Come era stato previsto da molti giuristi più responsabilmente attenti al nostro effettivo sistema costituzionale, la Consulta ha deciso il conflitto fra Capo dello Stato e Procura della Repubblica di Palermo nel senso che quest’ultima non poteva trattare le intercettazioni «casuali» del Presidente della Repubblica alla pari di quelle di un qualsiasi parlamentare, per di più inventandosi la giuridica impossibilità di rimediare all’invasione della sfera riservata del Presidente della Repubblica mediante una immediata distruzione delle intercettazioni illecitamente operate.
Le pur essenziali notizie deducibili dal comunicato della Corte Costituzionale, in attesa che vengano depositate le motivazioni dell’importante sentenza, sono molto chiare su due punti fondamentali: ammettiamo che le intercettazioni delle telefonate del Presidente della Repubblica siano effettivamente casuali (ma che pensare se fossero state intercettate addirittura telefonate in partenza dal Quirinale?).
I magistrati della procura della Repubblica non possono trattare le telefonate del Presidente come quelle di un qualsiasi altro soggetto, andando a valutare se fossero rilevanti o meno relativamente ad un ipotetico reato comune, che certamente era del tutto estraneo agli unici casi in cui, ai sensi dell’art. 90 della nostra Costituzione, il Presidente della Repubblica potrebbe essere considerato penalmente responsabile (alto tradimento o attentato alla Costituzione: gravi ipotesi delittuose che vedono peraltro la competenza di organi giudiziari diversi).
La piena autonomia del Presidente della Repubblica esige, infatti, che egli normalmente sia trattato in modo differenziato sul piano penale e processuale, senza intromissioni pericolose nella sfera dell’esercizio delle sue specifiche funzioni di garanzia e di indirizzo. E non vi è dubbio, come mi sono già permesso di scrivere su questo giornale, che il trattamento delle conversazioni del Presidente della Repubblica alla pari di quelle di qualsiasi altro cittadino possa produrre una menomazione delle attribuzioni costituzionali del Presidente.
In secondo luogo, il comunicato della Corte indica addirittura una precisa disposizione del codice di procedura penale che i magistrati della Procura di Palermo avrebbero ben potuto utilizzare per eliminare rapidamente le intercettazioni delle conversazioni del Presidente della Repubblica, così come in generale si devono sollecitamente eliminare le intercettazioni «eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge». Certo è assai strano che magistrati assai esperti ed in genere anche alquanto ardimentosi nella utilizzazione creativa di tutte le norme utili alla concretizzazione dei valori costituzionali abbiano cercato in questo caso di nascondersi dietro alla asserita mancanza di qualche puntuale norma di legge che prevedesse specificamente ciò che derivava da una precisa disposizione costituzionale.
Non resta quindi che dire che è avvenuto quanto era auspicabile e largamente prevedibile, sulla base di una equilibrata lettura delle vigenti disposizioni costituzionali.
Certo però è preoccupante pensare alle troppe forzature interpretative operate da alcune parti, evidentemente confondendo valutazioni politiche negative sulle scelte operate di recente dal Presidente della Repubblica (sempre possibili, anche se non condivisibili) con rozzi tentativi di coinvolgerlo in oscure vicende di tutt’altro genere. Su questa linea non può neppure sottovalutarsi il peso seriamente negativo di alcuni interventi di organi di stampa che hanno denigrato sia la Corte nel suo insieme che suoi singoli componenti; c’è da augurarsi davvero che le chiarificazioni apportate dall’esito del conflitto riducano od eliminino polemiche ingiuste e del tutto improprie.
La Stampa 05.12.12
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“Le ragioni del diritto”, di Eugenio Scalfari
La sentenza della Corte costituzionale sul ricorso del Capo dello Stato per il conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo è chiarissima e definisce l’intangibilità delle prerogative presidenziali. Le intercettazioni telefoniche (o con qualsiasi altro mezzo effettuate), sia pure indirettamente acquisite da una Procura (nel caso specifico da quella di Palermo) debbono essere immediatamente distrutte dal Gip su richiesta della stessa Procura che ne è venuta in possesso. La Procura in questione non ha titolo per dare alcun giudizio sul testo intercettato; deve semplicemente e immediatamente consegnare le intercettazioni al Gip affinché siano distrutte senza alcuna comunicazione alle parti e ai loro avvocati.
La Corte renderà pubbliche le sue motivazioni a gennaio ma il dispositivo si appoggia fin d’ora all’articolo 271 del codice di procedura penale (come a suo tempo avevamo già scritto su questo giornale) che dispone questo trattamento per gli avvocati e per tutti i casi analoghi che prevedano l’assoluta segretezza delle notizie connesse alla loro professione. E quindi, per logica deduzione, ai medici e ai sacerdoti su quanto apprendono in sede di confessione. Le prerogative del Capo dello Stato hanno la stessa natura e quindi lo stesso grado di protezione che non deriva soltanto dall’articolo 271 ma dalla stessa Costituzione. Il Presidente della Repubblica può essere imputato soltanto per tradimento della Costituzione e attentato nei confronti dello Stato. In quei casi, quando il Parlamento in seduta comune ne chiede il deferimento alla Corte essa sospende le prerogative del Capo dello Stato e si trasforma in Alta Corte di giustizia iniziando il processo che culminerà in una sentenza.
Il punto essenziale del comunicato della Corte sta nel fatto che a suo avviso l’inammissibilità delle intercettazioni anche indirette e quindi la loro immediata distruzione non sono soltanto ricavabili dall’ordinamento costituzionale e giudiziario, ma da specifica normativa.
Il capo della Procura di Palermo, Messineo, e il procuratore aggiunto, Ingroia, avevano fino all’ultimo sostenuto che non esisteva alcuna norma specifica in materia; forse si poteva ricavare con una interpretazione dell’ordinamento, ma — spiegavano i procuratori in questione — non è compito dei magistrati inquirenti cimentarsi con interpretazioni ardue e comunque dubitabili. Per loro valeva dunque soltanto la norma che prevede per la distruzione di intercettazioni non rilevanti ai fini processuali un’udienza davanti al Gip insieme alle parti interessate e ai loro avvocati. Il che ovviamente equivale a renderle pubbliche facendo diventare pleonastica la loro successiva distruzione.
Il comunicato della Corte, stabilendo invece che una specifica norma esiste, spazza via il ragionamento della Procura di Palermo con un effetto ulteriore e definitivo: la sua sentenza si affianca e addirittura si sovrappone all’articolo 271 rendendone esplicita l’applicabilità anche al Capo dello Stato.
Fu dichiarato più volte dallo stesso Giorgio Napolitano che il suo ricorso alla Consulta non intaccava in nessuno modo il lavoro della Procura sull’inchiesta riguardante i rapporti eventuali tra lo Stato e la mafia siciliana. Infatti quel lavoro è già arrivato ad una prima conclusione con la richiesta di rinvio a giudizio di tredici imputati. Gli stessi Messineo e Ingroia hanno più volte e in varie sedi pubblicamente dichiarato che nessuna pressione e nessun impedimento al procedere della loro inchiesta è mai venuto dal Quirinale, il quale anzi ha sempre incoraggiato la magistratura a portare avanti il suo lavoro volto all’accertamento della verità su quel tema storicamente delicato e importante.
La richiesta di rinvio a giudizio è tuttora pendente dinanzi al Gup del tribunale di Palermo il quale, con correttezza professionale, ha deciso di attendere la sentenza della Consulta prima di prendere le sue decisioni. Non sappiamo se vorrà ulteriormente aspettare le motivazioni di quella sentenza, ma probabilmente sarebbe tempo sprecato.
A lui interessava sapere se le intercettazioni in questione potevano avere un qualche interesse ai fini dell’inchiesta o di eventuali altri processi connessi. La risposta è arrivata e il Gup di Palermo potrà ora procedere. Se troverà negli atti della Procura indizi e prove sufficienti il processo andrà avanti; se quegli indizi e prove non fossero decisivi potrà decidere l’archiviazione; se la competenza territoriale non fosse quella di Palermo potrà rinviare gli atti al tribunale di Caltanissetta.
E questo è tutto. Resta l’indebito clamore che alcune forze politiche e alcuni giornali hanno montato attorno a questi fatti lanciando accuse roventi, ripetute e immotivate contro il Capo dello Stato. Se fossero in buona fede sarebbe il momento di chiedere pubblicamente scusa per l’errore commesso, ma siamo certi che non lo faranno. Coglieranno anzi l’occasione per estendere l’accusa di faziosità e di servilismo alla Corte costituzionale imitando in questo modo l’esempio fornito da Silvio Berlusconi tutte le volte che attaccò la “Consulta comunista” per aver cassato alcune leggi “ad personam” proposte da lui o dal suo partito.
Quello compiuto da alcune forze politiche e mediatiche non è dunque un errore commesso in buona fede ma una consapevole quanto irresponsabile posizione faziosa ed eversiva che mira a disgregare lo Stato e le sue istituzioni. Sembra quasi un fascismo di sinistra.
La Repubblica 05.12.12
Giornalisti: Ghizzoni, su equo compenso superate posizioni di bandiera
Introdotta norma di verifica dello stato di attuazione della legge. “Il Parlamento, approvando all’unanimità la legge sull’equo compenso nel settore giornalistico, ha dato una risposta di civiltà e ha dimostrato la capacità di travalicare le posizioni di bandiera a favore dell’interesse dei cittadini e delle cittadine. – lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati, dopo l’approvazione in sede legislativa, con 29 voti favorevoli su 29 votanti, della legge sull’equo compenso – È una legge necessaria che, se applicata, può evitare lo sfruttamento dei lavoratori precari e freelance che contribuiscono a garantire il diritto costituzionale all’informazione. Solo un compenso equo e congruo – sottolinea Ghizzoni – può garantire la libertà di un giornalista, altrimenti vessato da trattamenti economici libero-professionali inidonei ad assicurare il rispetto della dignità del lavoratore. Il testo approvato – spiega la presidente della Commissione – introduce, inoltre, una norma che richiede la trasmissione alle Camere, da parte del Presidente del Consiglio, di una relazione annuale sullo stato di attuazione della legge. Sarà con l’atto di verifica del funzionamento delle leggi deliberate – conclude Ghizzoni – che il Legislatore avrà svolto il suo compito.”
Legge elettorale. “Il Pdl ci faccia sapere cosa pensa perché non capiamo più che intenzioni hanno”
“Il dossier più importante è la legge elettorale in relazione allo sbandamento del centrodestra”. Pier Luigi Bersani, oggi a Tripoli, spiega le priorità post-primarie per il Partito Democratico. “Se domani – sostiene il segretario Pd – il Pdl avrà una riunione per decidere la linea politica, per favore ci faccia sapere cosa pensa precisamente, e sul piano politico, della legge elettorale, perché non capiamo più, è la ventesima proposta, e non conosciamo le intenzioni politiche”.
“Sulla legge elettorale siamo di nuovo sulle sabbie mobili”. Lo dice Anna Finocchiaro, presidente del gruppo del Pd al Senato. “Ogni accordo raggiunto viene smentito il giorno dopo da un’ulteriore proposta che peggiora quella precedente. Ora si parla di un nuovo emendamento del Pdl, che cambierebbe nuovamente i termini del confronto. E questo avviene nonostante noi, con grande attenzione e cura, continuiamo a cercare un’intesa per il cambiamento.
Mi sembra che sia sacrosanto, e bene ha fatto Bersani a farlo dalla Libia, incalzare il Pdl, il presidente Berlusconi e il segretario Alfano affinché dicano cosa vogliono fare con la legge elettorale. Noi abbiamo chiesto e coerentemente continuiamo a chiedere che la legge elettorale assicuri la governabilità del Paese e la stabilità del nuovo governo. Su questo ovviamente c’è questione, ieri anche sul tetto alle spese elettorali che invece era già frutto di accordo e che invece noi riteniamo indispensabile. Noi siamo contrari alle preferenze ma che almeno ci sia un tetto di spesa, che non renda la le campagna elettorale indecente, permeabile da parte di organizzazioni criminali o di finanziamenti occulti. Io sono laica, sto a guardare, mantengo l’impegno del mio partito per dare una nuova legge elettorale al Paese. Ma serve una nuova legge e non abbiamo ancora capito, ad oggi, a che gioco gioca il Pdl”.
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“Che tempo che fa? Al Miur piovono bugie…”, di Francesca Puglisi
Come sa bene il Ministro Profumo, il Partito Democratico lo ha incontrato nei primissimi giorni del suo insediamento per offrire le proprie proposte per restituire qualità alla scuola pubblica italiana, affrontando le “emergenze” e la propria “visione” di medio lungo periodo. Per prima cosa avevamo chiesto di ricostruire un clima di fiducia, dopo il triennio di insulti rivolti a insegnanti, dirigenti, studenti, collaboratori scolastici. Il Ministro dopo un buon inizio, ha virato verso neo campagne sui fannulloni imboscati con i distacchi sindacali (40.000 l’annuncio, poi ritrattato a 10.000) e con le umilianti 24 ore . Tra le emergenze abbiamo messo ai primi posti la situazione disastrosa dell’edilizia scolastica, chiedendo di allentare il patto di stabilità interno dei comuni e delle province per liberare risorse disponibili per ristrutturare le scuole ed edificarne di nuove secondo criteri di ecosostenibilità e con moderni spazi per la nuova didattica.
Già nel decreto semplificazioni avevamo chiesto di assegnare alle scuole un organico funzionale stabile per almeno un triennio, perché crediamo nella riforma -che noi abbiamo fatto- dell’autonomia scolastica, ma che senza risorse umane e finanziarie stabili, si è trasformata in stalking burocratico.
Abbiamo combattuto la sua visione di scuola “selettiva e competitiva” descritta nel cosiddetto “decreto sul merito” perché crediamo che il compito della scuola pubblica sia quello di realizzare l’art.3 della carta costituzionale “di rimuovere gli ostacoli di origine economico sociale che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” e attraverso un adeguato sistema di diritto allo studio, sono i capaci e meritevoli, privi di mezzi, che devono avere l’opportunità di poter accedere ai più alti gradi di istruzione. Non a caso il documento di Europa 2020 chiede di dimezzare la dispersione scolastica e di raddoppiare il numero di laureati.
Abbiamo realizzato una conferenza nazionale sui nativi digitali la scorsa primavera, a cui lo stesso Ministro ha partecipato, in cui tutto il mondo della scuola ha detto chiaro e forte, che sì, servono investimenti per le nuove tecnologie, ma soprattutto serve un investimento nella formazione in servizio degli insegnanti, perché le lim diventano puro elemento scenografico se non accompagnate da una nuova didattica.
Avevamo chiesto al Ministro di stabilizzare i precari che stanno lavorando su posti vacanti (non costa di meno licenziarli a giugno e riassumerli a settembre, pagando indennità di disoccupazione e ferie non godute) e di assumere quella delega sul reclutamento che il Parlamento aveva già dato al Ministro Fioroni. Anche su questo abbiamo offerto una precisa proposta che lega alla formazione iniziale il reclutamento dei docenti, ma soprattutto per il concorso avevamo chiesto di limitarlo alle classi di concorso esaurite o in via di esaurimento, senza dar vita ad un concorso lotteria.
Incontri ad hoc li abbiamo fatti per affrontare l'”emergenza infanzia”, poiché con i tagli drammatici agli enti locali e al totale disimpegno del Ministero, sono tornate a crescere in tutt’Italia le liste di attesa per avere un posto a scuola tra 3 e 5 anni. Un diritto leso a migliaia di bambini e bambine, una ferita che va sanata.
Dal Ministro abbiamo ascoltato moltissimi annunci positivi che non si sono poi concretizzati in fatti e alcune parole davvero fuori posto. Che ora i fallimenti del Governo tecnico debbano essere scaricati sui partiti, accusandoli di mancanza di proposta, ci sembra eccessivo. Il documento consegnato quasi un anno fa al Ministro Profumo è nel nostro sito.
Scusi Ministro, ha forse iniziato la Sua campagna elettorale?
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“La strana pretesa dei liberisti. Chiedere alla sinistra di fare la destra”, di Massimo Mucchetti
L’intellettualità liberista italiana aveva eletto Matteo Renzi a proprio campione. E ora si dice delusa perché il Pd e, più in generale, il centro-sinistra non ne hanno accolto le suggestioni alle primarie. Ma ha senso una simile delusione? Credo di no. Sui diritti politici e sull’architettura istituzionale la convergenza delle diverse culture politiche è possibile e utile. L’ha dimostrato la Costituzione, elaborata dopo la Seconda guerra mondiale. Lo hanno poi confermato le leggi sui diritti civili, sulle quali si sono formati consensi trasversali, basati su scelte di coscienza. È invece sull’economia e sul finanziamento delle politiche sociali che si articola l’opposizione tra le tesi socialdemocratiche e socialcristiane, tipiche del Pd in Italia e dei partiti socialisti in Europa, e le tesi liberiste, tradizionalmente coltivate dalla destra. Perché mai questo duello, che costituisce il sale delle democrazie occidentali, dovrebbe risolversi all’interno di una sola area politica, il centro-sinistra, o meglio di un solo partito, il Pd?
Negli Stati Uniti, il movimento dei Tea Party non pretende di dettare la linea al Partito democratico. Gli basta condizionare e magari conquistare il Partito repubblicano. In Italia, invece, si vorrebbe che il Pd diventasse liberista perché, come titola un fortunato pamphlet di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, il liberismo sarebbe di sinistra. Ma un conto è un tentativo di egemonia culturale come quello fatto dai due economisti di scuola, appunto, liberista, ben altro conto è intestare una politica di destra all’altra ala dello schieramento politico. Le contaminazioni fanno bene al pensiero. Tutti possono imparare qualcosa da tutti. Dal fallimento dell’Unione Sovietica, le sinistre hanno imparato a diffidare delle nazionalizzazioni generalizzate e della pianificazione centralizzata oltre che dal regime a partito unico. Vista la crudeltà del capitalismo manchesteriano, i liberali di fine Ottocento accettarono l’idea, cara al nascente socialismo, di limitare per legge a otto ore la giornata di lavoro. Dalla crisi del 1929, uscirono negli Usa e in Italia le leggi bancarie che tagliarono le unghie alla speculazione fatta con i soldi degli altri e l’intervento statale nell’economia. Ex comunisti, ex socialisti ed ex democristiani possono pur ritrovarsi sotto lo stesso tetto del Pd, visto che, nella politica economica, erano tutti più o meno socialdemocratici. Ma le contaminazioni non possono essere spinte fino alla democrazia che si compie in un partito solo.
Per funzionare bene, la democrazia ha bisogno di chiarezza e di pluralismo. E allora l’intellettualità liberal-liberista dovrebbe chiedersi come mai, nonostante la simpatia dei media e la diffusa voglia di facce nuove, Matteo Renzi non ce l’abbia fatta. Tirare in ballo l’ostilità di apparati che non esistono più (al Pd ne resta uno pari a un decimo di quello degli anni Settanta) equivale a fuggire davanti alle domande difficili così come fuggivano gli ex comunisti nel 1994 quando attribuivano la propria sconfitta alle televisioni di Berlusconi e non ai propri limiti. Le domande difficili sono due: a) come mai, in Italia, la cultura politica liberale non è riuscita a conquistare l’egemonia, in particolare nell’area politica che gli è storicamente affine, e cioè nel centro-destra? b) che cosa potrebbe fare, adesso, per risalire la china?
Una democrazia funzionante ha bisogno di schieramenti politici presentabili. Il centro-sinistra, pur con tanti limiti, lo è. Il centro-destra, purtroppo, si è illuso di esserlo. Più che discutere di Renzi e Bersani, questa intellettualità dovrebbe aiutare la destra politica a capire come mai Silvio Berlusconi e i partiti da lui guidati (Forza Italia, il Pdl) non siano mai diventati quel partito liberale di massa che promettevano di essere. Confessando, magari, perché per tanti anni questa stessa intellettualità ci aveva creduto. C’è tutta una storia patria da revisionare. A partire dall’Unità d’Italia. Ma c’è anche un ripensamento più radicale sui tempi recenti. Un ripensamento a proposito di due scelte. La prima è di tipo economico e consiste nell’aver cercato di estendere senza più confini l’area dell’economia di mercato all’interno dell’economia e l’influenza del capitalismo finanziario all’interno dell’economia di mercato. La seconda scelta è di tipo antropologico e riguarda la centralità assoluta attribuita alla competizione, con relativa, superficiale mitizzazione della cosiddetta meritocrazia, rispetto all’arte della collaborazione e alla gestione politica delle disuguaglianze. Per favorire questo duplice processo si è ridotta l’azione di governo a mero arbitraggio. Con il risultato che i più forti hanno sì sovrastato senza remore i più deboli, ma alla fine hanno rotto il giocattolo dell’economia.
Preso atto del successo di Obama, i repubblicani americani stanno ripensando le proprie scelte. La cultura della destra italiana, presto o tardi, dovrà fare i conti con l’età berlusconiana. E questa è una responsabilità alla quale non poteva sfuggire andando a covare il proprio uovo nel nido del Pd.
Il Corriere della Sera 04.12.12
“Troppo rigore uccide il malato”, di Adriana Cerretelli
Spread in discesa, euro in rimonta sul dollaro. Sui mercati globali sembra tornato l’ottimismo sul futuro del l’eurozona dopo il complesso e sospiratissimo accordo della settimana scorsa sul debito greco e il via libera del Bundestag, dopo l’intesa, non meno sospirata, per sbloccare gli aiuti europei alle disastrate banche spagnole e dopo l’avvio dei negoziati per mettere una pezza anche all’emergenza Cipro. In margine all’ennesima riunione dei ministri finanziari, ieri a Bruxelles si respirava un’aria un po’ più rilassata, la voglia di sperare finalmente nel principio della fine di una tormenta che da tre anni non dà tregua. Distensione legittima e perciò destinata a durare nel tempo oppure solo una breve pausa felice nell’impervia dinamica di una crisi che non passa, perché non sono risolte le cause che l’hanno generata? I segnali positivi ci sono ma il fuoco continua a covare sotto le ceneri. In breve, il riposo del guerriero deve attendere. E nessuno in Europa può illudersi di potersi sedere sugli allori. Al contrario, sono molte le trappole in cui la crisi potrebbe tornare a inciampare. La disponibilità di Angela Merkel verso una parziale ristrutturazione del debito greco dopo il 2014-15, sempre che Atene faccia il suo dovere, è un’importante apertura di credito ai partner Ue più che ai diretti interessati, chiamati a risolvere il problema oggi, non dopodomani. L’operazione partita ieri di riacquisto del debito greco svalutato è lo snodo fondamentale del piano per garantirne la sostenibilità al 124% nel 2020 ma resta una scommessa al buio. Se sarà o no un successo si saprà soltanto il 13 dicembre, proprio alla vigilia del nuovo vertice europeo che in teoria, come vuole soprattutto il cancelliere tedesco, dovrà aprire un nuovo cantiere di riforme istituzionali molto ambiziose per l’eurozona e per l’Unione. Nella malaugurata ipotesi che il buy-back si rivelasse un flop, l’ipoteca ellenica tornerebbe a turbare i sonni del club. Che peraltro ha già diverse altre gatte da pelare. Il fresco downgrade dei due fondi salva-Stati dell’eurozona, Efsf e Esm, seguito a quello della Francia, non rappresenta un segnale di fiducia nell’area e di sicuro è il preludio di future emissioni di bond più care. Neanche l’accordo sulla vigilanza bancaria unica, quando arriverà, sarà risolutore. Non è assodato infatti che garantirà davvero il divorzio tra la crisi del debito sovrano e quella bancaria, essenziale per poter archiviare quella dell’euro. Perché non si sa quante delle 6mila banche dell’Unione cadranno sotto la sorveglianza della Bce e quante resteranno sotto quella nazionale, comprese quelle fuori dall’area euro. Né quando il nuovo sistema entrerà in vigore, quando quindi l’Esm potrà diventare a tutti gli effetti operativo. Tra tutte le incognite del teorema della normalizzazione europea, la più difficile da sciogliere si chiama comunque crescita. Di cui si evita accuratamente di discutere o se lo si fa, come ieri il tedesco Wolfgang Schauble davanti all’Europarlamento, è per ribadire che «una politica di sviluppo sarà possibile solo con conti pubblici sostenibili, per questo insistiamo sempre sulla riduzione del debito». Eppure, se paragonato a quello di Stati Uniti e Giappone, lo stato di salute finanziaria dell’eurozona appare decisamente già buono: deficit di bilancio al 3,3% medio quest’anno e al 2,6% il prossimo contro 8,5% e 7,3% americano e 8,3 e 7,9 nipponico. Per il debito 93% contro 140% Usa e 200% di Tokyo. Conti correnti in attivo (+1,1% e 1,5% nel biennio) contro il passivo Usa del 3,1% e 2,9% e un attivo nipponico minore (0,9% e 1,1%). Però l’Europa è in recessione (-0,4% nel 2012 se andrà bene), gli Stati Uniti crescono del 2,1% e il Giappone del 2 per cento. I nostri investimenti sono in calo del 4,5%, quelli Usa salgono del 5%, la disoccupazione viaggia oltre l’11%, quella americana supera di poco l’8%. Sono dati che dicono che il rigore va bene ma troppo rigore può uccidere il malato e in prospettiva anche l’euro, perché gli alleva in seno divergenze che alla lunga potrebbero spaccarlo. Tra il 2008 e il 2012, dal fallimento di Lehman Brothers in poi, infatti, il Pil in Francia è caduto dello 0,8%, in Italia del 6,8%, in Spagna del 5,4% ma in Germania è salito dell’1,7% con i disoccupati in calo del 2,4% mentre in Francia aumentavano del 2,5%, in Italia del 4,1%, in Spagna del 15,5 per cento. Il tutto mentre l’indice della produzione manifatturiera Ue ieri ha segnato il 16mo calo mensile e il rischio povertà, avverte Eurostat, colpisce 120 milioni di europei, uno su quattro. Per quanto tempo riuscirà a stare insieme l’Europa stritolata dall’eccesso di austerità senza respiro, prigioniera dell’estremismo tedesco che la condanna al forzato dimagrimento nello sviluppo staccandole anche la spina degli investimenti, nazionali e europei, in infrastrutture, ricerca e innovazione, in breve nel futuro? E come recuperare competitività globale senza un’adeguata politica industriale e invece con una mano legata dietro la schiena e l’altra votata esclusivamente a risanare i conti con una furia ossessiva ma alla prova dei fatti controproducente? Più passa il tempo e più diventa evidente che non è tanto la sindrome greca a minacciare la tenuta dell’euro quanto la cecità di timonieri unidirezionali. E rigidi nel mondo della flessibilità globale.
Il Sole 24 Ore 04.12.12