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“Un nuovo vento unisce l’Europa”, di Ulrich Beck

“Siamo in piazza per protestare contro la legge che taglia i finanziamenti alla scuola pubblica: come facciamo ad andare avanti se nella nostra scuola non ci sono abbastanza banchi?”. Così uno studente di Torino giustificava la sua partecipazione allo sciopero europeo della scorsa settimana. Giusto un anno e mezzo fa siamo stati spettatori di una primavera araba con la quale assolutamente nessuno aveva fatto i conti. Di colpo, regimi autoritari crollarono sotto la spinta dei movimenti democratici di protesta organizzati dalla “Generation Global”. Dopo la primavera araba potrebbe arrivare un autunno, un inverno o una primavera europea? Gli scioperi delle ultime settimane ne sono stati i segnali?
Naturalmente, negli ultimi due o tre anni abbiamo visto ragazzi di Madrid, Tottenham o Atene protestare contro gli effetti delle politiche neo-liberali di risparmio e attirare l’attenzione sul loro destino di generazione perduta. Tuttavia, queste manifestazioni erano in qualche modo ancora legate al dogma dello Stato nazionale. La gente si ribellava nei singoli paesi alla politica tedesco- europea del rigore, adottata dai diversi governi. Ma quello che è accaduto la scorsa settimana parla un’altra lingua: 40 sindacati di 23 paesi hanno indetto una “giornata di azione e solidarietà”. I lavoratori portoghesi e spagnoli hanno chiuso le scuole, hanno paralizzato il traffico e hanno interrotto i trasporti aerei nel primo sciopero generale coordinato a livello europeo. Benché il ministro degli Interni spagnolo abbia parlato di «proteste isolate», nel corso dello sciopero solo a Madrid sono state arrestate 82 persone e 34 sono rimaste ferite, fra cui 18 poliziotti. Queste proteste diffuse in tutta Europa sono avvenute proprio nel momento in cui molti credevano che l’Europa avesse finalmente trovato la soluzione magica per la crisi dell’euro: la Banca centrale europea rassicura i mercati con il suo impegno ad acquistare, in caso di necessità, i titoli degli Stati indebitati. I paesi debitori – questa è la promessa – devono “soltanto” adottare ulteriori e ancor più incisive misure di risparmio come condizione per l’erogazione dei crediti da parte della Bce, e tutto andrà bene.
Ma i profeti tecnocratici di questa “soluzione” hanno dimenticato che qui si tratta di persone. Le politiche rigoriste con le quali l’Europa sta rispondendo alla crisi finanziaria scatenata dalle banche vengono vissute dai cittadini come un’enorme ingiustizia. Il conto della leggerezza con cui i banchieri hanno polverizzato somme inimmaginabili alla fine viene pagato dal ceto medio, dai lavoratori, dai pensionati e, soprattutto, dalla giovane generazione, con la moneta sonante della loro esistenza.
Se ora la Spagna, la Grecia e il Portogallo, ma anche l’Italia e la Francia vengono scosse da scioperi organizzati dai sindacati, non si deve interpretare ciò come una presa di posizione contro l’Europa. Le immagini dell’ira e della disperazione dicono piuttosto che è venuto il momento di invertire la rotta. Non abbiamo più bisogno di salvataggi delle banche, ma di uno scudo di protezione sociale per l’Europa dei lavoratori, per il ceto medio, per i pensionati e soprattutto per i ragazzi che bussano alle porte chiuse del mercato del lavoro. Questa Europa solidale non tradirebbe più i propri valori agli occhi dei cittadini. Perché essi vedano nell’Europa qualcosa che ha senso, il suo motto dovrebbe essere: più sicurezza sociale con un’altra Europa! La questione sociale è diventata una questione europea, per la quale non è più possibile nessuna risposta nazionale. Per il futuro sarà decisivo che questa convinzione si affermi. In effetti, se gli scioperanti e i movimenti di protesta prendessero a cuore l’“imperativo cosmopolitico”, cioè cooperassero in tutta Europa al di là delle frontiere e si impegnassero assieme non per meno Europa, ma per un’altra Europa, si creerebbe una nuova situazione. Un’“altra” Europa dovrebbe sostanzialmente essere costruita in base a un’architettura ispirata alla politica sociale e andrebbe rifondata democraticamente e dal basso.
Alla fine l’Europa – la crisi dei debiti dimostra proprio questo – dipende dal denaro dei singoli Stati. Pertanto, un’Europa democratica e sociale avrebbe bisogno di un fondo comune. Ora, non è difficile immaginarsi come reagirebbero i cittadini se dovessero rinunciare a una parte del loro reddito per questa “addizionale di solidarietà” o se si aumentasse l’imposta sul valore aggiunto affidando la gestione degli introiti supplementari alla Commissione europea. A questo punto si potrebbero prendere in considerazione la tassa sulle transazioni finanziarie, una tassa sulle banche o un’imposta europea sui profitti d’impresa. In questo modo, da un lato, si riuscirebbe ad addomesticare il capitalismo del rischio scatenato, addossando le responsabilità delle conseguenze della crisi a coloro che l’hanno provocata e, d’altra parte, l’Europa sociale diventerebbe finalmente una realtà tangibile ed efficace.
Se si formasse un’alleanza tra i movimenti sociali, la generazione europea dei disoccupati e i sindacati – da un lato – e gli architetti dell’Europa nella Banca centrale europea, i partiti politici, i governi nazionali e il Parlamento europeo – dall’altro -, nascerebbe un movimento possente, capace di imporre una tassa europea sulle transazioni finanziarie contro l’opposizione dell’economia e l’ottusità degli ortodossi dello Stato nazionale.
Se questo riuscisse, sarebbe addirittura possibile guadagnare due nuovi alleati per un’altra Europa: in primo luogo (per quanto ciò possa risultare paradossale), gli attori dei mercati finanziari globali, che forse acquisirebbero nuova fiducia di fronte a una chiara scelta di campo per l’Europa delle politiche sociali e investirebbero in essa, poiché sarebbe chiaro che c’è un’istanza che in caso di crisi risponde delle possibili perdite. E, in secondo luogo, le popolazioni degli Stati debitori oggi attratte dal nazionalismo e dalla xenofobia, che si impegnerebbero nel proprio interesse bene inteso per il progetto di un’Europa sociale e democratica. Una primavera europea, dunque?
(Traduzione di Carlo Sandrelli)
La Repubblica 25.11.12

“Nelle piazze e nei teatri contro la strage. Femminicidio, la Convenzione «No More!» sarà portata al governo”, di Giulia Ziino

Una giornata per dire basta. Ma non solo, anche per fare un passo avanti verso il cambiamento. È quella che si celebra domani, la Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza sulle donne (a scegliere la data, nel 1999, fu l’assemblea generale delle Nazioni Unite). Dal teatro alla politica, dalla società civile al cinema, le iniziative per mettere un argine alla «strage delle donne» — dall’inizio dell’anno, in Italia, le morti «rosa» sono già 115 — e alla violenza su madri, mogli, fidanzate — l’85 per cento del totale delle violenze, il 3% in più del 2011, secondo i dati di Telefono Rosa — si rincorreranno durante tutta la giornata.
«Se molti passi in avanti sono stati fatti, bisogna andare oltre, con la ratifica della Convenzione di Istanbul prevista in Senato nei prossimi giorni e che spero abbia un percorso accelerato, entro la fine della legislatura» ha detto ieri il ministro della Giustizia, Paola Severino. La Convenzione, primo documento paneuropeo giuridicamente vincolante dedicato a combattere la violenza sulle donne e la violenza domestica, è già stata sottoscritta dal nostro Paese ma deve ancora essere ratificata (al più presto, ha chiesto anche il ministro del Lavoro Elsa Fornero). Le sue linee portanti sono le stesse di «No More!», la convenzione promossa da un cartello di associazioni tutte impegnate contro il femminicidio («non più parole, non più rassicurazioni» è la loro rivendicazione) che sul tema della violenza hanno chiesto un incontro con il governo.
Domani sera a Milano, alle 21,30 sul palcoscenico del teatro Litta, a conclusione di una tre giorni dedicata alle donne, andrà in scena Se questo è amore…: gli attori Enzo Giraldo, Aglaia Zanetti e Lorella de Luca e, con loro, alcune delle giornaliste de La27ora, il blog multiautore delCorriere della Sera, daranno voce a storie di donne maltrattate. Quelle stesse storie che, tra la primavera e l’estate scorse, sono state il cuore dell’inchiesta condivisa in otto puntate condotta da La27ora sul tema della violenza sulle donne, uscita prima sulla carta e poi continuata online sul blog. A seguire, sempre al teatro Litta, sarà Giulia ha picchiato Filippo, il documentario di Francesca Archibugi con Riccardo Scamarcio e Jasmine Trinca (in onda su Raiuno sempre domani, ma alle 15.30), a dare testimonianza di storie di stalking e violenza.
A Roma — dove il Colosseo verrà simbolicamente illuminato a partire dalle 17.30 — alla Casa internazionale delle donne è in programma la giornata «No More», interamente declinata sul tema della violenza contro le donne, con film, incontri e concerti. Il comitato «Se non ora quando?», invece, insieme a Female Cut, promuove il festival Female Against Violence: dalle 17 in poi negli spazi del magazzino dell’arte Lanificio159 più di cinquanta artiste (tra le quali musiciste, dj, performer, attrici, pittrici…) saranno coinvolte in performance live, proiezioni, mostre e installazioni d’arte per dare voce all’eccellenza del talento femminile.
Il Corriere della Sera 24.11.12
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Dandini: «I delitti sono solo la punta dell’iceberg»
«Possibile che si discuta su una parola, femminicidio, e non sul significato? Questa è un’emergenza che riguarda tutti. Gli omicidi sono la punta di un gigantesco iceberg di infelicità, violenza, incomprensione». Serena Dandini le parole per dirlo le ha scritte di getto, a modo suo, utilizzando tutti i registri che da autrice e conduttrice televisiva ha imparato a usare. Ironia compresa. Il risultato va in scena stasera al Teatro Biondo di Palermo, per poi essere replicato a Bologna al Duse il 30 novembre e a Genova, al Teatro La Corte, il 9 dicembre. «Ferite a morte», scritto in collaborazione con Maura Misiti, ricercatrice del Cnr, e con la collaborazione delle donne dei centri antiviolenza. Monologhi ispirati alla Spoon river di Edgar Lee Master: «Dove sono Ella, Kate, Mag, Edith e Lizzie / la tenera, la semplice, la vociona, l’orgogliosa, la felice? Tutte, tutte, dormono sulla collina».
Qui ci sono Ivana, Fatoumata, la donna manager, la sposina in luna di miele, la ragazzina, la predatrice. Nomi e riferimenti di fantasia, ma basati su fatti di cronaca. «Alcune storie sono vere, alcune ispirate a vicende riportate dai giornali. Qualcuna — osserva Dandini — l’abbiamo persino anticipata, come la vicenda della donna romana che tutti credono partita per chissà dove e invece giace cadavere nel pozzo. Qualche tempo dopo averla scritta ho letto della madre e figlia di Caserta trovate nel sotterraneo. Assurdo». L’obiettivo, spiega «è ridare la voce a persone a cui è stata rubata la vita non a causa di raptus improvvisi come spesso si racconta». In scena con lei saranno in tante. Attrici: Paola Cortellesi, Donatella Finocchiaro, Isabella Ragonese, Geppi Cucciari, Sonia Bergamasco, Ambra Angiolini, Micaela Ramazzotti. Giornaliste: Lilli Gruber, Fiorenza Sarzanini, Concita De Gregorio. A Palermo ha dato la disponibilità anche il vicequestore. «Non deve stupire che in tante ci stiamo muovendo per fare qualcosa. Lo spirito è lo stesso per tutte. Il primo obiettivo è far sottoscrivere dal governo italiano la convenzione No More». Come dice lei: «Mo’ basta!».
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Rocca: «Una piaga le nozze forzate anche in Italia»
Tutto è nato grazie un incontro casuale in treno. «Sul Roma-Milano ho conosciuto questa ragazza, Marikha, in fuga da un matrimonio forzato». Una storia arrivata dritta da un passato che Stefania Rocca e molti insieme a lei, consideravano remoto. «Invece la piaga dei matrimoni forzati è molto più diffusa di quanto non si pensi» spiega l’attrice. «L’ho scoperto lavorando con Action Aid e l’associazione Trame di terra. Non a caso sono riconosciuti dalle Nazioni Unite come violazione dei diritti umani. Forzare una ragazza a sposare un uomo che non ama, a volte neanche conosce, equivale ad una condanna a vita. Che a volte è una condanna una morte». Una violenza psicologica che spesso si traduce in violenza fisica. «Ho voluto dare il mio contributo per far conoscere il dramma».
Rocca ha girato un cortometraggio presentato nei giorni scorsi fuori concorso al Festival internazionale del film di Roma, un’iniziativa legata al 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. «L’ho intitolato Osa, ispirandomi alla scelta di Marikha, che ha sfidato la sua famiglia. Non so dove sia ora, il suo coraggio spero dilaghi. Mi ha aperto gli occhi, credevo che fossero cose dei tempi di Romeo e Giulietta». E ha scelto le parole del Romeo di Shakespeare («Con le ali dell’amore ho volato oltre le mura, perché non si possono mettere limiti all’amore e ciò che amor vuole amore osa») per far scattare la molla della reazione alla sua protagonista, l’attrice Rosabell Laurenti Sellers. Anche lei molto coinvolta nel progetto: «La storia che ho interpretato succede a migliaia di ragazze anche più giovani di me, anche qui in Italia, al contrario di quanto molti credono».
«Osa vuole essere prima di tutto un incoraggiamento — continua Rocca — affinché le donne possano decidere della loro vita, scoprendo di non essere sole, in qualsiasi parte del mondo. Per noi italiani c’è una battaglia in più da sostenere: la possibilità che le ragazze che nascono in Italia da genitori stranieri abbiano la nazionalità. Una tutela in più».
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Archibugi: «Ecco i racconti di chi è uscita dall’incubo»
«Ho capito che non ero salva mai, neanche stando zitta». «Ho tentato di tenere fuori la mia famiglia». «Sono stata sola, isolata, zitta». «Mi sono decisa il 9 giugno, me lo ricordo bene, quando mi ha dato gli schiaffi davanti a tutti». Voci e volti di donne vittime di violenza ritratte da Francesca Archibugi nel documentario «Giulia ha picchiato Filippo» che domenica verso le 15.30 entreranno nelle case del pubblico di Domenica in. «È un segnale forte, merito della sensibilità della presidente Tarantola: significa che la violenza contro le donne è un argomento che riguarda finalmente tutti. E spero che dopo possa essere mostrato anche nelle scuole» commenta la regista. La richiesta di girarlo le è arrivata dalla Onlus Differenza Donna con il dipartimento delle Pari opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri. Mesi di incontri, di racconti. Non è stato facile sintetizzare in 25 minuti il vissuto di queste donne che hanno accettato di mostrarsi. Donne che grazie al supporto di psicologhe, operatrici, avvocate dei centri antiviolenza hanno voltato le spalle agli abusi. «Tutte diverse, ma tutte entrate nello stesso incubo nella casa di Barbablu. Con Esmeralda Calabria che ha curato il montaggio, avevamo ore e ore di girato, abbiano scritto una vera e propria sceneggiatura per dare spazio a tutti gli aspetti». Molte di loro entrano nei centri con l’idea di liberarsi del torturatore convinte che la vita sia finita. «E invece non è finita la vita di nessuna, scoprono che possono ricominciare». I racconti, dice, si assomigliano in modo preoccupante: segnali chiari che vengono sottovalutati. «Il femminicidio non è mai un raptus, prima c’è un percorso». Come quello che ha messo alla fine del documentario, con un inserto di fiction con Riccardo Scamarcio e Jasmine Trinca, genitori di due bambini all’asilo, Giulia e Filippo del titolo. Filippo picchia sistematicamente Giulia, le dà fastidio, la svilisce. Quando lei reagisce si ritrova sola. «Picchiare non è da bambina, essere picchiate è da bambina. Bisogna andare all’origine per cambiare».
Il Corriere della Sera 24.11.12

“Femminicidio: ribelliamoci ora”, di Roberta Agostini

Sono più di cento le donne uccise fino ad oggi nel nostro paese. Dal sud al nord senza distinzione di nessun tipo, reddito, livello di istruzione, etnia, appartenenza religiosa. Un solo elemento unifica queste morti: sono tutte o quasi state uccise da chi conoscevano, il partner, un familiare, un cosiddetto amico.
Uccise perché donne, ma in realtà i dati non li conosciamo veramente perché non abbiamo un sistema informativo che ci consenta di monitorare il fenomeno nei suoi diversi aspetti. L’ultima ricerca approfondita l’ha fatta l’Istat nel 2007. L’anno dopo un gruppo di giornaliste e scrittrici ha pubblicato un libro «Amorosi assassini» analizzando per un anno le pagine dei quotidiani e raccogliendo in ordine cronologico, mese per mese, circa trecento casi di violenza e tracciando una terribile e dolorosa fotografia della vita e della morte di quelle donne.
Ma quante rimangono in silenzio? Le donne pagano con la vita per aver detto un no, quel «no» che fu pronunciato da Franca Viola tanti anni fa, che ha cambiato i rapporti tra uomini e donne nel Paese, ma che ancora non si è affermato, così come le parole autonomia ed eguaglianza.
Intorno a questo 25 novembre ci siamo ritrovate in tante occasioni, associazioni, ong, donne impegnate nella politica e nelle istituzioni per discutere di come rilanciare la battaglia contro la violenza. Un primo obiettivo concreto, importantissimo è stato raggiunto anche grazie al nostro impegno parlamentare e alla raccolta di firme che abbiamo promosso in molte città: il governo il 27 settembre scorso ha firmato la convenzione di Istanbul e dobbiamo fare in modo che la legge di ratifica venga approvata entro la fine di questa legislatura, dotando il nostro Paese di uno strumento essenziale di contrasto alla violenza.
In più occasioni dalla presentazione della convenzione «No more», promossa da numerose ed importanti associazioni, alle iniziative di «Se non ora quando», fino alla presentazione della proposta di legge del Pd al senato ci siamo tutte dichiarate d’accordo sul fatto che la violenza non è un fatto privato e non è neppure un’emergenza, ma un dato strutturale in una società che pone donne ed uomini in una relazione di disparità e di dominio.
Per combatterla servono politiche concrete in un’ottica multidisciplinare ed integrata: serve uno sforzo coordinato tra enti locali e livelli nazionale e sovranazionale. Serve una rete forte e sinergica tra i diversi attori del contrasto: centri antiviolenza, magistratura, forze dell’ordine, presidi sociali e sanitari e serve la loro formazione aggiornata e costante. Servono risorse per le politiche di accoglienza delle vittime (in Italia ci sono 500 posti letto e ne servirebbero 5000) e per le politiche di prevenzione. Serve una cultura nuova e diversa di educazione alla parità e al rispetto, una battaglia della quale dovrebbero essere protagonisti la scuola, gli insegnanti, i ragazzi ed i mass-media, tutti. Di fronte ad un fenomeno tanto complesso, le politiche giudiziarie e di sicurezza possono essere una risposta solo molto parziale.
Serve una reazione civile, una nuova consapevolezza dell’autonomia e della libertà femminile, dalle quali nascono nuove relazioni tra uomini e donne che poggiano sulla reciprocità, sul rispetto e non sul dominio. Un riconoscimento reciproco tra uomini e donne fondato sul senso dei propri limiti.
Domani sceglieremo il futuro candidato alla presidenza del consiglio, ma saremo uniti, uomini e donne, per ribadire il nostro impegno costante contro la violenza.
l’Unità 24.11.12
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“Accendere la luce sulla violenza. Domani le donne si mobilitano”, di Cristiana Cella
Per troppi anni le donne italiane vittime di violenze, intimidazioni e umiliazioni, sono state private della loro libertà e dei loro diritti, nascoste sotto un burka fatto di paura, ignoranza, omertà, vergogna, silenzio. E il silenzio è anch’esso violenza. Per anni, violenze psicologiche e fisiche, fino agli omicidi, sono state rinchiuse nell’ambito ambiguo del privato, nella colpevole tolleranza di una cultura distorta e diffusa, nella palude del sommerso. Non esistono neppure dati certi. Nell’unica ricerca del 2007, dell’Istat, si parla di 6 milioni di donne vittime di stupro, minacce e molestie. Quasi sempre ignorate. Si è giustificata la violenza con la gelosia, la passione, il dolore di essere abbandonati. Le parole sono importanti, hanno conseguenze e l’amore non ha nulla a che fare con la violenza. Le cose, adesso, cominciano finalmente a cambiare, grazie alla tenacia di donne coraggiose, che hanno continuato a denunciare, proteggere e combattere, nelle loro vicende personali, nelle associazioni, nei media e nei Centri Antiviolenza. La parola femminicidio è entrata con forza nel vocabolario, come «specifico reato e crimine contro l’umanità», come scrive Barbara Spinelli.
Nel 2012 l’Italia è scesa dal 74° all’80° posto – dopo il Ghana e il Bangladesh – nella classifica del Gender Gap Report sulla condizione della donna nel mondo, stilata dal World Economic Forum. Nel 2011 e nel 2012 le nazioni Unite e il Comitato Cedaw hanno redarguito il nostro Paese, preoccupati non solo per la diffusione della violenza contro donne e bambine e per l’elevato numero di femminicidi ma anche per « il persistere di tendenze socio-culturali che minimizzano o giustificano la violenza domestica».
Nel testo della Convenzione «No more» (www.nomoreviolenza.it), promossa da diverse associazioni di donne si chiede al Governo di verificare l’efficacia del Piano Nazionale contro la violenza varato nel 2011, perché la protezione della vita e della libertà delle donne diventi subito priorità dell’agenda politica. La prima risposta è stata quella del Presidente Napolitano che ha mandato ieri una lettera di ringraziamento al Cooordinamento delle Associazioni promotrici. Cinquanta parlamentari hanno, intanto, aderito all’interpellanza lanciata da Rosa Callipari del Pd.
La data di domani non sarà più solo una ricorrenza formale e scomoda. Ma una giornata di mobilitazione nazionale per divulgare, riflettere e trovare soluzioni concrete. Urgenti, perché il fenomeno non fa che aumentare. In media ci sono più di 100 femminicidi all’anno, quest’anno, siamo già a 115, una donna su tre subisce violenza fisica o sessuale nel corso della sua vita. Secondo le anticipazioni dei dati 2012 di Telefono Rosa questo tipo di abusi, all’interno dei rapporti amorosi, ha raggiunto l’85% di tutte le violenze, il 3% in più del 2011. Per il 25 novembre, Telefono Rosa ha organizzato al Centrale Teatro Preneste, a Roma, alle ore 10, uno spettacolo (15 22, scritto da Pina Debbi, regia Tiziana Sensi; titolo che prende spunto dal numero nazionale antiviolenza che dal 19 dicembre sarà gestito da Telefono Rosa) per far conoscere e riflettere sul fenomeno. Moltissime le iniziative di associazioni di donne per accendere i riflettori sulla ‘normalità’ di questa inaccettabile tragedia che si consuma ogni giorno.
Far luce e trovare soluzioni sono le parole d’ordine della giornata di domani. Simbolicamente, dalle ore 17 in poi, si illuminerà anche il Colosseo. Far luce anche su quelle forme di violenza meno conosciute, come stalking, intimidazioni e minacce, di cui sono vittime le donne per il loro lavoro.
Il 27 si terrà a Montecitorio, un convegno sulle gravi minacce di cui sono state vittime nel 2012 molte giornaliste. Nasce in questi giorni anche una nuova associazione, «Hands off WomenHow», con l’obiettivo di creare una rete internazionale di associazioni e persone per contrastare la violenza sulle donne. In questi giorni si rinnova anche il sito zeroviolenzadonne.it.
Cambiare è possibile ma richiede il coinvolgimento di tutta la società, soprattutto degli uomini.
L’Unità 24.11.12

Troppi iscritti, slitta il «concorsone», di Luciana Cimino

Se ad una cena sono previste dieci persone e se ne presentano venti c’è il rischio che la cena debba saltare. Se ad un concorso pubblico invece di 160mila richieste ne arrivano 320mila, anche il concorso avrà seri problemi di realizzazione. Quello o nazionale della scuola infatti non ha superato il primo test, il più semplice e il più banale: l’indicazione dei luoghi e delle date di svolgimento della prima prova preselettiva. Migliaia di richieste sono arrivate al Ministero dell’Istruzione, molte più di quante ne avevano previste i tecnici ministeriali ed il Miur ha dovuto per ora posticipare alla prossima settimana, sulla Gazzetta Ufficiale del 27 novembre, la pubblicazione delle sedi di svolgimento della prima batteria di quesiti. Molte infatti sono state le difficoltà logistiche che hanno impegnato la macchina organizzativa sin dalla prima prova. Innanzitutto, oltre alla banale ricerca di centinaia di uffici pubblici dove ospitare migliaia di partecipanti, è necessario trovare i computer dove i concorrenti dovranno rispondere a 18 domande per testare le capacità logiche, 18 di comprensione del testo, 7 di competenze informatiche e 7 di competenze linguistiche in merito ad una lingua straniera comunitaria scelta dal candidato. Tutta la procedura è infatti informatizzata ed il Miur sarà costretto a noleggiare i computer per il test, a meno che non riesca a liberarne migliaia normalmente utilizzati per le attività d’ufficio. Dal ministero assicurano che tutto andrà per il meglio e che la prossima settimana tutti i concorrenti sapranno dove e quando affronteranno la fatidica prova, ma le preoccupazioni dei candidati per la buona riuscita del concorso sono più che legittime. D’altronde mancano poco più di due settimane alla data inizialmente prevista (il 17 o il 18 dicembre) e non si capisce se sarà rispettata. Al momento l’unica cosa che è partita efficacemente è il mercato editoriale di manuali di preparazione che affollano le librerie delle maggiori città italiane e la pubblicità dei corsi propedeutici che vendono l’illusione del facile superamento del concorso. Ma non sono solo le cattedre scolastiche a rappresentare un incubo per i tecnici ministeriali. Il 20 novembre sono scaduti i termini per la presentazione delle domande per l’abilitazione alla docenza universitaria. Anche questa selezione ha raccolto un numero enorme di domande. Alla fine sono circa 90.000 le richieste, anche se il numero è ancora provvisorio e deve essere depurato di eventuali domande ritirate. Qui a preoccupare è soprattutto il tempo a disposizione poiché tutta la procedura deve essere terminata entro il 20 febbraio 2013. Le commissioni giudicatrici sono 184 e dovranno ognuna esaminare circa 350 persone. Le commissioni dovranno esaminare nel merito le pubblicazioni dei futuri professori per concedere l’abilitazione e questo procedimento obbligherà ogni commissario a leggere ogni giorno circa 5 monografie e 42 articoli scientifici. Un’impresa veramente improba che non si capisce come verrà portata a compimento. I numeri delle richieste fanno comunque impressione. Sono quasi 400.000 persone che, tra mondo della scuola e mondo dell’università, premono sulla porta dell’accesso al ruolo docente. Un pezzo di società italiana, spesso giovane e qualificata, che tenta con ogni mezzo di partecipare allo sviluppo, culturale prima che economico, del paese. E a cui la burocrazia statale risponde con inefficienze e ritardi.
L’Unità 24.11.12

“Primarie, boom di iscrizioni. Bersani: bene il ballottaggio”, di Mario Lavia

Code agli uffici in tutta Italia. Il leader in testa nei sondaggi. L’ultima rovente polemica è sul Tg1: i renziani ottengono un’intervista appaiata a quella del segretario. Dato da tutti i sondaggi in testa, ieri Pier Luigi Bersani ha mostrato grande understatement: i sondaggi spesso sbagliano e in parole povere se la faccenda delle primarie non si chiude domani sera non è un problema, anzi. «Io penso che sia più facile andare al secondo turno, così ci faremo un’altra settimana di questa magnifica cosa. È più probabile un secondo turno: abbiamo 5 candidati ed è per questo che abbiamo scelto questa formula. Il clima è molto buono, la partecipazione anche, sono molto contento», ha detto il leader del Pd che ovviamente in cuor suo preferirebbe essere incoronato vincitore già domani sera.
Se si tratta di puro fair play o del classico mettere le mani avanti lo capiremo fra poche ore. Il fatto è che sono in molti a sostenere che ormai la partita non sta nel chi arriva primo ma se si andrà al ballottaggio. Quando la partita, inevitabilmente, almeno in parte si riapre.
Al di là della propaganda, sembra proprio questo l’obiettivo di Matteo Renzi: trascinare il segretario del Pd al secondo turno, domenica 2 dicembre. Confidando in un clamoroso rush e come minimo tenere la scena da coprotagonista ancora per 7 giorni. Tuttavia la partita appare abbastanza segnata. Swg e Ipsos danno entrambe Bersani in testa, vicino alla fatidica soglia del 50 per cento, e in ogni caso piazzato una decina di punti sopra il sindaco di Firenze. A seguire Vendola (intorno al 20 per cento), Laura Puppato (che potrebbe ottenere un consenso relativamente significativo), con Bruno Tabacci a chiudere.
Come ogni finale di partita, la campagna è diventata più ruvida. Ci si è messo il Tg1 a dividere i duellanti: la notizia di una intervista a Bersani nell’edizione di ieri sera ha suscitato l’ira degli uomini di Renzi, che sono riusciti ad “imporre” una par condicio piuttosto singolare mediante un’altra intervista al rottamatore (e a quel punto si sono dovuti accontentare anche gli altri tre).
Il sindaco, nel frattempo, è tornato ad attaccare Rosy Bindi («Se vinco non le daremo la deroga»), ormai bersaglio del “vecchio” gruppo dirigente. Punture che non turbano Bersani più di tanto. Consapevole di essere saldamente in vantaggio e fiero della sua campagna elettorale («mi dò un 7 più»), il segretario del Pd non ha veramente motivo di cambiare di una virgola lo stile di una campagna che gli sta dando ragione.
E il clima nel cosiddetto popolo del centrosinistra sta salendo. A ieri – anche se non c’erano cifre ufficiali – i cittadini preregistrati erano circa un milione e 200mila: impossibile fare “proiezioni” ma tutto lascia supporre che asticella di 3 milioni (le ultime primarie, quelle fra Bersani e Franceschini, che pure erano solo del Pd) verrà superata. Dal “centro” si sono diramate precise indicazioni a tutti i presidenti del 9000 seggi per agevolare al massimo le operazioni di voto, tenendo conto che ai gazebo ci saranno due file, una per registrarsi e l’altra per votare.
Si cerca di far sì, insomma, che si tratti davvero di una “festa”. Anche se è ovvio che i problemi politici, qualunque sia l’esito, sono dietro l’angolo.
da Europa Quotidiano 24.11.12

Pier Luigi Bersani «Moralità e lavoro: ecco la mia sfida», intervista di Claudio Sardo

Quando ha deciso di fare le primarie, e di aprire la sfida a concorrenti esterni e interni al Pd, molti hanno pensato che si trattava di una mossa spericolata. Si metteva in gioco non solo una leadership, ma il profilo del solo partito rimasto sul campo, l’idea delle alleanze, la visione di sistema. Troppi rischi mentre siamo ancora tra le macerie della seconda Repubblica, non c’è alcuna intesa sulla riforma elettorale, la crisi sociale morde e la soluzione tecnocratica è alimentata dalla sfiducia verso la politica. «Invece – sottolinea soddisfatto Pier Luigi Bersani – abbiamo costruito un grande evento democratico che segnerà questa stagione più di quanto oggi non si percepisca. Darà dignità e forza all`Italia in Europa. Sarà un segno di riscossa del Paese».
Per Pier Luigi Bersani, 61 anni, segretario del Pd dal 2009, le primarie sono legate all’idea di un governo nuovo. Ha accettato il rischio perché non le ha mai pensate come una questione di partito. Il tema è l’Italia. Semmai, come un partito moderno ed europeo possa costruire un’«infrastruttura» civile che torni a legare la domanda di cambiamento con quella di partecipazione, con la voglia di contare. In un tempo in cui la politica pare condannata soltanto ad eseguire (e ad essere bersaglio di insulti). «Più di un milione di persone – dice – si è già registrato. Centomila volontari saranno domenica al lavoro. Siamo stati capaci di mettere su una macchina organizzativa che stupisce anche all’estero. E abbiamo posto questa macchina al servizio di un`impresa democratica, finalizzata ad un esplicito cambiamento delle politiche economiche e sociali. Se è vero che il passaggio da Berlusconi a Monti ha restituito all’Italia una credibilità perduta, le primarie del centrosinistra ci faranno fare un altro balzo in avanti. Anche perché contengono, sul piano culturale, la smentita di uno dei paradigmi della Seconda Repubblica».
Di cosa sta parlando?
«Per vent’anni l’ideologia di Berlusconi si è fondata sulla contrapposizione tra partito e società civile. Questa contrapposizione è stata funzionale al leaderismo, al populismo, al discredito dei corpi intermedi come vettori di partecipazione e di democrazia. In questi giorni stiamo dimostrando che il partito è società civile, è una sua espressione viva. Il collateralismo è finito da tempo. Ma i partiti democratici – e mi auguro che la nostra esperienza contagi gli altri – possono diventare l’infrastruttura di una nuova rappresentanza politica. Nella competizione delle primarie non si sono schierati soltanto cittadini singoli, ma anche cittadini associati, movimenti, gruppi di interesse. Non ci sarà più un partito-mamma. Ma un partito democratico, trasparente può aiutare il nuovo civismo e offrirgli il canale per partecipare alla decisione e alla responsabilità. Peraltro il 25 novembre è anche la giornata contro la violenza sulle donne: un altro significato condiviso per la nostra azione collettiva».
In questi vent’anni, accanto al dualismo partiti-società civile, ha tenuto banco anche quello tra sinistra riformista e sinistra radicale. Non teme che questo dualismo possa minare le basi di un governo futuro a guida Pd, come avvenne già al tempo dell’Unione?
«La mia idea di sinistra è il Pd. E il Pd è anche la mia idea di centrosinistra. Siamo davanti a un tempo straordinariamente nuovo. Il tempo lima le parole. E guai se restassimo prigionieri delle contrapposizioni di ieri. Dobbiamo avere chiari i nostri valori, anzitutto l’uguaglianza delle persone. Ma dobbiamo esprimere una grande capacità di governo, se vogliamo al tempo stesso affrontare le sfide reali e cambiare le cose. Non ho mai creduto a una sinistra autosufficiente. Dobbiamo cogliere nelle altre culture, democratiche e liberali, gli arricchimenti necessari per affrontare questo cambio d’epoca. Saremo riformisti. Ma non si è riformisti senza essere radicali in alcuni passaggi cruciali».
Tra i cinque candidati lei è il solo non cattolico. Eppure, quando ha proposto papa Giovanni per il pantheon dei democratici, le sono piovute addosso critiche laiche. Si è pentito?
«No. Qualcuno non ha capito che, citando papa Giovanni, parlavo anche di sinistra riformista e sinistra radicale. Ho detto che quell’uomo ha realizzato cambiamenti rivoluzionari, mentre riusciva a rassicurare. Non sono credente, ma penso di aver dimostrato la mia sensibilità: considero la cultura cattolica parte della cultura democratica e progressista, avendo contribuito anche alla definizione di uno statuto di laicità della politica e dell’ordinamento».
L`accordo sulla produttività non ha la firma della Cgil. Un guaio per il centrosinistra che si candida a governare.
«Penso all`Italia, non al centrosinistra. Dobbiamo migliorare la nostra produttività. Abbiamo deciso di usare la leva fiscale per l`innovazione e di favorire la contrattazione aziendale. Ma mi auguro che non si limiti a questo l`impegno governativo. Spero che si compia una verifica puntuale dei risultati, anche per apportare eventuali correttivi. Ma soprattutto mi pare urgente definire regole chiare sulla rappresentanza dei lavoratori. Tutto l’impianto rischia di cadere se non è chiaro chi parla a livello aziendale a nome dei dipendenti. Il governo si faccia parte attiva: se lo farà, penso che il filo del dialogo con la Cgil possa essere ripreso».
Lei è il solo che in questa campagna elettorale si è misurato con il tema delle alleanze politiche. I suoi competitori hanno deciso di sottrarsi, o di rifiutarle.
«Abbiamo firmato tutti la Carta d`Intenti dove è scritto che noi progressisti siamo pronti a lavorare in Parlamento con le forze democratiche e liberali che hanno rotto con i populisti e che sono consapevoli della necessaria ricostruzione. È la nostra posizione comune. Ma ora vogliamo vedere cosa viene fuori da questo dibattito al Centro. Vogliamo sapere in cosa consiste la Terza Repubblica e se si intende lavorare con il Pd. Spero che offrano agli elettori una proposta innovativa e unitaria: ma non mi intrometto. Dico una cosa senza la minima arroganza: il Pd è troppo grande perché qualcuno immagini di usarlo come salmeria. E un`altra cosa ancora: chi vuole mettersi in gioco, lo faccia senza tirare la giacca a Monti. Non si può guidare un processo così difficile, restando ai box».
Il Pd è nato come ponte verso un nuovo sistema politico. Ma, se resta il solo partito, rischia di essere schiacciato. Nonostante queste belle primarie. La riforma elettorale è un passaggio importante. Tuttavia siamo lontani dall’intesa.
«La ricostruzione del Paese passa da un nuovo sviluppo, dalla creazione di nuovi posti di lavoro, da nuove regole di moralità pubblica, ma passa anche da un nuovo sistema politico. È vero, il rischio di una involuzione è sempre presente. La tentazione dell’eccezionalismo italiano non è finita con Berlusconi. Il populismo e la demagogia sono sempre dietro l’angolo. Noi siamo consapevoli del ruolo costituente che dovrà avere il prossimo Parlamento. E nella prossima legislatura torneremo a proporre il doppio turno di collegio. Ma ora, prima del voto, ci vuole una legge che superi il Porcellum e che consenta quel tanto di governabilità necessaria a evitare la deriva dell’Italia. Se questo non ci sarà, ci opporremo con decisione».
Abbiamo parlato di alleanze nazionali. Ma per i cambiamenti necessari sono forse più importanti le alleanze europee. Lei ha firmato il manifesto di Parigi insieme a Hollande e al leader dei socialdemocratici tedeschi. Confida nel loro sostegno o le sinistre saranno risucchiate, come altre volte, dagli interessi nazionali?
«Le alleanze europee sono decisive per noi. Il cambiamento richiede una dimensione europea. E, dopo il fallimento delle destre, solo la sinistra può mettersi alla testa di un nuovo processo di integrazione. Il programma dei progressisti europei oggi coincide con l’interesse nazionale dell’Italia. Dobbiamo cogliere l’occasione delle elezioni del 2014 per avviare una fase costituente anche nell’Unione. Come dimostra la conclusione negativa del vertice di Bruxelles, non possiamo più andare avanti alla velocità degli euroscettici. La zona Euro deve fare di più, accelerando l`integrazione politica».
Non teme, di fronte alla gravità della crisi sociale, che i margini di bilancio siano troppo stretti per un governo di centrosinistra dopo Monti?
«I margini sono stretti. E non vorrei che si dimenticasse come Berlusconi e Tremonti abbiano stretto un vero cappio attorno al collo dell’Italia. Siccome non avevamo più la minima credibilità internazionale, hanno accettato condizioni che a nessun altro governo sarebbero state imposte. Ora dovremo partire da standard di bilancio quasi impossibili, con avanzi primari stellari. Tuttavia siamo in Europa e con l`Europa intendiamo riaprire una stagione di crescita: sono convinto che la svolta sia possibile. Bisogna usare la leva fiscale per favorire il lavoro e l’innovazione. Bisogna indirizzare il risparmio privato verso gli investimenti. Bisogna dare una mano agli imprenditori che vogliono potenziare le aziende. Bisogna usare il bilancio pubblico per la banda larga. Bisogna derogare selettivamente al Patto di stabilità interno per consentire ai Comuni sani di fare le opere programmate. E bisogna costruire in parallelo un piano per la moralità pubblica».
Pone questo tema all`interno di un discorso sulle priorità economiche?
«Certo. Moralità e lavoro: si deve partire da qui. La fiducia dei cittadini, quella che oggi si è persa, è un fattore primario della coesione, e dunque dell’economia. La lotta alla corruzione e all`evasione fiscale, la legalità, la sobrietà nei costi della politica, lo snellimento della Pubblica amministrazione, la legge sulla trasparenza dei partiti, la legge sul conflitto di interessi a tutti i livelli, le riforme istituzionali non sono solo i capitoli di un riscatto della moralità pubblica. Terrei insieme a questi anche i diritti: cittadinanza a chi nasce in Italia, unioni civili, legge sulla rappresentanza del lavoro. Così può rinascere la fiducia nella comunità e nello Stato».
Creare lavoro. Dare lavoro. Eppure i più sono convinti che il lavoro sia una variabile dipendente degli indici di sviluppo, o della produttività, o delle dinamiche del mercato.
«Su questo ci giochiamo tutto. Compresa la nostra coesione come società. Da dieci anni il lavoro declina. I livelli di occupazione delle donne e dei giovani sono inaccettabili. Questa è la priorità delle priorità, su cui far convergere gli sforzi del Paese. Mi fa sorridere quando usano la parola “laburista” per criticarmi. Secondo me, l’Italia è diventata troppo poco laburista e per questo rischia profonde fratture. Ovviamente nella stessa dimensione del lavoro vanno inclusi oggi sia i lavoratori dipendenti che quelli autonomi, i professionisti, gli artigiani, i piccoli imprenditori e tanti altri che rischiano l`osso del collo per tenere aperta la loro azienda in tempo di crisi. Il lavoro è anche la dimensione cercata da tanti giovani precari e dalle donne che pagano il costo più salato della riduzione dei servizi sociali».
Oggi torneranno in piazza gli studenti e gli insegnanti. Cosa ha da dire loro?
«Che la scuola e la cultura sono le basi della ricchezza nazionale. Che la legge Aprea è stata in parte già smontata dall`iniziativa del Pd. E che, nel passaggio in Senato, diremo ancora la nostra chiamando in Parlamento gli studenti, gli insegnanti, i genitori. Se va cambiata la struttura della rappresentanza, ciò non può avvenire senza rendere protagonisti gli attori della scuola».
I giovani, il rinnovamento, il nuovo. L’abbiamo lasciato in fondo, anche se è stato il motivo prevalente della battaglia mediatica nelle primarie. Ha un giudizio conclusivo?
«Il rinnovamento del Pd è in corso. La ruota gira e girerà ancora. Abbiamo bisogno dei giovani e i giovani hanno bisogno della buona politica. Chi ha esperienza non va buttato via, ma deve aiutare le nuove generazioni».
L’Unità 24.11.12

“Università, 68mila domande”, di Gianni Trovati

«Datemi una cattedra, e solleverò il mondo». Qui da noi il fascino della docenza continua a essere irresistibile, almeno a giudicare dai numeri che l’aspirazione all’insegnamento continua a produrre. Appena terminati i conteggi sui 321mila aspiranti insegnanti al concorsone della scuola, ecco spuntare 68mila domande per l’abilitazione nazionale, il «patentino» creato dalla riforma Gelmini per provare a superare le «concorsopoli» locali e fare in modo che le scelte dei singoli atenei siano costrette a pescare in un bacino di aspiranti professori certificato da un esame uguale per tutti.
Oltre al fascino dell’insegnamento, in realtà, a ingigantire le file degli aspiranti c’è anche il congelamento di un panorama che, anche nell’università, non vede tornate concorsuali di rilievo da almeno cinque anni (nella scuola gli anni di attesa sono addirittura 13). I meccanismi accademici e il fatto che l’abilitazione nazionale sia al debutto, due anni dopo la riforma che l’ha istituita, spiegano il resto: il numero delle persone intenzionate a entrare in gara è un po’ più basso e si attesta a circa 46mila persone, perché un singolo candidato può presentare più di una domanda per esempio per settori disciplinari affini. Molti dei candidati, poi, sono già inseriti nei ruoli accademici, e sono ad esempio ricercatori che puntano a un titolo da associato o associati che provano ad arrivare al gradino più alto della carriera, quello di ordinario. Secondo le stime dell’agenzia nazionale di Valutazione dell’università, che ha costruito la macchina per far partire l’abilitazione, ci sono però anche 15mila persone che non sono incasellate nella gerarchia accademica, e che oggi bussano alle porte: tra loro ci sono molti assegnisti o dottori di ricerca, ma non mancano i dipendenti di enti di ricerca esterni all’università e anche qualche «cervello in fuga» che prova ad aprirsi una strada per il rientro. Un fatto è certo, e lo testimonia direttamente il presidente dell’Agenzia, Sergio Fantoni: «I numeri – spiega – sono decisamente superiori alle attese», e da questo dato Fantoni fa discendere che «a questo punto mettere in discussione il sistema significherebbe andare contro a un’aspettativa amplissima. Anzi: arrivare al traguardo in tempo sarebbe già in sé un elemento importante della “rivoluzione” di cui abbiamo bisogno».
Già, perché le polemiche sono state le compagne abituali dell’abilitazione nazionale in tutte le tappe della sua nascita, e l’esito è ancora tutto da scrivere. A infiammare il mondo accademico e i suoi dintorni sono state prima di tutto le «mediane», cioè i livelli minimi della «produzione scientifica» da presentare sia per essere commissari sia per ambire all’abilitazione.
I grandi numeri in gioco confermano che le mediane non sono state troppo feroci nella preselezione (essendo applicate singolarmente a ogni area disciplinare, il loro livello dipende ovviamente dalla «quantità diffusa» di pubblicazioni in quel settore), ma tutte le modalità, e la scelta delle riviste da considerare «scientifiche» e quindi degne di ospitare lavori valutabili, sono state tempestate da critiche. I problemi maggiori si sono concentrati a giurisprudenza, dove addirittura in un primo momento si era pensato di non utilizzare il parametro delle riviste scientifiche. In realtà, l’elenco è stato poi stilato e giusto ieri sono state pubblicate anche queste mediane, ma su tutto pende il ricorso presentato dall’associazione dei costituzionalisti guidata dal presidente emerito della Consulta Valerio Onida. Il Tar Lazio ha messo in calendario la decisione per il 23 gennaio, e un’eventuale bocciatura infliggerebbe un colpo durissimo all’abilitazione nazionale proprio a un passo dal traguardo. Un’ipotesi, questa, che agita molti, anche al ministero, ma dall’Agenzia fanno mostra di ottimismo sostenendo che, non essendo spuntate sospensive finora, la strada potrebbe rivelarsi in discesa.
I NUMERI
68.000
Le domande
46.000
Le persone
15.000
Gli “esterni”
558
I «punti organico»
È il numero di domande presentate per concorrere all’abilitazione nazionale indispensabile per accedere ai ruoli di professori di prima e di seconda fascia.
È il numero di persone che hanno presentato la domanda di partecipazione all’abilitazione nazionale. È possibile infatti per gli interessati presentare più di una domanda, per esempio per quel che riguarda aree disciplinari fra di loro affini.
È la stima del numero di persone che hanno presentato domanda di partecipazione all’abilitazione nazionale senza essere già ricercatori di ruolo o associati che aspirano all’ordinariato. Possono essere, per esempio, assegnisti e dipendenti di enti di ricerca
Sono i punti organico disponibili nel 2012. I punti organico sono l’unità di misura del personale accademico (un ordinario vale 1, un associato 0,7, un ricercatore 0,5 e così via). Il numero mostra dunque che in quattro anni (la durata di validità dell’abilitazione) si possono assegnare tra i 2mila e i 4mila posti.
Il calendario
20 NOVEMBRE
È scaduto martedì scorso il termine entro cui i candidati dovevano presentare le domande di partecipazione alla prima tornata dell’abilitazione nazionale
10-15 DICEMBRE
Ultimazione delle procedure di estrazione dei componenti delle 190 commissioni d’esame. Sono già stati estratti in queste settimane i membri di circa 70 commissioni
10-15 GENNAIO
Una volta ultimate le commissioni, i candidati hanno tempo un mese per le eventuali ricusazioni delle commissioni formate dal ministero con l’estrazione a sorte dei membri
20-25 GENNAIO
Pubblicazione dei criteri di giudizio che saranno utilizzati dalle commissioni per la valutazione dei titoli e delle pubblicazioni presentate dai candidati all’abilitazione nazionale
27 GENNAIO
È la data ufficiale entro cui vanno attribuite le abilitazioni nazionali. La data necessita di una proroga perché non si saranno esauriti tutti i termini di legge per le diverse procedure
5-10 FEBBRAIO
Scade il termine (15 giorni dalla definizione dei criteri di giudizio) per l’eventuale ritiro delle candidature e si avvia l’esame di titoli e pubblicazioni presentate dai candidati
APRILE-MAGGIO
Entro due-tre mesi dall’avvio dell’esame dei titoli e delle pubblicazioni si dovrebbe completare l’attribuzione delle abilitazioni nazionali previste in questa prima tornata
Il Sole 24 Ore 24.11.12