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Femminicidio: la strategia delle “4 P”, di Federica Resta

Il “diritto di avere diritti”: così Hannah Arendt definiva, con parole che oggi danno il titolo all’ultimo libro di Stefano Rodotà, la dignità. Quel bene prezioso, che dà senso al sistema dei diritti e che, non a caso, apre la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Eppure, mai come nel caso delle donne questo valore fondamentale è quotidianamente violato con atti di discriminazione e violenza. Atti per i quali il pensiero giuridico contemporaneo ha coniato la definizione di “femminicidio”, utilizzata peraltro nella sentenza Campo Algodonero emessa dalla Corte interamericana per i diritti umani nel 2009 e che dà oggi il titolo a un importantissimo disegno di legge presentato a luglio scorso dalla senatrice Anna Serafini (“Norme per la promozione della soggettività femminile e per il contrasto al femminicidio”, che prevede anche la ratifica della Convenzione di Istanbul).
Nella consapevolezza del carattere ormai “strutturale” di un fenomeno – quale quello del femminicidio – che nega la stessa soggettività della donna (di ogni donna), il disegno di legge rifiuta ogni logica riduzionista, che pretenda cioè di ridurre la complessità di questo tema a una questione meramente penale. E propone invece la strategia (promossa unanimemente in sede internazionale) delle “4 P” ( to prevent , promote , punish , protect ), ovvero un approccio multidisciplinare che coniughi misure volte a prevenire le cause stesse della violenza (anche contrastando quegli stereotipi culturali che ne sono alla base) e a promuovere una corretta rappresentazione dei rapporti tra generi e della stessa soggettività femminile; norme di carattere repressivo delle diverse forme di violenza (fisica, morale, sessuale, domestica, economica) subite dalle donne e misure tese a proteggerne le vittime, evitando fenomeni di vittimizzazione secondaria e riconoscendo uno statuto di garanzie alle persone offese, anche sul piano lavorativo, assistenziale, patrimoniale, processuale.
Significative sono, in particolare, la previsione di un Codice dei media per la promozione della soggettività femminile, ispirato alla tradizione della soft-law – che fonda la sua forza sulla capacità di introiezione prima ancora che sulla coazione – e le iniziative di formazione specifica per gli operatori (sanitari e di polizia in particolare) chiamati in prima istanza ad assistere le vittime. Importanti sono poi la codificazione di specifiche figure di reato quali violenza economica e violenza assistita, consistente nel rendere i bambini testimoni di violenza così generando spesso anche, in loro, una tensione all’emulazione che finisce con il rendere la violenza una spirale senza fine e di un’aggravante per ogni reato commesso per ragioni discriminatorie di genere. Rilevanti anche le norme volte a proteggere la vittima in sede processuale, conferendole maggiori diritti e sancendo un criterio di priorità per la trattazione dei procedimenti per violenza.
Si tratta, insomma, di un disegno di legge troppo importante per essere messo in secondo piano. Restituire alle donne quella dignità troppo spesso violata deve essere un obiettivo comune e prioritario. Per tutti e tutte.
da Europa Quotidiano 27.11.12

“Un colpo alla credibilità del Paese”, di Paolo Baroni

Con l’Ilva che si ferma, e con lei una quota rilevantissima della produzione siderurgica italiana che viene azzerata, la crisi di Taranto supera definitivamente il livello di guardia. I sindacati la chiamano «la catastrofe»: 12 mila addetti a spasso che diventano 25 mila contando anche gli stabilimenti di Genova, Novi Ligure, Racconigi e Marghera e tutto l’indotto. Un colpo per queste realtà, ma anche per l’intera industria nazionale e per certi versi anche alla credibilità del Paese. Schiacciata tra ingiunzione della magistratura, inchieste e nuovi arresti, un’opera di risanamento ambientale tanto indifferibile quando ciclopica ed una situazione politica e sociale pericolosissima, a Taranto ora – come racconta Guido Ruotolo nelle sue cronache – si rischia una vera e propria guerra civile. Uno scontro violento che va ben oltre la contrapposizione di questi ultimi tempi (ma anche di questi ultimi anni) tra lavoro e salute delle popolazioni. Un problema troppo grande ora da affrontare, per le dimensioni di quest’impianto, l’acciaieria più grande d’Europa, e troppo a lungo sottovalutato, dai governi come pure dagli enti locali.
Ora che la polveriera-Taranto rischia di scoppiare davvero si cerca per l’ennesima volta di correre ai ripari, si torna al tavolo del governo, si invoca l’intervento di Monti. Che a questo punto per tenere assieme le ragioni degli uni, i magistrati che qualcuno accusa di eccessivo accanimento ma che al loro fianco hanno tanti cittadini per anni esposti alle peggiori sostanze inquinanti, e degli altri (i lavoratori, ma anche l’azienda e con lei l’economia di una regione e poi di un’intera filiera industriale) non potrà che ricorrere a gesti straordinari.
Come un decreto che congeli tutta la situazione, consenta di attuare la bonifica (che a fabbrica chiusa ovviamente nessuno finanzierebbe) ed al tempo stesso permetta magari ridotti ma significativi livelli di produzione e quindi di lavoro. Anche questo sarebbe un gesto straordinario, un cambio delle regole mentre la partita è già in corso, certamente uno strappo nei rapporti governo-magistrati. Ma a questo punto un gesto del genere diventa forse inevitabile. Per mettere un punto fermo alla vicenda e poi poter ripartire, magari non con la maggiore serenità che una partita così complessa invece richiederebbe, ma almeno con qualche punto fermo, con qualche certezza in più rispetto al gran pasticcio di oggi.
La Stampa 27.11.12

“La scommessa del Pd più grande”, di Claudio Sardo

Dal primo turno delle primarie sono usciti due vincitori. Anzi tre: la candidatura del Pd a guidare il governo del dopo Monti ora è più forte. I tre milioni e passa di cittadini in fila per votare hanno modificato il panorama politico. Guai, tuttavia, a illudersi che la strada per il centrosinistra sia in discesa. I due vincitori – Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi – non hanno davanti soltanto una settimana di fuoco, ma anche complicati nodi politici da sciogliere nelle settimane venture. Bersani ha superato Renzi di 10 punti percentuali. La sua vittoria non sta soltanto nel successo di partecipazione, che ha permesso al Pd di guadagnare consensi potenziali e di fornirgli buoni argomenti contro chi grida che «i partiti che sono tutti uguali».
I sondaggi della vigilia rilanciati dai giornali e dal web annunciavano che, oltre i tre milioni di votanti, Renzi avrebbe raggiunto o addirittura sorpassato il segretario. Invece Bersani ha prevalso, ottenendo i migliori risultati nelle grandi città (tranne Firenze), dove è solitamente più forte il voto d’opinione. Un consenso, questo, che lo rafforza nella sfida di governo. Probabilmente anche una parte dell’elettorato di Vendola ha deciso di sostenerlo sin dal primo turno proprio per dare alla sinistra maggiore forza nella partita decisiva, contro il competitore più solido e insidioso: i poteri che vogliono il Monti-bis.
Renzi ha conquistato il ballottaggio, e con esso la consacrazione ad una leadership effettiva e popolare. Non aveva la classe dirigente del partito dalla sua: ma ha imposto se stesso e i suoi messaggi attraverso una circolazione extra-corporea. Il partito, inteso come organizzazione e al tempo stesso come parte viva della società civile, ha ottenuto domenica un’affermazione straordinaria – con quella macchina che faceva invidia al ministero dell’Interno di un Paese di media grandezza – ma il successo «anti-partito» di Renzi rappresenta l’altra faccia della medaglia. Le primarie non erano un congresso, ora però il Pd non potrà non tener conto di questa novità. Anche perché Renzi ha conquistato i numeri migliori in Toscana, in Umbria, nelle Marche, insomma in quell’Italia di mezzo che contiene parte del capitale di buona amministrazione, di solidarietà sociale, di consenso che è costitutivo del dna del Pd. L’indubbia capacità di attrarre voti nel centrodestra, al di là di sommarie contabilità, resta invece uno dei punti più controversi della novità «renziana»: è certamente una virtù la capacità di allargare il consenso attorno a un progetto di governo di centrosinistra, rafforzandone il senso di missione nazionale, ma è pericoloso ricorrere a forze esterne per spezzare gli equilibri del centrosinistra. Alla fine può colpirne l’autonomia e i valori: del resto, è ciò che invoca il tifo interessato di tanti delusi della destra. Anche in questo caso, comunque, le qualità di Renzi verso il centrodestra non possono certo essere liquidate con un rifiuto: vanno sperimentate, anche dopo le primarie, per cercare sintesi più efficaci, coerenti, innovative.
Sul piano del governo appare oggi ancora più chiaro – dopo le parole di Mario Monti sul suo possibile impegno futuro – che la vera alternativa nel dopo elezioni si giocherà tra un esecutivo guidato da Bersani e uno guidato dall’attuale premier. Molti di coloro che parlano di vittoria di Renzi al primo turno, negando o minimizzando quella di
Bersani, sono in realtà tifosi del Monti-bis. Ma chi pensa di mettere tra parentesi il risultato di Renzi, di sterilizzarlo all’indomani delle primarie, rischia di danneggiare il Pd non meno dei suoi avversari. La politica non è rissa, né resa dei conti. La buona politica è la capacità di ricondurre le ragioni contrapposte in un percorso virtuoso. Ovviamente per la comunità. Nella competizione che attraversa il Pd torna alla mente la lezione migliore di Aldo Moro e la sua idea di governare i conflitti, ponendo il partito al servizio dei cambiamenti necessari al governo. Queste primarie non sono un congresso. Ma a questo punto hanno cambiato i parametri del futuro congresso del Pd. Bersani dovrà cercare di coinvolgere Renzi nel suo progetto. E Renzi non potrà limitarsi a fare solo il sindaco di Firenze: un disimpegno diventerebbe a questo punto una scommessa contro il centrosinistra. Il coraggio di indire le primarie aperte richiede ora altre scelte coraggiose. Per quanto possa apparire irrealistica, la più forte e coerente è quella di trasformare la grande platea delle primarie nella base di un Pd più grande. Un partito unitario, da Tabacci a Vendola, nel quale i protagonisti delle primarie siano garanti di una sintesi e di una disciplina di governo. L’Unione è ancora uno spettro che fa paura a tanti cittadini. Renzi va spinto a porre il suo accresciuto patrimonio politico al servizio di un’impresa collettiva, e non personale (il bivio è ancora una volta tra partiti rinnovati e offerte carismatiche).
Di Vendola non va disperso il coraggio di aver posto la propria radicalità non in antagonismo, ma a disposizione di un progetto di governo. Né la radicalità può fare paura: semmai è la critica di tante subalternità presenti e passate. Un partito plurale può sostenere un governo serio. E può aprire ancora di più la porta a chi vuole, accanto al centrosinistra, ricostruire il Paese.
L’Unità 27.11.12
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“Il segnale che arriva dalle regioni rosse”, di ILVO DIAMANTI
Più di tre milioni di persone che vanno a votare il candidato premier del centrosinistra fanno sicuramente bene alla nostra democrazia.
Tre milioni. Come alle precedenti Primarie del 2009, ma un po´ meno del 2007. Nonostante riguardassero solo il Pd, mentre nel 2005 la candidatura di Prodi aveva mobilitato oltre 4 milioni di elettori di centrosinistra. Ma erano altri tempi. Perché oggi la fiducia nei partiti, nei politici e nel Parlamento è ai minimi storici. Eppure ci sono ancora 3 milioni di persone e oltre disposte a uscire di casa, la domenica, per recarsi ai seggi, dopo essersi iscritte alle liste. Facendo la fila, anche due volte. (Le complicazioni burocratiche hanno influito anch´esse, sulla partecipazione.) E ci sono decine di migliaia di volontari ai seggi. Il sabato, la domenica magari anche il lunedì. È una buona notizia. Per nulla scontata. Per la nostra democrazia, prima ancora che per il Pd. Il quale, peraltro, ne ha beneficiato in modo evidente. Non solo perché il numero di cittadini che si è recato alle urne è stato di 3,6 volte superiore al numero di iscritti al Pd. (Come ha annotato l´Istituto Cattaneo nel suo Report.) Ma anche perché, negli ultimi mesi, il Pd, nelle stime elettorali, è risalito di quasi 10 punti percentuali. Oggi è oltre il 32% (secondo Ipsos). Per questo il ballottaggio fa bene al Pd. Perché allunga i tempi della mobilitazione, ma anche dell´attenzione mediatica. Che alimentano il consenso. Ragionando sui risultati, mi pare emergano alcuni aspetti, (solo) in parte sottolineati dalle analisi proposte “a caldo”.
1. Il ballottaggio rivela una competizione di leadership reale, dentro il Pd. Fino ad oggi le Primarie non avevano mai avuto storia. Oggi appaiono aperte. E anche questo spiega l´interesse e la partecipazione che le hanno caratterizzate. Certo, Bersani è il favorito. Ma non il vincitore annunciato. Perché Renzi ha conseguito un risultato ragguardevole. Circa il 36%: 9 punti meno di Bersani. Tanto, ma non troppo. Nelle competizioni a doppio turno, infatti, ogni turno fa storia a sé. Ed è improprio calcolare voti “esterni” ai due candidati del ballottaggio in base alle indicazioni dei leader. Così, i voti di Vendola non sono, automaticamente, trasferibili a Bersani. Molti suoi elettori del primo turno, come emerge dai messaggi in rete, potrebbero, infatti, orientarsi verso Renzi, perché esprime meglio la domanda di “rottura” con il passato. Con le burocrazie di partito.
2. Peraltro, se ripercorriamo il risultato dei due principali candidati su base territoriale, emerge una geografia significativa. E non del tutto prevedibile. Bersani prevale in 17 regioni su 20. Nel Nord e soprattutto nel Mezzogiorno. In Calabria, Sicilia, Sardegna e Campania, Basilicata. Dove supera la maggioranza assoluta. Renzi, invece, avvicina Bersani nel Nord, soprattutto in Piemonte e nel Veneto. E, paradossalmente, si afferma nelle Regioni Rosse – esclusa l´Emilia Romagna. In Toscana, ma anche in Umbria e Marche. Proprio lui, sospettato di “berlusconismo”. Bersani, presumibilmente, cumula e associa due modelli di radicamento tradizionali nel Pd. A) L´elettorato orientato dagli apparati e dall´organizzazione sul territorio. B) L´elettorato post-comunista, passato attraverso i Ds. Renzi, invece, si afferma nelle (ex)zone di forza della Margherita, nel Nord (Cuneo, Asti, la pedemontana veneta). E attira componenti di elettori critici verso la classe politica e verso i gruppi dirigenti del Pd. Soprattutto dove sono al governo (le zone “rosse”). Come mostrano i dati di alcuni sondaggi.
3. L´alternativa fra i due candidati, dunque, riflette la distinzione vecchio/nuovo (agitata da Renzi, attraverso lo slogan della “rottamazione”). Rispecchia, inoltre, la frattura destra/sinistra, evocata da Bersani, Vendola e Camusso. Per marcare l´estraneità di Renzi rispetto alla tradizione del centrosinistra. Ma lo schieramento a favore o contro i due candidati è dettato anche da altre componenti, legate alla personalizzazione e allo stile di comunicazione che caratterizzano le Primarie. Ciò rende interessante e aperto il voto di domenica. Che potrebbe essere influenzato dal confronto faccia-a-faccia di mercoledì prossimo sulla prima rete Rai.
4. Anche per questo ritengo che le Primarie, fino al ballottaggio, imprimano all´opinione pubblica e alla stessa logica istituzionale una dinamica presidenzialista. Secondo il modello americano oppure quello francese (per quanto diversi).
Comunque vada il ballottaggio, credo che il Pd debba guardarsi, in seguito, da due rischi. a) Il calo della passione e della mobilitazione dopo mesi di partecipazione, al centro dell´attenzione pubblica e mediatica. Per questo deve “normalizzare” e interiorizzare il modello sperimentato in questi mesi. E se la vita politica non può trasformarsi in un´eterna primaria, non deve neppure ridursi alla routine dei discorsi e dei negoziati nel chiuso delle sedi di partito, dei gruppi dirigenti, dei soliti noti. b) Nel Pd occorre fare attenzione a non trasformare la competizione fra i “duellanti” in antagonismo. Renzi e Bersani e, soprattutto, i mondi che si sono aggregati e mobilitati intorno a loro: non debbono diventare alternativi. Ed esclusivi. C´è il rischio, altrimenti, che si elidano a vicenda. E che, invece di favorire la partecipazione larga e paziente di questo periodo, producano disincanto e frammentazione. Divisione.
In fondo, il Pdl, o ciò che ne resta, è lì. Alla finestra. Sospeso tra voglia e paura delle Primarie. Perché ancora oggi è un partito personale e mediale. Senza società e senza territorio. Il Pd e il centrosinistra, al contrario, sono nati e cresciuti nella società e nel territorio. Ma se ne sono dimenticati. Ora che sono tornati (nella società e nel territorio), ebbene, ci restino.
La Repubblica 27.11.12
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Rivoluzionata la geografia del Pd azzerati big e vecchie correnti “Sì, abbiamo già cambiato pelle”, di Giovanna Casadio
D´Alema e Veltroni non sono scomparsi, ma non esistono più i dalemiani e i veltroniani. E anche gli altri avranno vita difficile. Un nuovo gruppo dirigente emerge alle spalle dei due contendenti. Gentiloni: ora ci sono due campi definiti: quello di Bersani e quello di Renzi. Chiunque vinca dovrà lavorare con l´avversario altrimenti torneremo a scendere nei sondaggi
La corrente dalemiana aveva la sua roccaforte in Puglia: non ce n´è più traccia. Di quella veltroniana è stata sancita la scomparsa la sera in cui Walter Verini, braccio destro di Veltroni, si recò alla riunione dei parlamentari bersaniani che stavano organizzando la campagna per le primarie. Chiese: «Posso partecipare?». Ma forse l´inizio della fine delle correnti del Pd va retrodatato, ancora un po´. Risale alla direzione di ottobre del partito, in cui un Bersani in trincea volle cambiare il codicillo dello Statuto, permettendo a Renzi di correre alle primarie. O è stato quando Veltroni ha detto in tv che tanto lui non si candidava in Parlamento, quindi la “rottamazione” aveva le armi spuntate. Oppure quando l´ha annunciato, sempre in tv ma su un´altra rete, anche D´Alema: «Non mi ricandido ma darò battaglia se Renzi vince».
Renzi non ha vinto alle primarie dell´altroieri, ma ha ottenuto quanto voleva: un secondo round in cui giocarsi il tutto per tutto. E il Pd che esce da questa sfida – in vista del ballottaggio di domenica prossima – ha già cambiato pelle. Per usare la definizione di un renziano (ex veltroniano), Paolo Gentiloni: «Ora esistono due campi: quello di Bersani e quello di Renzi. Non solo. Il risultato del primo turno delle primarie impone una specie di coppia di fatto, un ticket di fatto». Premier e vice premier? «Questo lo escludo, ma è doveroso che – chiunque vinca – Bersani e Renzi lavorino insieme. Un Pd che non avesse più le due facce tornerebbe alle percentuali del luglio scorso, del 25/26 per cento mentre ora è sopra il 32 per cento nei sondaggi».
Un Pd rinnovato, malgrado le resistenze. «Se vince Matteo sarà la rivoluzione, ma comunque abbiamo dato una bella mano a Bersani a fare il rinnovamento», commenta Marco Agnoletti, collaboratore del sindaco di Firenze, tra una riunione e l´altra a Saxa Rubra per preparare il duello tra i due, domani su Raiuno.
«Il vento non si ferma con le mani», è una delle frasi del gergo emiliano del segretario democratico. Infatti, sostiene Matteo Orfini, il cambiamento è ormai in atto. Orfini, “giovane turco” (cioè bersaniano rinnovatore), ex dalemiano è certo: «Sì, il Pd cambia pelle. Esce da queste primarie un gruppo dirigente diverso, si afferma il cambiamento». A Bersani proprio lui aveva chiesto di non coinvolgere, in un futuro governo di centrosinistra, chi già aveva fatto due volte il ministro.
Polemiche feroci. Peraltro, questo accadeva alla vigilia della festa del Partito democratico a Reggio Emilia, a settembre. Rosy Bindi chiese che le venissero porte le scuse. Bersani dal palco avvertì che «non bisognava mancare di rispetto» a chi tanto aveva dato e dava per fare grande il partito. Però accadde allora un altro fatto importante sulla strada della trasformazione del Pd: il segretario non volle sul palco, dove concludeva la festa, nessuno dei big: né Franceschini, né Bindi, né Fioroni, né D´Alema. Sul palco c´erano i volontari. C´era anche Stefano Bonaccini, il segretario regionale dell´Emilia Romagna che dava i dati della kermesse a parlava di programma. Dice adesso, Bonaccini: «Ci credo al rinnovamento, al partito che è cambiato ma non da oggi e non grazie a Renzi. Un esempio? Matteo Richetti, 35 anni, presidente dell´Assemblea legislativa dell´Emilia Romagna, ora renziano, l´abbiamo voluto noi. Io sono figlio di un camionista e di un´operaia, e sono diventato segretario del Pd a 33 anni con 200 mila voti».
Come dire, la trasformazione del partito arriva da quel dì. Non dovuta a quel “ragazzetto” di Renzi. Franco Marini, lo storico leader dei Popolari – pugnace almeno quanto Bindi e poco propenso a farsi “rottamare” – disse, proprio alla fine della direzione di ottobre, che non sarebbe certo stato il “ragazzetto” a mettere bocca nelle liste. Anche se Renzi perde, ormai il giro di boa c´è stato. «O sta per esserci», precisa cauto Orfini. Tuttavia, «se qualcuno dei vecchi dirigenti pensa che Bersani vince e loro tornano, ha sbagliato strada»: ragiona il renziano Gentiloni. Dove dovrebbe andare l´oligarchia democratica, in esilio? Scomparire per sempre? «Non dico che bisogna mandare in Siberia gli alti dirigenti, ma ci sono fasi in cui uno fa il presidente del Consiglio e fasi in cui si sta fra le seconde file», sostiene sempre Gentiloni, che del resto ha una sua ricca carriera politica alle spalle, e che sarebbe pronto a candidarsi come sindaco della Capitale. D´Alema e Veltroni «non sono scomparsi, non abbandonano la politica, solo la fanno in modo diverso», è l´osservazione dei bersaniani. Però sono scomparsi i dalemiani e i veltronani: questo è un fatto.
Né riuscirà facile ai franceschiniani, ai bindiani, ai fioroniani, agli stessi lettiani (gli amici del vice segretario Enrico Letta) che sono i più strutturati e ancora reggono, di sventolare le loro bandiere. A consigliare Bersani ci sono, e sempre più ci saranno, Paola De Micheli, Tommaso Giuntella, lo storico Miguel Gotor, il consigliere regionale dell´Emilia Romagna Miro Fiammenghi. Alessandra Moretti, vice sindaco di Vicenza, il segretario l´ha voluta portavoce del comitato per le primarie. Stefano Fassina, il responsabile economico del Pd, il più “gauchista” della squadra bersaniana, ha dato vita a infinite polemiche, ma il segretario l´ha sempre blindato. Poi ci sono Chiara Geloni, direttore di Youdem; Roberto Speranza, segretario del partito in Basilicata. Di nuovo Orfini: «Spero che Bersani vinca, ma è importante che ci sia il segno della discontinuità. Bene se avanza la società civile, ma non quella dei salotti, bensì di chi si sta dannando in questa crisi. Si stanno facendo avanti i sindaci, gli amministratori locali».
Le primarie insomma sembrano essere state la cartina di tornasole di un processo già in corso, e Renzi il detonatore. «L´insieme delle correnti del Pd, nessuna esclusa – ricorda Gentiloni – non volevano in alcun modo queste primarie aperte. Alcuni l´hanno osteggiate in modo acceso, come Bindi, Fioroni, D´Alema; altri con toni moderati. Ogni giorno era una girandola di profezie di sventura: che una gara co più candidati democratici sarebbe stata uno spettacolo devastante, che ci saremmo guardati il nostro ombelico mentre il paese soffriva. Si sono sbagliati. Bersani non si è fatto convincere». Renzi, si sa, ha nella “rottamazione” il suo vessillo e – dal primo appuntamento alla Leopolda nel 2010, quando ancora c´erano con il sindaco Pippo Civati e Sandro Gozi – ha individuato una nuova classe dirigente. Lo spartito del Pd è cambiato; la musica, si vedrà.
La Repubblica 27.11.12

Scuola: Ghizzoni, su orario insegnanti azione di civiltà del Parlamento

Non serve “gradualità”, ma inversione di tendenza e un moto d’orgoglio. “L’abrogazione della norma sull’aumento di sei ore dell’orario di lezione frontale per gli insegnanti non è stata la difesa di un corporativismo, ma una azione di civiltà rivolta verso un provvedimento che avrebbe avuto ricadute peggiorative sulla qualità della didattica e sui livelli di apprendimento degli studenti e sui livelli occupazionali. – lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati, replicando al premier Monti – Il nostro sistema di istruzione ha assoluta necessità di innovazione, a partire dalle politiche economiche che la riguardano: dopo anni di tagli alla scuola, all’università, al diritto allo studio e, più in generale, alla cultura, è necessario abbandonare politiche di stampo ragionieristico per compiere una inversione di rotta. Anche il governo Monti, avanzando la richiesta di un “contributo di generosità”, ha cercato di percorrere la stessa strada: la proposta di aumentare l’orario di lezione a parità di salario nulla aveva di innovativo e dimostrava scarsa considerazione e conoscenza della scuola. È stato un grave errore – spiega Ghizzoni – a cui il Parlamento ha posto rimedio. Il tema del lavoro degli insegnanti non può prescindere da una prospettiva culturale e politica, che valuti adeguati livelli retributivi, una riforma del tempo scuola e una riorganizzazione degli spazi della didattica, e non può che tendere al rilancio della professione docente e del suo ruolo sociale. Alla scuola e alla cultura – conclude Ghizzoni – non serve “gradualità”, ma una inversione di tendenza e un moto d’orgoglio.”

“La prova dei vincitori”, di Pietro Spataro

E’ stata una bella giornata, uno squarcio di luce nella confusa condizione dell’Italia. Quei quattro milioni in fila per votare sono l’immagine di un Paese che vuole rimettersi in cammino. Il dato che ci consegnano i primi risultati era quello che molti avevano previsto: si andrà al ballottaggio e, con molta probabilità, sarà un ballottaggio combattuto Bersani è in testa, Renzi è distanziato di otto-dieci punti. Al di sotto delle aspettative il risultato di Vendola. È lo specchio di un confronto vero che ha mobilitato i cittadini, senza alcun paracadute per nessuno. Un motivo di soddisfazione per il leader Pd che ha messo in gioco la sua leadership e in questo modo ha dato al centrosinistra una spinta formidabile. Il sindaco di Firenze incassa un buon risultato, probabilmente premiato – oltre che dalla combattività che lo ha reso forte in alcune zone rosse, come la Toscana- anche da un’altissima affluenza che deve aver superato i confini del centrosinistra e toccato altre corde. Nei giorni che ci separano dal ballottaggio queste due idee del riformismo e della politica si batteranno a viso aperto. È assai probabile che il vantaggio consenta a Bersani di essere il candidato premier e quindi di guidare il centrosinistra nel dopo Monti. Ma è evidente che il risultato rende meno credibile l’ipotesi che Renzi torni, come ha promesso, a fare solamente il sindaco di Firenze.
Dopo il ballottaggio si aprirà, comunque vada, la partita più delicata. Che richiede grande responsabilità e un coraggioso spirito di inclusione che tenga unito il Pd attorno al suo leader. È quello che chiedono quei quattro milioni che sono andati ai gazebo. Perché questa è la prova che il Pd e il centrosinistra ci sono, sono una grande forza tranquilla e vitale, l’unica possibilità che il Paese possa uscire da una confusa transizione. La strada è ancora lunga. Ma da qui bisogna ripartire, tutti insieme, per offrire una speranza di cambiamento.
L’Unità 26.11.12
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Bersani «Ora più forti giornata straordinaria», di Simone Collini
Il segretario pronto al duello con il sindaco: «Ma nessuno mi rubi questa grande festa perché l’ho voluta io». Mercoledì il confronto su Raiuno. Prima di uscire di casa twitta col cellulare un «grazie a tutti i volontari che rendono possibile questa bellissima giornata di democrazia». Poi, insieme alla moglie Daniela e alle figlie Margherita ed Elisa, va a prendere la macchina per andare verso via XXIV Maggio. Jeans e pullover blu, Pier Luigi Bersani arriva al seggio di Piacenza ovest sorridente.
Un sorriso che non perde neanche a tarda sera, quando si vengono a sapere i dati definitivi di questa sfida: «È stata una giornata straordinaria, non me la si rubi perché l’ho voluta io». Il leader del Pd è primo, e anche se non è riuscito a chiudere la partita al primo turno parla di «risultato ottimo». Domenica prossima dovrà giocarsela con un Matteo Renzi che riparte forte di un risultato che era tutt’altro che atteso nei giorni precedenti al voto, ma Bersani si dice comunque soddisfatto per questo passaggio che, sottolinea, rafforza il suo partito e il centrosinistra in vista della sfida decisiva, le elezioni politiche. A urne chiuse riceve un messaggio dal segretario del Partito socialista francese Harlem Desir per l’«eccellente risultato»: «Vincerà ampiamente al secondo turno come François Hollande». C’è anche il tempo per una telefonata cordiale con Renzi: «Ti abbraccio». Però il suo sfidante dice che lei ha accettato la sua proposta di fare le primarie. «No, in amicizia ma questo non glielo consento», risponde lui che ha chiesto di modificare lo statuto del Pd per permettere al sindaco di Firenze di correre.
Domenica sera si saprà chi sarà il candidato premier del centrosinistra, ma intanto un «obiettivo è stato raggiunto», dice Bersani andando a incontrare poco prima di mezzanotte militanti e simpatizzanti al comitato di Piacenza. «Abbiamo contribuito a riavvicinare cittadini e politica». E se i commentatori che affollano le trasmissioni televisive post-voto si affrettano a dire che comunque vada tra sei giorni la sfida ai gazebo, il ruolo del sindaco di Firenze avrà un peso non indifferente in tutti i prossimi passaggi da qui al voto di marzo, Bersani a chi lo avvicina dice che «non ci saranno bilancini» e ricorda anche che il doppio turno è stato lui a volerlo nelle regole (Renzi era contrario), per dare al candidato premier una forte legittimazione popolare, superiore alla metà più uno dei voti degli elettori. «Se non ci fosse stato stasera avrei stravinto io», è il sottinteso.
UN COLPO ALL’ANTIPOLITICA
Se Bersani si dice soddisfatto per com’è andata questa giornata è perché è convinto che «il primo avversario» da combattere sia «la disillusione, l’indignazione, il distacco tra i cittadini e la politica». I resoconti che riceve fin dal primo mattino da tutta Italia parlano di file ai gazebo, tanto per votare quanto ancora per registrarsi. «Oggi è una festa. Abbiamo fatto, con le primarie, un regalo a noi e all’Italia perché la politica è partecipazione. Se mi aspettavo un’affluenza così alta? Certo. Le primarie le ho volute, e le ho volute aperte, per rompere il muro che c’è tra politica, istituzioni, e cittadini. C’è ancora tanto da fare contro l’antipolitica, perché il disagio che c’è in giro è enorme, ma un po’ di quel muro lo stiamo rompendo». Mancano ancora una decina di ore alla chiusura dei seggi e alla notizia che alla fine saranno quasi quattro milioni gli italiani che si sono messi in fila per decidere chi dovrà essere il prossimo candidato premier del centrosinistra. Ma l’aria che tira è già chiara, e per Bersani è un’aria di festa, «una festa della democrazia».
PRONTO AL BALLOTTAGGIO
Un braccio sulle spalle della figlia Margherita, Bersani entra nel seggio salutando e stringendo mani ed è inevitabile chiedergli un pronostico sull’esito del voto. Benché i sondaggi degli ultimi giorni lo abbiano dato a un passo dalla soglia del 50% necessaria per essere proclamati vincitori, il leader del Pd si mostra molto cauto: «Ritengo probabile il ballottaggio, ci sono tanti contendenti». Un sorriso, e poi: «Ma se le cose vanno così ne faccio sette di ballottaggi. Una settimana in più con un clima così non guasta».
Ed è con questo spirito che ora Bersani si prepara a giocare la sfida del secondo turno, «senza aprire tavoli» con Vendola o gli altri esclusi. In questi mesi ha accuratamente evitato di polemizzare con Renzi, e non intende cominciare ora. «Qualche sbavatura c’è stata, ma d’altro canto questa è una competizione vera. Ci siamo dati qualche calcetto e anche qualche calcione, ma sono cose che non mettono in discussione la lealtà di tutti e l’aiuto che ci daremo quando la competizione sarà finita». Anche se Renzi continuerà a definirla «usato garantito?». «No, lui dice usato sicuro, e non mi offendo mica io, sicuro è una gran bella parola».
Dopo aver votato al seggio di Piacenza Bersani risale in auto con moglie e figlie. Destinazione Bettola, il suo paese natale da dove ha fatto partire la sua campagna per le primarie (e dove ha vinto con 222 voti contro i 35 di Renzi). Pranzo a casa dei suoceri, Gino e Carla, con uno dei suoi piatti preferiti: il merluzzo in umido con la polenta. Poi in serata il ritorno a Piacenza e l’attesa del risultato finale guardando in televisione la partita Milan-Juventus (finita 1 a 0, cioè male per la sua squadra del cuore).
La strategia di Bersani, che stasera è a “Che tempo che fa”, come Renzi, col quale farà un confronto diretto mercoledì su Rai1, non cambierà in questi sei giorni. «Finora abbiamo mostrato di essere un popolo di progressisti, di gente che conosce le proprie responsabilità davanti al Paese». Continuerà a farlo fino a domenica. E poi, se gli elettori del centrosinistra lo vorranno, fino a marzo prossimo.
L’Unità 26.11.12

“Basta violenze. Il mondo chiede scusa alle donne”, di Riccardo Valdes

Basta con la violenza sulle donne. L’appello viene dal segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, nel giorno in cui si è celebrata la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne. Il numero uno di Palazzo di Vetro si è rivolto ai governi di tutto il mondo chiedendo loro di mantenere le promesse fatte per mettere fine a tutte le forme di violenza contro le donne e le ragazze. «Sollecito tutte le persone ha detto a sostenere questo importante obiettivo». L’appello di Ban Ki-moon è preliminare all’appuntamento del prossimo marzo, quando si riunirà la Commissione delle Nazioni Unite sullo stato delle donne, che per l’appunto concentrerà i propri sforzi sulla prevenzione ed eliminazione della violenza sulle donne. Ieri, alla vigilia della Giornata Internazionale, il ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi ha ricordato che «l’impegno per contrastare tutte le forme di violenza che continuano a colpire milioni di donne nel mondo è una priorità assoluta dell’azione internazionale dell’Italia».
Una giornata planetaria, che in nel nostro Paese è stata celebrata attraverso flash-mob, incontri, mobilitazioni di ogni tipo, a cominciare da quella voluta dalla convenzione «No More» che ha avuto il plauso del presidente Napolitano, la prima in Italia dove gruppi trasversali di associazioni di donne (dall’Udi a Giulia-l’associazione delle giornaliste, da Usciamo dal silenzio all’Arci, fino alla Casa Internazionale delle donne che ieri è rimasta aperta per tutto il giorno.
Da Torino è partita la campagna «365 no» mirata, ha spiegato il sindaco Piero Fassino «a far sì che la battaglia contro questo tragico fenomeno diffuso in tutto il mondo, compreso il nostro ricco occidente, sia una battaglia quotidiana, combattuta sul campo ogni giorno, una battaglia delle donne e degli uomini per la libertà». Vi hanno già aderito ad oggi 8 città: Bari, Bologna, Genova, Milano, Napoli, Roma, Palermo, Venezia. L’acqua della fontana della centralissima piazza De Ferrari, davanti a Palazzo Ducale. è stata tinta di rosso. Contemporaneamente sono stati disposti intorno alla fontana centinaia di palloncini bianchi listati con una croce nera mentre a Palazzo Ducale è stata esposta l’installazione «Zapatos rojos», con oltre 100 paia di scarpe femminili, realizzata dell’artista messicana Elina Chauvet e curata da Francesca Guerisol.
Unanime e bipartisan l’adesione delle massime istituzione del Paese e del mondo della politica per fermare la strage delle donne. Una Spoon River drammatica, terribile.
l’Unità 26.11.12
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Un «patto» per un Paese davvero civile, di Vittoria Franco
QUEST’ANNO SIAMO ARRIVATI ALL’APPUNTAMENTO CON IL 25 NOVEMBRE, GIORNATA INTERNAZIONE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE, CON IL PESO DI 113 FEMMINICIDI DALL’INIZIO DEL 2012.
Un peso insostenibile e un dramma intollerabile per un Paese civile. Le azioni possibili per affrontare e combattere questo fenomeno sono molte, e noi donne del Pd le elenchiamo spesso: ratificare subito la Convenzione di Istanbul contro la violenza domestica e sulle donne, investire sui centri antiviolenza, fare prevenzione, approvare le nostre proposte, da tempo depositate in Parlamento, per realizzare tutto questo. Ma il cambiamento necessario è di natura culturale, ne siamo consapevoli. Le donne italiane, con il loro traguardo di un peso specifico sempre più alto nella società, fondato sul successo nella scolarizzazione e nelle professioni e sulla fatica di interpretare sempre il welfare complementare, stanno mettendo in discussione l’ordine costituito, ma senza reale riconoscimento della loro dignità, del loro valore e del loro potere.
È per questo che serve un «patto» per un nuovo mondo comune. Patto fra uomini e donne che sono e si considerano pari. Un nuovo orizzonte anche per costruire un esito positivo della crisi economica. A differenza del contratto classico, il patto per un nuovo mondo comune viene stipulato espressamente fra donne e uomini e indica un orizzonte di conquiste da realizzare su un terreno diverso rispetto al passato, perché presuppone il contesto di una nuova cultura della convivenza, basata sull’eguale riconoscimento reciproco di libertà e dignità.
Patto per che cosa? Per condividere il potere in ogni settore di attività: nella rappresentanza istituzionale, sul mercato del lavoro e nelle carriere; per affermare una rappresentanza eguale nei luoghi in cui si assumono le decisioni; per condividere il lavoro di cura e la genitorialità, per realizzare la parità salariale. Insomma, per dare gambe e realtà al principio della democrazia paritaria. Tutto questo vuol dire ricontrattare i ruoli, scardinare la dicotomia tra sfera pubblica e sfera privata che si è creata all’origine dello Stato moderno e che si definisce in base a ruoli predefiniti dei due generi. Noi stiamo mettendo in discussione questo racconto archetipico per costruire una nuova storia, che racconta di un processo di democratizzazione nel quale l’uomo e la donna divengono «cofondatori» della cittadinanza universale stringendo un patto di non discriminazione, fondato sulla valorizzazione e il rispetto delle persone, delle competenze, del saper fare. Patto vuol dire allora, ad esempio, che il rispetto del corpo femminile entra nel lessico e nell’educazione. Patto significa che le donne cedono più spazio agli uomini per la cura familiare e gli uomini più spazio pubblico alle donne (e i congedi paterni obbligatori della legge Fornero, anche se da estendere, vanno in questa direzione). Insomma, il patto va insieme con la giustizia di genere e non solo più con la giustizia sociale. Cominciamo a parlarne.
l’Unità 26.11.12
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Gemma Marotta: «Gli uomini devono finalmente crescere», di Ludovica Jona
È docente di criminologia e sociologia della devianza all’Università La Sapienza di Roma. Ha una doppia laurea: in Giurisprudenza e in Psicologia. Sono 113 a oggi. Un’escalation. Una corsa che accelera al ritmo del 26% ogni anno e non sappiamo dove ci porterà. A crescere esponenzialmente è il numero di donne uccise per mano di uomini dal 2007 al 2011 in Italia «Per contrastare questa violenza è necessario lavorare sulla prevenzione, con la compartecipazione e la corresponsabilità di ciascuno», afferma Gemma Marotta, docente di Criminologia e sociologia della devianza all’Università La Sapienza di Roma. Delitti che non appartengono a mondi lontani, ma ci riguardano tutti e hanno le loro radici nella nostra quotidianità. «Ad esempio afferma Marotta, quando siamo protagonisti o assistiamo a una prevaricazione o all’umiliazione di una donna sul posto di lavoro».
A cosa può essere ricondotto questo vertiginoso aumento dei casi di femminicidio in Italia?
«Esiste una forte crisi della relazione di coppia. Cause scatenanti sono principalmente le richieste di separazioni e divorzi, che in Italia vengono presentate soprattutto dalle donne. E il senso di “onore ferito” che provocano, può portare alla tragedia. Alla base c’è questo retaggio nell’uomo, dello scambiare l’amore con il possesso. Prima dei delitti però, vi sono lunghi periodi di violenza domestica, anche psicologica perché umiliando una donna e facendole perdere autostima la si controlla o di molestie continuative e assillanti, anche dette stalking».
Ritiene che la legge sullo stalking, che nel 2009 ha introdotto il reato di «atti persecutori», sia uno strumento utile per proteggere le donne?
«Ho dei dubbi in proposito. La legge sullo stalking prevede un primo ammonimento orale da parte della polizia, e solo se il reato viene reiterato si può ottenere la reclusione. Questo rischia di far degenerare la rabbia dell’aggressore in omicidio. Ci sono stati casi di femminicidio seguiti a denunce per stalking. La legge sullo stalking funziona come deterrente solo in persone con un certo equilibrio. Il problema è che fino a che non viene commesso un atto violento, le forze dell’ordine non possono intervenire. E’ per questo che io dico sempre, che è la vicinanza, la partecipazione e la corresponsabilità della comunità, il modo più efficace di prevenire i crimini. Non abbiamo sempre un poliziotto dietro».
Nel suo libro Se questi sono gli uomini il giornalista Riccardo Iacona riporta le parole di un’amica di Vanessa Scialfa, la ventenne di Enna uccisa dal fidanzato un anno fa. La ragazza racconta di uomini che schiaffeggiano pubblicamente le fidanzate senza che nessuno intervenga. E commenta: «Vent’anni fa sarebbe stato uno scandalo. Ora non ci fa più caso nessuno».
«Ecco, questo in criminologia si chiama “effetto spettatore”: se si assiste a troppe scene di violenza, nella realtà o nella finzione, si rischia di non esserne più impressionati. In questo ha responsabilità soprattutto il piccolo schermo».
Quali interventi ritiene più urgenti, da parte delle istituzioni?
«Io credo che andrebbe fatto qualcosa per far incontrare le famiglie, creare luoghi in cui si può discutere. Soprattutto in questo momento di crisi economica che mette a dura prova i nuclei familiari. I corsi prematrimoniali, ad oggi praticati solo da coloro che si preparano a un matrimonio religioso, sarebbero utili anche in ambito laico. Perché molte unioni avvengono per infatuazioni, senza che ci sia vera consapevolezza dei problemi che una coppia deve affrontare. E andrebbe fatto soprattutto qualcosa in campo maschile, gli uomini sono oggi più fragili psicologicamente ad accettare un piano di parità»
In quali ambiti soprattutto, manca l’accettazione della parità?
«A partire dai contesti lavorativi. È necessario reagire agli atteggiamenti di supponenza, di sottovalutazione, alle battute volgari, alle avance fisiche e verbali. Una volta, in una classe di 50 persone con 2 sole donne, mi sono accorta che giravano disegni osceni con i quali le ragazze in minoranza venivano messe in imbarazzo. Me li son fatti consegnare e ho cambiato argomento della lezione, parlando del complesso edipico non risolto. Così li ho messi difronte alla loro meschinità. Umiliati, hanno finito per scusarsi pubblicamente».
L’Unità 26.11.12

Appello editori e giornalisti al Parlamento: «Pessima legge ritiratela», di Natalia Lombardo

Hanno lanciato un appello congiunto contro il disegno di legge sulla diffamazione, la Federazione nazionale della Stampa e la Federazione degli Editori. Un «appello estremo al Parlamento e alle forze politiche perché si evitino, finché si è in tempo, soluzioni finali inappropriate». E si ritiri la legge «monstre» che oggi potrebbe essere votata nell’aula del Senato. Lo sciopero dei giornalisti è stato solo rinviato, ma la mobilitazione non si ferma e stasera i giornalisti protesteranno in un presidio-fiaccolata in piazza del Pantheon, dalle 19 alle 21. E oggi scadono i 30 giorni di sospensione per l’esecuzione della condanna per diffamazione a 14 mesi di reclusione per Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, il quale ha dichiarato di non voler usufruire delle pene sostitutive e di voler andare a San Vittore.
L’appello «Dignità delle persone, diritto d’informare», inizia così: in occasione della discussione al Senato del ddl sulla diffamazione a mezzo stampa «la Fieg e la Fnsi si uniscono nel rinnovare al Parlamento e a tutte le forze politiche l’appello a non introdurre nel nostro ordinamento limitazioni ingiustificate al diritto di cronaca e sanzioni sproporzionate e inique a carico dei giornalisti con condizionamenti sull’attività delle libere imprese editoriali, senza peraltro che siano introdotte regole efficaci di riparazione della dignità delle persone per eventuali errori o scorrettezze di stampa».
Nell’aula del Senato è stata reintrodotta la pena del carcere, ma solo per il giornalista e non per direttori e vice, limitando così fortemente l’autonomia e la condizione di chi fa informazione d’inchiesta. Nell’appello Fieg-Fnsi, infatti, si sottolinea che le norme proposte, (sulle quali il governo era contrario) «hanno carattere di incostituzionalità e sono palesemente incoerenti con l’articolo 110 del Codice penale, nonché con l’articolo 57 relativo ai reati a mezzo stampa».
È quindi «una pessima legge che introduce norme assurde, rispetto alle quali le ragioni di protesta e la richiesta di ritiro di questo provvedimento sono comprese e condivise da Fieg e da Fnsi». E con le misure previste dal ddl (il carcere per i giornalisti, le sanzioni da 5mila a 50mila euro, l’obbligo di rettifica non commentata anche per il web e altro), si introducono «solo elementi di condizionamento, di paura per la possibile esplosione di querele temerarie e di controllo improprio che non possono essere condivisi».
Fieg e Fnsi riconoscono comunque che «equilibrate sanzioni economiche e rettifiche documentate e riparatrici» debbano essere in linea con «i principi europei delle nazioni più evolute», con il diritto all’informazione per i cittadini e la tutela della dignità delle persone.
Oggi quindi la giornata decisiva: in Senato nel pomeriggio è previsto il voto sull’articolo 1, il cuore del ddl, sul quale il Pd ha chiesto il voto segreto nella speranza che venga bocciato (sulla carta i numeri non ci sono). Se il ddl venisse levato dall’ordine del giorno, finirebbe nel cassetto. Nel caso invece che dovesse passare, la battaglia per affossarlo si sposterebbe alla Camera.
Vincenzo Vita, senatore Pd, auspica che venga accolto l’appello di Fnsi e Fieg e annuncia comunque che sarà «data battaglia per il ritiro del provvedimento. Se non accadrà, faremo di tutto per farlo cadere con il voto
L’Unità 26.11.12