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“Non basta vincere cambiare è un obbligo”, di Ezio Mauro

Sembrava che l’unica parola fosse ormai quella dell’antipolitica. E invece si è visto che quando la parola torna ai cittadini perché i partiti danno loro la possibilità di esprimersi, di prendere parte e di contare, l’antipolitica tace, o addirittura deve inseguire. Dunque uno spazio per la politica e per i partiti esiste, anche in questo Paese dove appariva corroso e consumato: a patto che i partiti si aprano invece di arroccarsi e che la politica, di conseguenza, torni a parlare la lingua popolare della gente.
Non capita spesso, da noi, che metà dello schieramento politico metta completamente in gioco la sua leadership, il profilo di governo, la sua stessa identità affidando la scelta ai cittadinielettori. Questa volta è accaduto, perché erano in campo due ipotesi divaricate per età, programmi, stili, progetti di alleanza e modelli culturali. Renzi aveva con sé la forza della rottura (che ha premiato nelle primarie tutti coloro che sparavano sul quartier generale), l’evidenza dell’età, l’energia del cambiamento. Tutti elementi in lui quasi antropologici, come se dicesse: sinistra e destra sono dell’altro secolo, la mia biografia è il mio programma e la garanzia del cambiamento.
Bersani aveva il peso dell’apparato ma anche il vantaggio dell’esperienza, dell’arte di governo, la capacità di trasmettere un’idea di sinistra aggiornata all’epoca che viviamo e all’Europa, un sentimento politico di sicurezza sociale che non rinnega il merito ma insegue l’uguaglianza.
Come se promettesse: la sinistra c’è ancora, è diversa dalla destra che abbiamo conosciuto e ha qualcosa da dire per governare la crisi.
Vincendo una sfida vera, senza rete di protezione, il segretario diventa leader. Ma sbaglia se pensa di aver sconfitto la voglia di cambiare, confinandola al 40 per cento. Quella domanda deborda, contagia, attende risposte. Se mai – e su questo è Renzi che deve riflettere – le primarie dicono che il tema del cambiamento è più ampio della pura questione generazionale e che il concetto di sinistra non si riduce al solo cambiamento.
Ma guai se Bersani si farà riagguantare dagli “elefanti” del partito, se si farà rinchiudere nel recinto del suo gruppo di vertice, interessato al dividendo della vittoria. Ormai è chiaro che quel partito è forte solo se è contendibile, scalabile, aperto, nuovo davvero. E qui Renzi, apriscatole del sistema, può essere più utile del “renzismo”: con un’alleanza per rinnovare metodi e politica e per battere la destra, visto che l’avversario – finite le primarie – torna a star fuori e non dentro il partito. Oggi la sinistra può vincere anche per le debolezze altrui, restando ferma. Ma per convincere e governare, deve cambiare davvero, partendo da se stessa. Il cammino è cominciato: soprattutto, è obbligatorio.
La Repubblica 04.12.12
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La road map del segretario “Ormai siamo un partito nuovo non si può più tornare indietro”, di Goffredo De Marchis
Siamo nella fase di studio, serve a liberarsi dalle scorie della competizione. Ieri infatti nessuna telefonata. Ma gli sfidanti delle primarie, vincitore e vinto, sembrano pronti per il pranzo a due e per il riconoscimento di un ruolo politico a Matteo Renzi.
Il sindaco di Firenze non vuole certo farsi imbrigliare nelle dinamiche del partito: segreteria, correnti. «Si può dare una mano e avere un’esposizione nazionale anche rimanendo le istituzioni. Io voglio fare così. Del resto Vendola sono anni che lo fa da governatore della Puglia». Il candidato premier Pier Luigi Bersani sa che bisogna andare con i piedi di piombo nel dialogo con lo sconfitto. Ma alcune sue parole lasciano intendere che in un patto per il cambiamento Renzi sarà protagonista. «Troveremo le forme per collaborare. Ormai siamo un partito nuovo, siamo il partito più aperto del mondo. E non si torna indietro. Chi ha voglia può partecipare in molte forme e più che in passato».
Adesso il pericolo, per entrambi, è dare l’impressione di un inciucio che getterebbe un’ombra sulle primarie. Bersani sgombra subito il campo: «Con Matteo non apriremo tavolini. Non banalizzeremo una cosa seria. Ma io vedo lo spazio per una convergenza di opinione». Porte aperte. L’intesa è da costruire, ma la volontà c’è. Partendo da un assunto, ripetuto anche in queste ore dal segretario del Pd. «Ha vinto il rinnovamento, è stata sconfitta la rottamazione ». Questo è il punto dirimente.
Arriveranno altri segnali di ricambio generazionale, altre responsabilità per volti giovani e sconosciuti, altre valorizzazioni per una nuova classe dirigente. Il ringraziamento pubblico rivolto dal palco della festa al Capranica al responsabile dell’organizzazione Nico Stumpo, dileggiato su Twitter per la vicenda delle regole, rappresenta un segnale per tutti.
Il festeggiamento continua nelle ore che precedono il viaggio a Tripoli del segretario. «Abbiamo preso un buon brodino», dice confermando che le primarie fanno bene, sono un ricostituente per il Pd. Ma è andata addirittura meglio del previsto. «Quando è arrivato il piatto c’era anche qualche cappelletto dentro». Una portata completa ed emiliana, cioè abbondante e saporita. E una metafora pronta per le parodie di Maurizio Crozza.
Ma la sfida vera comincia adesso. Per un paradosso della politica italiana, in questo momento Bersani ha un solo avversario: Mario Monti, ossia il presidente del Consiglio che il Pd sostiene. Il premier, racconta Bersani prima del volo per la Libia, è stato il primo in assoluto a chiamarlo per complimentarsi. «Sono atterrato alle otto e dieci e ha squillato il cellulare. È stata una telefonata molto affettuosa». Se i bersaniani sono convinti che alla fine il Professore sarà in campo da protagonista e non come riserva della Repubblica, il segretario è sicuro che anche la destra in qualche modo si organizzerà pur non essendo mai stata così debole. Non solo. Beppe Grillo si è inabissato durante le fasi finali delle primarie, ma Bersani è arciconvinto che riemergerà, che sarà aggressivo fin dai prossimi giorni. Per questo il Pd teme gli sviluppi sulla legge elettorale. Una legge difesa da Grillo, ma invisa agli elettori che attribuiscono le colpe delle liste bloccate alle forze politiche in Parlamento. Con qualche buona ragione. «Eppure — dicono a Largo del Nazareno — il Pdl sta preparando una trappola. Chiedere il voto segreto alla Camera e affossare la riforma. Così la colpa ricadrà su tutti i partiti».
Il rinnovamento e una presenza di Renzi in campagna elettorale accanto al candidato premier con le sue posizioni radicali in grado di intercettare i sentimenti dell’antipolitica, sono perciò indispensabili per arginare il fenomeno 5 stelle. Un’affermazione clamorosa dei grillini, del resto, avrebbe un effetto anche sulla candidatura Bersani. Spaventerebbe i partiti e li riporterebbe forse tra la braccia di un tecnico, anche in caso di una vittoria netta del centrosinistra. L’altro fronte è quello della credibilità internazionale. Bersani ha deciso di affrontare il problema dal punto di vista del mondo prima ancora che da quello degli equilibri della Ue. La partenza, all’indomani delle primarie, da Tripoli, dal luogo di cambiamenti profondissimi dove gli Stati uniti faticano a trovare un bandolo, lo dimostra.
Un’altra tappa è prevista a breve in Sudamerica. Un modo per dire che la crisi non va preso solo dal lato del rigore ma ha bisogno di economie nuove o in grandissima crescita. Ma nel frattempo riceve una sorta di Endorsement dall’Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede: «Il voto delle primarie sembra consentire al vincitore di guidare con sufficiente autorità il suo schieramento e il Partito democratico (Pd) in una campagna elettorale che cade in un momento particolarmente delicato della vita del Paese. La necessità di una buona dose di realismo nella ricetta che i partiti intendono proporre per fare uscire l’Italia dalla crisi, è un tema che deve accomunare tanto la sinistra quanto la destra».
La Repubblica 04.12.12
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“La vecchia guardia rialza la testa Bindi: io mi candido. Fioroni: non mollo”, di Giovanna Casadio
Nell’euforia della festa per il trionfo di Bersani, Rosy Bindi fuori onda dice a un amico: bischero, mi presento per altre quattro candidature. Finisce su twitter. Bindi non demorde e ha già rassicurato i renziani: «Ho resistito a vent’anni di berlusconismo, figuriamoci se non resisto a un anno di Renzi». Chiederà la deroga, non ci pensa a farsi da parte. Sempre nella stessa serata di vittoria, Beppe Fioroni, supporter di Bersani, manda un sms a Renzi: «Matteo, bravo: il tuo discorso di sconfitto dimostra che non sei un ragazzetto, non mollare». Nemmeno Fioroni intende mollare. «E perché? Ho fatto il politico part-time, con il tempo diviso tra i mio mestiere di medico e quello di amministratore – racconta – Sono stato ministro per 18 mesi. Ho 100 giorni di Parlamento in più di altri, che però erano già al governo o all’europarlamento ». Cento giorni in più o in meno non fanno di Fioroni – è il ragionamento di Fioroni medesimo – un elefante politico. O, per usare la definizione renziana, un “rottamando”, parola brutta ma concetto limpido.
A tal punto chiara è l’idea, che Bersani l’ha fatta sua. Lo staff bersaniano fa notare l’attenzione del segretario a dare, anche plasticamente, l’immagine del cambiamento: la foto del trionfo era con Roberto Speranza, Tommaso Giuntella, Alessandra Moretti, cioè largo ai giovani. Mica sul palco c’è salito D’Alema, per dire. Anche se il lìder Massimo stava in platea nella festa all’ex cine Capranica, raggiante e intervistato a lungo. Dichiara poi, che «darà una mano a Bersani per rafforzare la proposta di governo». Un proposito eccellente, di cui però qualche giovane bersaniano si preoccupa: bene se mette a disposizione la sua esperienza e le relazioni internazionali, ma se pensasse di condizionare ancora? D’Alema per la verità ha fatto un passo indietro (così come Veltroni), con il fiuto politico che anche i fratelli/coltelli (i veltroniani) gli riconoscono. Bersani gli è grato per il modo in cui si è speso in Puglia per portare consensi al ballottaggio per le primarie. E ieri il segretario – raccontando la telefonata ricevuta da Carlo Azeglio Ciampi che si complimentava per la vittoria – è tornato sul suo cavallo di battaglia: novità, novità e ancora novità in Parlamento e nel governo del centrosinistra però accompagnata all’esperienza. Tradotto in concreto: non offrirà copertura alla “vecchia guardia”, agli “elefanti”, che farebbero assai volentieri a meno di chiedere le famose deroghe per ricandidarsi in Parlamento. Preferirebbero ci fosse un “pacchetto” di derogati, decisi prima. Niente da fare.
Il Pd si avvia a pochissime deroghe, non garantite da alcun pre-accordo politico. Bersani ieri ha ancora declinato l’invito: «Le
deroghe saranno individuali», ha ribadito. Lui se ne lava le mani, devono passare al vaglio della Direzione del partito (dove ci sono anche Renzi, i “giovani turchi” rinnovatori, Gozi, Civati, Concia, Scalfarotto, un fronte assai poco favorevole ai resistenti), e lì ottenere i 2/3 di “sì”. Forse è questa la ragione per cui Franco Marini, conoscitore profondo del risiko del potere, si limita a commentare: «Io non seguo l’esempio di nessuno e resto a disposizione del partito». Che è poi la linea di Anna Finocchiaro, la capogruppo al Senato. Anche lei: «Nessuna richiesta di deroga, sarà il partito a decidere». Gianclaudio Bressa, ex sindaco di Belluno, il parlamentare che ha seguito la partitalegge elettorale, si sfila: «Torno a fare il mio mestiere, se il partito vuole la mia esperienza, ci sono». La partita delle deroghe agli “elefanti” (quelli con più di 15 anni di legislatura) è già aperta. «Se si cambia il Porcellum, e ci sono le preferenze, la questione è risolta », afferma Stefano Bonaccini, il segretario Pd dell’Emilia Romagna. Altrimenti? Con tutti i segretari provinciali chiede primarie per i parlamentari. Una consultazione tra gli iscritti. I derogati potrebbero finire sotto esame due volte, con i tempi che corrono.
La Repubblica 04.12.12

“Le contraddizioni del governo sull’Ilva”, di Paolo Leon

Alla recente conferenza stampa del Governo sull’ILVA, un corrispondente straniero ha chiesto se il provvedimento, che riapre la produzione nelle mani della proprietà che aveva inquinato, avrebbe creato un moral hazard: sottintendeva che ogni inquinatore, d’ora in poi, potrebbe contare su provvedimenti analoghi, e sarebbe incoraggiato ad inquinare. Monti ha risposto sostenendo che il moral hazard si applica nella finanza internazionale, e forse si riferiva al caso del salvataggio dei Paesi debitori, che potrebbero perseverare nel deficit pubblico, visto che sono salvabili, ma sa benissimo che il moral hazard si applica a qualsiasi rapporto contrattuale, pubblico, privato, finanziario o reale, ma forse non si è posto il problema se il provvedimento per l’Ilva può causare un effetto negativo sul comportamento generale degli inquinatori.
Già consentire all’inquinatore di proseguire l’attività, pur disinquinando, è come consentire al ladro di tenersi la refurtiva. È vero che nel provvedimento si giunge anche a sottrarre la proprietà all’inquinatore, se questi non dovesse rispettare le regole fissate dal governo e controllate dal garante: ma quattro conseguenze sembrano sfuggite al governo.
La prima è che, inevitabilmente, l’inquinamento, pur ridotto, continuerà fino a che il risanamento non sarà completato: e se si devono fermare gli impianti per risanarli, è inevitabile la cassa integrazione che sarebbe intervenuta anche con il fermo impianti del magistrato. La seconda conseguenza deriva dal possibile mancato rispetto delle norme da parte dell’inquinatore: non si potrà immediatamente procedere a requisire l’impianto, perché è inevitabile il ricorso alla magistratura da parte dell’inquinatore, e nel frattempo l’inquinamento continua. La terza conseguenza è ciò che accadrà quando l’inquinatore non avrà, come è del tutto probabile, tutte le risorse finanziarie per pagare il risanamento: se fallisce, interverranno i creditori, un custode fallimentare, ma non lo Stato a meno di nuovi provvedimenti che stravolgerebbero l’ordinamento italiano e europeo. La quarta conseguenza è che si è creato un precedente che travolge la divisione dei poteri, fermando un provvedimento del magistrato con una legge un intervento più nobile, ma nella scia delle leggi ad personam.
Francamente non si capisce perché il governo non abbia requisito immediatamente l’impianto, avviato risanamento e produzione, e bloccato capitale e reddito dell’inquinatore, eliminando ogni conflitto con la magistratura. Lo consente la Costituzione, come è già stato detto per il provvedimento, e non vi può essere obiezione dell’Unione europea, perché siamo di fronte ad un danno derivante da comportamenti illeciti, che hanno creato insalubrità. Forse, lasciando l’impianto all’inquinatore, si voleva fare in modo che questi pagasse il risanamento; ma ciò è possibile anche requisendo l’impianto, semplicemente obbligando l’inquinatore a pagare il danno procurato con le sue risorse. Si volevano forse ottenere le risorse del risanamento utilizzando i ricavi dalla produzione? Ma ciò, se era possibile senza inquinare, l’avrebbe fatto lo Stato, incassando direttamente fatturati e utili.
Se al Consiglio dei ministri non è stata decisa la requisizione immediata, può derivare o da una segreta preferenza per la proprietà privata o da una sfiducia nei manager dell’llva nel realizzare l’operazione condotta in ipotesi dallo Stato: ma sono gli stessi che opereranno agli ordini dell’inquinatore. Forse il governo non voleva toccare i saldi di finanza pubblica, nel caso non fossero sufficienti le risorse prodotte dall’impianto e dal patrimonio dell’inquinatore, ma ciò potrebbe benissimo avvenire, con rischi maggiori, con il provvedimento approvato, quando l’inquinatore non avesse rispettato gli impegni; e se invece si contava su tali impegni, voleva dire che le risorse erano sufficienti.
Infine, si è detto, con qualche languore, che siamo di fronte al conflitto tra due obiettivi «assoluti»: salute contro lavoro. Naturalmente, è una sciocchezza: si può produrre acciaio senza inquinare più del lecito, e ne deriva che il conflitto è tra l’inquinatore e lo Stato, e il lavoro non c’entra niente.
L’Unità 03.12.12

“La strana vittoria del segretario nella comunicazione”, di Massimo Adinolfi

Le primarie le ha volute lui, Bersani, e non è stato facile. L’affollata e sudaticcia Assemblea Nazionale del 14 luglio lo ha seguito su questa strada, ma non senza mugugni. Resta un mistero come si sia potuto, nella stessa data, prendere la Bastiglia e dare inizio alla Rivoluzione francese: con quel caldo. Ma Roma non è Parigi, e poi a Roma bisognava solo vincere lo scetticismo e dare l’annuncio: per le regole, la modifica dello statuto (a favore di Renzi) e le candidature se ne è riparlato ad ottobre. Quanto alla rivoluzione o almeno al cambiamento se ci sarà, sarà al centro delle elezioni del prossimo anno. Ma intanto tre milioni e passa di elettori hanno votato al primo turno, quasi altrettanti al secondo, permettendo al centrosinistra di ritrovare finalmente una «connessione sentimentale» con la propria gente. Bisognava per questo fare sul serio, accettando la sfida del Rottamatore. E la sfida c’è stata, vera e aperta. In prossimità dei momenti decisivi si sono alzate, inevitabili ma sterili, le polemiche: sul regolamento, sulla registrazione, sulla sottoscrizione della Carta degli Intenti, sulla privacy, sul doppio turno, sui tetti di spesa e infine, secondo alcuni, sulla famosa invasione degli orsi in Sicilia, ma il risultato non ne ha affatto risentito. Non domenica scorsa, e neppure questa domenica.
Le primarie le ha volute lui, Bersani, ed ha fatto bene. Non abbiamo un sistema istituzionale fatto apposta per l’overdose delle primarie; non sappiamo ancora quale legge elettorale ci porterà al voto di primavera; non sappiamo neppure se il prossimo governo starà tutto dentro la luccicante inquadratura del confronto Sky fra Bersani, Renzi, Tabacci, Puppato e Vendola (e infatti fino all’ultimo Renzi ha attaccato il segretario sulla sua disponibilità ad allearsi con il centro moderato), ma abbiamo almeno qualcosa che il centrodestra non ha, o non riesce ancora ad avere: una modalità per rendere contendibile la leadership e forse, insieme, anche un modo per orientarne il profilo politico, visto che nel corso delle settimane si è sempre meglio profilata un’alternativa di contenuti, non solo di stili comunicativi.
Le primarie le ha volute lui. Renzi le ha reclamate a gran voce, ma a decidere è stato il segretario del Pd. L’uomo che al momento della sua elezione a segretario disse che alle politiche non avrebbe messo il suo nome sulla scheda ha dovuto accettare di fare una campagna sotto l’insegna «Bersani 2013». E nonostante l’evidente correzione di rotta rispetto alla personalizzazione imposta dal berlusconismo, nonostante l’accento posto sul «noi» piuttosto che sull’«io», Bersani non ha potuto evitare che girassero in rete le foto del bambino Pier Luigi con il fiocco e il grembiule della scuola elementare, così come quelle del giovane Pier Luigi volontario a Firenze nei giorni dell’alluvione, fino alla vecchia intervista ai genitori che un Bruno Vespa a digiuno di confronti televisivi ha mandato proditoriamente in onda, rigando il volto del segretario di qualche furtiva lacrima.
È la politica, bellezza: ma è anche la comunicazione. Bersani in realtà ha condotto uno sforzo salutare per riportare il Paese alla realtà; ha ripetuto fino alla noia che contano i fatti, che la comunicazione viene dopo. Ma poi è dovuto andare a Salerno, e in un salone gremito fino all’inverosimile si è sorbita la lezione che il sindaco della città gli ha impartito sulla sua gualcita immagine: via il sigaro, via la camminata alla John Wayne! «Esteticamente io non sono Brad Pitt e tu non sei George Clooney!», ha aggiunto De Luca, e per la verità Bersani ha riso molto, ma il sigaro non l’ha mollato. Non ancora, almeno.
Alla gente bisogna anzitutto dire chi sei, ha ripetuto invece. Quasi ad ogni tappa del suo tour elettorale. E l’impressione è che gli elettori lo hanno capito, e si sono fidati. Ha cominciato dalla pompa di benzina di famiglia, a Bettola, dove è salito su un palco improvvisato tra vecchi amici, in piazza, e ha chiuso a Stella, città natale di Sandro Pertini, dove ha riproposto la sua idea di cambiamento ben piantata nella storia del nostro Paese: «Non possiamo avere foglie nuove se si tagliano le radici. Altrimenti, sono foglie degli altri e non le tue». Non è una metafora immaginifica, come quella delle bambole da pettinare o quella dei giaguari da smacchiare; non è nemmeno l’improbabile proverbio del tacchino sul tetto, raccontatogli dal segretario dell’Spd, Gabriel, e sciorinato nel corso dell’ultimo confronto con Renzi, in Rai: però ha funzionato lo stesso. Complice anche l’annuncio un po’ remissivo di Veltroni e quello assai più risoluto di D’Alema (se vince Bersani non mi ricandido, ma se vince Renzi sarà battaglia politica), il tema della rottamazione è scivolato via dal centro della campagna elettorale, e si è cercato di guardare anche a quel che dal cambiamento ci si può aspettare.
Non è infatti l’unica cosa scivolata via. All’inizio, il segretario del Pd ha dovuto sottoporsi ogni giorno all’analisi del tasso di montismo circolante nelle sue vene, come ripeteva con cristiana sopportazione (lui, un ex chierichetto con Papa Giovanni XXIII nel Pantheon personale); alla fine, si è cercato di capire invece quanto profumassero di sinistra le sue parole (lui, che dei chierichetti organizzò il primo sciopero). Più che cambiare la posizione di Bersani, è cambiata però l’aria che tira, ed è sorta la convinzione che davvero tocchi a lui guidare il Paese, in caso di vittoria del centrosinistra. Fine delle supplenze, fine delle emergenze: la crisi morde e il Paese cerca risposte che finora non ha trovato nell’agenda Monti.
Bersani ha cercato di darle anzitutto al Sud, e dal Sud. Perché «è da quel lato che bisogna prendere il paese, se lo si vuole cambiare», ha detto a Napoli, al Teatro Politeama, dove ha incontrato Vendola, nelle battute finali della campagna elettorale, per proporgli «un’avventura di governo insieme». Questa cosa del lato da cui guardare le cose è probabilmente la prossima fucina delle metafore bersaniane. Il segretario ha preso a immaginare l’Italia come una specie di cubo di Rubik che bisogna voltare da ogni parte per capire come prenderlo, cosa cominciare a smuovere. Perciò ha invitato a guardarla da Sud, per correggere gli squilibri del Paese, o dalla parte degli immigrati, per ampliare i diritti di cittadinanza, o ancora dalla parte dei più deboli, per evitare che meriti e opportunità siano solo la maschera modernizzatrice della legge del più forte. Ma la parte giusta l’ha indicata nell’appello finale al voto. È quella di Lucrezia, la bambina di quattro anni, figlia di un’infermiera, che per Natale ha chiesto «una bambola e lo stipendio della mamma». L’appello ha funzionato, il pathos era autentico e Bersani commosso il giusto: «Cercherò di guardare il mondo e l’Italia da quel punti di vista lì ha detto perché se lo si guarda da quel lato si fa un Paese migliore». Era sincero, e sapeva pure, come noi sappiamo, che Natale non è poi così lontano.
L’Unità 03.12.12
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“Leader sopra il 60%”, di Andrea Carugati
La partita finisce molto prima del previsto. Appena uscito l’exit poll di Nicola Piepoli che dà Bersani al 61,5% e Renzi al 38,5%, subito il sindaco di Firenze su twitter riconosce la sconfitta: «Era giusto provarci, è stato bello farlo insieme, grazie di cuore a tutti». Non sono ancora le 20.30, e partita è già chiusa. Chi si aspettava un testa a testa, una lunga notte appesa al risultato, è rimasto deluso: Bersani è il candidato premier del centrosinistra.
Poco dopo l’exit poll di Piepoli, il responsabile del coordinamento delle primarie Nico Stumpo, sulla base di 1700 seggi scrutinati su un totale di 9mila conferma quei numeri, per la gioia del noto sondaggista che, ospite di RaiNews, si lascia andare a una sonora risata: «Chissà come saranno felici i miei collaboratori…». Alle 21 le sezioni scrutinate sono già oltre la metà, 5281 su 9219: e i numeri variano di pochissimo, Bersani al 60.7% e Renzi al 39,2%. E la vera sfida diventa se il sindaco riuscirà o meno a superare la soglia psicologica del 40%. Ma il dato politico non cambio: il segretario Pd vince con 20 punti di distacco, un distacco molto netto, superiore alle aspettative. Che con il passare dei minuti resta sostanzialmente inalterato: 60,8% contro 39,1% quando le sezioni sono oltre 7mila.
Succede anche che i dati sull’affluenza non sono ancora pronti quando ormai l’esito della sfida è definito. Alle 22 l’ultimo dato utile è quello delle 17, con 2,3 milioni, circa 150mila in meno rispetto allo stesso orario di domenica scorsa. «Un calo del 5-7%, meno che fisiologico», spiega Luigi Berlinguer, presidente del Collegio dei garanti. Alla fine le stime parlano di un risultato di partecipazione che sfiora i 3 milioni.
Al comitato organizzatore, nonostante le polemiche che ci sono state anche ieri sullo svolgimento del voto e sulla redazione incompleta dei registro degli elettori, si respira un clima di soddisfazione: «Ringrazio gli oltre 100mila volontari che hanno reso possibile tutto questo», dice Nico Stumpo. «Anche oggi negli oltre 9mila seggi c’è stato un lavoro ordinato, serio. Una grande dimostrazione di capacità da parte di una coalizione che ha dimostrato di saper gestire situazioni complicate e questo è importante per oggi e per il futuro». Attivi anche i seggi “volanti” per le persone disabili.
Dal punto di vista dei numeri, Bersani vince in tutte le regioni, fatta eccezione per la Toscana, dove il sindaco di Firenze vince con il 54,7% contro il 45,3%. Il segretario Pd recupera nelle altre due regioni rosse dove al primo turno era in svantaggio come Umbria e Marche e in Piemonte. Confermato il successo di Bersani al sud: in Puglia, complice certamente la somma con i voti di Vendola, arriva al 71%. Numeri molto forti anche in Sardegna (74%), Basilicata, Calabria e Lazio (67,5%). In Emilia Romagna Renzi si difende: con il 39% contro 61% guadagna un risultato in media con il dato nazionale ed evita un cappotto.
Rispetto ai timori della vigilia, la giornata di ieri non ha registrato particolari problemi ai seggi. Certo, si sono state persone che si sono presentate ai seggi senza registrazione e che non hanno potuto votare, a Piacenza qualcuno ha addirittura chiamato la polizia, ma la consegna impartita ai presidenti dei seggi è stata rispettata: ha potuto votare solo chi aveva ricevuto una mail di autorizzazione dal coordinamento provinciale.
La giornata era partita con una certa tensione da parte dei comitati Renzi, che avevano segnalato la mancanza dei registri dei votanti in alcuni seggi in Toscana, a Roma e in Sardegna. A Firenze alcuni seggi erano stati aperti in ritardo per questo problema poi, complice anche il via libera dei renziani, aveva prevalso l’idea di consentire comunque alle persone in coda di votare.
In Toscana i renziani avevano parlato di «casi gravissimi, che mettono a rischio la validità del voto in numerosissimi seggi». Il presidente dei garanti Berlinguer aveva spiegato: «Le segnalazioni non sono comunque rilevanti per l’esito del voto: il secondo turno è più complesso da gestire perché si deve verificare in base agli elenchi di chi ha votato primo turno». «In parte gli elenchi sono stati digitalizzati, ma non tutti. Per esempio la società a cui ci eravamo affidati a Firenze ci ha truffati e l’abbiamo denunciata», ha concluso.
Nel primo pomeriggio il comitato Renzi di Firenze ha spento qualsiasi ipotesi di contestazione del risultato: «Non pensiamo ad alcun ricorso. Questa sera conosceremo sicuramente il nome del candidato premier del centrosinistra», ha spiegato Nicola Danti, responsabile dei comitati Renzi in Toscana. Insomma, un modo per chiudere definitivamente qualunque ipotesi di contestazione. Difficile prevedere cosa sarebbe successo nel caso di esito incerto del ballottaggio. Ma così non è stato. Alle 22,20 Bersani inizia il suo discorso di investitura, ringrazia il suo avversario e anche gli altri protagonisti delle primarie. Ora comincia la partita vera delle elezioni.
L’Unità 03.12.12

De Mauro: “L’Italia è in ritardo e nessuno se ne preoccupa”, di Anna Masera

Il professor Tullio De Mauro ( www.tulliodemauro.it ), linguista con un’intensa seppur breve esperienza di ministro dell’Istruzione (durata 13 mesi), ha molto da dire sulla cultura e la scuola nell’era digitale. Lo contattiamo via email all’Università di Roma chiedendogli di intervistarlo e risponde subito. Chiede domande scritte e quando per problemi di connessione, che attribuisce a un server poco affidabile, non riesce ad inviare ed è costretto a rispondere a voce, chiede di poter dettare parola per parola («Un tempo avevate i dimafonisti»), svelando una certa sfiducia verso il mestiere del giornalista.
Dall’alto dei suoi 80 anni e del suo pedigree, ha la nostra totale disponibilità. Ricostruisce a braccio le risposte che sono andate perse. E a noi sembra di tornare sui banchi delle elementari nell’ora del dettato.
Professore, gli italiani possono partecipare alla rivoluzione digitale?
«Purtroppo poco e male. L’uso della Rete presuppone le capacità almeno elementari di lettura, scrittura e calcolo. Due indagini del 2000 e del 2006 dicono che siamo messi molto male. Classi dirigenti pensose delle sorti del nostro Paese dovrebbero sobbalzare a sentire gli esperti internazionali concludere che «la popolazione italiana in età di lavoro (16-65 anni) soltanto per il 20% ha le capacità minime indispensabili per orientarsi in una società moderna. Questo deficit spiega perché l’accesso alla Rete, anche per chi possiede un Pc, arriva a percentuali modeste nel confronto internazionale. Abbiamo difficoltà a usare la Rete perché abbiamo difficoltà a leggere, scrivere e far di conto».
Che cosa dovrebbe fare la politica?
«La politica dovrebbe fare quello che fa negli altri Paesi bene ordinati nel mondo. Nell’età adulta è fisiologico che si perdano competenze acquistate da giovani a scuola. Altri Paesi fronteggiano questo problema, ormai noto e ben individuato, sviluppando corsi di apprendimento per tutta la vita. Noi abbiamo alcuni progetti di legge, uno anche di iniziative popolari, giacenti in Parlamento, con nessuna concreta iniziativa per creare un sistema nazionale, per un’educazione ricorrente. Da molti anni l’Ocse rimprovera all’Italia questo punto debole del suo sistema di istruzione, di mancanza di educazione per gli adulti. Classi dirigenti responsabili dovrebbero metterlo in primo piano».
Ci sono modelli a cui ispirarsi per proteggere e far crescere la scuola, l’università, la ricerca, la cultura in Italia?
«Un tratto comune alle politiche scolastiche in tutto il mondo è che sono gestite in prima persona da capi di Stato o di governo. Obama o Cameron, Sarkozy o Chavez o Merkel. E questo è giusto, sia per l’entità dell’investimento necessario dappertutto a far funzionare scuola e formazione, sia per il ruolo centrale che ha per lo sviluppo del Paese».
Se bisogna fare i conti con un’autorità pubblica deficitaria, che cosa possiamo fare noi cittadini per istruire noi stessi e i nostri figli?
«Ci sono varie cose possibili, non troppo onerose. Uno: avere in casa un po’ di libri. Due: leggerli abitualmente. Tre: leggerli ai bambini quando ancora non vanno a scuola, abituarli alla lettura per quello che dà alle emozioni e alle intelligenze. Quattro: cercare di persuadere le autorità comunali, biblioteche e centri di lettura, creando una rete paragonabile a quelle che troviamo in Trentino Alto Adige e Val d’Aosta. In attesa che il governo capisca che deve dotare la scuola non di tablet, ma dell’accesso alla banda larga per sfruttare le opportunità che la Rete offre».
Lei e’ ottimista o pessimista sul nostro futuro?
«Sarei molto ottimista se sapessimo selezionare gruppi dirigenti capaci di elaborare programmi a medio e lungo termine per la vita del nostro Paese. In Italia non vedo candidati politici che abbiano messo la scuola in testa alla loro agenda politica: a parte qualche vago accenno nel programma di Vendola, per il resto è silenzio totale».
La stampa 03.12.12

“Università, la rivoluzione non è online”, di Juan Carlos De Martin

Internet, dopo aver trasformato molti altri settori, è forse sul punto di rivoluzionare l’università? I «Corsi massivi online», i cosiddetti Mooc, offerti via Rete a un numero potenzialmente enorme di studenti, avranno per l’università il ruolo dirompente che i file Mp3 hanno avuto per l’industria musicale? Iniziative che offrono corsi online come Udacity, Coursera o Khan Academy manderanno in crisi, e forse addirittura in soffitta, un’istituzione che risale al Medioevo, una delle istituzioni cardine della modernità?
A leggere molti articoli, soprattutto negli Stati Uniti dove mi trovo ora, sembrerebbe di sì. E a diffondere questa visione non sono solo gli investitori, attratti da un mercato potenzialmente enorme, o gli imprenditori da loro sostenuti. Anche Clay Shirky, per esempio, docente all’Università di New York, ha recentemente sposato la tesi che la tecnologia ora permetta di fare in maniera molto più efficiente ciò che le università fanno in maniera molto costosa (soprattutto negli Usa). Il cambiamento è quindi inevitabile.
Ma è davvero così? È sicuramente vero che l’avvento di Internet costringe tutte le attività che lavorano con la conoscenza a riesaminare la propria missione. Ed è altrettanto vero che – a differenza di una decina di anni fa, quando c’era stato il primo picco di iniziative universitarie online – oggi la tecnologia è molto più matura e in grado di assicurare buoni risultati. Ma dire che i corsi online sostituiranno l’università è una colossale forzatura.
I tecno-entusiasti, infatti, tendono a ridurre l’università alla sola operazione di trasferimento di nozioni nella testa degli studenti, ovvero, guarda caso, alla funzione che loro sono in grado di offrire. La questione decisiva è però un’altra: le università sono davvero fabbriche per l’inserimento di nozioni nella testa degli studenti?
L’università, però, per come si è andata configurando in questi 200 anni, è molto di più. È uno spazio dove si incontrano e si confrontano persone che hanno scelto di dedicare la vita alla conoscenza, i professori, con altre persone che hanno desiderio di imparare e di crescere, gli studenti. I professori insegnano, ma fanno anche ricerca e in questo modo migliorano la comprensione che la società ha di se stessa e del mondo, tenendo allo stesso tempo vivo il proprio insegnamento. Nello stesso spazio, gli studenti, confrontandosi coi professori e coi compagni, imparano a usare la testa per diventare non solo lavoratori produttivi, ma anche esseri umani compiuti e cittadini consapevoli. E sempre nello stesso spazio professori e studenti si aprono alla società per discutere – in pubblico e con razionalità le molte questioni di interesse generale che riguardano il futuro di tutti. L’università, insomma, come spazio dove si coltiva, tramanda e diffonde conoscenza critica al servizio della collettività.
In tutto ciò la Rete è certamente una preziosa alleata dell’università, a molti livelli, alcuni dei quali già chiari come, appunto, le lezioni online, altri ancora, invece, tutti da scoprire. Questa è la vera sfida, di straordinario interesse, che ha di fronte l’università. È una potenziale rivoluzione? Forse sì. Ma non nel senso che sta a cuore ai tecno-profeti.
La stampa 03.12.12

“Se fanno festa anche gli sconfitti”, di Michele Serra

Matteo Renzi ha celebrato la sua sconfitta con un elogio della politica di grande livello retorico, decisamente emozionante.
Emozionante non solo per il Comitato dei Ragazzi che lo ha sostenuto, ma per almeno un paio di generazioni precedenti la sua. Non Bersani, e nemmeno “i vecchi apparati di partito” che sono stati il convitato di pietra dello scontro elettorale, erano l’avversario evocato dal giovane leader toscano: semmai il cinismo, il disincanto, la stanchezza, il sentimento di resa di fronte alla malapolitica, il chiamarsi fuori delle giovani generazioni. Da oggi in poi — ha detto in sostanza Renzi — sarà più facile, per un trentenne, non solamente in politica, ma anche nella vita economica e sociale, lanciare la sua sfida, smetterla di lamentarsi e provare a cambiare la propria vita e quella degli altri.
La doppia festa (Roma e Firenze, Bersani e Renzi) che ha coronato la domenica del ballottaggio lascia aperte molte strade, non tutte facili, al futuro del centrosinistra, ma chiude senza asprezza, senza grevi lasciti polemici una contesa comunque dura, e sostanziosa, tra due persone e tra due culture politiche. Bersani vince con ampio margine, ma il 40 per cento raccolto da Renzi gli consegna un mandato esplicito, non equivocabile, a un cambiamento che non è solo generazionale (anche se, in buona parte, lo è). Le rendite di posizione, il conservatorismo delle burocrazie politico-amministrative, i rapporti opachi con le banche “rosse” e il mondo cooperativo, la mancanza di nerbo e di fantasia di un partito, il Pd, che è spesso sembrato lo strascico di una storia finita piuttosto che il germe di una storia nuova, sono le pesanti incrostazioni che il nuovo leader del centrosinistra, forte di un’investitura popolare indiscutibile, dovrà per forza affrontare, guardandosi dai più chiusi e diffidenti tra i suoi tutori. Il suo 60 per cento lo autorizza a sentirsene capace, è uscito da una contesa che lo aveva visto partire con una buona fama da ministro dell’Economia (a suo modo, una fama “tecnica” in una fase politica che di tecnici sovrabbonda), e lo ha visto uscire con l’investitura di un vero leader, di un candidato premier a tutto campo.
Il fair-play (reciproco) spesso emerso nel suo antagonismo con Renzi ha le sue radici in un tratto comune alle due squadre di supporter e ai due eserciti di elettori: la fiducia nella politica come leva di cambiamento ancora potente, ancora vitale. Fiducia nella politica, non nel carisma di un Capo o nella delega a un demiurgo. Questa fiducia nel lavoro politico, che è un lavoro di territorio, di comunità, di persone che cercano di entrare in empatia con altre persone, è “di sinistra” per tradizione, quasi per definizione, ed è ciò che ha aiutato i due leader a rispettarsi e sentirsi parte di uno stesso campo. Gli applausi che i due schieramenti, a conclusione della loro defatigante campagna, hanno rivolto a se stessi, erano applausi alla politica. E si assomigliavano.
La Repubblica 03.12.12