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“Troppi soprannumeri, niente assunzioni”, di Carlo Forte

Gli esuberi del personale docente mettono in stand by le immissioni in ruolo del personale Ata. E rallentano anche quelle dei docenti precari. Perché per ogni docente in esubero da ricollocare il ministero dell’economia preclude una immissione in ruoto. Anche se i posti da utilizzare per i docenti da ricollocare sono diversi da quelli che occupavano prima di andare in esubero.
Per tentare di sbrogliare la matassa, il ministro della funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, ha messo in piedi un apposito tavolo negoziale. La prima riunione si è tenuta mercoledì scorso, presenti i sindacati della scuola Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda-Unams e i vertici del ministero dell’istruzione, della Funzione pubblica e dell’Aran. Nel corso dell’incontro è emerso che il primo nodo da sciogliere riguarda le immissioni in ruolo del personale Ata sui posti che non sono stati occupati dai docenti inidonei. Sebbene il demansionamento fosse stato previsto su base volontaria, e quindi non tutti i posti siano stati coperti, il ministero dell’economia non ne vuole sapere di dare l’ok per disporre immissioni in ruolo sui posti rimasti vuoti. E poi c’è il problema dei 9mila esuberi tra il personale docente, che precludono le immissioni in ruolo in ragione dello stesso numero di cattedre. É stato poi fatto presente che oltre la metà di questi è costituita da insegnanti tecnico pratici diplomati delle scuole superiori. Che non possono essere ricollocati nella scuola dell’infanzia e primaria perché non hanno il titolo giusto. Ma nonostante questo, via XX settembre tiene in stand by altrettante disponibilità presso questi ordini di scuola. Infine, al termine della discussione sono state poste tre questioni, per così dire, collaterali. La prima è quella relativa al contenzioso seriale in materia di reiterazione dei contratti di supplenza. A fronte della pietra tombale apposta dalla Corte di cassazione, secondo la quale nella scuola la reiterazione dei contratti è legittima in ogni caso, resta da vedere come si evolverà il contenzioso a livello europeo. Secondo la Corte di giustizia, infatti, la reiterazione è legittima solo se motivata da esigenze sostitutive. E quindi, solo sui posti in organico di fatto. Al momento, peraltro, non è ancora stata affrontata la questione della riserva dei posti nei concorsi, da destinare ai precari triennalisti, prevista dal governo per fare fronte alla questione del divieto di reiterazione previsto dal decreto 368/2001. Ma, considerando che tale decreto non si applica alla scuola, è probabile che questa disposizione sarà applicata solo agli altri comparti della pubblica amministrazione. La seconda è la diversità di trattamento nella disciplina dei permessi tra docenti di ruolo e non di ruolo. In diversi casi, infatti, per lo stesso tipo di permesso, per il personale di ruolo è prevista la retribuzione e per i precari no. Infine, la terza questione posta in luce è il diritto al completamento. Che attende dal 2009 di essere regolato contrattualmente in via esclusiva, per effetto della riserva di contratto introdotta dal decreto Brunetta. Riserva inderogabile per effetto dell’articolo 33, comma 1 del decreto legislativo 150/2009. Le parti hanno convenuto di coinvolgere nel negoziato il ministero dell’economia e si sono date appuntamento a Palazzo Vidoni per martedì 11 dicembre.
da ItaliaOggi 04.12.12

“Acciaio, la crisi non è solo Ilva”, di Cinzia Penelope

Non solo Taranto, non solo Ilva. Allargando l’obiettivo dal focus centrale di questi giorni, il quadro complessivo della siderurgia italiana appare molto vicino a un cumulo di macerie. Il caso Ilva, naturalmente, è l’epicentro del disastro: secondo le stime di Federacciai, un eventuale chiusura dell’impianto pugliese porterebbe un danno economico pari a circa 8 miliardi annui, tra cassa integrazione, maggiori costi di approvvigionamento, ecc. A cui si dovrebbe aggiungere, secondo altre stime, un impatto negativo sull’economia pari alla perdita di punto di Pil all’anno. L’Ilva, infatti, con i suoi otto milioni di tonnellate di acciaio prodotte annualmente, e’ anche il principale fornitore dei grandi gruppi industriali dell’auto (Fiat, ma anche Bmw e Peugeot), del settore elettrodomestici, delle costruzioni, dell’impiantistica ecc. Poi c’è tutta la parte legata al commercio di prodotti piani, che compra lamiere e coils da Ilva per approvvigionare artigiani e piccole aziende. Secondo Federacciai, la struttura industriale nazionale utilizza due terzi della produzione complessiva dell’Ilva, per circa 5 milioni di tonnellate; se venissero a mancare, le imprese sarebbero costrette ad approvvigionarsi all’estero, con costi extra per un totale tra i 2 e i 5 miliardi di euro.
Ma l’Ilva, appunto, è solo la parte emersa di un problema più complesso e grave, che riguarda la siderurgia nazionale nel suo complesso. Tanto per fare esempi concreti, basta guardare a Piombino, l’altro grande polo siderurgico, passato dai Lucchini ai russi della Sevestal, che l’hanno spolpata, riempita di debiti, e abbandonata alle banche creditrici. Un eventuale fallimento di Piombino trascinerebbe con sé anche Trieste, dove hanno sede altri impianti dello stesso gruppo. Quanto a Terni, la cessione della ThyssenKrupp alla multinazionale finlandese è stata bloccata dall’antitrust europea, che vede il rischio di una posizione dominante e che ha imposto una vendita frazionata tra più soggetti. Ma questo significherebbe la fine della peculiarità di Terni e dei suoi acciai speciali, la cui produzione e’ possibile proprio grazie all’integrazione dello stabilimento.
Consapevoli della gravità del quadro, i sindacati, e in particolare la Cgil, hanno chiesto al governo la convocazione di quelli che sono stati definiti ‘’gli Stati generali’’ della siderurgia. L’obiettivo è mettere attorno a un tavolo tutti gli attori della partita: sindacati, rappresentanze imprenditoriali come Confindustria e Federacciai, ma anche le stesse filiere di imprese legate al settore, per avviare una analisi della situazione e individuare le soluzioni.
Gli strumenti e le sedi adatte, volendo, ci sarebbero pure. O meglio, c’erano. Presso il ministero dello Sviluppo, per esempio, era stato istituito l’osservatorio sulla siderurgia, ma non si riunisce da due anni ed è stato, pertanto, soppresso. Un secondo organismo, l’ACES, in pratica la versione italiana della piattaforma tecnologica europea, nel 2007 ha prodotto un dossier di alcune centinaia di pagine, contenente le linee guida per lo sviluppo dell’acciaio sostenibile e competitivo, ma è stata anche la sola cosa che ha prodotto.
Eppure, la siderurgia nazionale, proprio in questo particolare momento, avrebbe la sua migliore chance di vincere sul piano della competizione mondiale, essendo basata solo in piccola parte, rispetto agli altri paesi, sulla distribuzione tecnologica integrata, oggi particolarmente in sofferenza. Il che fornisce al nostro settore, rispetto a quelli di altri paesi, un teorico vantaggio competitivo. Ma perché questo avvenga, occorrerebbe che le imprese italiane imparassero a fare sistema, anche integrandosi rispettivamente. Argomenti di cui si potrebbe discutere per l’appunto in occasione degli Stati generali; ma, dicono i sindacati, non sembra che le imprese siano particolarmente interessate a farlo. Se il momento particolare, ben gestito, consentirebbe all’acciaio italiano un balzo in avanti, dall’altro, per contro una gestione errata, o carente, provocherebbe l’effetto esattamente opposto, cioè la sua fine, come si legge chiaramente in una relazione sul settore presentata il 26 ottobre a Brescia dalla Fiom, che pubblichiamo in documentazione. Nel corso del 2012 il comparto siderurgico ha sofferto molto meno dei settori che svolgono il ruolo di utilizzatori finali (cioè auto, costruzioni, ecc) e questo grazie alla domanda proveniente da altri paesi. Oggi però stanno andando rapidamente in crisi anche i mercati che fungevano da sbocco per le nostre produzioni, e le previsioni per il 2013 sono nere: se non riparte la domanda interna e si ferma anche l’export, sarà crisi vera. Il punto cruciale, secondo i sindacati, è decidere se l’Italia considera o meno strategica la siderurgia, e quindi mettere in campo tutte le misure necessarie a sostenerla. Scelte che condizioneranno il modello di sviluppo dei prossimi decenni, ma vanno prese in fretta, prima che sia troppo tardi. Di qui il pressing sul ministro dello Sviluppo Corrado Passera, perché convochi gli stati generali. Ma con poche speranze: il governo dei tecnici è agli sgoccioli, la campagna elettorale e le elezioni sono ormai alle porte, ed è concreto il rischio che tutto venga rinviato al nuovo esecutivo. Anche se per l’acciaio nazionale, a quel punto, potrebbe essere troppo tardi.
da Diario del Lavoro

“Più libri, meno cellulari la ricetta per salvare il futuro dei nostri ragazzi”, di Concita De Gregorio

Di futuro parlano tutti. Che non è più quello di una volta, che non c’è eppure è lì che stiamo andando ma insomma poi di cosa parliamo davvero quando diciamo: futuro? Parliamo di dieci milioni e duecentomila persone, in concreto. Persone piccole, che hanno meno di dieci anni, e persone giovani, che ne hanno meno di 18. Dieci milioni e duecentomila bambini e ragazzi che il rapporto 2012 sull’infanzia italiana di Save the Children descrive così: dieci volte più scoraggiati che in Grecia eppure più bravi a scuola che in Germania, impareggiabili scalatori di condizioni avverse. Senza l’opportunità di aprire un libro, andare al cinema, allenarsi in uno sport, connettersi ad Internet: più di 300 mila di loro in specie da Napoli in giù. Gli stessi, però, tutti col telefonino a 6 anni. Disconnessi, una parte, e iperconnessi, un’altra metà. Davanti al computer ogni giorno, entrambi i genitori assenti da casa. Appassionati di saghe senza adulti, come in “Gone” di Michael Grant, giochi film e fumetti dove i bambini sono orfani, non hanno memoria del passato, devono cavarsela da soli. Delirium, Meto, Feed, Hunger games. Titoli così.
Da questo “Atlante sull’infanzia a rischio”, ecco da dove chi si candida a guidare il Paese dovrebbe cominciare a scrivere un progetto per l’Italia. Bambini, ragazzi, scuola, salute, impiego delle loro intelligenze e sostegno alle difficoltà. Il destino dei giovani di seconda generazione — figli di stranieri — che sono già adesso il 10 per cento del totale, la cura dell’ambiente in cui questi ragazzi vivono. E invece. C’è qualcuno che pensi a cosa sarà dell’Italia fra vent’anni? Che misuri quel che è utile non in mesi ma in decenni, non sul suo proprio destino ma su quello di chi verrà? Ecco, questo sì sarebbe rivoluzionario. Questo davvero avrebbe “profumo di sinistra”. In questi ambiti tutto il denaro che si impiega non è una spesa ma un investimento. I finanziamenti al Piano per l’infanzia, che ancora oggi in Italia non ci sono, dovrebbero essere scorporati dal debito pubblico esattamente per questa elementare ragione. Non sono una spesa, sono un investimento. Come quando un’azienda compra un macchinario nuovo, proprio così. Sono, inoltre, investimenti capaci di generare lavoro. Persino Confindustria è d’accordo e lo certifica.
I dati del rapporto, qualche spunto. Nel 2012 sono nati 60 mila bambini in meno rispetto all’anno scorso. L’aspettativa di vita, per contro, aumenta di due mesi ogni anno. Fra vent’anni ciascuno vivrà quasi due anni in più e ogni nuovo nato dovrà farsi carico di sei persone anziane e inattive. Mezzo milione di neonati sono venuti al mondo, quest’anno, con 3 milioni e mezzo di debito pubblico a testa. I bambini saranno presto più preziosi del petrolio. Questa la scena. Vediamo cosa accade sul palco.
C’è, specialmente al Sud, un numero impressionante di ragazzi chiamati dal rapporto “disconnessi culturali”. Più di trecentomila di persone sotto i 18 anni non hanno mai fatto sport, non sono mai andati al cinema, non hanno mai aperto un libro o un pc. Non è vero che i ragazzi sono tutti su Internet: il 33 per cento, uno su tre, non ha accesso alla rete. Accade in Campania, Sicilia, Calabria, in Puglia: un ragazzino su quattro non fa nessuna attività sportiva, uno su cinque non varca la soglia di un cine, quasi la metà non legge libri. Nelle stesse regioni tre bambini su dieci fra quelli che hanno meno di 10 anni possiedono un cellulare. Il telefono è l’unica cosa che hanno. Oltre alla tv, certo, naturalmente.
Le scuole italiane sono tra le più vecchie d’Europa, come edifici, gli insegnanti pure. Tra i giovani sotto i 24 anni uno su quattro non studia né lavora, la disoccupazione cresce soprattutto fra i laureati, siamo il primo paese d’Europa come tasso di “scoraggiamento”: un ragazzo su tre rinuncia a cercare lavoro, una media dieci volte più alta di quella greca. La maggioranza degli under 34 vive coi genitori, soprattutto al Sud. 720 minori sono in condizione di povertà assoluta. I prestiti bancari alle giovani coppie, alle famiglie o ai ragazzi con reddito cosiddetto flessibile — che ipocrita eufemismo — sono più che dimezzati in un anno. Il rapporto parla di distopia, il contrario dell’utopia. Significa nessuna speranza, nessuna attesa, inedia e insieme rabbia.
Più della metà di questi bambini vive in città o paesi ad altissimo rischio di contaminazione ambientale: una cartina dei bambini cresciuti affianco all’Ilva, al quartiere Tamburi, parla per tutte. Il 7 per cento dei nostri figli cresce accanto a impianti chimici, petrolchimici, aree portuali e insediamenti industriali, discariche e zone a rischio non bonificate, illegali rispetto alle normative europee. La loro salute è compromessa alla nascita, le spese sanitarie
saranno a loro carico. L’interruzione scolastica è la più alta d’Europa. Il virus della violenza domestica, i padri contro le madri, in aumento, e quello della pressione delle mafie esercita su di loro la forza di un esempio, li costringe reclute. Nonostante questo i ragazzi italiani hanno il più alto indice di “resilienza”: la capacità di ottenere risultati (scolastici, scientifici) nella norma o spesso sopra la norma partendo da condizioni avverse. Un’indole che ha qualcosa in comune con l’ostinazione con cui gli elettori del centrosinistra credono nella forza della democrazia e della rappresentanza nonostante le ripetute delusioni. È lo stesso Paese, quello descritto nelle 77 mappe dell’Atlante, in cui Federico Morello a 13 anni è stato capace di convincere il suo comune in Friuli a dotarsi della banda larga; in cui un professore del-l’Itis Majorana di Brindisi ha saputo mettere in rete 800 insegnanti di 70 scuole per realizzare e stampare in classe i libri: un progetto — Book in progress — che fa risparmiare alle famiglie 300 euro di spese per i testi; è il Paese dove gli studenti gestiscono on line la più grande scuola gratuita, Oilproject, lezioni materiali ed esercizi condivisi; dove gli stessi studenti per la prima volta in Italia studiano un piano di mobilità da e verso la scuola (Mobilty manager studentesco) in modo che i bambini e i ragazzi possano muoversi da soli e non, come oggi accade in un caso su tre, essere accompagnati a scuola e persino all’università in auto. Un’Italia due passi avanti a chi la governa.
Ecco, il vero banco di prova di chi si candida oggi a guidare il Paese è questo: investire nei bambini e nei ragazzi, coloro che siederanno domani dove oggi noi siamo seduti, che giudicheranno le nostre azioni e omissioni, che ci chiederanno conto di dove eravamo e cosa abbiamo fatto. Il Piano nazionale per l’infanzia approvato con grande ritardo non è stato mai finanziato ed è rimasto lettera morta. All’investimento sul futuro è destinato l’1,4 per cento del prodotto interno lordo. Niente. Eppure ogni singolo elettore, ogni famiglia italiana vive nell’angoscia del futuro dei suoi figli. Pensa che rivoluzione sarebbe dare una risposta proprio a loro, cioè a ciascuno di noi. Pensa che campagna elettorale, che musica per le orecchie di chi ancora ostinatamente spera, che magnifica sorpresa sarebbe dire: non m’interessa il mio futuro, m’interessa il vostro.
La Repubblica 04.12.12

“Profumo e Settis da Fazio”, di Reginaldo Palermo

Chiede Fazio: “Ma la scuola è una priorità?” Profumo: “A parole lo è per tutti”. E in consiglio dei minsitri che succede? Profumo: “Nelle riunioni del consiglio c’è poco spazio”. A “Che tempo che fa” la sera del 3 dicembre si è parlato di nuovo di scuola, questa volta con il ministro Francesco Profumo e con il pofessor Salvatore Settis, direttore della Normale di Pisa fino al 2010.
La domanda di apertura di Fazio (“Ministro, come ha reagito alle parole del presidente Monti di qualche sera fa?”) mette visibilmente in difficoltà Francesco Profumo che divaga: “In questi mesi ho visitato molte scuole e ho conosciuto molte persone che fanno il proprio lavoro con impegno e con passione. Il problema è che ormai si è rotto il rapporto esistente fra insegnanti e famiglie , di conseguenza, fra scuola e politica. Bisogna quindi ricreare fiducia e stima”.
Non lo dice apertamente, ma lascia capire di non aver apprezzato molto le parole del premier.
Più esplicito Settis che tra l’altro ricorda che in questi anni di crisi l’Italia è stato uno dei Paesi dove si è più tagliato sulla scuola. Peggio di noi è stato fatto solo in Estonia.
“E non si dica che quella dei tagli è stata una scelta di destra. Perché allora – si chiede Settis – nè Sarkozy né Merkel hanno tagliato?”
Altrettanto vago è il Ministro sulle prospettive future.
“Il fatto è – sottolinea Profumo – che i nostri insegnanti sono stati trattati male per troppi anni e quindi adesso ci vuole un programma pluriennale per affrontare e risolvere i molteplici problemi della scuola che sono legati anche ai grandi numeri che abbiamo di fronte: ci sono 7 milioni di studenti e 64milioni di metri quadri di locali scolastici; ci vogliono risorse con molti zeri”.
“E’ un problema di priorità: nei Consigli dei Ministri se ne parla?” sollecita Fazio Risposta sconsolata del Ministro: “Per la verità nelle riunioni del Consiglio c’è poco spazio”.
Settis rincara la dose: “Questo lo sappiamo, ma diciamo anche che abbiamo una evasione fiscale enorme, ci sono tasse non pagate per 120/142 miliardi, ma si destinano risorse ingenti alla Tav e alle autostrade ma non alla scuola. La scuola, lo diceva già Calamandrei, è un organo costituzionale; ma di questo anche i Ministri si sono dimenticati da un pezzo anche se continuano a giurare fedeltà alla Costituzione”.
Ma da questa situazione disastrosa si può uscire?
“Certo – risponde Profumo – oggi il bilancio della scuola è di 52-53 miliardi, se si decidesse di aumentare la spesa di un 10% all’anno per un certo numero di anni potremmo finalmente diventare un Paese normale”.
E poi, una speranza (o forse un invito alle forze politiche): “Nel passaggio al Senato della legge di stabilità bisognerebbe dare un segnale assegnando risorse alla scuola”.
Fazio insiste: “Ma la scuola non è una priorità?”
“Certo – sottolinea il Ministro – a parole la scuola è una priorità per tutti; ma adesso che stiamo entrando in campagna elettorale, i partiti dovrebbe dire con chiarezza cosa intendono davvero fare per la scuola”.
Settis ritorna sulla domanda iniziale di Fazio e non si frena: “Bisogna restituire agli insegnanti il senso della dignità del lavoro che fanno, ma questo non glielo si dà certamente accusandoli di corporativismo. D’altronde i due Paesi al mondo in testa alle classifiche sono Finlandia e Corea del Sud, paesi accomunati da una grande considerazione sociale nei confronti dei docenti”.
Ma, appunto, sono altri Paesi, la Finlandia sta sul circolo polare artico e la Corea del Sud nell’estremo oriente. Migliaia di chilometri lontani da noi, in tutti i sensi.
La Tecnica della Scuola 04.12.12

“Sul web al via le “parlamentarie” di Grillo, le primarie più chiuse della storia”, di Fabrizia Bagozzi

Mentre l’onda lunga delle primarie del centrosinistra fa volare il Partito democratico al 34,6 per cento e scendere lievemente il Movimento Cinque Stelle (secondo il sondaggio di TgLa7), partono sul blog del suo guru le “parlamentarie”, ovvero le votazioni online per scegliere i candidati alle politiche: «Che sappia io è la prima volta al mondo che un movimento, sulla carta il secondo italiano, sceglie i suoi parlamentari online senza alcun filtro», twitta Beppe Grillo. Proprio senza filtro evidentemente no, visto che di regole ne ha anche questa consultazione che invece, questo sì per la prima volta, avviene attraverso il web. Anche se nella mattinata del primo dei quattro giorni dedicati all’evento il blog, causa sovraccarico di accessi, va subito in tilt. Provocando un’ondata di polemiche, anche proprio sulle suddette regole.
Può infatti votare i 1.400 candidati solo chi si è iscritto al Movimento Cinque Stelle entro il 30 settembre scorso ed ha inviato il suo documento di identità digitalizzato (chi vota può attribuire tre preferenze ai candidati della propria circoscrizione, non è previsto alcun contributo). Con una secca specifica da parte di Grillo: «Il voto è individuale e bisogna evitare che sia pilotato da fantomatiche assemblee o comitati, entrambi esclusi categoricamente dal non statuto. Chi cercherà di pilotare il voto sarà diffidato e escluso dalle votazioni, sia che si tratti di candidato o di votanti».
Sul portale si ribella Francesca di Roma: «Bella decisione del cavolo promettere il voto solo agli iscritti entro settembre. Capisco che è una decisione per evitare brogli ma una soluzione si poteva sicuramente trovare. Trovo che sia una grande discriminazione verso chi si sta avvicinando al movimento solo ora e anche verso chi era iscritto ma non ha inviato i documenti». Più netto Marco di Napoli: «Parlano tanto di democrazia dal basso e sulla partecipazione dei cittadini e poi fanno “parlamentarie” online e a porte chiuse».
Chi riesce a votare invece si dice frustrato solo dal fatto di poter dare tre preferenze, «con tutta questa gente che merita». E cioè cittadini che hanno potuto presentarsi alle seguenti condizioni: 1. candidati già una volta alle comunali o provinciali per il Movimento senza però aver svolto due mandati; 2. non in carica come sindaci o consiglieri; 3. nessun precedente penale. Nell’elenco casalinghe, professionisti, piccoli imprenditori, disoccupati. La common people su cui Grillo punta per l’ingresso nel Palazzo della sua creatura, sentendosi già in tasca un risultato dirompente. Si vota fino a giovedì. Errori a Cinque Stelle permettendo.
da Europa Quotidiano 04.12.12

“Una sintesi per i due popoli delle primarie”, di Elisabetta Gualmini

Pierluigi Bersani ha vinto le primarie del centro-sinistra. Ha avuto ragione a ritenere – al di là di qualsiasi norma statutaria – che sottomettersi al vaglio dei cittadini e a un bagno di partecipazione popolare, negli anni bui che la politica sta attraversando, gli avrebbe portato più vantaggi che rischi. Spetta a lui ora traghettare il centro-sinistra verso la prova del governo, con i tempi corti e micidiali di un paese in perenne stato di emergenza. Matteo Renzi ha perso, stavolta, ma ha aggregato una componente «democratica» del tutto nuova, che include sia precedenti sostenitori del Pd sia nuovi arrivati, alcuni già pronti a tornare verso i molteplici rivoli da cui erano affluiti, altri che non sarà facile trattenere senza di lui.
Lo ha fatto sfidando tutto il gruppo dirigente del suo partito, graniticamente a favore del segretario, che alla fine è stato anche soccorso da tutti i candidati esclusi al primo turno.
Il popolo tenuto insieme da Renzi non è espressione della antica frattura tra Ds e Margherita. Diversi capi storici della Margherita sono stabilmente acquartierati nel campo bersaniano e d’altro canto molti elettori di Renzi non hanno nemmeno memoria di quel passato. I loro tratti distintivi sono chiaramente desumibili dalle inchieste campionarie svolte dopo il primo turno delle primarie. L’indagine di Fasano e Venturino (in parte già pubblicata su La Stampa) ce li mostra anagraficamente molto più giovani degli ellettori di Bersani. Gli ultra55enni sono il 56,5% tra gli elettori del Segretario, e solo il 36,5% tra chi ha votato per il sindaco. Gli elettori di Renzi sono meno identificati con le strutture di partito; molti di loro hanno partecipato per la prima volta alle primarie; e sono in una quota maggiore liberi professionisti, studenti, imprenditori. Solo una piccola parte si autocolloca a destra (il 5,7%), mentre una quota più consistente si autodefinisce di centro (26%, contro il 9% dei bersaniani), a dimostrazione che il Pd può intercettare anche quel tipo di consensi, senza l’intermediazione di altri partiti.
Altri indizi che vanno nella stessa direzione li porta un’analisi territoriale del voto svolta dall’Istituto Cattaneo. Se si confrontano, regione per regione, i dati sull’affluenza di domenica scorsa con quelli delle primarie nazionali più recenti (2009), si scopre che la partecipazione è calata meno o è addirittura cresciuta nelle regioni in cui Renzi ha preso più voti, e viceversa, in base a una tendenza lineare che va da Sud al Nord. In Sardegna, Calabria, Basilicata e Campania il popolo di Renzi alle urne non si è visto e la partecipazione è crollata. In Piemonte, Veneto, Lombardia, Emilia, Toscana è capitato l’esatto contrario. Come lui stesso ha dichiarato, è prevalsa la diffidenza piuttosto che la simpatia verso l’avventurosa candidatura del «ragazzetto». Ma c’è dell’altro. Al Sud quel tipo di elettori è semplicemente meno diffuso e meno disponibile ad auto-organizzarsi. Sia il differenziale di partecipazione tra 2012 e 2009, sia le percentuali di voto per Renzi risultano correlati con indicatori di sviluppo economico della società civile. Dove l’economia è più dinamica il nuovo amalgama della sinistra liberaldemocratica ha preso corpo più facilmente, anche perché in quelle regioni è più diffusa la disponibilità a mobilitarsi per cause pubbliche senza essere sollecitati da macchine di partito.
Bersani ha dunque la grande responsabilità di provare ad assorbire anche questa componente della società italiana, uscita da uno stato di minorità. Se il Segretario vuole vincere le elezioni e governare, non può restringere i confini del centro-sinistra dentro un perimetro troppo più stretto rispetto a quello abbracciato dal sindaco. Questa è la sfida del Pd, unico partito sopravvissuto al dissesto della Seconda Repubblica e cresciuto, per ora, grazie alla restituzione di sovranità ai cittadini. Mentre la politica italiana è in caduta libera, ha l’occasione di ricomporsi intorno a una nuova sintesi, dando cittadinanza ai due popoli delle primarie. Per farlo dovrebbe cambiare pelle, non cedere alle tentazioni più o meno dissimulate di autoconservazione, non negoziare con le promesse appena fatte, ma aprirsi – quasi con un atto di fede – verso il futuro. L’onore e l’onere di questa sfida spettano a chi ha vinto.
La Stampa 04.12.12

Bersani: «Al governo con me una nuova generazione», di Simone Collini

Il suo sarà «il governo del cambiamen- to»: per i programmi, i metodi, le persone. Pier Luigi Bersani vuole capitalizzare il successo delle primarie, che lo hanno incoronato candidato presidente del Consiglio del centrosinistra e che hanno fatto schizzare il Pd nei sondaggi oltre quota 34%. Sull’onda della spinta dei gazebo il leader democratico sta già non solo delineando la strategia per la campagna elettorale, ma anche definendo il profilo che dovrà avere il prossimo esecutivo in caso di vittoria alle elezioni politiche della coalizione costruita attorno a Pd, Sel e Psi. Che comunque dovrà proporre ai moderati un «patto di legislatura». Quando si tratterà di schierare la squadra di governo, Bersani non userà il «manuale Cencelli» e metterà «in campo una nuova generazione».
Semplice nuovismo? No, perché il leader Pd da un lato dice che ci devono essere «presidi di esperienza», dall’altro insiste sul fatto che il dato anagrafico non è tutto. «Bisogna che ci sia gente con la freschezza della gioventù ma anche capace di fare delle cose – come dice nel corso di un’intervista a “Porta a porta” – gli italiani si aspettano dei risultati, non dei colpi di immagine». Quanto a Matteo Renzi, Bersani dice ai giornalisti che incontra davanti alla sede del Pd che «è una risorsa come siamo tutti in questo grande squadrone».
Ma ora il leader del Pd è già concentrato sul profilo «di cambiamento» da dare al suo governo in caso di vittoria. Bersani lo ha spiegato aprendo la riunione sulla legge elettorale, e poi ne ha discusso più a lungo durante il pranzo con Enrico Letta, Vasco Errani e Maurizio Migliavacca. Ma il leader del Pd ha accennato al discorso anche nelle telefonate ricevute tra la notte della festa e la prima giornata da candidato premier.
A chiamarlo per complimentarsi del risultato ai gazebo sono stati in molti, da Mario Monti (è stato il primo, appena mezz’ora dopo la chiusura dei seggi) a Carlo Azeglio Ciampi (telefonata assai gradita), da Pier Ferdinando Casini ad Angelino Alfano, dal capo di Stato francese François Hollande al presidente del Parlamento europeo Martin Schulz.
BASTA CON L’ITALIA AI MARGINI
Nei colloqui in cui si è andati oltre le formalità, Bersani ha illustrato ai suoi interlocutori le iniziative e le trasferte all’estero già fissate in agenda per la campagna elettorale, e anche il metodo che intende seguire nella definizione dell’azione di governo, dovesse arrivare a Palazzo Chigi.
Il viaggio di oggi in Libia è il primo di un’operazione che nelle intenzioni del leader del Pd dovrà servire a restituire all’Italia, ora che Monti le ha ridato la credibilità perduta negli anni di governo Berlusconi, un ruolo forte nello scacchiere internazionale. Nei prossimi mesi volerà anche in Brasile, Cina e Golfo Persico, che con i tassi di incremento del Pil che registrano e le risorse che hanno a disposizione per gli investimenti all’estero sono strategici dal punto di vista dei rapporti commerciali. E poi Bersani sarà in tour nelle capitali dell’Ue, per rilanciare il rapporto con le altre forze progressiste nella comune battaglia alle politiche liberiste (ci sono anche in agenda due appuntamenti a Roma, per consolidare questo asse, uno a metà mese e uno a inizio febbraio).
Ma c’è anche un altro tipo di cambiamento che Bersani vuole imprimere con il suo governo, oltre a quello riguardante la politica estera e i rapporti con le famiglie politiche europee. E riguarda il metodo per arrivare alla definizione delle misure da adottare. Il leader del Pd è convinto che una pesante responsabilità, per quel che è avvenuto in Italia nell’ultimo ventennio, ce l’abbia la strategia berlusconiana tesa a dividere le parti sociali, e non solo.
«Se tocca a me cercherò di tenere unito il Paese», è il ragionamento che fa Bersani. Che non a caso parlando del patto sulla produttività, siglato da tutti i sindacati tranne la Cgil, dice che «l’accordo ci vuole, bisogna decentrare una parte della contrattazione mantenendo comunque un presidio nazionale perché questo è già un Paese troppo diviso». E che da Palazzo Chigi vuole rilanciare il metodo della concertazione. «Non vuole la concertazione chi non è sicuro delle proprie idee – dice in un’intervista a “Porta a Porta” – ma a un governo che è certo delle proprie idee, io consiglio il dialogo, e quel tanto di fati- ca di ascoltare e capire dove sta la ragione di quello che ti sta parlando, perché è difficile che quello che ti parla non abbia ragione in niente».
Altro caposaldo che Bersani vuole rispettare è il «coinvolgimento». Ha già avuto modo di far sapere non solo a sigle del mondo sindacale e imprenditoriale ma anche a personalità del mondo del volontariato e dell’associazionismo che se «toccasse» a lui (ormai è una formula consolidata) non mancherà di ricercare un confronto preventivo con loro. «Voglio un governo espressione della riscossa civica», dice ai giornalisti. «Stavolta senza popolo non si governa, non si governa dall’alto». È questo ciò che sta a cuore a Bersani, che per quel che riguarda il cambiamento dal punto di vista programmatico pensa innanzitutto a una patrimoniale «non generica» ma limitata ai grandi patrimoni per alleggerire l’Imu sulle fasce più deboli e a «una contribuzione diretta» necessaria per «reggere alcuni sistemi di welfare, come la sanità».
L’Unità 04.12.12