Quirinale, se è da escludere l’ipotesi di un messaggio alle Camere, c’è da scommettere che un passaggio dedicato al tema ci sarà nel discorso di fine anno. Il senso delle parole che Giorgio Napolitano pronuncerà di fronte agli italiani dipenderà da quello che succede nei prossimi giorni.
L’Unità 05.12.12
Latest Posts
“Sei anni di umiliazioni perché gay il mio inferno tra i compagni di scuola”, di Paolo Berizzi
Un giorno nell’ora di matematica uno l’ha chiamato «Barbie ». Adesso sorride. «Mica è brutta la Barbie, ma io sono un uomo, e sono felice di esserlo». Altri compagni, meno sofisticati, come in una gara di freccette si sfidavano a fare centro infilzando l’obiettivo con gli epiteti più triviali e banali. «Frocio». «Finocchio». «Checca». «Fenóli» (in dialetto friulano). In classe. «Lo scrivevano sulla lavagna, oppure via sms». Notevole quel «sei un errore della natura», qui siamo nelle scienze antropologiche, accompagnato da un benevolo «meriti tutta la sfiga del mondo ». Sgombriamo il campo dallo stereotipo. Francesco (nome di fantasia) non è un “ragazzo col rossetto” o “coi pantaloni rosa”. I suoi gesti non sono effemminati e dopo sei anni di insulti ha tirato fuori un carattere tosto, un muro frangiflutti contro la ridicolizzazione becera. Ha 20 anni, bel ragazzo, figlio unico, single, padre dirigente, mamma «artigiana alimentare». Frequenta l’ultimo anno «là dentro », che sarebbe l’istituto tecnico di Udine dove da quando aveva 14 anni lo prendono in giro perché è gay. Ha passato momenti difficili. Ora, seduto a un tavolo del circolo Arci “Mis (s) Kappa”, fa coming out mediatico per combattere il bullismo omofobico. La stessa piaga che, forse — si indaga per istigazione al suicidio — è costata la vita di Andrea S., il quindicenne del liceo Cavour che a novembre si è impiccato in casa con una sciarpa.
Partiamo da Andrea.
«Fa male pensare che chi gli stava vicino non si sia accorto del suo disagio. Non è una critica ai genitori. Penso soprattutto, in questo caso, agli insegnanti».
I tuoi come si sono comportati? Quando i compagni ti insultavano sono intervenuti?
«Mai. Anzi, qualche insegnante si univa al coro: battutine, allusioni. Se un professore sa che in classe c’è un alunno omosessuale e scherzando con un altro alunno etero gli chiede “non hai la morosa, non sarai mica finocchio?”, e tutti ridono, come posso sentirmi io?».
Quando hanno iniziato a insultarti?
«Primo anno, avevo 14 anni. Mi ero accorto di essere gay da due anni. Mi confido con una compagna, la mia migliore amica. Lei lo dice a un altro e si sparge la voce. E la palla di neve inizia a rotolare».
E per quanto rotola?
«Sei anni. Fino a oggi che ne ho venti. Posso dire che là dentro, a scuola, ho passato, anzi sto passando, gli anni peggiori».
Adesso come va?
«Non è che le battute sono finite, è che io reagisco. Dopo l’outing forzato della mia amica, ho subito per cinque anni. In silenzio. Me ne hanno dette e scritte di tutti i colori, un ragazzo una volta, uno che mi piaceva, mi ha detto “se fossi i tuoi genitori ti ripudierei come figlio”. È la frase che mi ha ferito di più. Forse si è accanito per togliersi dall’imbarazzo di piacermi».
Come ti sentivi di fronte alle prime offese?
«Provavo odio, anche se è brutto dirlo».
Che cosa succedeva intorno a te?
«Gli omofobi non sono fantasiosi. Sto prendendo una cosa alle macchinette, uno si dà di gomito con un altro, un altro si mette le mani sul sedere, un altro cammina strisciando con la schiena sul muro. Col passare degli anni quell’ignoranza si è riprodotta autoalimentandosi».
Cioè?
«In terza mi bocciano e cambio classe. Penso: gente nuova, non ci si conosce, bòn… Me ne sto tranquillo sei mesi. I miei genitori non sapevano ancora niente. Ma mi vedevano sempre giù, preoccupato, depresso. Conosco una nuova amica, la mia ancora di salvezza. Mi dice: “parla coi tuoi genitori”.
Non ero pronto».
C’era la scuola, “là dentro”, e c’era il fuori, la casa, i genitori, gli amici. Due mondi diversi?
«Sì. A qualche amico avevo iniziato a dirlo. A scuola era sempre la solita musica, la vedevo e la vedo ancora come il posto delle sofferenze, delle umiliazioni. Ma intanto avevo preso un po’ più di sicurezza ».
Quando l’hai detto ai tuoi genitori?
«Un anno e mezzo fa. Mi vedono sempre giù. Porto a casa una pagella disastrosa, seconda bocciatura. Mi chiedono: “cos’hai? ti droghi?” Mio padre fa: “sei gay? No”. Un giorno arriva, prende un bel giro di parole per farmi la stessa domanda. A quel punto racconto. Lui si mette a piangere, ma è contento. “Finalmente dopo 18 anni conosco mio figlio”. Prende contatti con l’Arci gay di Udine, mi dice: “Se un giorno ti va di fare due chiacchiere…”. È stato un grande. Decidiamo, di comune accordo, che la cosa resta in famiglia».
Torniamo all’istituto tecnico. Insegnanti e preside che dicono quando i compagni ti prendono di mira?
«Niente. Fanno finta che il problema non esista. Mi sbatto per portare anche nella mia scuola il corso (tra i primi in Italia) organizzato dall’ufficio scolastico regionale e dall’Arci gay per sensibilizzare sul bullismo omofobico. La preside dice: “Il fenomeno qui non esiste”. Quando sa benissimo che non è così. C’è un’omertà diffusa».
Perché hai deciso di raccontare la tua storia (il primo a parlarne è stato il Messaggero Veneto), e perché chiedi che non si faccia il tuo vero nome?
«Voglio che chi sta soffrendo quello che ho sofferto io non si senta solo. Il mio nome non lo faccio perché i miei nonni farebbero fatica a accettarlo».
Saresti pronto a raccontare la tua storia anche al provveditore agli studi?
«Sì».
La Repubblica 05.12.12
“Scatti di stipendio: trattativa al via”, di R.P. da La Tecnica della Scuola
Il Governo ha trasmesso l’atto di indirizzo all’Aran che ha già convocato i sindacati del comparto per il prossimo 6 dicembre. Finalmente si parte: per giovedì 6 dicembre alle ore 15,30 i sindacati rappresentativi del comparto scuola sono stati convocati presso la sede dell’Aran per l’avvio della trattativa sul riconoscimento degli scatti stipendiali.
Per la Cis lScuola si tratta di un risultato importante della mobilitazione sindacale.
“Adesso – dichiara il segretario nazionale Francesco Scrima – siamo impegnati a concludere nel più breve tempo possibile e in modo positivo una “partita” che si sta trascinando da lungo tempo, tra inerzie e latitanze, rimosse soltanto grazie alla nostra mobilitazione”.
Scrima rivendica di “aver condotto una battaglia seria, basata su una scelta compiuta in modo ponderato, serio e coraggioso, che si contrappone all’inconcludenza di chi non sa andare al di là dei propri slogan”.
Il riferimento alla Flc-Cgil è fin troppo evidente.
D’altronde il sindacato di Mimmo Pantaleo non usa mezzi termini e adotta come slogan una metafora che non lascia dubbi: “Scatti, il gioco delle 3 carte. Una sola certezza: si perde sempre”.
I numeri che fornisce la Flc avvalorano questa lettura perché si parla di un taglio sul fondo di istituto non inferiore ai 350milioni di euro all’anno e siccome l’importo attuale del fondo è di 1.386 milioni di euro è facile prevedere che nell’arco di poco tempo il fondo stesso sarà di fatto azzerato.
In linea teorica la trattativa dovrebbe essere relativamente rapida in quanto è interesse di tutti chiuderla in fretta. Ma le trattative, si sa, riservano sempre qualche incognita. Per esempio i tempi potrebbero allungarsi se l’Aran dovesse decidere di cercare di ottenere anche la firma della Flc che, viste le premesse, non si farà convincere facilmente a sottoscrivere l’accordo.
E poi c’è un altro motivo che dovrebbe indurre tutti a chiudere la questione al più presto: fino a quando non si sottoscriverà l’accordo sugli scatti non si potrà sapere di quanto sarà decurtato il fondo di istituto e quindi non sarà possibile avviare la contrattazione decentrata nelle singole scuole.
Se la trattativa dovesse andare per le lunghe i contratti di istituto potrebbero slittare ancora.
Ma intanto docenti e Ata, nelle scuole, stanno già svolgendo incarichi e attività aggiuntive. Insomma un bel pasticcio.
La Tecnica della Scuola 05.12.12
“Frenata sui libri digitali in classe: l’introduzione sarà graduale”, di A.G. da La Tecnica della Scuola
Un emendamento al dl Sviluppo stabilisce che nel prossimo a.s. saranno coinvolte solo le seconde classi della scuola secondaria di I grado e le prime della secondaria di II grado che aderiscono al piano “Scuola digitale-Classi 2.0”. Successivamente le altre. Intanto da un’indagine Nielsen sembrerebbe che il consistente calo dei consumi dei libri cartacei si stia arrestando. L’introduzione dei libri digitali nella scuola media e superiore non può essere imposta da un anno all’altro. Dopo i proclami ministeriali degli ultimi anni, ora il Governo in carica decide di frenare: cosciente dei limiti finanziari e delle resistenze degli editori, ammette che l’adozione dei libri digitale dovrà per forza di cose essere graduale. A stabilirlo è un emendamento al dl Sviluppo, voluto proprio dal Governo e depositato in commissione Industria al Senato. L’emendamento stabilisce che l’adozione dei libri digitali o misti verrà continuata anche nel 2013/14. Ma saranno coinvolte solo le seconde classi della scuola secondaria di I grado e le classi di quella di secondaria di II grado che aderiscono al piano “Scuola digitale-Classi 2.0”.
Nell’anno scolastico successivo, il 2014/15, i libri ‘informatici’ troveranno spazio anche nelle le seconde classi della scuola secondaria di I grado e nelle prime classi della scuola secondaria di II grado che non aderiscono al progetto nazionale. Dal successivo, 2015/16, toccherà alle classi rimanenti.
Il provvedimento permetterà anche di non “affossare” l’editoria libraria cartacea tradizionale. Il cui mercato, riporta un’indagine Nielsen, sembra dare lievi segnali di miglioramento: a fine ottobre è stata rilevata infatti una piccolissima ripresa, dopo il consistente calo dei consumi del libro, che arriva a segnare un -7,5% a valore (pari a 82milioni di euro di spesa in meno nei canali trade). Si tratta di un segno meno ancora importante, spiegano dall’Associazione italiana degli editori, che però indica un progressivo recupero. Il mercato, infatti, registrava un -11,7% a fine marzo e un -8,6% a inizio settembre.
La Nielsen presenterà l’indagine nel corso di “Più libri più liberi”, di cui abbiamo già parlato su questa testata giornalistica, (Roma, 6-9 dicembre), la fiera nazionale della piccola e media editoria nell’ambito dell’appuntamento organizzato dall’Aie “Quanto vale il pluralismo in un mercato che sta cambiando?”, in programma giovedì 6 dicembre, alle 14 nella Sala Smeraldo del Palazzo dei Congressi dell’EUR. La seconda parte dell’incontro – partendo proprio dai dati economici del mercato domestico e dello scenario imposto dai cambiamenti tecnologici e competitivi provenienti dal mercato internazionale – affronterà il tema delle leve necessarie al mantenimento e allo sviluppo del pluralismo dell’offerta, dell’accesso ai contenuti e alla loro distribuzione, messi in discussione o compromessi proprio dalle trasformazioni in atto e dalla contrazione delle vendite.
La Tecnica della Scuola 05.12.12
“Il rinnovo dei metalmeccanici finisce in Tribunale”, di Massimo Franchi
Proprio alla vigilia dello sciopero generale di oggi e domani e della probabile nuova firma separata sul rinnovo che potrebbe arrivare oggi, la Fiom deposita un ricorso contro Federmeccanica, Fim-Cisl e Uilm-Uil per l’esclusione dalla trattativa per il contratto dei metalmeccanici. Ieri mattina gli avvocati della Fiom hanno presentato al Tribunale di Roma (lo stesso che le ha dato ragione sulla discriminazione subita a Pomigliano) un ricorso basato sull’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e «l’ulteriore patto aggiunto del 21 settembre 2011 con il quale le stesse parti si impegnavano ad attenersi all’accordo a tutti i livelli». Secondo la Fiom per i contraenti (Confindustria, Cgil, Cisl e Uil e quindi le loro federazioni metalmeccaniche) quell’accordo ha valore di legge e il non rispetto deve essere sanzionato dal giudice che deve riportare la Fiom-Cgil a quel tavolo. In più Federmeccanica negando il tavolo della trattativa alla Fiom ha tenuto un comportamento antisindacale violando il codice civile. Nel ricorso si legge: «Le intese sindacali sopra indicate prevedono che, qualora si intendano aprire negoziazioni finalizzate alla stipula di un contratto collettivo nazionale, il sindacato di categoria (nel caso di specie la Fiom-Cgil, come tutti i sindacati che abbiano una rappresentanza non inferiore al 5% nel settore) debba necessariamente essere coinvolta nel procedimento contrattuale, al fine di realizzare l’obiettivo comune di garantire trattamenti unitari per tutti i lavoratori». L’accordo in più «impone di presentare una piattaforma unitaria». Nelle 40 pagine di ricorso viene ripercorsa la storia dell’ultimo anno. Le ripetute richieste di incontro della Fiom ai coinquilini di Corso Trieste nella palazzina dell’ex Flm (Fim e Uilm) e a Federmeccanica con le risposte (negative) ricevute. Si tratta di «un ricorso con tempi rapidi di fissazione d’udienza» e la prima udienza potrebbe tenersi il 20 gennaio. Il ricorso già dà per scontato che nel frattempo il nuovo contratto separato sia stato sottoscritto. Per questo ne chiede l’eventuale «nullità/inefficacia» e chiede alle controparti Federmeccanica, Fim e Uilm (definite «resistenti») «il pagamento a favore della Fiom Cgil» del «risarcimento dei danni di immagine» «pari a 2 euro per ognuno degli 358mila iscritti» e «dí 1.000 euro per ogni giorno di ritardo» dal momento dell’accoglimento del ricorso. Federmeccanica ha sempre sostenuto che la Fiom non sia stata invitata alla trattativa perché non ha mai riconosciuto il contratto separato del 2009 e lo scorso anno aveva presentato una piattaforma per rinnovare il contratto del 2008. Ulteriore ironia della sorte, all’inizio la Fiom si è schierata apertamente contro l’accordo del 28 giugno. Scontato che la notizia produrrà reazioni molto forti. La firma sul nuovo contratto da parte di Federmeccanica, Fim, Uilm e Ugl arriverà oggi, grazie alla convocazione di «una trattativa ad oltranza», come annuncia la Fim Cisl parlando di «intesa che rappresenterebbe un forte segnale di speranza per il Paese». Nelle settimane scorse la Fiom ha anticipato alla Cgil la decisione. A Corso Italia si sono confrontate le consulte giuridiche. Dopo l’iniziale perplessità, la Cgil ha appoggiato la decisione della Fiom. I giuristi della Fiom hanno spiegato come il ricorso non sia contro gli altri sindacati, ma per il rispetto dell’accordo del 28 giugno.
L’Unità 05.12.12
“Trecento ore di lezione in più all’anno. Il progetto di Obama per la scuola Usa”, di Francesco Semprini
Il programma sperimentale sarà operativo dal prossimo anno in 40 istituti: “Tenere i ragazzi nelle strutture scolastiche per più ore porta a migliori rendimenti”. Trecento ore di lezione in più all’anno. E’ questa la misura più aggressiva contenuta nel progetto pilota di riforma dell’anno scolastico che sarà adottato da alcune scuole di cinque Stati americani. L’obiettivo, fortemente voluto dall’amministrazione di Barack Obama, è rafforzare la formazione dei giovani e rendere l’istruzione «made in Usa» più competitiva a livello globale. Il programma di durata triennale sarà operativo dal prossimo anno, inizialmente in 40 istituti di Colorado, Connecticut, Massachusetts, New York e Tennessee per un totale di 20 mila studenti. Sarò facoltà di genitori e professori decidere se allungare la durata giornaliera delle lezioni, accrescere il numero di giorni di insegnamento, o adottare una formula intermedia.
«Sono convinta che i risultati ottenuti nell’arco dei prossimi anni convinceranno il Paese intero a cambiare l’impostazione dei programmi», spiega Arne Duncan, segretario all’Educazione. In gran parte degli Stati Uniti, l’orario osservato dalle scuole, pubbliche e private, si estende dalle otto del mattino alle tre di pomeriggio, ma, secondo gli esperti, solo il prossimo anno saranno complessivamente sei milioni il numero di ore in più di lezione che si svolgeranno grazie al nuovo programma. Il finanziamento dell’iniziativa sarà coperto da un plafond di fondi federali, statali e locali, oltre al contributo di Ford Foundation e del National Center on Time & Learning, due importanti organizzazioni americane senza scopo di lucro. La filosofia sulla quale si basa il progetto pilota è che in generale tenere i ragazzi nelle strutture scolastiche per più ore porta a miglior rendimenti anche quando il tempo extra viene dedicato ad attività non strettamente attinenti al curriculum scolastico.
«Il tempo in più trascorso con gli insegnanti, o dentro le strutture significa tutto per la formazione dei giovani», avverte il governatore del Colorado, John Hickenlooper. In particolare, secondo gli esperti, trascorrere più tempo nelle aule consente agli studenti che rimangono indietro di recuperare attraverso interventi individualizzati, e più in generale di rafforzare le capacità attitudinali in materie considerate strategiche come matematica e scienze. L’amministrazione Obama ha sempre sostenuto iniziative di rafforzamento dei programmi scolastici con l’aumento del numero di ore di lezione. La stessa Duncan nel 2009 aveva auspicato l’avvio di una riforma in materia visto dal momento che i giovani americani risultavano, dal punto di vista dell’istruzione, svantaggiati rispetto ai coetanei cinesi e indiani. Anche per questo il ministro aveva chiesto che le scuole rimanessero aperte undici mesi all’anno, e finanche sette giorni su sette.
Ma l’equazione tra numero di ore trascorse in classe e rendimento degli studenti potrebbe non essere valida a priori. Secondo una ricerca del National School Boards Association’s Center for Public Education i ragazzi di quei Paesi dove sono più alti i rendimenti in certe materie, come Corea del Sud, Finlandia e Giappone, hanno programmi con meno ore di lezione rispetto agli Stati Uniti. Alcuni, infine, temono che trascorrere più tempo in aula renda più complicato dedicarsi ad altre attività: «Con tutte queste ore di scuola in più – domanda Jeanette Martinez, insegnante di quarta elementare – come faremo, noi ed i nostri ragazzi, a fare tutto il resto?».
La stampa 05.12.12
“Il Mediterraneo di Bersani”, di Barbara Spinelli
E’ significativo che d’improvviso, festeggiando l’esito delle primarie, Pierluigi Bersani abbia parlato di tutt’altro, cioè dell’essenziale: che fare, per uscire dai recinti così angusti, monotoni, dei nostri intimi patemi nazionali. Da che parte guardare, per capire dove precisamente stiamo nel mondo, e quel che si può fare di questo nostro dove.
È stato appena un attimo: quando ha accennato al Mediterraneo e al proprio viaggio in Libia Era già Presidente del consiglio; per la postura, i pensieri. Anche se Monti resterà a Palazzo Chigi, qualora il centro sinistra non avesse la maggioranza al Senato. D’un tratto anche l’assillo dello spread, che da anni è prioritario per chi voglia governare, è apparso non superato, ma anch’esso angusto. Non che sia chiaro cosa il candidato Premier abbia in mente, quando dice che l’Italia deve riconquistarsi, nella casa nostra che è il Mediterraneo, «un suo profilo e un suo ruolo: politico, morale, culturale, economico». Vedremo che farà, uscito dal recinto e preso il largo. Ma per la prima volta da anni si è avuta l’impressione di uno sguardo che va un po’ più lontano, nel tempo e nello spazio. Verrà il momento, si spera, in cui il tema cruciale sarà l’Unione, e Bersani si presenterà come leader europeo. Ma un futuro Premier che parte dal Mediterraneo sarà più forte, quando dirà quel che siamo e vogliamo in un’Unione che è regredita formidabilmente. Che con le sue mani s’è resa schiava della recessione, divenendo incapace anch’essa di prendere il largo e occuparsi del mondo. Mediterraneo, Medio Oriente, Europa: per ora non sono che sottotitoli d’un libro ancora da scrivere, sapendo la tragedia di un’Unione divenuta un problema anziché una soluzione, per il pianeta e anche i propri cittadini. L’Europa è un po’ come l’Italia che ha appena celebrato 150 anni di unità senza vedere che davvero assente non è il comune sentire nazionale ma lo Stato, e che il nostro male è un Nord persuaso di viver meglio scostandosi dai miasmi del Sud. L’Europa deve imparare la solidarietà fra le sue nazioni, certo, ma per creare quale statualità sovranazionale? E una volta creata la statualità, per contare con che pensieri e azioni, fuori casa? Non è del tutto convincente l’ambasciatore Puri Purini: la politica estera non va tenuta fuori dalla campagna elettorale, perché il mondo che chiamiamo esterno non lo è più da tempo, a meno di non delegare la sua gestione a un’America in declino. È importante che Bersani sia stato chiaro sul Medio Oriente, discutendo con Renzi il 28 novembre. Sapeva bene che avrebbe irritato molti benpensanti, ma quel che gli europei devono dire lo ha sottolineato con forza: la tensione Israele-Palestina non può continuare ad avvelenare la regione, incoraggiando i soli estremisti dei due campi, proprio perché il Mediterraneo è
casa nostra oltre che loro, e in primis del Sud Europa che ha approvato lo status di osservatore all’Onu come Stato non membro, ottenuto dall’Autorità nazionale palestinese. È stato giusto che il nostro governo abbia detto sì, anche se con tali e tanti
caveat che il sì è un mezzo no. Li spiega bene Natalino Ronzitti, esperto di diritto internazionale, sul sito dell’Istituto Affari Internazionali: al presidente Abbas si chiede «di astenersi dall’utilizzare il voto dell’Assemblea generale per ottenere l’accesso ad altre Agenzie specializzate delle Nazioni Unite, e per adire la Corte penale internazionale». Chissà come Bersani valuta tali
caveat, secondo Ronzitti lesivi addirittura dell’articolo 11 della Costituzione (raccomandato è il ripudio della guerra, e la promozione di organizzazioni internazionali come l’Onu, Agenzie e Corti comprese). Resta che il candidato Premier ha parlato con saggezza, mentre Renzi è apparso vecchio, legato ai fallimenti di Blair e a un’America che con Bush credeva di avere la forza e il diritto dell’egemone che esporta la democrazia con le armi. Se il Mediterraneo è di nuovo Mare Nostro, vuol dire che siamo responsabili del suo principale conflitto. E che un messaggio va inviato a Netanyahu, per come ha reagito al nuovo status della Palestina: congelando le tasse raccolte da Israele per i territori occupati (più di 100 milioni di dollari al mese), e annunciando 3000 nuovi alloggi illegali in Cisgiordania; da collocare fra Gerusalemme Est e la colonia di Maale Adumim, in modo che la West Bank si spezzi fra Nord e Sud e lo Stato palestinese non nasca mai. Dice Bersani: «Siamo davanti a due popoli: uno insicuro, l’altro umiliato ». Difficile confutarlo. Difficile confutarlo anche quando ritiene incompiute le rivoluzioni arabe: in Egitto, prendono ora d’assalto gli islamisti di Morsi.
C’è poi l’Europa. Bersani forse approva la Federazione, anche se parole esplicite mancano. Non basta tuttavia cantare la
Federazione, declassandola a nenia. Bisogna indicare la via, i modi, i tempi. Con urgenza, perché la crisi continua e sempre più serve un salto di qualità, che cambi l’Unione rendendola meno invisa ai cittadini. Il vantaggio è che la sinistra-Sel alleata a Bersani non è quella di ieri. Vendola è radicale anche sull’Europa: ma radicale nel volerla politica, e forte. Non è solo. Molte sinistre radicali e verdi chiedono un potere europeo vero, ma democratico: a cominciare dal Syriza greco. Lo voleva anche George Papandreou: fu trattato come appestato, da chi oggi comanda in Europa, quando promise ai cittadini un referendum sul rigore.
Forse Bersani potrebbe cominciare proprio da qui: domandandosi perché tanti greci dicono no a un’austerità che non ha «modernizzato» il Paese, come dice Monti, ma l’ha svenato, mortificato. Non dimentichiamo quel che Papandreou disse il 5 dicembre 2011 al congresso dei Verdi tedeschi: «Non basta che gli Stati diventino responsabili fiscalmente, per risolvere la crisi. Abbiamo bisogno di disciplina, certo, ma di politiche di crescita – a livello europeo – egualmente efficaci e responsabili. Il mio problema è aiutare la Grecia a non fare bancarotta. Ma anche aiutare l’Europa, lottando per un’Unione diversa». Si può, si deve parlare con gli appestati. Bersani può. Gli sconfitti sanno infinitamente più cose dei vincitori, sempre. Qualcosa su cui costruire c’è. C’è la disponibilità di Berlino alla Federazione. C’è una sua sotterranea riluttanza a scaricare Atene e a divenire l’affossatore dell’Unione. C’è la proposta, presentata dalla Commissione di Bruxelles il 28 novembre, di integrare politicamente i paesi euro in pochi anni. L’aggettivo federale manca ma non le idee federali: aumento del bilancio comune, potere dell’Europa di tassare e di indebitarsi in comune. C’è anche il riconoscimento che l’austerità può paralizzare le spese pubbliche generatrici di crescita.
Nell’agenda Monti primeggia la lotta al debito pubblico, indispensabile. Ma con ricette dalla vista corta, visto che hanno causato soprattutto disoccupazione, miseria. Il 12 ottobre, Stefano Fassina (Pd) ha scritto un decisivo articolo sull’Huffington
post, che s’intitolava «Un numerino errato »: evocato è uno studio del Fondo monetario sui «fiscal multipliers» (i numerini, appunto, «applicati per prevedere l’impatto delle manovre di finanza pubblica sul prodotto interno lordo» e sulla recessione). Conclusione dello studio: il prezzo delle discipline è ben più alto del previsto (nel caso greco, per 10 miliardi di euro di manovra di aggiustamento, la contrazione del Pil è stata di 20 miliardi, non di 5 come annunciato). «Il dato più drammatico – scrive Fassina – è politico, democratico e psicologico: l’enorme sofferenza sociale è inutile.
A causa del numerino errato il debito pubblico, in rapporto all’economia reale sempre più rattrappita, impazzisce. I populismi si gonfiano. I neonazisti arrivano in Parlamento».
Tutte queste cose l’Europa dovrà guardarle in faccia, non dopo le discipline ma subito. Così come è suicida rimandare a domani, solo perché l’emergenza euro l’ha cancellata, un’offensiva contro il disastro climatico che si proponga di far pagare chi emette anidride carbonica (carbon tax).
Altrimenti come riscopriremo il ruolo politico, morale, culturale, economico che Bersani invoca in questi giorni?
La Repubblica 05.12.12