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“Palestina. La chimera della convivenza in una terra divisa dalla storia”, di Lucio Caracciolo

Che differenza c’è fra Santa Sede e Palestina? Secondo l’Onu nessuna, da quando il 29 novembre scorso l’Assemblea Generale ha elevato a schiacciante maggioranza (138 sì, 9 no e 41 astenuti) l’Autorità nazionale palestinese (Anp) al rango di “Stato osservatore non membro”, lo stesso di cui gode l’entità vaticana. Ma mentre la monarchia papale, con i suoi 572 cittadini in 0,44 chilometri quadrati, è uno Stato a tutti gli effetti, l’Anp del “sindaco di Ramallah”, Abu Mazen, resta una categoria dello spirito. Non controlla nessun territorio sovrano: quel che avanza della Cisgiordania occupata da Israele, amputata dal Muro e colonizzata dagli insediamenti ebraici – tra cui vere e proprie città fortificate – è strettamente sorvegliato dalle Forze armate di Gerusalemme. Sicché oggi nella “Palestina storica”, accanto allo Stato d’Israele troviamo due monconi isolati – Gaza e pezzi di Cisgiordania – che sfuggono a qualsiasi definizione geopolitica. Nel primo, esteso quanto la fu provincia di Prato, sono compresse oltre un milione e mezzo di anime, sotto il regime islamista di Hamas. Nel secondo, più piccolo della provincia di Perugia, si accalcano due milioni e mezzo di palestinesi, più quasi mezzo milione di coloni ebraici.
Su questo sfondo, il ritornello “due popoli due Stati” che la “comunità internazionale” – altra entità indefinibile – continua imperterrita a salmodiare, suona piuttosto beffardo. Non sarà certo il voto del Palazzo di Vetro a renderlo meno astratto. Eppure intorno ad esso si è animato l’ennesimo teatro retorico-diplomatico che i protagonisti della disputa israelopalestinese sentono il bisogno di allestire a intervalli irregolari per certificare l’esistenza in vita del contenzioso. Dunque del loro diritto a occuparsene, da professionisti del negoziato virtuale.
La drammatizzazione scenica non deve farci perdere di vista la sostanza: il sogno (o l’incubo) dei due Stati resta chimera. Per molte ragioni, di cui due decisive: il popolo palestinese è lungi dal formare una nazione; allo stesso tempo, la crescente eterogeneità della sua popolazione spinge Gerusalemme a cementare il fronte interno nella logica dell’emergenza permanente, a garanzia dello status quo geopolitico, dunque del titolo di massima potenza regionale.
Consideriamo i palestinesi. Oggi se ne contano circa 12 milioni e mezzo. Di questi, quattro milioni nei Territori occupati (Gaza e Cisgiordania), che per Israele sono “terre contese”. Solo un terzo del totale, quindi. Il resto (4,5 milioni) è dato da profughi nei paesi arabi, spesso stipati in campi invivibili, trattati come paria dai regimi che pure si proclamano difensori della loro causa; altri (1,2 milioni) sono cittadini della Giordania, separati nella fatiscente casa del re hashemita; altrettanti dispersi nel mondo, specie in Europa e nel Nordamerica. Infine, quasi un milione e mezzo sono israeliani. Cittadini non sionisti di che alcuni di loro continuano a considerare “entità sionista”, trattati come soggetti di serie B dal governo di Gerusalemme e come traditori dai più fanatici fra i loro connazionali (non concittadini). Tuttavia refrattari a scambiare il benessere e le relative garanzie della democrazia israeliana con la gabbia di Gaza o la Cisgiordania occupata e depressa.
Fra i palestinesi vigono inoltre ataviche gerarchie claniche. Alcune riflesse nella frammentazione politica, polarizzata fra i “moderati”
di Fatah e gli “estremisti” (classificati come “terroristi” da Israele) di Hamas, oltre a un rosario di formazioni minori, dalle più laiche e liberali a quelle di matrice islamista, vicine all’Iran. Ciascuna di tali organizzazioni ha la sua milizia e la sua intelligence – quasi sempre più di una. Più che dedicarsi a combattere il nemico sionista, anzi collaborando spesso con il Mossad, tali bande si contendono i traffici d’ogni genere che proliferano all’ombra dell’occupazione israeliana. Insomma, il popolo palestinese soffre, vive grazie agli aiuti internazionali (che contribuiscono a denazionalizzarlo), ma è lungi dal formare una nazione compatta e decisa nel reclamare un proprio Stato.
Peraltro Israele fa di tutto per impedire che le diverse anime palestinesi si raccolgano in un fronte unico. Con il paradossale risultato di intendersi meglio con Hamas – ad oggi il “male minore” nella Striscia, infiltrata dai qaidisti e dalle milizie filo-iraniane – grazie anche alla mediazione del nuovo Egitto di Morsi, che con il clan di Ramallah, comunque ricattabile perché ipercorrotto. Non ingannino le “guerre di manutenzione” Hamas-Israele, che servono a oliare i meccanismi di uno stallo cui nessuna delle due parti intende rinunciare, per carenza di alternative migliori.
Quanto al popolo israeliano. I cittadini dello Stato d’Israele sono circa 8 milioni, di cui quasi 6 classificati come ebrei, 1,7 arabi e 0,3 di altro ceppo. In base alle statistiche ufficiali, un quarto degli abitanti dello Stato ebraico non sono dunque ebrei. E di tanto in tanto riecheggia l’allarme del sorpasso arabo nello spazio dell’ex Mandato britannico, fra Mediterraneo e Giordano, recentemente riannunciato da Ha’aretz in base a discutibili statistiche fondate sul fisco. Ma il problema maggiore, per l’ebraicità dello Stato ebraico, non deriva tanto dalla crescita araba ai suoi vaghi confini (ovvero nei limiti del “Grande Israele”, esteso a Giudea e Samaria/Cisgiordania), quanto dalle divisioni interne alla maggioranza ebraica. Non solo la classica partizione originaria fra sefarditi e ashkenaziti, ma quelle recentemente accentuate dall’immigrazione di neoisraeliani di ascendenza africana e soprattutto slava. Immigrati recenti che costituiscono, fra l’altro, il grosso dell’esercito nazionale. A cominciare dagli ebrei di origine russa, alcuni dei quali meglio definibili come russi di origine ebraica (talvolta millantata), che occupano posizioni di rilievo nell’élite politica e nelle gerarchie sociali d’Israele, magari dotati di doppio o triplo passaporto. Per tacere dell’incomunicabilità fra estremisti ultrareligiosi, concentrati tra Gerusalemme e colonie, ed ebrei assai più laici, prevalenti a Tel Aviv e dintorni.
Un tempo, quando di venerdì ai preti veniva voglia di carne, la battezzavano pesce. L’“ego te baptizo Palestinam” pronunciato dall’Assemblea generale dell’Onu può divertire i cinici ma non cambia i termini del dramma. La Palestina è altrove.
La Repubblica 06.12.12

“Il Paese della destra impossibile”, di Luigi La Spina

Dalla nascita della Repubblica italiana non l’abbiamo mai avuta. Prima, e per quasi 50 anni, la democrazia cristiana ha occupato il suo spazio, ma rifiutando, quasi con sdegno, il suo nome. Poi, quello spazio l’ha usurpato Berlusconi, ma rifiutando, anche lui, di interpretare quella politica. Ora, ci sarebbe la grande occasione per assistere, finalmente, alla nascita della destra italiana. Purtroppo, è molto probabile che, anche questa volta, il nostro Paese non riesca a diventare una normale democrazia moderna e occidentale.
Eppure, le condizioni adesso sembrano molto favorevoli.
A sinistra, si è consolidato in Italia un partito democratico che pare aver superato l’anomalia tardo-novecentesca della sommatoria di due ex burocrazie, quella comunista e quella della sinistra dc. Una maturazione che smentisce le tante profezie sull’inarrestabile destino fallimentare della creatura patrocinata da Prodi e che si deve non solo all’audacia giovanilistica di Renzi, ma anche alla sorniona abilità tattica di Bersani.
Sull’altro versante dello schieramento politico, le convulsioni amletiche di Berlusconi potrebbero trasformare un partito personale di massa in una guardia personale di pseudo-amazzoni e di pseudo-dannunziani. Si susseguono, a Palazzo Grazioli i vertici come quello di ieri. Ma l’impressione è che anche se Berlusconi decidesse alla fine di candidarsi, il declino dell’uomo e del Pdl sarebbe inevitabile.
Il centro, tanto evocato e tanto evanescente, si dibatte tra rivalità incomprensibili e meschini calcoli di potere. Mescola a vuoto buone intenzioni con astratti disegni e consuma attese ormai insopportabili. La Chiesa italiana, infine, che ha sempre esercitato una sotterranea opera di interdizione per la nascita di una destra «normale» anche nel nostro Paese, sembra, col passaggio tra Ruini e Bagnasco, aver rinunciato a quella funzione di supplenza, che ha reso, in passato, quella parte del campo politico di ispirazione cattolica, gregaria, minoritaria e sostanzialmente inutile.
Perché, allora, sono così flebili le speranze che il grande vuoto che si è drammaticamente aperto di fronte al partito democratico possa essere riempito da una formazione politica che si modelli come la destra conservatrice britannica, quella post-gollista francese o quella popolare della Germania di Angela Merkel e della Spagna di Mariano Rajoy? Perché il liberismo economico fatica persino ad essere praticato dai tecnici del bocconiano Monti, le liberalizzazioni e le privatizzazioni devono essere rivendicate con orgoglio dal socialdemocratico Bersani, l’appello alla legge e all’ordine sia paradossalmente monopolio della sinistra giustizialista?
Il motivo è semplice: proprio perché la destra, negli oltre 60 anni della storia repubblicana, non ha mai avuto, né una presenza politica, né una presenza culturale e sociale di un certo rilievo. Ridotta a manipoli di reduci ex fascisti e velleitari evoliani, costretta a nascondersi tra i nostalgici e ultraminoritari circoli conservatori, assente in una cultura universitaria e letteraria egemonizzata dalla sinistra, poteva nascere dal collasso democristiano. Ma l’arrivo del partito-azienda berlusconiano l’ha, per altri vent’anni, costretta all’aborto.
L’illusione di uno sparuto gruppo di intellettuali vaganti, delusi dal comunismo, come Colletti, Melograni, Vertone, si scontrò quasi subito con l’amarezza di chi aveva voluto chiudere gli occhi, pur di coltivare il sogno di una destra europea. Altri intellettuali, di matrice liberale, come Urbani, Martino, Rebuffa tentarono, con maggior pazienza, di contaminare il partito di Berlusconi con le loro idee, ma, prima o poi, furono costretti a emarginarsi o essere emarginati.
Dopo due decenni, le circostanze sembrano, adesso, ancor più promettenti per assistere al parto di una destra il cui travaglio dura dagli albori della Repubblica. Ma il pessimismo nasce da una domanda: può nascere un vero partito di destra in Italia senza una cultura di destra, senza una borghesia liberale e legalitaria, senza una classe dirigente selezionata meritocraticamente e non cooptata per fedeltà e conformismo? Forse dovremo aspettare altri 60 anni.
La Stampa 06.12.12

“Le nuvole dell’Ilva e le facce di Taranto”, di Adriano Sofri

Ci sarà stato un centinaio di persone al lungo presidio di ieri davanti alla Prefettura tarantina, indetto per protestare contro il decreto governativo in nome della Costituzione. Qualcuno faceva dell’umor nero sull’eventualità di adattare l’ottimo slogan degli studenti romani, “Siamo venuti già menati”: “Siamo venuti già decretati”. Manifestazione per militanti: la Costituzione si incarna per loro in “Patrizia”, la giudice Todisco determinata quanto riservata. IERI la magistratura ha ratificato il dissequestro degli impianti, ma non quello dei prodotti fermi sulle banchine, e in grado di riempire una dozzina di navi. Frutto di un reato, cioè prodotti in violazione al divieto, non rientrano nella sanatoria di fatto sancita dal decreto, di cui peraltro i magistrati eccepiranno l’incostituzionalità. Per riprendersi il malfabbricato, l’azienda può essere tentata di decidere di nuovo la messa in qualche cosiddetta libertà dei 5mila dell’area a freddo, giocando così ancora il lavoro contro il giudice.
Sul garbuglio istituzionale e politico (ci sarà fra due mesi un parlamento a tramutare in legge il decreto?) prevale ora quello sociale. Le scorte dell’Ilva sono vicine a esaurirsi, ma gli operai del carico e scarico a mare non sono risaliti sulle gru, come avevamo raccontato (e racconteremo ancora) e non hanno intenzione di farlo nelle condizioni di prima. Ieri per giunta nello stabilimento c’è stato un nuovo incidente per la collisione fra una gru mobile e un altro mezzo: l’operaio sbalzato fuori è rimasto ferito, per fortuna in modo non grave.
La cupa sensazione che la sorte si accanisca sulla città era stata rinfocolata martedì da un ulteriore accidente occorso nel Mar Piccolo durante l’esercitazione di un sottomarino. Due esperti militari, incursori subacquei, hanno avuto un malore nell’uscita di emergenza a dieci metri di profondità, e uno di loro è ricoverato in prognosi riservata. Dunque la cupezza grava sulla città come la nuvolaglia perenne dell’Ilva (e dell’Eni, della Cementir, dell’Arsenale). Il decreto, spacciato altrove come la mossa del cavallo che mette assieme salute e lavoro, bonifica e produzione, è sentito in città soprattutto come un colpo di grazia. È un fatto che, da qui, ogni opinione sembra degna di attenzione, ma a condizione di essere pronunciata tenendo come metro di misura piuttosto che il Pil nazionale il locale reparto di pediatria oncologica. I tarantini girano portandosi dietro un’ombra di morte, e sentendosene portati: le morti avvenute, quelle imminenti, quelle ferreamente prescritte dalle statistiche sanitarie per i prossimi vent’anni. Una percentuale per chi nasce e abita ai Tamburi,
una un po’ minore per i quartieri più distanti, un’altra per la provincia… Si capisce così la monotonia delle fotografie che illustrano gli articoli di giornale: disastri, sciagure. Mai una bella barca da pesca con una danza di gabbiani. Ma Taranto è piena di gabbiani, benché le barche da pesca vadano dimagrendo.
Sono spiritosi, anche, i tarantini. C’è un’associazione di giovani — il suo amatissimo promotore si chiamava Claudio Morabito ed è morto in un incidente stradale — che ha scelto per programma di tenere pulita la città, si chiama “Ammazza che piazza”, si sposta e ripulisce, cura i giardini, coinvolge la gente e la rifà orgogliosa del posto in cui vive. Anche questi ragazzi pensano di stare in un posto condannato e in un tempo senza futuro: e intanto si mettono insieme e puliscono la piazza, rianimano le fontane. Dei loro amici vanno a fare i clown in quel reparto oncologico, fanno sorridere i bambini. Il New York
Times sta completando un reportage su Taranto, sarebbe bello che si accorgesse di tutte e due le facce. I meteorologi hanno battezzato “Medusa” il tornado dell’altra settimana, e per coincidenza al Museo archeologico (pieno di meraviglie e troppo scarso di visitatori) c’è una mostra sulle antefisse col volto di Medusa. Doppio volto: la giovane avvenente dai bei capelli, e il mostro che impietra. La doppiezza di Taranto è proverbiale, due di tutto: due mari, la città vecchia e la nuova, il famoso ponte girevole che si apre e si chiude, unisce e separa. Un interruttore, ho pensato rivedendolo in questo frangente. C’è un’altra doppiezza, un’altra possibilità. I tarantini parlano male di se stessi confessandosi individualisti e indifferenti, il loro motto è: “Ce me ne futt’a me”. Però dicono anche popolarmente “Tarde nuestr’ ”, Taranto nostra: non conosco altre città in cui si dica così, Firenze nostra, Cuneo nostra. Si dice Italia nostra, ma fu una scelta intellettuale. Magari prima o poi il nostro avrà la meglio sul “che me ne fotte a me”.
La Repubblica 06.12.12

Sisma: Ghizzoni (PD), primi passi del Governo per sciogliere i nodi fiscali

“Il Governo sta compiendo i primi passi per rispettare l’impegno, sottoscritto con l’approvazione dell’ordine del giorno approvato alla Camera, di sciogliere i nodi ancora aperti sul versante fiscale per le popolazioni colpite dal terremoto del maggio scorso. – Lo dichiara la deputata modenese del Pd Manuela Ghizzoni, al termine del tavolo tra i tecnici del Tesoro e della Ragioneria dello Stato e l’assessore alle Attivita’ produttive della Regione Emilia Romagna, Gian Carlo Muzzarelli. – Dopo l’estensione della platea dei beneficiari dei finanziamenti anche ai professionisti, avvenuta con un decreto varato nel Consiglio dei ministri, l’esecutivo si sta impegnando per trovare le norme, da inserire nella legge di stabilita’, per estendere i finanziamenti alle aziende che avevano subito danni al reddito d’impresa e per introdurre a favore dei lavoratori il meccanismo della cessione del quinto dello stipendio per i contributi previdenziali e assistenziali.
Grazie all’impegno congiunto delle istituzioni locali, della Regione e di quanti nel Parlamento hanno lavorato per introdurre modifiche sostanziali ai provvedimenti in esame, si stanno compiendo – conclude Ghizzoni – atti concreti per favorire la ripresa economica di una popolazione la cui operosita’ garantisce allo Stato sei miliardi di euro l’anno”.

“Noi docenti vogliamo continuare a imparare”, di Mila Spicola

Ho appena visto in differita la puntata di “Che tempo che fa” con ospiti il Ministro Profumo e Salvatore Settis. Sentir parlare di scuola da due persone che non sono del mondo della scuola provoca sempre un effetto straniante. Si parla di insegnanti, di valore sociale della scuola, di come cambia la vita di ciascuno di noi attraverso la conoscenza e, ancora una volta, non si attiva un confronto tra personaggi come Profumo e Settis e un insegnante, o meglio ancora, tra loro e uno studente. Vero è che in una realtà frammentata e complessa come quella relativa alla scuola in Italia non esiste «l’insegnante italiano» o lo «studente italiano», fosse solo in relazione ai numeri: parliamo di circa ottocentomila docenti e di quasi nove milioni di studenti.
Quando ascolto riflessioni sulla scuola sorrido un po’, mi metto comoda e con l’animo del tipo «sentiamo cosa dicono stavolta». Stavolta è andata un po’ meglio, dico grazie al ministro e ancor di più a Settis, per le parole di elogio e per le belle intenzioni. Ma non ci siamo, non ci siamo affatto. Dalle parole del ministro non è venuta fuori nessuna visione strategica della scuola in Italia. È un’assenza di visione che riguarda tutto il Paese e penso che sia il vero nodo da risolvere. Ma a un ministro non la si può perdonare, nemmeno se si considera pro tempore. Mi fa sorridere ormai anche l’adagio corrente del «bisogna ridare dignità sociale agli insegnanti». Perché è astratto e tale rimane, se non si chiede il come fare a chi la scuola la vive o a chi sulla scuola studia. Fa un bell’effetto ripetere la frase di Jefferson pronunciata da Settis: «La scuola ha un valore prioritario nei consessi sociali e viene prima di qualunque postulato, persino prima dell’economia. Se non lo si capisce, i costi saranno di ordine sociale, civile e ed anche economici».
Il problema è che questi costi li stiamo già pagando. Più di dodici milioni di italiani, cioè quanti siamo parte del mondo della scuola e della ricerca in Italia, stiamo già pagando i danni indotti da scelte inadeguate. Noi direttamente, il resto del Paese indirettamente. È una miopia strategica che ha riguardato tutti i governi degli ultimi 30 anni, nessuno escluso. Non voglio ripetere le splendide riflessioni di Settis che ha ricordato la necessità costituzionale di assicurare sempre meglio il diritto all’istruzione e non sempre peggio, ma concentrarmi sulle cose da fare. Alcune a costo zero. Dicevamo del ruolo della scuola e della necessità di ricostruire una visione strategica di quel ruolo: lo si fa con gli insegnanti. Lo dimostra il recente studio della Pearson-Ocse: laddove la funzione degli insegnanti è potenziata e supportata da provvedimenti adeguati i sistemi scolastici sono efficaci ed efficienti. Sembra la ricetta della massaia e tutti potremmo essere d’accordo in via teorica.
Nei fatti in Italia si è creato l’equivoco. Dare cioè la responsabilità della crisi del ruolo della scuola esattamente a coloro che la portano avanti nonostante le scelte sbagliate di altri: gli insegnanti. Lo hanno fatto tutti nel corso degli anni fino ad arrivare al tabaccaio sotto casa mia e al premier Monti, che ci ha definiti conservatori e corporativi. Bisogna chiarirlo quest’equivoco e precisare alcune verità. Ci sono delle cose da migliorare nel corpo docente italiano e siamo i primi a dirlo. Ci sono delle cose da cambiare e siamo i primi a pretenderlo. Ma servono delle azioni strutturali e di ordine strategico, non pratico o marginale, come lavorare un’ora in più o in meno o dotare le classi e i ragazzi di tablet o lim.
La prima e più importante azione strutturale e strategica è rivedere la formazione dei docenti. Non va bene, non è aggiornata alla complessità dei problemi educativi attuali e scontiamo questa deficienza formativa nei primi anni di immissione in ruolo. La scuola secondaria italiana è fatta di docenti che sono immessi in ruolo o arrivano a insegnare, con una laurea che certifica il livello di conoscenza della disciplina da insegnare ma non fornisce, ad oggi, nessuna competenza specifica di tipo didattico-pedagogico. La seconda: la formazione in servizio. Con il capro espiatorio dell’amministrazione autonoma di ciascuna scuola e con lo spauracchio perenne della scarsità di risorse, il corpo docente italiano, ancora una volta soprattutto della secondaria, non è oggetto di corsi di aggiornamento in servizio, nazionali, uniformi e continui, da almeno 30 anni. Non si possono affidare temi così importanti alla discrezionalità del singolo docente o del singolo dirigente: servono un glossario e un lessico comune continuamente indagati e aggiornati all’oggi di concerto con istituzioni di ricerca qualificate. E allora, la dignità a noi docenti la date investendo non solo in termini economici ma ridandoci la nostra vera dimensione: lo studio e la riqualificazione professionale continua. La qualità di cui tanto parlate sta tutta là. Ridarci il momento della ricerca, della progettualità e della riflessione comune sul nostro mestiere. È necessario che il mondo della scuola si riconnetta, a costo zero, col mondo della ricerca educativa. Per dare valore a entrambi, e, attraverso la ricerca comune, ridare centralità ai processi educativi non ad altro. È una delle chiavi di volta.
Insegnare è uno stato di ricerca e di miglioramento continuo. È una pratica, non un dato. È una sperimentazione di percorsi comuni che vanno tracciati e riscritti in osmosi con il meglio della ricerca educativa, non in modo isolato nelle classi o nelle scuole. Fino a 30 anni fa era cosi. La pratica si è interrotta e oggi siamo dove siamo. Affidati allo spauracchio dell’autonomia. Posso affermare che le scuole da sole non hanno l’energia per affrontare il tema dell’aggiornamento. E comunque: se non c’è un formazione continua, uniforme, centralizzata e connessa con la ricerca educativa migliore, la buona volontà della scuola autonoma non basta. Sono azioni reali, praticabili, realizzabili, motori del vero cambiamento e della qualità dei sistemi d’istruzione. Tutto quello che cambia nella scuola deve nascere così: in seguito alla riflessione e alla sperimentazione comune tra scuola, società, politica e ricerca guidate da principi e pilastri pedagogico/ didattici, non dagli stereotipi correnti in un verso o nell’altro.
Insegnare è una scienza, è una professione difficilissima: si pratica con conoscenza e metodo, si affina e si acquisisce con lo studio e la sperimentazione qualificata. Che poi sia anche una passione va da sé, ma non va ridotta a quello perché sennò la qualità diventa discrezionale anziché diffusa. Deve essere alla portata di tutti i docenti e non solo di qualcuno, di tutti gli studenti e non solo dei «fortunati ad avere il docente bravo». Portateci dentro le università che si occupano di formazione e conducete i ricercatori nelle scuole. Questo accade in Finlandia e in Corea del Sud che sono primi al mondo, mica si son svegliati un giorno e hanno detto: da oggi rispettiamo gli insegnanti. Metteteci a lavorare e a studiare insieme, ricerca e scuola, riportando il nostro mestiere nel bel mezzo dei problemi educativi con gli strumenti adeguati, aiutandoci dal punto di vista logistico e amministrativo.
Tutto ciò non è nel segno dell’impossibile, bensì del possibilissimo. E allora ben venga la modernità: lo streaming nelle scuole dei convegni e dei congressi, le video conferenze di lezioni, la mailing nazionale su contenuti e pratiche internazionali. L’elefante scuola si aggredisce e rimpicciolisce e l’isolamento si rompe. Basta solo qualcuno che dia il la in viale Trastevere. Solo così si ridà ruolo sociale ai docenti, non solo e non tanto con la promessa di qualche euro in più in tasca sempre agitata e mai messa in atto o la minaccia di qualche ora in più di lezione frontale. La verità è che non vorremmo essere presi in giro da persone all’oscuro delle questioni nodali. Sennò si fa solo tanta aria fritta. Siete voi, tutti gli quelli che siete fuori dalle scuole, a non averlo capito. Dal tabaccaio sotto casa mia al ministro Monti.
L’Unità 05.12.12

“Quante sono le donne leader?”, di Tania Mastrobuoni

Hillary Clinton è stata candidata dal sindaco di New York Michael Bloomberg a succedergli alla guida della Grande Mela. E ieri i cristianodemocratici tedeschi hanno riconfermato Angela Merkel alla presidenza del partito con un plebiscito: il 97,94% dei voti. Sta cambiando il rapporto tra le donne e il potere? Le due notizie confermano una tendenza che si sta affermando non soltanto in Occidente. Anche se le donne nelle posizioni apicali rappresentano ancora un’eccezione in tutto il mondo (a parte la solita «isola felice» scandinava), alla guida di una delle più importanti nazioni emergenti, il Brasile, c’è oggi una donna. Dilma Roussef. Anche il Paese vicino, l’Argentina, è guidato oggi da una rappresentante del gentil sesso, Christina Kirchner. E se si cambia continente, si scorgono segnali di cambiamento anche in Africa, dove alla presidenza della Liberia c’è dal 2006 l’economista Ellen Johnson Sirleaf, insignita nel 2011 anche del Nobel per la Pace. Ma sono ancora mosche bianche.
Qual è il rapporto tra donne e potere in Italia?
Ancora pessimo. L’Italia non ha mai avuto nella sua storia repubblicana un presidente del Consiglio o un presidente della Repubblica donna. E quando Giuliano Amato candidò anni fa Emma Bonino al Quirinale, «lo guardarono come se avesse candidato un coleottero» ama raccontare lei stessa. Tra le massime cariche dello Stato, le donne hanno conquistato solamente la presidenza di Montecitorio, anche se per due volte. La prima con Nilde Iotti, che tenne l’incarico per un periodo che rappresenta tuttora un record, ben tre legislature (dal 1979 al 1992). La seconda fu la leghista Irene Pivetti, che vanta ad oggi il record di presidente più giovane di tutti i tempi. Nel 1994, quando il primo governo Berlusconi la scelse per la guida di Montecitorio, aveva 31 anni. Mantenne tuttavia l’incarico per neanche un anno, finché il suo partito, il Carroccio, fece cadere con l’ormai famoso “ribaltone” l’esecutivo che l’aveva proiettata su quella poltrona.
Quante sono le donne al governo?
Il governo Monti ha fatto una scelta coraggiosa: ha nominato tre donne per tre ministeri chiave, Elsa Fornero per il Lavoro, Anna Maria Cancellieri per l’Interno e Paola Severino per la Giustizia. È la prima volta che tre donne occupano contemporaneamente tre dicasteri di primissimo piano. E dopo un anno di governo Monti, una delle riforme più importanti – lo ha ribadito un mese fa anche il Fondo monetario internazionale – resta quella scritta da Elsa Fornero sulle pensioni. L’estensione del contributivo a tutti è una misura di equità intergenerazionale attesa da 16 anni, dall’ultima, importante riforma previdenziale, la Dini del 1995. Unico neo enorme – un errore grave per una riforma di quella portata -, quello degli esodati.
Chi è stato il primo ministro donna in Italia?
Volgendo lo sguardo indietro, anche in questo ambito siamo un Paese che ha deciso tardissimo di dare fiducia al gentil sesso. Soltanto nel 1976, dopo un trentennio di onorata storia repubblicana, il governo Andreotti ter ha affidato il ministero del Lavoro a Tina Anselmi. La grande politica democristiana ed ex staffetta partigiana è diventata in seguito anche responsabile della Sanità e ha lasciato un’eredità importante: ha contribuito a creare il Servizio sanitario nazionale, tuttora tra i migliori al mondo secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità. Oggi è una questione sempre più sentita, tanto che il candidato premier del centrosinistra, Pier Luigi Bersani, ha già dichiarato che la metà del suo governo, se vincerà le elezioni della prossima primavera, sarà costituito da donne.
Quante sono le donne nel Parlamento italiano e nelle altre istituzioni importanti?
Pochissime, ancora oggi. A Montecitorio le deputate sono 134 su 630, appena il 21,3%. In Senato la situazione è lievemente più deprimente: sono 61 le senatrici sul totale di 320, dunque il 19%. Rispetto al 2000 un miglioramento c’è stato, anzi, le donne sono raddoppiate. Allora le deputate erano l’11,5% e le senatrici l’8,1%. Ma siamo tuttora ben lontani dai livelli medi europei.
E nei sindacati o nelle autorità di vigilanza?
Zero assoluto. O quasi. Anche in questi settori, man mano che si procede verso i vertici, la presenza delle donne si fa più rarefatta. Unica eccezione, i sindacati, dove Susanna Camusso è riuscita per la prima volta a conquistare la guida della maggiore confederazione italiana, la Cgil, dopo oltre un secolo di storia. Tra l’altro, non è neanche la prima sindacalista donna a capo di un’organizzazione confederale: è stata l’attuale presidente della Regione Lazio Renata Polverini, a rubarle il primato, a diventare nel 2006 la prima capa di un sindacato confederale, l’Ugl, e anche la più giovane, a soli 44 anni. Quanto alle autorità di vigilanza, a cominciare dalla Banca d’Italia, le prime e seconde file sono quasi rigorosamente maschili.
La Stampa 05.12.12

“Una minaccia che non esiste”, di Michele Ainis

Su questo finale di partita volteggia, come un corvo, la minaccia: o election day il 10 febbraio o la sfiducia a Monti. Un altolà pronunciato da Alfano, urlato da Santanchè, sibilato a denti stretti da Silvio Berlusconi. Ma è una pistola scarica, e per una somma di ragioni. Anzi: siccome ogni legislatura dura 5 anni, siccome fin qui la XVI legislatura ci ha rallegrato per 4 anni e 8 mesi, quest’ultimo perentorio avvertimento equivale alla minaccia d’uccidere un morto. Difficile che il morto si faccia troppo male.
D’altronde non è in buona salute nemmeno l’assassino, sicché la sua cartella clinica disegna un secondo paradosso. E infatti, a quali scopi tende la minaccia? A serrare i ranghi del gruppo parlamentare pidiellino, a sollecitarne l’istinto di sopravvivenza davanti al rischio di prendere due scoppole di fila, ove le elezioni regionali fossero distanziate da quelle nazionali. Perché un ceffone ti fa male, due ti stendono per terra: e allora la rielezione può diventare un terno al lotto. Ma in realtà è più probabile l’opposto, se ti presenti agli elettori come il killer del governo che hai appoggiato. Se giustifichi il colpo di pistola con l’esigenza di risparmiar quattrini, quando l’anno scorso il centrodestra ci ha costretti a votare per tre volte in un mese, fra amministrative e referendum. Se confidi nell’obbedienza dei tuoi parlamentari verso il capo, mentre proprio quest’estremo ordine può innescare nella truppa il massimo disordine.
Ma se l’obiettivo del voto in febbraio è improbabile politicamente, tecnicamente è pressoché impossibile. Proviamo a mettere in fila qualche numero, tanto a dare i numeri ci pensa la politica. Supponiamo che la mozione di sfiducia a Monti venga depositata già durante questa settimana, anzi domani, anzi stanotte. C’è un problema però, si chiama legge elettorale: Napolitano ha già detto in mille lingue che non scioglierà anzitempo il Parlamento senza la riforma del Porcellum. Ce n’è poi un altro, si chiama legge di stabilità: e qui oltre al problema incontriamo pure il precedente. 13 novembre 2010, Pd e Idv presentano una mozione di sfiducia al IV governo Berlusconi. Vertice fra i vertici delle nostre istituzioni, dopo di che la decisione: prima la legge di stabilità, poi il voto sulla stabilità dell’esecutivo. Bersani un po’ borbotta, invece Berlusconi guadagna un mese per salvarsi la pelle. E il 14 dicembre ci riesce, proprio lui che in quest’altro dicembre vorrebbe far la pelle al gabinetto Monti.
Conclusione? Con 7 decreti ancora da convertire in Parlamento, la legge di stabilità verrà confezionata insieme al panettone. A quel punto potremmo pure aprire una crisi di governo, a dispetto delle feste comandate. Però ogni crisi chiede tempo, molto tempo: nei primi cinquant’anni di Repubblica (dal 1948 al 1998) abbiamo speso 1693 giorni per risolvere 50 crisi di governo. Tanto per dire, trascorsero 121 giorni dopo il tracollo del primo governo Andreotti (nel 1972), 91 dopo Forlani (nel 1987). E guardacaso il record spetta all’esecutivo più simile a quello che c’è adesso: 125 giorni quando cadde Dini, nel 1996. Senza contare i tempi tecnici che poi occorrono per indire le elezioni, se alla fine della giostra Napolitano licenzia il Parlamento. La Costituzione fissa un massimo di 70 giorni, dal 1994 al 2008 la media è stata di 65 giorni dopo lo scioglimento.
Conclusione bis: se davvero il centrodestra metterà ai voti la sfiducia a Monti, finirà per allungargli la vita. Conclusione tris: è inutile tuonare, se non hai energia per fulminare. Vale per Berlusconi, vale per la Lega che in novembre ha minacciato le dimissioni dei suoi parlamentari, per i sindaci che promettono di liberare in massa la poltrona, per le province che ricattano lo Stato annunciando il taglio dei riscaldamenti nelle scuole. Come diceva Bukowski, puoi anche minacciare il sole con una pistola ad acqua; ma poi ti bagnerai i calzoni.
Il Corriere della Sera 05.12.12