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“L’assurdità delle ricongiunzioni previdenziali”, di Cesare Damiano e Marialuisa Gnecchi

Dopo la votazione della legge di stabilità alla Camera che ha consentito di fare un passo avanti, anche se non risolutivo, sul tema dei lavoratori rimasti senza reddito a causa della riforma delle pensioni, la nostra battaglia sulla previdenza deve continuare. Tra gli argomenti che vanno tenuti in evidenza, quello delle ricongiunzioni dei contributi per poter avere un’unica pensione, è più che mai all’ordine del giorno. Il problema nasce da un vero e proprio errore compiuto nel 2010, al tempo del governo Berlusconi. Occorre una breve spiegazione: nel 2009 è stata innalzata l’età pensionabile di vecchiaia delle donne del pubblico impiego a 65 anni lasciando inalterata a 60 anni l’età di pensionamento delle lavoratrici dei settori privati. Per impedire che, attraverso la ricongiunzione gratuita dei contributi, le donne iscritte all’Inpdap potessero trasferire i contributi all’Inps utilizzando in questo modo la possibilità di andare in pensione in modo anticipato, il governo varò una norma restrittiva. Si tratta dell’articolo 12 della legge 122 del 2010 che ha abrogato: tutte le norme che consentivano la costituzione della posizione assicurativa all’Inps ( Legge 322 del 1958), qualora nel fondo del pubblico impiego non si fosse raggiunto il diritto alla pensione; la ricongiunzione volontaria verso l’Inps (articolo 1 delle Legge 29 del 1979), che era gratuita perché non comportava nessun miglioramento dell’assegno pensionistico.
Si è prodotto in questo modo un effetto perverso che ha coinvolto indistintamente tutti i lavoratori con una iscrizione previdenziale in due o più fondi. Il passaggio dalla gratuità alla onerosità da Inpdap verso Inps (o da altri fondi: elettrici, volo, telefonici, giornalisti, ecc… ), ha comportato l’emergere della situazione attuale che vede i lavoratori nella condizione di dover pagare due volte i contributi e di doversi accollare ingenti oneri: in alcuni casi l’esborso è anche di alcune centinaia di migliaia di euro. A questa situazione occorre porre rimedio se crediamo ad un principio di irrinunciabile giustizia sociale. Noi abbiamo presentato come Pd una proposta di legge abrogativa dell’articolo 12 della legge 122 già il 4 agosto 2010; nel novembre dello stesso anno abbiamo inoltre presentato una proposta di legge sulla totalizzazione dei contributi con un duplice scopo: risolvere il problema delle ricongiunzioni onerose e corrispondere alla nuova realtà del mercato del lavoro che vede sempre più la necessità di cambiare atti vità e di essere, quindi, iscritti a fondi previdenziali diversi. Alla Commissione Lavoro della Camera abbiamo elaborato un testo unico, già all’inizio del 2011, frutto delle proposte di legge presentate da tutti i partiti a seguito della nostra iniziativa. Ci sono stati due anni di forti discussioni, di audizioni, di relazioni tecniche e di dati relativi a costi e platee in continuo cambiamento.
Quello che ci ha sempre stupiti è il fatto che la Ragioneria dello Stato abbia contabilizzato con risorse zero i maggiori introiti che derivano dalla trasformazione della gratuità in onerosità del ricongiungimento, mentre viene pretesa una copertura finanziaria miliardaria per ritornare alla gratuità precedente (la richiesta più onerosa che ci è stata avanzata era di 2 miliardi e 500 milioni per il periodo 2012/2022). A questo punto noi riteniamo che, prima che finisca la legislatura, il problema vada risolto o attraverso la proposta di legge che abbiamo elaborato unitariamente o attraverso una iniziativa del governo per via legislativa o amministrativa.
Per evitare di avere nuove bocciature sulle coperture finanziarie si rende op- portuno un preventivo coinvolgimento di tutti i soggetti interessati al fine di risolvere il problema: ministero del Lavoro, dell’Economia, Ragioneria, Inps e commissione Lavoro. Questo interveto fa parte delle correzioni alla riforma previdenziale che dobbiamo continuare a pretendere: per tutelare i lavoratori rimasti senza reddito, per sanare la situazione di coloro che hanno versato 15 anni di contributi entro il 31 dicembre del 1992, per risolvere il problema delle ricongiunzioni e per stimolare l’Inps a produrre tutte le normative utili a dare sicurezza ai lavoratori con interpretazioni omogenee in tutte le sedi territoriali.
L’Unità 26.11.12

“Violenza sulle Donne: l’ipocrisia delle parole”, di Paolo Di Stefano

Il risalto dato dall’informazione alla Giornata mondiale contro la violenza sulle donne non è riuscito a dissipare un vago senso di ipocrisia. Il messaggio era chiaro e nobilissimo ma, diciamo la verità, l’uomo rimane padrone anche nelle nostre parole. Diciamo la verità. Il (giusto) risalto dato dai giornali, dalle televisioni e dal web alla Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, che si è celebrata ieri con manifestazioni ovunque, non è riuscito a dissipare un vago senso di ipocrisia. Il messaggio era chiaro e nobilissimo: è infame che un numero enorme di donne, giovani o adulte, italiane o straniere, vengano uccise, torturate, malmenate dagli uomini, spesso compagni, mariti, fidanzati, amanti, ex amanti respinti, padri, fratelli. «Femminicidio» è la parola coniata per definire un crimine diffusissimo che un tempo non aveva neanche un nome (un vocabolo talmente nuovo che ancora oggi viene segnalato da Word con una sottolineatura rossa). Dunque, perché ipocrisia? Perché passato il 25 novembre, la cultura e le parole che esprimono le violenze perpetrate dagli uomini sulle donne rimarranno quelle di sempre. L’omicidio di una bella ragazza (il filo rosso Chiara Poggi, Sarah Scazzi, Yara Gambirasio, Melania Rea…) finisce per attivare una curiosità a dir poco morbosa: meglio se della vittima si reperiscono immagini ammiccanti, trascorsi «nebulosi», comportamenti socialmente non «irreprensibili». Diventano casi ad alto tasso di notiziabilità, riempiti di particolari «succulenti» che vengono considerati non indispensabili per altri crimini comuni. I moventi sessuali a cui vengono ricondotti e che certo esistono si colorano di innumerevoli connotazioni spiattellate al lettore con malcelato compiacimento. Diciamo la verità. Anche quando cresce l’indignazione, il racconto e le parole sono sempre quelli: nel cliché della donna oggetto quasi passivo della violenza la sottolineatura estetica non manca mai (si spreca l’aggettivo «bella»: un’aggravante o un’attenuante?). La relazione è sempre lui-lei, mai lei-lui. Il protagonista è sempre il maschio, che conduce i fili della relazione e li taglia brutalmente se necessario. Il verbo al passivo ne è una spia: è lei che viene violentata, raramente è lui che violenta. Diciamo la verità, l’uomo rimane padrone anche nelle nostre parole. Quanto peso avrebbero avuto le tragedie di Chiara, Sarah, Yara, Melania se le vittime si fossero chiamate Pietro, Marco, Mario, Giovanni? Avremmo mai indugiato tanto sui loro indumenti intimi? Il femminicidio è purtroppo (purtroppo), per le regole del giornalismo, l’equivalente del cane che morde l’uomo (o la donna), ma viene trattato come se fosse l’eccezione, l’uomo (o la donna) che morde il cane. Si dirà: meglio così, il rilievo contribuisce ad accrescere la sensibilità dell’opinione pubblica. Giustissimo. Ma non è esattamente questa l’intenzione, diciamo la verità. Non si tratta affatto di ridurre lo spazio dedicato a simili orrori, si tratta semmai di cambiare le parole usurate che li raccontano e le immagini che li rappresentano, si tratta di sovvertire gli stereotipi che purtroppo provengono da una società ancora arretrata e da una cultura ancora maschilista nel profondo. Le cui spie semiologiche — diciamo la verità — emergono con enfasi nei resoconti noir, ma affiorano nella quotidianità della comunicazione diffusa, rosa o bianca che sia. E forse, per superare l’ipocrisia, sarebbe utile partire da lì.
Il Corriere della Sera 26.11.12
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Il capo dello Stato: «Tutelare le donne che denunciano», di Mariolina Iossa
S’è acceso il Colosseo ieri, l’ha acceso il sindaco di Roma Alemanno come «staffetta» per l’iniziativa dei sindaci partita da Torino. S’è acceso per accendere simbolicamente i riflettori sulle donne violentate, picchiate, torturate, uccise, nella giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Il capo dello Stato Giorgio Napolitano chiede di «tutelare con maggiore efficacia le donne che con coraggio manifestano situazioni di abuso» e di «far crescere l’impegno culturale, sociale e delle istituzioni nell’affrontare gli squilibri persistenti con una concezione del ruolo femminile rispettosa della dignità della persona e di corrette relazioni tra i generi».
Incontri, dibattiti, manifestazioni, proiezioni di film, spettacoli teatrali e sottoscrizioni di petizioni: sono state molte le iniziative in tutta Italia per ricordare tutte le violenze e parlare di «femminicidio», quella strage silenziosa che ogni anno cancella solo in Italia la vita di decine e decine di donne, una ogni 60 ore, oltre 111 ammazzate dall’inizio dell’anno quasi sempre da mariti, conviventi ed ex.
Dopo l’arrivo venerdì nella capitale della vicepresidente del Consiglio europeo, Gabriella Battaini, che ha chiesto al governo italiano di ratificare la Convenzione di Istanbul, molto più di una convenzione, un vero e proprio corpus di obblighi in materia di prevenzione e contro la persecuzione, ieri il governo è intervenuto con il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri che parla della necessità di una «crescita culturale nei giovani» e di «forze dell’ordine adeguate nella capacità di ricevere le denunce», per far sentire «le donne più tranquille», e con il ministro del lavoro con delega alle Pari Opportunità Elsa Fornero che auspica la «ratificazione a breve della convenzione di Istanbul che io stessa ho firmato, entro la legislatura».
Se l’Italia lo farà, come chiedono tutti i politici, e sarà seguita da almeno altri dieci Paesi tra i 24 che l’hanno firmata (solo la Turchia, al momento, ha ratificato), la Convenzione «potrebbe entrare in vigore già tra un anno, un anno e mezzo», conferma Gabrielle Battaini. Con l’adesione totale, si otterrà un quadro giuridico unico contro la violenza sulle donne in Paesi anche lontani, la raccolta e la diffusione di dati sui casi più estremi, l’impegno a promuovere una cultura contraria a quella che continua a giustificare violenza e omicidi con motivi di usi, costumi, religione, tradizione, e ancora del cosiddetto «onore».
Ma la ratifica della Convenzione per alcuni non basta. C’è chi chiede una legge del Parlamento contro le violenze e contro il femminicidio, questa nuova parola coniata apposta per scuotere le coscienze. «Una forte iniziativa parlamentare — sostiene un gruppo di donne del Pd, tra cui le senatrici Teresa Armato e Annamaria Carloni — dovrà dare il segno di una nuova consapevolezza: quella di considerare una priorità la difesa di persone ancora troppo spesso considerate più deboli e costrette al silenzio».
Il Corriere della Sera 26.11.12

«Tecnicamente la scuola fallisce» Intervista a Benedetto Vertecchi

Questo sistema educativo produce frantumazione sociale, prevale una logica aziendale che ci riporta indietro di decenni». Il professor Benedetto Vertecchi, come qualunque autorità della pedagogia sperimentale dotata di una prospettiva storica non sclerotizzata sul presente – insegna all’Università Roma Tre – è sempre «contento» quando gli studenti protestano. «Ma se manca la politica, non si va da nessuna parte».Il suo è un giudizio sul governo Monti?
Semplice. La Gelmini non aveva la più pallida idea di cosa fosse la scuola, e il ministro Profumo, che una certa idea dovrebbe averla visto che si spaccia per un «tecnico» e ha fatto pure il professore, dimostra di non sapere cosa significa sviluppare un sistema scolastico che è sull’orlo del fallimento. Al massimo si limita a bombardarci di luoghi comuni.
Quali?
Spacciano la tecnologia come fosse la palingenesi della scuola, per esempio. Mentre altri paesi si stanno interrogando sull’invasività di internet nella vita dei ragazzi, ad uso e consumo delle grandi aziende, noi enfatizziamo un uso delle tecnologie che non ha niente a che vedere con la cultura. I paesi con i sistemi scolastici più avanzati stanno imponendo l’idea che il grosso del processo educativo deve passare attraverso l’esperienza nella scuola, togliendo forza all’utilizzo di quei feticci tecnologici che in realtà portano alla distruzione di un altro tipo di tecnologia nelle aule. Una volta nelle scuole c’erano strumentazioni chimiche e raccolte natualistiche, oggi invece solo monitor.
Non sarà questa l’unica critica al governo dei tecnici.
No, ma questo è l’inganno cui siamo sottoposti: la chiamano modernità, mentre stanno cercando di lasciare il segno con ben altri provvedimenti.
Come il tentativo di allungare l’orario di lavoro dei docenti?
La questione degli orari è ridicola, il punto è che la scuola dovrebbe essere aperta tutto il giorno, ma non si può confondere l’orario di funzionamento della scuola con l’orario delle lezioni dei professori, io a scuola ci metteri gli orti per far restare i ragazzi fino a sera… La proposta di far lavorare i prof sei ore in più è da incompetenti in assenza di un nuovo patto per riorganizzare il funzionamento delle scuole in questa direzione, ma servono fondi e non tagli.
Profumo si è felicitato perché quest’anno gli iscritti alle scuole professionali hanno superato quelli dei licei. Cosa ne pensa?
Mah… Lui è contento anche davanti a centinaia di migliaia di precari che si iscrivono a un concorso che riserverà loro solo una manciata di posti di lavoro, ogni volta che parla mi vengono i dolori allo stomaco. In Italia abbiamo una dispersione scolastica molto alta, non c’è ancora una interpretazione rigida dell’obbligo scolastico (14 o 16 anni?) e gli iscritti all’università sono in calo rispetto al resto d’Europa. La verità è che siamo in una situazione pre fallimentare.
Però gli studenti tornano a farsi sentire.
E io sono contento. Però so anche che ce ne sono altri che sono tutelati dalle loro famiglie, quelli che vanno nelle scuole migliori, o che possono andare a studiare all’estero. Qui stiamo facendo un’operazione di frantumazione sociale, torniamo indietro di decenni facendo prevalere una logica aziendale.
Il problema, forse, è che le mobilitazioni fino ad ora si sono dimostrate incapaci di modificare a proprio vantaggio i rapporti di forza, e non solo quelle degli studenti.
La responsabilità più grande è quella delle forze politiche democratiche, avrebbero il sacrosanto dovere di incanalare forme di proteste prepolitiche trasformandole in politica attiva, trasformando così il disagio in proposta di cambiamento effettivo. Invece, al massimo, si corre dietro a una logica di rattoppi che di per sé non potrà mai ricostruire un sistema educativo degno di questo nome. Nel ’68 si sono fatti passi avanti ma direi più sul terreno individuale che collettivo, dopo un periodo in cui la distanza tra le classi sociali sembrava diminuita adesso siamo al punto che il divario tra privilegiati e no sta diventando nuovamente abissale.
In effetti, mai come nel mondo della scuola, nonostante il tanto agitarsi, si ha la sensazione che in realtà non si muova foglia.
Questo è il fatto preoccupante. Mi viene in mente Raffaello Lambruschini, il pedagogista del Risorgimento, lui diceva che i ragazzi li avrebbe presi con sé a studiare dai 3 fino ai 18 anni, perché l’origine familiare era deleteria… Quello che ancora oggi non si vuole capire è che la scuola va totalmente ridisegnata per diventare un modello di riferimento educativo in completa autonomia dai mercati. In Francia ci stanno provando, parlano di rifondazione scolastica. Da noi, niente. In Finlandia, altro esempio, le scuole non chiudono mai. Venti anni fa c’era il più alto tasso di suicidio giovanile, adesso quel paese è diventato un modello di riferimento. Questa è la strada da seguire
Il Manifesto 26.11.12

“La produttività dell’operaio”, di Bruno Ugolini

Tra i titoli inneggianti al recente accordo sulla produttività, uno, apparso sul Sole 24, diceva: «In busta paga fino a 850 euro in più». Un bella sommetta e un lettore distratto poteva arguire che la Cgil, non firmando, è ammattita. Quell’aumento salariale (annuo) a dire il vero, potrebbe essere riservato non a tutti, bensì a un livello salariale particolare. Una busta paga da pescare all’interno di una minoranza del mondo del lavoro. Sono i circa due milioni di donne e uomini che lavorano in fabbriche dove nel passato si sono potuti conquistare accordi aziendali. È possibile che il considerevole incentivo deciso dal governo allarghi questa platea anche se il fenomeno non può che essere bilanciato dalle aziende colpite dalla crisi e che chiudono o vanno in cassa integrazione, E resta il fatto che altri 16 milioni di lavoratori restano esclusi da questa scommessa. Per non parlare dell’esercito dei precari che pure sono un anello del sistema produttivo. Per loro niente incentivo fiscale. Quel che però ha più preoccupato la Cgil è constatare che questa scelta contiene uno scambio iniquo. I lavoratori che non stanno nel girone degli eletti del secondo contratto (quello aziendale), quelli che godono soltanto del contratto nazionale, potranno veder ridotta la loro busta paga. Una scelta che colpisce la stragrande “maggioranza” dei lavoratori e che, quindi, come fa notare la Cgil, incide sui consumi e sulla crescita economica. Un danno per il Paese. Era possibile, invece, agevolare la contrattazione aziendale senza infierire su coloro che, soprattutto in questi tempi di crisi, non godono di accordi supplementari. È alla luce di queste osservazioni che si possono capire meglio le ragioni del voltafaccia di buona parte del mondo imprenditoriale. C’è stato infatti un tempo, non molto distante, in cui la Confindustria e i suoi giornali tuonavano contro tale contrattazio- ne decentrata. Essa, dicevano, (sfogliate le annate del “Corriere della sera”) raddoppierà le richieste e quindi i costi. Oggi sono loro a rivendicarla ma cercando di fare in modo che il risultato finale non sia un “dare”, bensì un ricevere. E infatti la nuova epoca contrattuale dovrebbe essere tutta all’insegna del togliere. Ovverosia delle «deroghe» al contratto nazionale su orari, flessibilità, qualifiche. È interessante quest’ultimo capitolo che allude alla possibilità non di far carriera in fabbrica ma di retrocedere. E chissà come reagirebbero tanti commentatori se tale regola innovativa riguardasse anche loro, costretti a passare magari da meritevoli editorialisti a redattori semplici. Sarebbe però interessante ascoltare le opinioni oltre che di economisti e filosofi anche degli interessati. Forse si potrebbe fare una consultazione di massa come si fece per altre importanti svolte (vedi il 1993 con Ciampi) nella modellistica contrattuale. Un sindacato che fa piovere su iscritti e lavoratori le proprie scelte rischia di tramutarsi in un ente parastatale. Un operaio che ha avanzato suggerimenti, a proposito di produttività, esi- ste. È Gianni Marchetto, già tuta blu alla Fiat di Torino. Ha diffuso una specie di opuscolo. Qui osserva tra l’altro: «Gli operai sono persone pensanti, che se allenati, motivati, retribuiti, ecc. (alla maniera per es. di un calciatore) possono dare molta, molta più produttività». E ancora: «Se si vuole che un operaio dia il meglio di sé occorre liberarlo dalle forme di gravosità (i rischi da lavoro), di costrizione (gli accordi alla Marchionne) che non tolte portano gli operai ad un uso del tempo altro, lontano dalla produttività… ». Marchetto cita anche l’esempio di aziende dove questo tipo di produttività è stata esperimentata. E chiede al sindacato di costruire un archivio di queste aziende «per tentare una sorta di alleanza dialettica con il movimento dei lavoratori». Una proposta interessante espressa nel corso di una partita che non è certo finita. Lo «storico» accordo sepa- rato denso di auspici deve essere tradotto nei luoghi di lavoro. E qui sarà meno facile considerare inessenziale la Cgil. Che potrà rientrare in campo, magari aiutata dalle nuove regole sulla rappresentanza che dovrebbe- ro essere decise entro il 31 dicembre.
L’Unità 26.11.12

“Imposimato: Caro Polillo “Quota 96” ha ragione e voi torto, marcio”, da La Tecnica della Scuola

Il prof Ferdinando Imposimato, Presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione, scrive al sottosegretario Polillo sulla evidente ingiustizia perpetrata ai danni del personale della scuola bloccato dalla riforma Fonero sulle pensioni. Un errore tecnico e uno strafalcione gravissimi e insensati.
Al signor Sottosegretario di Stato del Ministero dell’Economia e delle Finanze prof Gianfranco Polillo
Gentile e caro sottosegretario prof Gianfranco Polillo,
sono l’ex senatore Ferdinando Imposimato . Ho avuto il privilegio di conoscerLa alcuni anni fa ed ho apprezzato molto la Sua onestà e competenza professionale. Recentemente Lei mi ha autorizzato a rivolgermi alla Sua persona per questioni di interesse generale. Ed è quello che faccio, scrivendole questa lettera. Mi rivolgo alla Sua cortesia e sensibilità per segnalare una grave ingiustizia, di cui Lei non è responsabile ma che purtroppo è addebitabile ad altro Ministero. Tale ingiustizia mi è stata segnalata dal segretario del Comitato Civico «Quota 96», costituito lo scorso marzo per denunciare un ‘errore tecnico’ della ‘Riforma Fornero’, errore che ha comportato gravissime conseguenze per circa tremila lavoratori del Comparto Scuola (fra docenti e ATA).
L’errore è contenuto nella ‘norma di salvaguardia: quella che esclude dai pesanti effetti della riforma i lavoratori che vantino requisiti maturati fino al 31 dicembre 2011.
Questa data unica, quindi apparentemente equanime, non ha tenuto purtroppo conto della specificità, lavorativa e pensionistica, del Comparto Scuola, basata, per garantire il buon funzionamento dei processi educativi, non sull’anno solare ma sull’anno scolastico.
I pensionamenti del Comparto Scuola sono infatti tuttora regolati dall’art. 1 del D.P.R. 351/1998, che vincola la cessazione dal servizio «all’inizio dell’anno scolastico o accademico successivo alla data in cui la domanda è stata presentata».
Questo vincolo, penalizzante per i lavoratori (che, maturando i requisiti pensionistici a una certa data, ad es. il 2 gennaio, sono tenuti a rimanere in servizio fino al 31 agosto, conclusione legale dell’anno scolastico), ha come contrappeso una seconda norma, anch’essa tuttora in vigore, l’articolo 59 della Legge 449/1997, che recita: «Per il personale del comparto scuola resta fermo, ai fini dell’accesso al trattamento pensionistico, che la cessazione dal servizio ha effetto dalla data di inizio dell’anno scolastico e accademico, con decorrenza dalla stessa data del relativo trattamento economico nel caso di prevista maturazione del requisito entro il 31 dicembre dell’anno».
In virtù del combinato disposto delle norme di cui sopra, il personale scolastico, che poteva vantare requisiti maturabili al 31 dicembre 2011, era già in pensione, o avrebbe comunque potuto ottenerla indipendentemente dalla ‘norma di salvaguardia’ della ‘Riforma Fornero’. Per avere effetto sui lavoratori della scuola, la ‘norma di salvaguardia’ avrebbe dovuto dunque necessariamente preservare – in applicazione dell’art. 1 del D.P.R. 351/1998 e dell’art. 59 della Legge 449/1997 – il personale che maturava i diritti nel corso dell’anno scolastico 2011/2012, e comunque entro il 31 dicembre 2012.
Omettendo di applicare, come sarebbe stato giusto e costituzionalmente legittimo, le norme speciali vigenti per il comparto scuola, la ‘Riforma Fornero’ ha prodotto una grave ingiustizia e ha costretto il MIUR a un dettato ‘schizofrenico’. La circolare sui pensionamenti 2012 contempla infatti (come se un anno scolastico non fosse nel frattempo trascorso) la medesima platea di pensionandi già coperta dalla circolare dell’anno precedente: «Si ricorda pertanto che, in virtù di quanto disposto dall’art. 1, comma 6, lettera c), della legge n. 243/2004, come novellato dalla legge n. 247/2007, i requisiti necessari per l’accesso al trattamento di pensione di anzianità sono di 60 anni di età e 36 di contribuzione o 61 anni di età e 35 di contribuzione, purché maturati entro il 31 dicembre 2011». È così accaduto che, per la prima e unica volta nella storia dei pensionamenti scolastici, i lavoratori interessati non hanno potuto far valere i requisiti pensionistici maturati nel corso dell’anno scolastico cui sono, per legge, vincolati. A riprova di quanto affermato, la circolare n. 109 – Cessazioni dal servizio dal 01/ 09/2013 – dell’Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia ricorda che «per il personale scolastico è rimasto in vigore l’art. 59 c. 9 della L. 449/97, secondo il quale i requisiti si maturano entro il 31 dicembre dell’anno di pensionamento (quindi entro il 31/12/2013)». Mi conforta sapere che Lei, prof Polillo, ha riconosciuto pubblicamente la fondatezza della doglianza, che tuttavia non ha consentito di sanare il vulnus, che è palesemente di natura costituzionale. Infatti viene violato il principio di cui all’art 3 della Costituzione per cui tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge. Per ben tre volte (in occasione del ‘Milleproroghe’, della ‘Spending Review’ e della discussione alla Camera della ‘Legge di Stabilità’) le iniziative parlamentari che si proponevano di sanarlo sono state bloccate dal veto del governo, che da un lato ha riconosciuto la loro fondatezza (Lei stesso ha recentemente dichiarato in Parlamento che riguardano una «giusta questione»), dall’altro ha opposto la mancanza delle relative risorse finanziarie.
Tuttavia la mancanza di risorse finanziarie non può giustificare la esclusione dagli effetti della riforma i lavoratori che vantino requisiti maturati fino al 31 dicembre 2011. Questa data unica, quindi apparentemente equanime, si risolve in un’ingiustizia perché non tiene conto della specificità, lavorativa e pensionistica, del Comparto Scuola, basata, per garantire il buon funzionamento dei processi educativi e didattici, non sull’anno solare ma sull’anno scolastico. E penalizza una categoria di lavoratori senza eliminare la sicura illegittimità costituzionale della norma che intacca gli artt. 3 e 97 della Costituzione. Infatti il Governo è soggetto, come organo supremo della Pubblica Amministrazione, compresa quella scolastica, al principio fondamentale del buon andamento e della imparzialità dell’Amministrazione, anche e soprattutto scolastica, stabilito dall’art 97 della Costituzione repubblicana. La Scuola e i docenti sono il fondamento dello Stato e ad essi sono affidate le speranze di un futuro migliore dei nostri giovani studenti ed essi non possono subire discriminazioni di alcun genere, soprattutto di carattere economico. Era evidente che il Governo doveva tenere conto della ‘specificità’ della situazione dei lavoratori scolastici, ma non lo ha fatto per un errore che non può risolversi a danno di una categoria benemerita come quella dei lavoratori scolastici, cui tutti dobbiamo il massimo rispetto e la massima gratitudine .
A parte queste insuperabili considerazioni di ordine costituzionale, e solo per amore di verità, sull’argomento dei mezzi finanziari, che, ripeto, non esclude la illegittimità della legge, mi permetto di fare le seguenti osservazioni.
1. La prima riguarda la credibilità dei ‘numeri’ addotti dal governo circa la quantità di personale coinvolto nei provvedimenti. Come risulta dagli atti parlamentari, il Governo ha dapprima parlato di diecimila unità, poi di seimila, per risalire da ultimo a settemila. Le stime ufficiali del MIUR prefigurano invece una platea di 3000-3500 lavoratori.
2. La seconda concerne lo stesso calcolo delle risorse occorrenti, secondo quanto è stato documentato dai lavoratori discriminati e dalle loro rappresentanze sindacali. In occasione della discussione della ‘Legge di Stabilità’, calcolando su 7.000 unità, il governo ha previsto «maggiori oneri per circa 56 milioni di euro per l’anno 2013 (per l’operare comunque del regime delle decorrenze), 156 milioni di euro per il 2014, 350 milioni per il 2015 e 135 per il 2016». Questo calcolo è contestabile.
Se si considerano, infatti, i dati, prevedibilmente più attendibili, del MIUR (un massimo di 3.500 lavoratori), si può, in buona coscienza, affermare:
1) Il pensionamento del personale scolastico comporta un beneficio immediato per le casse dello Stato. Infatti esce del personale a fine carriera e viene sostituito da neo-assunti la cui retribuzione è molto inferiore. Le minori uscite vanno a coprire in larga misura i maggiori esborsi dovuti al pagamento delle pensioni del personale anziano che va in quiescenza. I dati quantitativi sono indicati ai punti seguenti.
2) Lo stipendio medio lordo annuo del personale anziano che andrebbe in pensione si può stimare dell’ordine di 35.000 euro. Una insegnante di un liceo scientifico di Roma, con un’anzianità contributiva di 38 anni, ha una retribuzione lorda annua (CUD 2011) di 34.000 euro. Del personale fanno anche parte insegnanti di scuole di ordine inferiore (medie, elementari e infanzia), e ATA, mediamente con un’anzianità compresa tra 35 e 39 anni (se ne avessero 40 sarebbero potuti andare in pensione con le vecchie regole senza alcun problema). Dunque assumere, per il personale in questione, uno stipendio medio un po’ superiore a quello dell’insegnante del Liceo di Roma, è una stima conservativa. Considerato che le persone interessate sono 3500, il minore costo di stipendi, per lo Stato, sarebbe pari a 3500×35.000=123 milioni. Il costo per lo Stato è maggiore (oneri fiscali e previdenziali) del costo degli stipendi per un fattore 1,6. Quindi il minore esborso complessivo dello Stato è di 123×1,6= 197 milioni.
3) Lo stipendio pro capite dei neoassunti che subentrerebbero agli anziani può valutarsi in 22.000 euro (netto di 16.600 corrispondente a circa 1300 euro mensili per 13 mensilità). I maggiori costi per stipendi sarebbero pari a 3500×22.000= 77 milioni. Il maggiore esborso, tenuto conto degli oneri aggiuntivi, è di 77×1,6= 123 milioni.
4) Il risparmio netto per lo Stato, su base annua, sarebbe pari a 197 – 123 = 74 milioni.
5) Il costo delle pensioni del personale anziano può stimarsi pari al 70% del costo degli stipendi. Infatti la pensione netta oscilla fra il 70% e l’80% dello stipendio netto. Passando al lordo, la pensione lorda non comprende gli oneri previdenziali, compresi invece nello stipendio lordo; quindi la pensione lorda corrisponde a una quota percentuale dello stipendio lordo inferiore al rapporto fra pensione e stipendio netti. È dunque realistico assumere che la pensione lorda di un insegnante sia pari al 70% del stipendio lordo (al netto di oneri) percepito quando è in servizio. Ne consegue che i maggiori esborsi per pensioni, su base annua, sono stimabili come 70% di 123 milioni: 0,7×123 = 86 milioni.
6) La copertura finanziaria di questi 86 milioni si ottiene per 74 milioni dai risparmi di cui al punto 5). Resta da trovare la copertura finanziaria per solo 86-74=12 milioni su base annua.
7) Complessivamente i fabbisogni necessari riguarderebbero la copertura dei 4 mesi del 2013, di una annualità intera (2014) e di 8 mesi del 2015. Si può infatti ritenere che mediamente entro il 2015 gli insegnanti in questione comunque andrebbero in pensione con le nuove norme. Dunque il fabbisogno complessivo è di 4 + 12 + 8 = 24 milioni. Il fabbisogno medio annuo di 119 milioni fornito dalla Ragioneria dello Stato è dunque privo di ogni realistica valutazione.
NB. Il TFR va escluso dagli oneri cui trovare copertura finanziaria.
Le ‘liquidazioni’ (TFR) non vanno computate tra gli oneri aggiuntivi, in quanto sono un onere che comunque lo Stato dovrà sostenere quando il personale andrà in pensione. L’eventuale provvedimento ne determinerebbe il pagamento anticipato, dal 2015 al 2013, per il quale lo Stato utilizzerà le fonti finanziarie che avrebbe usato nel 2015.
Questo è quanto. In occasione del prossimo passaggio al Senato della ‘Legge di Stabilità’, il Parlamento ha l’ultima occasione di sanare la grave e ingiusta ferita inferta ai pensionandi scuola 2012. Altrimenti non resterebbe che aspettare le decisioni dei Tribunali Amministrativi investiti dei ricorsi (circa tremila), con una grave delegittimazione di lavoratori che hanno speso la loro esistenza al servizio dello Stato e dei giovani, pur nella miseria umiliante delle loro retribuzioni.
Ove dovesse riconoscere la fondatezza delle ragioni dei lavoratori, Le chiedo di impegnarsi fattivamente per l’approvazione dell’emendamento che sarà presentato alla Commissione Bilancio del Senato e che dovrebbe ricalcare quello «respinto per l’aula» dalla Commissione Bilancio della Camera, prevedendo che le norme antecedenti alla ‘Riforma Fornero’ «continuano ad applicarsi al personale della scuola che abbia maturato i requisiti entro l’anno scolastico 2011-2012, ai sensi dell’articolo 59, comma 9, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, e successive modificazioni».
Grazie per l’attenzione.
Cordiali saluti e buon lavoro.
Ferdinando Imposimato
da La Tecnica della Scuola 26.11.12

“Diffamazione una legge sbagliata”, di Stefano Rodotà

Nata malissimo, la vicenda della nuova legge sulla diffamazione rischia di finire ancor peggio. Non era imprevedibile. Si erano subito sommati due pessimi modi di legiferare. La triste abitudine italiana alle leggi ad personam (non a caso si parla di “legge Sallusti”) e un modo di produrre il diritto contro il quale i giudici inglesi avevano messo in guardia fin dall’800, riassunto nella formula “hard cases make bad law” – dunque il rischio di una risposta legislativa distorta perché ritagliata su una situazione eccezionale o estrema. Si potrebbe aggiungere un detto tratto dalla saggezza popolare: “La fretta è cattiva consigliera”. Una fretta, però, che al Senato è stata deliberatamente usata per cercare di imporre soluzioni inaccettabili, sfruttando come pretesto l’urgenza legata alla volontà di impedire che Alessandro Sallusti finisca in carcere.
L’ultimo episodio di questa brutta storia è rappresentato dalla approvazione di una norma chiamata “salva direttori”, un emendamento proposto dallo stesso presidente della commissione Giustizia, che esclude appunto il carcere per direttori e vice-direttori, ma lo mantiene per gli altri giornalisti. Si è cercato in questo modo di attenuare gli effetti dell’imboscata parlamentare con la quale, con un voto segreto, era stata reintrodotta la pena carceraria per tutti i giornalisti. In questo modo la vicenda non soltanto si aggroviglia sempre di più. Si manifesta una evidente contraddizione con il motivo per il quale si era deciso di modificare le norme sulla diffamazione, appunto l’eliminazione di quel tipo di sanzione. E, scegliendo questa strada, si introduce una ingiustificata discriminazione tra i giornalisti, con evidenti rischi di incostituzionalità della nuova disciplina, e si mantiene l’intimidazione nei confronti del sistema dell’informazione nel suo complesso.
Questo non è il solo aspetto negativo di un disegno di legge il cui iter parlamentare è stato tutto punteggiato da forzature, sgrammaticature tecniche, inconsapevolezza delle caratteristiche delle materie regolate. Si può apprezzare il senso di responsabilità dei giornalisti che, accogliendo l’invito del presidente del Senato, hanno rinunciato allo sciopero indetto per oggi, in attesa di quel che i senatori decideranno. Ma qualche aggiustamento dell’ultima ora non potrà rendere accettabile un testo che rimane inadeguato e pericoloso. L’unica dignitosa via d’uscita per i senatori è quella di abbandonare questo disegno di legge, che continua a rendere visibile lo spirito con il quale è stato progressivamente concepito: uno strumento per arrivare ad un regolamento di conti tra ceto politico e mondo dell’informazione.
Già la mossa iniziale di questa partita era stata rivelatrice. Il disegno di legge nasce da un improvvida iniziativa trasversale, o bipartisan che dir si voglia, del Popolo della libertà e del Partito democratico. Troppo lontani, infatti, si erano rivelati in questi anni gli orientamenti dei due partiti proprio nella materia della libertà d’informazione. Era prevedibile, quindi, che i non dimenticati propugnatori di una “legge bavaglio” avrebbero manifestato gli stessi spiriti in una occasione che apriva spazi inattesi per muoversi di nuovo in quella direzione. Ecco, quindi, l’apparire di norme che usavano l’arma della sanzione pecuniaria per intimidire editori e giornalisti; per distorcere il diritto di rettifica a vantaggio di chi pretende di stabilire unilateralmente quale sia la “verità” da rendere pubblica; per aggredire con imposizioni cervellotiche il mondo della Rete. Tutto questo è avvenuto in un clima di voluta confusione culturale, presentando come reato di opinione una diffamazione consistente nell’attribuire a una persona un fatto determinato del tutto falso.
Emergevano così i tratti di una disciplina tutta impregnata di voglia di rivincita, di ritorsione, di vera e propria vendetta nei confronti del sistema dell’informazione, che è stato il vero tratto bipartisan di questa vicenda e che ha avuto la sua più clamorosa e rivelatrice manifestazione con il voto che reintroduceva la pena carceraria. Le proteste venute dal Pd, pur sacrosante, sono apparse tardive, segno di una confusione apparsa durante la discussione parlamentare, ma che già si coglieva nel modo già ricordato di mettere la questione all’ordine del giorno del Senato. Eccesso di fiducia, ingenuità o piuttosto inadeguatezza dell’analisi di una questione davvero capitale per la democrazia?
La ripulitura del testo, prima degli incidenti di percorso, non lo ha depurato dei suoi molti vizi d’origine. Nulla, o troppo poco, di quello che sarebbe necessario per aggiornare le norme sulla diffamazione si trova nel disegno di legge sul quale oggi il Senato dovrà esprimere il suo voto. Pure, non erano mancate le indicazioni per imboccare una strada che avrebbe consentito di avvicinarsi almeno a una disciplina consapevole dei molti problemi sollevati in questi anni a proposito della diffamazione, apprestando strumenti adeguati e non inutilmente punitivi per garantire verità e rispettabilità delle persone e considerando pure le questioni, tutt’altro che marginali, delle denunce temerarie e delle sproporzionate richieste di risarcimenti, come mezzo non per garantire un diritto, ma per intimidire i giornalisti. E si erano pure suggeriti i criteri per una disciplina rapida e sobria che, eliminata l’inaccettabile carcerazione, poteva essere realizzata con pochi aggiustamenti delle norme vigenti. Se tutto questo non è avvenuto, significherà pure qualcosa. Una volta di più dobbiamo registrare malinconicamente un uso congiunturale e strumentale delle istituzioni, l’inadeguatezza politica e culturale che si annida in questo Parlamento. Limitiamo almeno i danni, e rinviamo una nuova disciplina della diffamazione a tempi sperabilmente più propizi.
La Repubblica 26.11.12

“La migliore risposta all’antipolitica”, di Federico Geremicca

Oltre tre milioni e mezzo di cittadini pazientemente in fila per votare, decine di migliaia di volontari ai seggi, altre migliaia nei comitati elettorali dei diversi candidati, spalmati da Nord a Sud lungo tutto il Paese. Le primarie del centrosinistra sono state prima di tutto questo una boccata d’ossigeno e quasi un’assicurazione sulla vita per il sistema-Italia nel suo complesso. Non è retorico annotarlo: soprattutto all’indomani del voto siciliano, che ha infranto e superato la barriera del 50 per cento di astensioni. C’è un pezzo di Paese – insomma – che partecipa, vota, resiste e crede ancora che abbia un senso impegnarsi per cambiare.
Il dato è sensazionale, gonfio di significati e però – paradossalmente – non è certo piaciuto a tutti. Fa sensazione, ad esempio, la durezza che traspare dalle dichiarazioni di Beppe Grillo, leader del M5S. Ai milioni di cittadini in fila, ha riserva giudizi e commenti stizziti: «L’ennesimo giorno dei morti», «un grottesco viaggio nella follia», «una autocelebrazione di comparse» e via recriminando. A testimonianza, forse, che davvero la partecipazione attiva dei cittadini – e la buona politica, diciamo così – continuano ad essere il miglior antidoto alla cosiddetta antipolitica.
Nel cuore della notte e a dati tutt’altro che definitivi, le cifre dicono che la partita tra Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi va al secondo tempo, al ballottaggio. Il segretario – che stravince soprattutto al Sud – è davanti con un distacco tra i cinque e gli otto punti, lontano dal 51% ma comunque saldamente in testa. Il dato più sorprendente, però, è il risultato ottenuto da Matteo Renzi, che miete consensi nelle «zone rosse» – Toscana e Umbria in testa – e nelle città medie. A quasi metà spoglio è attorno al 35%, e si può dire – in una battuta – che Bersani ha voluto le primarie, ma Renzi ha dato loro un senso e un’anima.
Il sindaco di Firenze, infatti, aveva contro gli stati maggiori di tutti i partiti del centrosinistra, eppure è riuscito a costringere Bersani al ballottaggio: non è poco. Soprattutto – con i suoi slogan aspri – ha reso chiari i termini della scelta che propone. Rottamazione contro usato sicuro, è stato detto. Tradotto in opzioni politiche: cambiamento radicale contro mantenimento dello status quo. Una sfida elettrizzante, quella di Renzi, ma generatrice – contemporaneamente – di molti timori. Il nuovo, infatti, spesso spaventa: e spaventa ancor di più in fasi come quella attuale, quando la crisi che scuote il Paese non invita certo a «salti nel buio».
Pier Luigi Bersani, che ha voluto le primarie contro il parere spesso esplicito (da Veltroni a Bindi a D’Alema) di molti leader della sua maggioranza, ora dovrà serrare ulteriormente le file infatti, anche se il suo vantaggio è notevole, è difficile immaginare che tutti i voti raccolti dagli altri tre contendenti (Vendola, Puppato e Tabacci) confluiranno automaticamente sul suo nome al secondo turno. E’ anche per questo che l’esito finale della sfida resta aperto. Molto dipenderà da se e chi decideranno di votare gli elettori di Vendola. E molto sarà determinato dalle dinamiche politiche (e perfino psicologiche) che il ballottaggio innescherà, dentro e fuori il centrosinistra.
Il cambiamento – la «piccola rivoluzione» – a molti sembrerà a portata di mano: alcuni ne saranno esaltati, altri – forse – spaventati. E così, l’interrogativo – alla fine – resta lo stesso: se è meglio scommettere sulla rottamazione o andare più tranquilli tornando a scegliere l’usato sicuro…
La Stampa 26.11.12