“Una giornata strepitosa”, dice Pierluigi Bersani. “Il meglio deve ancora venire”, aveva detto Matteo Renzi. Hanno avuto ragione tutti e due. Per il centrosinistra e per il Pd è stata una domenica di svolta, e il meglio viene adesso. A dispetto delle prudenze scaramantiche del segretario, il ballottaggio non era così scontato. E invece così hanno deciso quei quasi 4 milioni di italiani, che hanno fatto ore di fila per scegliere il candidato premier del centrosinistra. Dunque, prima ancora di conoscere tra una settimana l’esito del duello finale tra Bersani e Renzi, da questo primo turno emerge già un “vincitore”. Quel vincitore si chiama democrazia. Quel vincitore si chiama politica. Una politica che non è subita da “sudditi” vessati e disgustati dal potere, ma vissuta da cittadini consapevoli e responsabili. Una politica che non è solo poltrona e privilegio. Ma è confronto e conflitto, passione e partecipazione. Una politica che non taglia i nodi in piazza con la spada, ma accetta la fatica di provare a scioglierli. E dunque nega in radice le semplificazioni del suo contrario, cioè dell’anti-politica. Queste primarie sono state un grande segnale di riscatto e di risveglio per l’intero centrosinistra, che le primarie le ha imposte come modello a tutta la politica italiana. Primarie vere, aspre, a tratti velenose. Ma comunque feconde, “costituenti”, o quanto meno ricostituenti. Nel risultato c’è un oggettivo successo di Renzi. Forse l’exploit al primo turno non gli basterà a vincere anche il secondo. Ma aver portato comunque al ballottaggio Bersani (che tutti i sondaggi davano largamente favorito) è già un traguardo. La strategia d’attacco al Quartier Generale, adottata fin dall’inizio dal sindaco di Firenze con la battaglia per la rottamazione, ha avvelenato la campagna elettorale. Ha costretto i gruppi dirigenti a una strenua resistenza. Ha imprigionato la contesa dentro lo schema binario e brutale “vecchio/nuovo”, oscurando i programmi. Ha trasformato le primarie di una coalizione nel congresso permanente di un Pd alla disperata ricerca di un profilo identitario. Ma alla fine quella strategia ha pagato. Ha intercettato la domanda di cambiamento che monta nell’opinione pubblica. Ha obbligato tutti i contendenti a fare i conti con un’urgenza di ricambio che investe personaggi, linguaggi e messaggi.
Certo, anche se ci ha provato, Renzi non è riuscito a colmare fino in fondo il deficit che gli conosciamo. Da quando Veltroni e D’Alema hanno annunciato il passo indietro, il sindaco di Firenze si è visto neutralizzare in parte la sua arma più letale, ed è stato obbligato a scendere sul campo dei contenuti, a lui meno congeniale. Ha dovuto dismettere il suo slogan più banale e corrivo, “andare oltre la destra e la sinistra”, per provare a spiegare cosa significhi, per lui, essere “di sinistra”. Lo sforzo c’è stato, ma l’operazione è riuscita solo in parte. Come dimostra l’ultimo sondaggio di Roberto D’Alimonte pubblicato sul Sole 24 Ore di giovedì scorso, meno del 50% degli elettori di Renzi aveva votato Pd nel 2008, e addirittura il 43% di chi lo vota proviene dal centrodestra. Questa, nella proiezione delle elezioni politiche del 2013, è oggettivamente la sua forza. Ma questa, in vista del ballottaggio di domenica prossima, è anche la sua debolezza. Per quanto ci sia una componente protestataria e anti-nomenklatura anche nella sinistra radicale di Vendola, è difficile pensare che chi ha votato per il leader di Sel al primo turno dirotterà i suoi voti su Renzi al secondo.
E la stessa cosa si può dire per chi ha votato Tabacci e la Puppato.
Bersani resta dunque il favorito. Una sua vittoria l’ha già ottenuta: ha avuto il merito, enorme, di volere a tutti i costi queste primarie, andando contro un bel pezzo di nomenklatura che invece avrebbe preferito evitarle. Ha accettato il rischio, si è messo in gioco, rinunciando a una prerogativa che lo Statuto del Pd gli attribuiva comunque. Contro l’insidia nuovista di Renzi, la sua campagna elettorale non era semplice. L’ha gestita dosando la rivendicazione orgogliosa delle collaudate esperienze di governo con l’introduzione forzosa di un graduale rinnovamento del ceto politico. Ha sacrificato Veltroni e D’Alema, promuovendo le Moretti e i Giuntella. Ha cercato di includere, senza dividere. Di compensare la bonarietà emiliana con l’affidabilità repubblicana. La scelta di Giovanni XXIII come modello, bilanciata solo in extremis dall’omaggio a Sandro Pertini “che ci indica ancora la strada del coraggio”, è sembrata un’imperdonabile resa culturale di una sinistra smarrita e insicura delle sue radici. Ma è coerente con la natura dell’uomo, che in questo ha il suo limite ma anche la sua qualità. Il segretario suggerisce l’immagine di una forza tranquilla che, in una fase di precarietà sociale e di instabilità economica, vuole rassicurare piuttosto che rivoluzionare. Anche a costo di risultare assai meno “smart” di quanto i tempi richiederebbero. E anche a rischio di apparire un po’ più “conservatore” di quanto i ritardi italiani imporrebbero. In vista del ballottaggio di domenica prossima, il segretario deve far fruttare il suo vantaggio. Scrollandosi di dosso l’impressione che per lui si siano schierate solo le nomenklature del Pd, come se per un partito ormai assai più “liquido” di un tempo valessero ancora i vecchi automatismi del “centralismo democratico” nel Pci. Bersani, evidentemente, ha un solido radicamento nel Sud, più ancora che in quelle che una volta erano le “regioni rosse”, dall’Umbria all’Emilia, dalla Toscana alle Marche. Ma al Nord deve convincere la “borghesia” imprenditoriale e i ceti produttivi, evidentemente più ammaliati dalle promesse renziane, superando le ambiguità palesate sui temi del fisco, della flessibilità e del lavoro. Deve capitalizzare meglio il suo pragmatismo, insieme all’avanguardismo di certe sue lenzuolate liberalizzatrici rimaste in sospeso. E’ uno sforzo necessario, per il leader di un partito che si vuole “nazionale” e di massa, non confinato nello spazio angusto e rinunciatario di una “Lega dell’Appennino”.
Chi ha più filo da tessere, tesserà. Dall’esito di questo testa a testa dipende il destino del centrosinistra, e in prospettiva anche quello del governo del Paese. Se ce la farà Bersani, il segretario dovrà regolare i conti col “montismo” (ridefinendo una sua Agenda rigorosamente europea, ma da integrare e correggere sull’equità e sulla crescita) e con il “grillismo” (prosciugando con vere “riforme di struttura” e iniezioni di buona politica il ribollente bacino dell’anti-politica). E dovrà provare ad allargare il perimetro della coalizione, sapendo che lo sfondamento al centro e a destra (tra gli scettici del “casinismo” e i delusi dal “berlusconismo”) sarebbe riuscito più facilmente al suo avversario (sempre secondo il sondaggio di D’Alimonte). Non sarà una passeggiata, perché mentre azzarderà questo tentativo dovrà anche saldare qualche “cambiale” a Vendola, che esce comunque molto forte da queste primarie. Se invece ce la farà Renzi, il sindaco di Firenze dovrà dimostrarsi all’altezza del compito, evitando di consumare vendette personali o generazionali e tracciando la traiettoria di un Pd aperto e postideologico quanto si vuole, ma pur sempre in grado di evitare traumi, rotture e scissioni. E di abbracciare, sotto lo stesso cielo, le diverse anime di una sinistra che c’è, esiste, e comunque non può e non vuole stingere nell’indistinto di un “oltre” in cui si smarriscono identità, culture e valori.
Comunque vada, chi vince domenica avrà una legittimazione straordinaria, che dà sostanza all’intero fronte riformista e restringe anche l’orizzonte di un Monti-bis. La riaffermazione del primato della politica rende più imporbabile la supplenza della tecnica. Il bene più prezioso, che queste primarie ci consegnano, è l’esistenza di un “popolo di centrosinistra” disincantato ma tutt’altro che rassegnato. Quelle lunghissime code ai seggi sono una testimonianza preziosa, per chiunque prevalga nella sfida del prossimo 2 dicembre: c’è un Paese che non si rassegna al peggio, difende ed esercita i suoi diritti di cittadinanza attiva, vuole esserci, contare, decidere. E’ un patrimonio da valorizzare e sul quale costruire, non solo per il centrosinistra ma per l’Italia. Ed è anche una lezione per la destra, sprofondata nella farsa delle “primarie a giorni alterni” tarate sugli umori e sui livori del Cavaliere, e mai sulla reale domanda di rappresentanza
degli elettori.
La Repubblica 26.11.12
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“Il popolo di sinistra tra fiducia e passione”, di CONCITA DE GREGORIO
L’ITALIA il resto del mondo se la sogna: gli italiani ce li ha solo l’Italia. Esasperati, schiacciati, offesi dall’orda corrotta che li ha ridotti a mendicare giustizia, diritto
al lavoro e alla vita.
UNO potrebbe pensare: ora s’incazzano, mettono il paese a ferro e fuoco, come in Grecia. Invece gli studenti sfilano ordinati coi loro slogan colmi d’ironia, siamo venuti già menati, il giorno dopo quattro milioni di persone si mettono in fila anche per ore, in una domenica di sole, forniscono documenti certificati elettorali firmano dichiarazioni d’intenti esibiscono la preiscrizione oppure si accollano il supplemento di fila per iscriversi, insomma fanno tutto quel che c’è da fare, secondo il regolamento da giochi senza frontiere studiato per evitare sorprese e soprattutto brogli che — si sa — sono la norma, ed eccoli di nuovo, come una parabola biblica che sfugge ad ogni comprensione, ad ogni previsione, ad ogni sondaggio e ad ogni iattura. Intatti, daccapo, ecco i quattro milioni che votano alle primarie, uno più uno meno, come se dalla prima volta otto anni di ingiurie non fossero passati.
Una sinistra così il resto d’Europa se la sogna, capace di rinnovare l’ostinazione e la fiducia a dispetto dei santi, di ritrovare il bandolo di una storia che non si studia a scuola né si racconta da nessuna parte ma deve essere iscritta nel dna di ciascuno, invece, se il ricordo dei nonni che sono morti dicendo mi raccomando ora tocca a voi è ancora lì, intatto, e nulla hanno potuto le esitazioni le incertezze i compromessi della classe dirigente, i referendum metalmeccanici, le promesse tradite, gli interessi in conflitto permanente, le cassa integrazione a pioggia, i cinismi, le furberie, i calcoli di chi ‘fare le primarie è un rischio’, meglio giocarsela al risiko del potere, i vaticini sulla vittoria dell’antipolitica.
Ecco, dunque, guardate. La sinistra italiana è questa. Una cosa da far tremare le vene dei polsi alla destra, ieri Giorgia Meloni si è affacciata in una storica sezione di Roma centro ‘a vedere come funziona’ e certo non funziona come nel regno di Crono, dove il vecchio signore si diverte a fare a pezzi e mangiare i suoi figli offrendo a giorni alterni diverse notizie sul suo appetito. Grillo si è stizzito: tanto governerà Monti, ha detto. Lo spettacolo della moltitudine che disciplinatamente, serenamente — per quanto estenuata — si mette in coda per designare un candidato premier secondo un antico e faticoso rito democratico che non contempla solo il clic del ‘mi piace’ su Facebook non deve essergli sembrata una buona notizia. Senz’altro è stata una sorpresa, come lo è stata per i tanti sondaggisti che davano come fatto certo il trionfo dell’astensione disillusa e dell’ostilità rabbiosa, per gli analisti e i consiglieri pagati per dire che no, meglio di no, le primarie no.
Comunque vada, qualunque sia il risultato la competizione di ieri ha segnato un momento alto per il Partito democratico, cresciuto di dieci punti nel consenso popolare dall’estate ad oggi, e ha dato ragione al suo segretario che in relativa solitudine nel gruppo dirigente ha voluto la contesa. Ha dato ragione a Matteo Renzi che l’ha pretesa, a Nichi Vendola che dopo qualche esitazione si è convinto a giocarla portandoci dentro le sue ragioni ideali, a Bruno Tabacci il moderato sincero che ha raccolto un imprevisto e meritato consenso di sintonia, a Laura Puppato che con coraggio è uscita dall’isolamento in cui era stata relegata e si è imposta come una presenza politica importante. Qualcuno aveva ironizzato, nelle settimane di vigilia, sulle autocandidature e sull’eccesso di candidature. Se fossero state anche di più non sarebbe stato un male, al contrario. Le anime della sinistra sono tante, e tante sono le donne e gli uomini che le incarnano. La sovranità appartiene al popolo, dice la Costituzione. Ancora una volta il popolo, quel popolo che è figlio e nipote di chi ha combattuto sulle montagne perché tutti avessero il diritto di esprimersi, si è reso sovrano. Chiunque vinca, è questa la lezione che ha avuto ieri. Una lezione gratuita, lieve e serena, pesantissima e densa. L’Italia — hanno detto gli italiani — siamo noi. Il resto del mondo prenda appunti, se crede.
La Repubblica 26.11.12
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“Non torniamo alla scuola di Gentile”, di Giovanni Bachelet
La scuola è delusa dal ministro Profumo, è evidente. È delusa dalle promesse mancate, dalle speranze che lo stesso Profumo incarnava e dai passi falsi. Tremendo quello sull’aumento delle ore di lavoro per gli insegnanti. Lo sciopero della scuola e le manifestazioni collegate nascevano appunto da un forte aumento (30%) dell’orario degli insegnanti medi a stipendio invariato (che Bersani ha definito «invotabile» ed è stato ritirato dal governo), ma anche dal mancato recupero degli scatti stipendiali – giovedì il ministro ha illustrato una soluzione parziale del problema rispondendo a un’interrogazione del Pd, e una parte dei sindacati si è accontentata e ha revocato lo sciopero.
Perché tutta questa delusione? Perché, dopo Berlusconi, Tremonti e Gelmini, dopo la denigrazione e il massacro della scuola, la nomina di Profumo al Miur aveva dato una speranza di cambiamento: a Viale Trastevere finalmente arrivava un Rettore che sembrava capace di parlare non solo alla politica ma anche al mondo dell’istruzione. I fatti, però, hanno deluso le speranze: in continuità con il governo precedente sono stati confermati i tagli. Per questo, ormai, è difficile riallacciare i rapporti e il dialogo con il mondo della scuola. Ed è chiaro anche al Pd che per rilanciare l’istruzione pubblica, per allinearla agli standard europei, per parlare credibilmente di valutazione ed edilizia scolastica è necessario un governo politico. Questo esecutivo si è fermato sull’orlo del baratro ma è evidente che non è in grado di ingranare la marcia indietro.
I problemi ormai si sono incancreniti e anche a fronte di qualche scelta positiva del governo, come le indicazioni per il primo ciclo da tempo attese, o il primo concorso dopo tanti anni, il mancato ricupero della centralità della scuola e delle relative risorse da parte di questo governo ha inquinato il clima a tal punto che perfino quando il Pd ottiene importanti correzioni di rotta si trovano “pretesti” per dirottare la mobilitazione, non tanto da parte della Cgil quanto di altri gruppi e gruppetti per attaccare il Pd anziché il governo.
È il caso delle sproporzionate polemiche sulla legge 953, che non è un provvedimento governativo urgente e pericoloso come erano le 24 ore: alla camera l’avevamo già radicalmente modificata, poteva con audizioni e poche altre modifiche servire a un rilancio della partecipazione nella scuola, dato l’atteggiamento del Pdl il Pd al senato ha preferito fermarla… e invece viene messa nel calderone delle proteste e delle litanie anti-Pd, senza che probabilmente sia stata letta.
Purtroppo riforme importanti del centrosinistra, come l’autonomia scolastica, la parità e la stessa riforma del titolo V della Costituzione, che avrebbero richiesto un cammino e uno sviluppo coerente e stabile, sono stati invece boicottate dai governi Berlusconi. Il rischio è che questa esasperazione, legata prevalentemente a una politica di definanziamento della scuola e di propaganda distruttiva del lavoro e del valore dei nostri insegnanti, renda ancora più difficile il dialogo, anche per un governo futuro. La scuola però ha bisogno di andare avanti, non di tornare a Gentile, al centralismo, allo statalismo: per colmare lo spread con l’Europa in termini di risorse, di valutazione, di edilizia, di uscita dalla scuola a 18 anni. E questo passa attraverso una piena attuazione del titolo V della Costituzione per l’istruzione e una vera autonomia scolastica nel quadro delle autonomie locali. Il rischio che si corre è che qualcuno dica, in buona fede, che “si stava meglio quando si stava peggio” e anziché il rilancio della scuola, distrugga tutte le riforme fatte dal centrosinistra anziché completarle.
Il governo non ci ha davvero aiutato ad essere riformisti, ma il Pd non intende perdere la bussola: vuole andare avanti, perché solo una nuova scuola potrà ritrovare il consenso e le risorse necessarie a salvare anche gli insegnanti e tutti quelli che ci lavorano.
da Europa Quotidiano 24.11.12
Ho votato Pier Luigi Bersani
Per governare un Paese ci vuole coraggio, lungimiranza, responsabilità, generosità, fiducia nei giovani e nelle donne e lo sguardo puntato verso il futuro. L’Italia ha bisogno di nuove politiche per il lavoro, per l’istruzione, per l’equità e per l’etica pubblica. Ecco perchè alle primarie del centrosinistra ho votato Pier Luigi Bersani
25 Novembre giornata internazionale contro la violenza alle donne
È necessario contrastare la violenza sulle donne con ogni mezzo a disposizione delle istituzioni, perché, come già denunciato dall’Onu, violenza e femminicidio sono “tollerati dalle pubbliche istituzioni per l’incapacità di prevenire, proteggere e tutelare la vita delle donne che vivono diverse forme di discriminazioni e di violenza durante la loro vita”.
Il primo impegno del Parlamento, affinchè non resti lettera morta allo scadere della legislatura, sarà la ratifica della Convenzione di Istanbul, che ha tra i suoi obiettivi la prevenzione, la protezione delle vittime, l’efficacia delle sanzioni e delle pene e l’eliminazione delle discriminazioni.
Ma se è vero che sono necessarie norme adeguate e la loro corretta applicazione, è altresì vero che servono risorse per l’assistenza e la prevenzione e, soprattutto, serve l’impegno a costruire una cultura del rispetto delle donne, a partire dalle giovani generazioni.
Attraverso la scuola, che deve essere in grado di raccontare una realtà fatta di donne e uomini, si possono porre le basi per abbattere gli stereotipi. È con la cultura e l’educazione che si può sovvertire lo stato di cose esistente e formare le cittadine e i cittadini di un futuro senza più violenza sulle donne.
Manuela Ghizzoni
Bersani «Garantirò il cambiamento», di Simone Collini
In Liguria la conclusione della campagna del leader Pd «Abbiamo il coraggio». Sulle pressioni della finanza mondiale: «C’è Grillo, c’è Berlusconi e vi preoccupate di noi?». A chi chiede di alleanze con l’Idv: «Con molti se». «Ci abbiamo messo coraggio a fare le primarie, ma ci abbiamo preso». È già soddisfatto per come sono andate le cose, comunque vada oggi e quale che sia il risultato finale, stasera. O stanotte, viste le previsioni che si fanno circa gli elettori totali che oggi andranno ai gazebo e i tempi necessari ai volontari per scrutinare tutte le schede. Pier Luigi Bersani queste primarie le ha volute e le ha difese anche di fronte a dirigenti del Pd che ci vedevano più rischi che opportunità. Perché conosceva il «distacco enorme tra la politica, le istituzioni, e i cittadini», perché sapeva che «il primo avversario da battere sarà quel blocco di sfiducia, distacco, rabbia e indignazione che c’è in giro».
Lo strumento scelto per tentare di colmare quel distacco e per combattere quell’avversario sembra essere quello giusto. Oltre un milione e mezzo di persone già registrate è un successo, che sicuramente aumenterà di dimensioni nel corso della giornata di oggi. Centomila volontari a garantire le operazioni di voto in diecimila gazebo sono una prova di vitalità di un partito (la maggior parte delle disponibilità sono arrivate da militanti e simpatizzanti del Pd) e di una coalizione (anche Sel e Psi e associazioni e movimenti al centrosinistra si sono mobilitati) che si candida a guidare l’Italia.
UN IMPEGNO PER IL CAMBIAMENTO
Bersani sa che governare il Paese non sarà «rose e fiori», e non a caso la parola che più ripete nel giorno in cui chiude la sua campagna per le primarie è «coraggio». La pronuncia soprattutto visitando la casa di Sandro Pertini, a Stella, in provincia di Savona. «Pertini ci indica ancora la strada del coraggio», scrive il leader del Pd sul registro dell’abitazione-museo che fu della famiglia del Capo di Stato più amato dagli italiani. Il Presidente partigiano è per Bersani il simbolo di una generazione che «ha avuto coraggio, gente che non è mai invecchiata rimanendo giovane dentro».
Un simbolo che deve servire da sprone a quanti guardano con sfiducia ai prossimi mesi, vista una crisi che non smette di mordere e istituzioni che sembrano distanti dai problemi dei cittadini. «Adesso tocca a noi avere coraggio, il coraggio di guardare in faccia il disamore e la rabbia. Di non voltarci dall’altra parte. Ci sono tante ragioni per essere disamorati ma così non si risolvono i problemi che abbiamo davanti. La prossima legislatura, se tocca a me, sarà sotto queste due parole: moralità e lavoro. Noi dobbiamo metterci tra l’esigenza di governo e di cambiamento. Se gli elettori scelgono me sappiano che il mio impegno è quello di governare ma anche quello di cambiare, perché senza cambiamento non può esserci governo. Se scelgono me è per questo, perché dove sono stato ho sempre cambiato, non ho mai lasciato le cose come le ho trovate».
SONDAGGI FAVOREVOLI
Bersani viene dato in testa da tutti i sondaggi, e la particolarità degli ultimi diffusi Swg l’altro ieri, Tecné ieri è che il leader del Pd viene dato vicino alla soglia del 50% necessaria per essere proclamati vincitori al primo turno (Tecné ha registrato il 47,4% dei favori per Bersani, seguito da Renzi al 30,5%). Però dice che l’incognita del secondo turno è «l’ultimo» dei suoi pensieri, che le primarie hanno fatto bene al Pd e che in quanto segretario di questo partito lui ha «già vinto».
Le primarie sono per Bersani la prima tappa della campagna elettorale, ed è quindi la sfida per Palazzo Chigi il suo vero obiettivo. Il leader del Pd ci vuole arrivare con una coalizione coesa come quella dei progressisti impegnata nelle primarie, di cui l’Idv potrebbe far parte «con molti se», perché «stavolta non si può scherzare», perché di fronte alle posizioni che Di Pietro ha preso in questi mesi «bisogna che ci siano dei gesti politici significativi che correggano». Bersani vuole arrivare al voto di marzo con un credito di «credibilità» da giocare di fronte agli elettori italiani e agli osservatori internazionali. E nel comizio di chiusura che fa in un’affollata Sala della chiamata del porto di Genova, critica le pressioni arrivate dall’estero e dal mondo della finanza sulla politica italiana. «Se Standard & Poors e Moody’s lo consentono andiamo a votare», dice con amaro sarcasmo. «Per un po’ di tempo è sembrato che fosse l’incubo mondiale se l’Italia andava a votare. Se permettono, votiamo. Dopodiché non vengano a far finta di non capire. Guardatevi bene attorno. C’è Grillo che dice via dall’euro e non paghiamo i debiti, c’è Berlusconi, e con tutta ‘sta roba qua vi preoccupate di noi?».
Oggi il leader del Pd voterà a Piacenza, dove poi rimarrà ad aspettare il risultato delle primarie. E Alfano che ha escluso partecipi a quelle del Pdl se ci saranno candidati indagati? «Noi non abbiamo questo problema, veda lui».
l’Unità 25.11.12
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L’Italia ai gazebo. «Almeno 3 milioni», di Maria Zegarelli
«Sarà un successo straordinario», prevede Nico Stumpo. 100mila volontari, 9239 seggi in tutto il Paese. Le primarie nelle mani di tre donne, bella notizia questa. Vero, il deus ex machina resta sempre Nico Stumpo, responsabile organizzazione del Pd, ma stavolta sono loro tre, Varina Rapetti, Elettra Pozzilli e Graziella Falconi, ad avere il controllo dell’enorme macchina organizzativa messa in piedi dalla coalizione di centrosinistra, Pd Sel-Psi. La previsione, nessuno fa numeri ma le ipotesi circolano, è di un’affluenza di almeno di tre milioni di elettori, oltre un milione e mezzo quelli che risultavano registrati ieri tra on line e cartaceo.
Nico Stumpo parla dalla grande sale riunioni del centro raccolta dati al quinto piano di via Tomacelli, là dove un tempo c’era la sede del Manifesto. Sobrietà è la parola d’ordine, già a partire dagli interni: il minimo indispensabile, anche in termini di risorse umane, perché tutto è concentrato e dirottato nei circoli e negli uffici elettorali. Sarà qui che domani sera dalle 8 in poi confluiranno i dati da tutta Italia, il sistema informatico è sotto il controllo di Varina Rapetti, 31 anni. Resta in conferenza stampa il tempo di illustrare come funziona il trasferimento dei dati dai seggi al cervellone centrale e poi scappa via. Nella scala affianco al primo piano gli operai stanno ancora lavorando per allestire la sala stampa ed è prevedibile che andranno avanti tutta la notte. «Il nostro tratto distintivo è la sobrietà, spese ridotte al minimo e tanto volontariato perché noi non siamo il Viminale e non abbiamo l’esercito», racconta Stumpo. Ringrazia i partiti, i candidati, parla di un «clima sereno» e di grande rispetto.
I numeri di queste primarie già ora raccontano l’enorme sforzo messo in campo: 9239 seggi ed altrettanti uffici elettorali (dove sarà possibile registrarsi anche oggi) in 7949 Comuni sul totale di 8215. Più seggi itineranti che copriranno con diverse fasce orarie i centri più piccoli, possibilità di voto anche a domicilio per chi è impossibilitato per motivi di salute a spostarsi dalla propria abitazione; possibilità di voto fuori sede per studenti e lavoratori. 135 i seggi e gli uffici elettoriali istituiti in 19 Paesi del mondo, 110 le città coinvolte, oltre seimila coloro che dall’estero votano on line (in alcuni paesi il voto è iniziato già la scorsa notte), oltre 100mila i volontari che garantiranno il regolare svoglimento del voto. Stumpo definisce quello che sta per consumarsi «un evento straordinario che è già un successo». E forse è davvero così in tempo di antipolitica e disaffezione dei cittadini alle urne. Se coloro che si sono pre-registrati sono oltre un milione e mezzo (550mila on line) non è bizzarro immaginare che oggi si rechino a votare almeno il doppio. Un piccolo indizio arriva proprio dagli italiani residenti all’estero: si sono registrati on line 6405, il triplo di quelli che lo fecero nel 2009, lo stesso numero del totale degli elettori di quella tornata che decise la segreteria Bersani.
E le temute file? Stumpo dice che sarebbe preoccupante se non ci fossero, poi aggiunge che ne ricorda «di bellissime» nelle scorse primarie, «con la gente che conversava mentre aspettava il suo turno». Come a dire: abbiate pazienza e approfittatene per socializzare. Nel frattempo per evitare intoppi Graziella Falconi ha inviata un’altra delle sue preziose direttive ai comitati provinciali e ai presidenti di seggio invitando a prendere misure di snellimento delle code. Se tutto filerà liscio, se non ci saranno file nei seggi alle 20 di sera, intorno alle 22-22.30 si potrà sapere il risultato, se sarà ballotaggio o se già stasera si saprà chi è il candidato premier del centrosinistra. Ogni presidente di seggio sarà dotato di un proprio codice di riconoscimento con il quale avrà accesso ad un risponditore automatico di un numero verde istituito ad hoc e al quale dovrà comunicare i risultati. Dal data base verrà trasmesso un messaggio di conferma dei dati e un codice da riportare sul verbale di seggio. I dati che affluiscono saranno visibili in diretta a partire dalle 21 e comunque quando arrivano i risultati di almeno 300 seggi) sul sito www.primarieitaliabenecomune.it e sul sito de l’Unità.
Tra le città estere da segnalare il Cairo, Tunisi e Amman (dove le operazioni di voto sono garantite da cooperanti): malgrado i rischi e le tensioni in corso gli italiani hanno comunque garantito l’apertura di un seggio, come spiega Eugenio Marino, responsabile Italiani all’estero per il Pd.
Roberto Cuillo, responsabile comunicazione, tiene le dita incrociate. Racconta che l’altro ieri a causa dei tantissimi contatti sul sito del Comitato il sistema ad un certo punto è andato in tilt ed è stato necessario incrementare di altre quattro macchine di supporto. Oggi, giornata internazionale contro la violenza sulle donne il centrosinistra diffonderà materiale informativo ai gazebo.
L’Unità 25.11.12
“La Spoon river delle donne. Femminicidio: una parola che dà senso all’orrore”, di Sara Ventroni
Finchè le cose non hanno un nome non esistono. Scivolano nell’ombra, nella vergogna, nei sensi di colpa. Finché le cose non hanno un nome, nessuno sa riconoscerle. Allora le cose ci inghiottono nel loro buco nero. In solitudine. Poi è troppo tardi. Poi non c’è più fiato per dire che no, quello non era amore. Femminicidio (o femicidio) è una parola che dà fastidio. È una parola che suona male, che si stenta a pronunciare perché per alcuni puzza di femminismo. Ha la stessa radice, lo stesso scandalo. Eppure è proprio dal momento in cui questa parola è stata detta, che si è potuto finalmente dare un nome a un fenomeno che ci si ostinava a non voler vedere: la violenza degli uomini sulle donne. Un fenomeno globale, che ogni anno uccide più del cancro. Che entra nelle statitische ma non può essere risolto con i numeri, perché si tratta di una disfunzione relazionale, di una malformazione culturale che richiede uno sguardo acuto come un bisturi.
La parola femminicidio è stata coniata da femministe e attiviste messicane che hanno trovato il coraggio di denunciare l’uccisione in massa di donne, massacrate nel silenzio per l’unico motivo di essere femmine.
Siamo a Ciudad Juarez, una piccola città al confine tra il Messico e gli Stati Uniti. Nessuno ne ha mai sentito parlare. Nessuno ha mai ricevuto notizia del fatto che dal 1992 più di 4.500 donne sono scomparse. Nessuno ha mai indagato sui corpi abbandonati nel deserto. Nessuno ha mai voluto capire quale fosse il denominatore comune che permetteva alle forze dell’ordine di non vedere, ai cittadini di non sapere, alla magistratura di insabbiare. Una complicità silenziosa, pacata, micidiale.
Poi l’attivista Marcela Lagarde, in seguito eletta parlamentare, ha messo in fila i dati. Ha dato un senso politico ai fatti, fino ad allora anonimi e isolati, ha indicato i motivi di fondo per cui una comunità di responsabili, di corresponsabili, di complici involontari ha potuto tranquillamente ignorare il fenomeno. Si tratta di femminicidio. E ci riguarda tutti.
L’ALIBI DELL’AMORE
Dal Messico all’Italia, ci è voluto del tempo prima di riuscire a scrostare la patina pruriginosa, da feuilleton, dei luoghi comuni che giustificano la morte di centinaia di donne, ogni anno: l’amore molesto, la gelosia, il senso del possesso, il raptus. Tutte falsificazioni per assopire la coscienza collettiva. L’adagio implicito è che sono fatti così, i nostri uomini, e se lanciano un ceffone o una coltellata al cuore lo fanno per troppo amore.
Fino a poco tempo fa in Italia, è bene ricordarlo, le notizie dei femminicidi erano derubricate nelle pagine della nera. Dettagli conturbanti raccontati in cronache rosso sangue, oppure inquadrati in casi clamorosi, come l’omicidio Reggiani, branditi come una clave mediatica, per cui tutto si risolve con una massiccia operazione di ordine pubblico contro la barbarie culturale degli stranieri. Degli altri. Un brutto affare che non ci riguarda.
Invece ormai ne abbiamo le prove: l’assassino ha le chiavi di casa.
Mariti, compagni, ex conviventi, morosi: da gennaio a oggi sono 106 le donne uccise in Italia. E non si tratta del degrado delle periferie. I dati di Telefono Rosa parlano chiaro: le donne uccise hanno un’età compresa tra i 35 e i 60
anni e provengono da ogni classe sociale. Sono laureate, casalinghe, studentesse, donne in carriera. Gli assassini sono spesso insospettabili professionisti. Le violenze si consumano tra le mura domestiche.
Non si tratta solo di rapporti di coppia. C’è anche la violenza dei padri verso le figlie. Come dimenticare Hina Saleem, ragazza di origine pakistana, italiana, che voleva decidere della propria vita, che vestiva all’occidentale, e per questo è stata uccisa dal padre e seppellita nel giardino di casa?
Le femministe direbbero che si tratta di una mentalità patriarcale dura a morire. In effetti sono davvero pochi gli anni trascorsi dalla ratifica del nuovo diritto di famiglia del 1975. Ed è troppo vicino il ricordo del vecchio ordine, quando il marito era il capofamiglia e le donne passavano dalla tutela del padre a quella del marito. Prendevano il cognome dell’uomo certificando, così, il passaggio di proprietà. Il marito aveva potere su tutto: decideva dove abitare, come gestire i soldi e cosa fare della dote della moglie; esercitava la patria potestà sui figli, decidendo per tutti, senza che la moglie potesse dire la sua. Ed è passato troppo poco tempo, era il 1981, dall’abrogazione dell’articolo 587 del Codice penale che garantiva le attenuati all’uomo che uccideva la moglie, la figlia o la sorella in nome della rispettabilità: era il delitto d’onore…
È una storia recente che evidentemente ancora incide, come un palinsesto, sulla formazione degli italiani. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se nel fermento degli anni Settanta esplose il femminismo per prendere le distanze dalle clamorose rimozioni dei furori rivoluzionari dei maschi.
RIVOLUZIONE MANCATA
Noi oggi siamo qui. Evidentemente la rivoluzione dei sessi è ancora di là da venire.
Su questa linea, che è un solco profondo e non un segno labile di lapis, il movimento Se non ora quando ha lanciato la sua campagna «Mai più complici».
Un progetto che schiva la retorica vittimistica e che interroga direttamente la cultura, spingendo tutti a un esame profondo. Come è accaduto negli incontri, affollatissimi, di Merano, di Torino (con la messa in scena della pièce L’amavo più della sua vita di Cristina Comencini) o nella recente partita della Nazionale giocata a Parma, quando i calciatori di Prandelli hanno ascoltato in silenzio un testo scritto dalla filosofa Fabrizia Giuliani, letto da Lunetta Savino.
La violenza sulle donne è un problema degli uomini. Ora è chiaro. Ma la strada è ancora lunga. In Senato è in discussione il ddl Serafini, un proposta di legge contro il femminicidio. La ministra Fornero ha promesso di ratificare la Conferenza di Istanbul contro la violenza sulle donne firmata a settembre. L’anno scorso il Cedaw (Commissione per l’eliminazione delle discriminazioni contro le donne) ha ammonito pesantemente l’Italia. Siamo ancora indietro. Troppo indietro nel processo di partecipazione.
Oggi è la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
Ci sono iniziative in tutta Italia e i media stanno sul pezzo. Anche gli uomini rompono il silenzio e fanno autocoscienza: dal gruppo «Maschileplurale» a Riccardo Iacona, a Sofri. È un passo avanti. Siamo certe che la parola «femminicidio» verrà accolta come neologismo dallo Zingarelli, ma non ci basta. Occorre stabilire un nuovo nesso, per trovare il senso. L’esclusione delle donne dalla piena partecipazione democratica è infatti strettamente legata a una visione paternalistica, che può assumere anche un volto violento. Non si tratta di amore malato che finisce in tragedia. Le donne, questo, lo hanno capito.
L’Unità 25.11.12
“La dittatura dello spred è soltanto demagogia”, di Eugenio Scalfari
L’Europa procede a singhiozzo o se volete col passo del gambero e questo è un guaio perché i mercati restano all’erta e la speculazione quando può colpisce. Per fortuna c’è Draghi che vigila ed è pronto ad intervenire.
In quest’alternarsi di giornate buie e meno buie sia le Borse sia lo “spread” si mantengono in un (precario) equilibrio. Galleggiano a livelli accettabili. Siamo ancora in mezzo al guado ma senza affondare.
I contraccolpi sul sociale sono tuttavia assai duri e se ne sentono gli effetti: la rabbia cresce, le piazze protestano, i governi sono in difficoltà, il malumore nei confronti dell’Europa aumenta di tono e questo è il rischio maggiore perché le aspettative non cambiano se la fiducia non le sostiene.
In questo quadro le elezioni tedesche che si svolgeranno nell’autunno 2013 pesano negativamente. La Merkel ne è condizionata e l’Europa ne risente pesantemente.
Anche l’attesa di quelle italiane rappresenta un problema. Chi verrà dopo Monti? Se ne parla da mesi e l’attesa suscita l’ansia di molte Cancellerie, dalla Germania alla Francia e perfino alla Casa Bianca. Il nostro attuale premier ha recuperato una credibilità internazionale che era andata totalmente perduta. Reggerà con i suoi successori senza di lui? Il nuovo Parlamento e il nuovo Capo dello Stato manterranno gli impegni presi con l’Europa? Questo è il tema che domina l’attualità europea e italiana.
Abbiamo più volte ricordato che l’Italia ha un peso determinante sulla tenuta finanziaria e monetaria dell’intero continente, sui tassi d’interesse, sulla dinamica dei flussi commerciali e degli investimenti e sulla solidità dei sistemi bancari.
La risposta degli arrabbiati (che sono molti e non solo in Italia) è purtroppo inconsistente: i bisogni sociali non possono dipendere dai mercati – dicono – il lavoro non è una variabile dipendente, la dittatura dello “spread” è una menzogna che va denunciata, un totem che va abbattuto ristabilendo la verità. E’ così?
No, non è così. Lo “spread” è semplicemente un numero differenziale rappresentativo della fiducia con la quale è misurato il valore dei titoli di Stato. Se le finanze pubbliche di quello Stato non sono in ordine la fiducia nei suoi titoli diminuisce e lo “spread” aumenta, gli investitori stranieri fuggono (anche quelli italiani), le banche che hanno quei titoli in portafoglio vedono diminuire la loro solidità, ma nella stessa difficoltà si trovano anche altre banche di altri paesi che hanno fatto credito alle nostre; i risparmiatori che hanno sottoscritto i titoli vedono a rischio una parte del loro patrimonio e di conseguenza contraggono la loro domanda di beni e di servizi. Gli investitori nazionali non investono e la disoccupazione aumenta.
È curioso che queste elementari verità debbano essere costantemente
ricordate ed è curioso che una parte crescente di persone e di forze politiche continuino a predicare che bisogna liberarsi dalla dittatura dello “spread” e dei mercati. Perfino la Russia, perfino la Cina – paesi governati da regimi non democratici e non liberali – sentono il morso dello “spread” e hanno bisogno della fiducia internazionale. La crisi del rublo di qualche anno fa mise Putin a malpartito e lo obbligò a negoziare il sostegno della finanza americana; la crisi economica attuale ha spinto la Cina a sostenere la domanda interna frenando le esportazioni.
In un’economia globale questi fenomeni che testimoniano l’interdipendenza dell’economia dovrebbero essere compresi da tutti. È una sciagura che la demagogia continui ad offuscare la mente di tanti.
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Ovviamente non è soltanto con il rigore economico che si curano questi malanni. Per paesi dissestati il rigore è una condizione necessaria ma assolutamente insufficiente. Purtroppo è molto difficile appaiare la terapia del rigore con quella dello sviluppo. La ragione è evidente: il rigore nell’Europa di oggi ha un campo d’esecuzione nazionale; lo sviluppo, cioè la crescita, dipende in larga misura dall’Europa. Se l’Europa, cioè le Autorità che la governano, non imbocca coraggiosamente la via dello sviluppo, esso non avrà luogo.
Ciò non significa che i singoli governi e le parti sociali del paese in questione non abbiano strumenti per agire, significa però che gli effetti di quegli strumenti sono limitati.
È chiaro però che in Italia quegli strumenti non sono stati finora usati. La responsabilità di questa grave omissione non è tanto colpa dell’attuale governo ma soprattutto delle parti sociali e in particolare della borghesia imprenditoriale.
Da vent’anni o forse trenta l’imprenditoria italiana ha cessato di espandersi. Si è specializzata, si è tecnologicamente ammodernata, si è anche dislocata e al tempo stesso si è contratta. La base occupazionale si è ristretta. La manifattura ha ceduto il campo alla finanza. Le grandi imprese si sono sfilate in gran parte dal mercato nazionale, le medie hanno dismesso una parte delle loro attività, le piccole non sono cresciute e i padroncini sono rimasti quelli che erano con l’aggiunta che la generazione dei fondatori ha passato la mano ai figli e ai nipoti con conseguenze negative come quasi sempre accade in questi casi. Soprattutto l’imprenditorialità italiana ha fatto difetto di invenzione di nuovi prodotti.
Il sindacato dal canto suo è decaduto dai tempi eroici. Vent’anni fa rappresentava ancora non solo i lavoratori occupati ma anche i disoccupati e le nuove leve dei giovani che arrivavano sul mercato. Oggi non è più così, complice la molteplicità dei contratti esistenti. Il sindacato operaio di oggi rappresenta i lavoratori con contratto a tempo indeterminato e i pensionati, il che significa che ogni lavoratore che va in pensione non sarà sostituito con quel tipo di contratto. Tra poco perciò i sindacati operai diventeranno di fatto sindacati dei pensionati. Non è una bella prospettiva.
Dispiace che la Cgil non si sia data carico del tema della produttività e ripeta sulle piazze le consuete giaculatorie contro i mercati e contro lo “spread”. Se la Camusso non comprende la questione, la studi; se l’ha compresa non faccia demagogia; se è condizionata dalla Fiom abbia il coraggio di liberarsene e ne spieghi le ragioni.
Le parti sociali da molti anni hanno gravi responsabilità, Montezemolo e Marcegaglia inclusi.
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In queste condizioni Napolitano ha ricordato che il nome di Mario Monti non è spendibile nelle prossime elezioni come leader di uno schieramento o addirittura di un partito. Sembra che Monti se ne sia adontato ma io non lo credo. Monti sa benissimo che un senatore a vita non si può presentare alle elezioni. Tecnicamente. Dovrebbe prima dimettersi da senatore a vita e non credo affatto che abbia questo in mente.
Napolitano ha ricordato questa situazione perché l’iniziativa di Montezemolo e la posizione di Casini, l’uso ripetuto cento volte del nome di Monti come il “conducator” del Centro moderato stavano diventando una sorta di “mantra” pre-elettorale.
Il compito di Monti e del suo governo avranno termine nel momento stesso in cui il nuovo Parlamento uscirà dalle urne e a sua volta scadrà il mandato settennale di Giorgio Napolitano (purtroppo, sottolineato).
Non cadranno però gli impegni che l’Italia ha assunto con l’Europa, quelli che a torto o a ragione si chiamano agenda Monti. Sarà invece non solo possibile ma necessario che al rigore adottato da Monti si affianchi finalmente il rilancio dello sviluppo, come del resto lo stesso Monti sta ora tentando di ottenere in Europa e con l’Europa.
Se la maggioranza che emergerà nel nuovo Parlamento riterrà di aver bisogno di Monti, lo inviterà, lo proporrà come “premier” o gli offrirà un ministero importante. Oppure lo eleggerà al Quirinale. Ma spetta alla nuova maggioranza prendere queste decisioni e non sarà più una maggioranza tripartita: il Pdl di fatto ha cessato di esistere proprio ieri, perché sembra ormai certo che Berlusconi si ripresenterà con una sua lista in contrasto con il suo partito.
Resteranno dunque in campo il centro e il centrosinistra. Monti non può essere il candidato né dell’uno né dell’altro, perderebbe in Italia la credibilità che ha così pienamente acquistato in Europa. Si tratta di questioni talmente evidenti che non ci sarebbe stato neppure il bisogno di ricordarle se i vari gruppi di centro non avessero continuato a spendere il nome di Monti logorandolo e rendendo necessario la precisazione
di Napolitano durante il suo viaggio di Stato in Francia.
Va ricordato a questo proposito che erano 21 anni da quando un presidente della Repubblica italiana fu invitato a Parigi. Ora è finalmente avvenuto e il nostro Presidente è stato accolto dal suo omologo francese con solennità e cordialità. L’intesa tra Italia e Francia sui problemi europei è una forza nuova di grande importanza per il presente e per il futuro. Ne va dato atto a Napolitano e a Monti, ancora una volta uniti nel medesimo disegno.
Le elezioni politiche che ci attendono fra pochi mesi tengano conto di questi fatti e del quadro che hanno creato. Ne deve uscire un risultato di governabilità e chi otterrà maggiori consensi dovrà utilizzarli con coraggiosa saggezza.
Post scriptum.
Oggi si vota per tutto il giorno alle primarie del Pd e del centrosinistra. Il nostro giornale ha sottolineato più volte la loro importanza e anche la loro unicità positiva nel panorama della democrazia italiana.
I candidati sono cinque e tutti meritevoli di attenzione sia pure con le molte differenze nei loro programmi. Non sta ad un giornale come il nostro schierarsi per l’uno o per l’altro. Ma un collaboratore può certamente farlo e anche dirlo. Io non sono di centro e neppure di sinistra. Perciò voterò un candidato di centrosinistra cioè Pierluigi Bersani. E non credo di sbagliare.
La Repubblica 25.11.12