Un pensionato su due, in Italia, prende meno di mille euro al mese. È quanto emerge dai dati pubblicati dall’Inps nel suo bilancio sociale, dove si riporta che si tratta di 7,2 milioni di persone. Così le fasce: il 17% dei pensionati può contare su un reddito sotto 500 euro, il 35% tra 500 e 1000 euro. Il 24% ha assegni tra 1000 e 1500 euro, il 2,9% oltre i 3000.
MEDIE
L’Inps segnala anche che il reddito pensionistico medio lordo mensile erogato nel 2011 dallo stesso istituto e dagli enti previdenziali è stato pari a 1.131 euro (1.366 euro per gli uomini, 930 per le donne). Per quanto riguarda l’età, oltre il 75% dei titolari ha 65 anni e oltre (gli ultra 80enni sono il 25%) e il 22% circa si colloca in una fascia compresa tra i 40 e i 64 anni. Inoltre, quasi la metà dei percettori (6.915.733) si concentra nelle regioni settentrionali, mentre nel Meridione e al Centro risiedono, rispettivamente, il 31% (4.292.312) ed il 19% (2.733.757) del totale con redditi medi che oscillano dai 920 euro mensili al Sud ai 1.238 euro al Nord.
Oltre la metà dei pensionati (52%) riceve una pensione di vecchiaia o di anzianità senza godere di altri trattamenti pensionistici. Se invece del reddito complessivo si guarda alla singola pensione (ma oltre un quarto dei pensionati ne ha più di una) l’importo medio è di 780 euro con grandi differenze tra quelle previdenziali (870 euro) e quelle assistenziali (406 euro).
L’Inps fotografa un Paese in crisi nel quale la recessione ha comportato un calo del reddito reale disponibile dal 2007 al 2011 del 5,2%, il crollo dell’occupazione giovanile ma anche la crescita delle italiane che fanno le colf. Dopo anni nei quali i lavori domestici erano stati sempre più appannaggio degli immigrati. In tre anni, dal 2008 al 2011, le domestiche di nazionalità italiana sono aumentate del 20%.
CAMBIAMENTI
Nel bilancio sociale dell’Inps emerge anche come le nuove pensioni concesse nel corso del 2011 sono state complessivamente 964.487 e presentano un decremento medio del 14,5% rispetto al 2010 (1.127.501). Guardando nel dettaglio, il 56% delle nuove liquidazioni è costituito da prestazioni di natura previdenziale (540.334) e il restante 44% da trattamenti assistenziali (424.153). L’importo medio mensile lordo ammonta complessivamente a 698 euro e l’età media dei beneficiari è di 66,4 anni. L’inps rileva anche che le pensioni previdenziali liquidate nel 2011 sono 540.334, in calo del 12,8% rispetto all’anno precedente (-79.308). Sono caratterizzate da un’età media di 64,3 anni e presentano nel complesso un valore medio di circa 923 euro mensili.
La pubblicazione del bilancio sociale dell’Inps ha scatenato diverse reazioni. Il Codacons chiede che «venga bloccata la rivalutazione di chi prende più di 55.000 euro di pensione all’anno. Aver bloccato le rivalutazioni delle pensioni sopra 1405 euro lorde, come se si trattasse di milionari, è a dir poco vergognoso, specie se poi si infiammano i prezzi con aumenti delle accise e dell’Iva».
Carla Cantone, segretario generale dello Spi-Cgil, spiega che «bisogna fare presto perché ormai la situazione è diventata una vera e propria emergenza. I pensionati finora hanno solo dato, è arrivato il momento che sia restituito loro qualcosa. Ed è per questo che a chi si candida a governare il paese chiediamo di dire ora che intendono intervenire per redistribuire la ricchezza e per tutelare anche i redditi da pensione».
Cesare Damiano, capogruppo Pd in commissione Lavoro della Camera, si dice convinto che «i dati Inps confermano l’addensamento verso il basso della platea dei pensionati. Si tratta di cifre che evidenziano il grado assai elevato di ingiustizia sociale presente nel Paese. Oggi, a causa dell’ultima riforma previdenziale, non solo è difficile andare in pensione, ma anche quando si taglia l’agognato traguardo l’assegno percepito risulta mediamente basso. È necessario adeguare il potere di acquisto delle fasce più deboli dei pensionati».
Intanto il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, si dice soddisfatta della «sostenibilità pensionistica degli Enti privati che sono stati valutati in questo periodo».
L’Unità 21.11.12
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“L’austerità funziona male la pagano i giovani e i poveri e i debiti aumentano comunque”, di Tonia Mastrobuoni
L’ austerità sta chiedendo un prezzo troppo alto ai giovani e alle fasce più indifese della popolazione. Soprattutto, è fondata su dati sbagliati, contraddetti da una recessione più pesante del previsto. È ora di cambiare, secondo il direttore generale dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (Ilo), Guy Ryder. Occorre abbandonare l’approccio «ideologico» adottato ad oggi in Europa nei confronti della Grecia e di altri Paesi. Altrimenti l’austerità «non farà che peggiorare la situazione».
L’austerità ha fallito?
«Sappiamo che è indispensabile abbassare i deficit e i debiti e rendere sostenibili i conti pubblici. Ma il primo problema è il ritmo. L’evidenza dimostra che gli effetti dei risanamenti, a causa dei cosiddetti moltiplicatori, sono stati molto più pesanti del previsto, molto peggiori di quanto i politici europei potessero immaginare».
Lo ha riconosciuto il Fmi, che fa parte della trojka. È il motivo per cui Lagarde dice che 2 anni in più non bastano, che bisogna tagliare il debito greco.
«Esatto, il Fmi l’ha capito. Oggi siamo dinanzi alla certezza che le politiche economiche sono eccessive e stanno aggravando la recessione. Soprattutto: il debito sta aumentando ovunque, anzitutto in Grecia. Quindi, dobbiamo riconoscere che finora abbiamo avuto un approccio ideologico e dobbiamo tornare a un modo di pensare più razionale».
Oltre ai debiti, aumenta anche la disoccupazione.
«La vera questione è: c’è stata una distribuzione equa dei sacrifici? Io penso di no. Stando ad indicatori come il crollo dei consumi o la disoccupazione in aumento, il peso è ricaduto soprattutto sui deboli: i pensionati, i giovani. Tra l’altro, vorrei far notare che, contrariamente a quel che si crede, quella giovanile non riguarda soltanto i Paesi del Sud Europa».
Tuttavia le cifre che riguardano la Spagna e la Grecia fanno impressione: oltre il 50% dei giovani è senza lavoro.
«Le nostre stime ci dicono che nel mondo ci sono ormai 200 milioni di disoccupati, il 6% della popolazione attiva. Per i giovani la percentuale è doppia, è il 12%. Quello cui si assiste in Spagna o in Grecia, con tasso al di sopra del 50% è terribile, ma non inusuale».
Cosa bisogna fare?
«Prendere esempio dai paesi virtuosi. Il più ovvio è la Germania, dove la disoccupazione giovanile è solo del 2% più alta di quella media. Lì aiuta il sistema educativo duale, c’è un legame stretto tra il lavoro e l’educazione. Quello che voglio dire è che si possono fare politiche mirate per i giovani. Anzi, è indispensabile. È dimostrato ormai che se un giovane rimane fuori dal lavoro per un anno, le conseguenze sono molto negative per il resto della sua vita. Quando parliamo di una generazione perduta, non è soltanto uno slogan».
La flexicurity alla danese può aiutare?
«È un dibattito vecchio. Per molti versi la flexicurity funziona solo in Danimarca: richiede un livello di tassazione altissimo, insostenibile in altri paesi. Non tutte le buone idee sono esportabili. Nello specifico, non penso che sia applicabile in Italia. D’altro canto, voglio dire con forza che non si può pensare di discutere del lavoro sempre e solo abbassando le tutele. Cerchiamo di imparare dai paesi che hanno statistiche e condizioni di lavoro virtuose come la Germania o i Paesi scandinavi. Servono istituzioni forti per il lavoro, collocamento, formazione, apprendistato. Ma anche un dialogo sociale forte».
L’Ocse e la Banca d’Italia parlano di un mercato del lavoro italiano “duale», spaccato tra ipertutelati e non.
«È molto pericoloso creare un mercato duale come in Italia con un segmento della popolazione ben protetto e una fetta enorme che ha tutele troppo scarse. In Spagna, il motivo per cui il tasso di disoccupazione si è impennato quando è esplosa la crisi, è che il 40% della forza lavoro era precaria. In Germania c’è stato, al contrario, il tentativo di proteggere i lavoratori, ad esempio con la Kurzarbeit, la settimana corta. Ha funzionato. La soluzione della crisi non è aumentare l’insicurezza nel mercato del lavoro. Hollande ha detto che il contratto a tempo indeterminato deve diventare quello prevalente. Certo, bisogna deciderne il grado di flessibilità, ma sono d’accordo con lui».
La Stampa 21.11.12
“La lunga notte di Gaza aspettando la tregua”, di Lorenzo Biondi
Devastazione senza precedenti nella Striscia e nel sud di Israele mentre al Cairo si trattava sulle condizioni del cessate il fuoco. La tregua è vicina, dicevano ieri sera i negoziatori egiziani, ma intanto Israele e Hamas scatenavano tutta la loro potenza di fuoco contro il nemico. I missili degli islamisti hanno ucciso un soldato israeliano nel nord nel Negev, e hanno raggiunto anche Gerusalemme. Israele da parte sua ha lanciato un massiccio attacco missilistico dalle navi che stazionavano al largo della Striscia: il conto delle vittime palestinesi è ormai sopra quota 130. Gli ultimi fuochi prima della tregua?
Nel pomeriggio di ieri fonti egiziane e palestinesi hanno fatto sapere che l’accordo con Israele era stato raggiunto. La smentita israeliana è arrivata a stretto giro di agenzie. Il quotidiano Haaretz ha svelato che nella riunione decisiva del governo di Tel Aviv il voto favorevole del ministro della difesa Ehud Barak si è scontrato con quelli contrari del premier Benjamin Netanyahu e del ministro degli esteri Avigdor Lieberman. I due vorrebbero che nell’accordo venisse codificato il “diritto” di Israele a intervenire nuovamente se il lancio di missili dalla Striscia riprendesse, anche a opera di gruppi diversi da Hamas. Impossibile allora trovare un compromesso entro le nove di sera, come annunciato in precedenza.
«Forse si riuscirà nelle prime ore di mercoledì mattina», ha detto una fonte palestinese alla Bbc, spiegando che «c’è bisogno di più tempo del previsto perché non ci sono negoziati diretti, i colloqui avvengono col tramite dei mediatori egiziani e turchi».
È soprattutto l’Egitto a giocare un ruolo chiave. Ospite dei negoziati, interlocutore privilegiato di Hamas ma in buoni rapporti anche con gli Stati Uniti. Il presidente Mohamed Morsi, della Fratellanza musulmana, ha cercato di portare Hamas verso più miti consigli. Se l’accordo venisse firmato entro stamattina, come previsto, sarebbe la consacrazione dell’Egitto come garante degli equilibri regionali.
Sarebbe anche un successo della linea filo-israeliana ma anti-escalation adottata da Barack Obama. Il presidente Usa non ha mai fatto mancare il suo sostegno al «diritto all’autodifesa» di Israele, spiegando però che l’America non vedrebbe di buon occhio un’invasione di terra della Striscia. Un’idea, questa, che non piace neppure all’opinione pubblica israeliana, contraria al 70 per cento a spedire la fanteria a Gaza. Ma senza un accordo entro la mattina di oggi, l’invasione diventerebbe inevitabile.
da Europa Quotidiano 21.11.12
“Il calvario delle diocesi: danni per 700 milioni”, di Stefano Luppi
Il ministro Ornaghi ha fatto il punto sul patrimonio artistico danneggiato «L’87% degli immobili è stato messo in sicurezza». Lesionati 146 edifici sacri. Degli oltre due miliardi di danni ai beni culturali avvenuti su 2800 edifici di pregio storico colpiti per ora abbiamo le stime precise e ufficiali sui danni alle chiese. Il sisma di primavera ha causato problemi gravi a 515 chiese dei territori delle province emiliane colpite con una certificazione dei danni pari a 329 milioni di euro. Le province più gravi sono la nostra e quella di Ferrara: il Modenese ha visto lesionate 146 edifici sacri per un danno economico di 162 milioni di euro, mentre il Ferrarese conta 88 milioni di euro di danni su 164 chiese. Il mondo dell’arte, dell’architettura, della cultura, fa il punto a sei mesi dal terremoto che a più riprese, tra il 20 maggio e il 3 giugno, ha portato morti e feriti in Emilia: dolore a cui si aggiungono i problemi al patrimonio identitario storico. Questi ultimi, come si sa, hanno riguardato centinaia di chiese, edifici rurali, e palazzi antichi della Bassa che letteralmente si sono sbriciolati con il susseguirsi delle forti scosse primaverili. I danni generali al patrimonio religioso, tra le diocesi di Modena e Carpi, è stato calcolato superiore ai 700 milioni di euro. A tutto ciò ha accennato ieri il ministro della Cultura Lorenzo Ornaghi – presente a Carpi, a palazzo Pio, a presiedere il convegno “A sei mesi dal sisma” – spiegando che: «Sei mesi sono il tempo utile per un bilancio serio e rigoroso, anche se moltissimi nodi restano da sciogliere. Siamo in prima linea e abbiamo messo in sicurezza l’87% degli edifici colpiti e in più abbiamo attivato immediatamente gruppi di lavoro per affrontare i problemi relativi ai campanili. Ma non illudiamoci: il Natale sarà per le chiese ancora incerto. Finora per i beni culturali sono stati erogati 7 milioni di euro di cui 4 milioni grazie alla legge 122 del 2012 e gli altri direttamente dal Ministero, ma abbiamo deciso a suo tempo di affidare tutto al commissario straordinario per la ricostruzione Errani». Il convegno, organizzato dalla Direzione regionale dell’Emilia Romagna e dal Comune, era stato aperto dal sindaco carpigiano Enrico Campedelli: «Per fortuna con il forte terremoto del 1996 facemmo molti interventi al nostro patrimonio storico e ora stiamo ripartendo, ovviamente non solo dal punto di vista dei beni culturali, del resto noi emiliani siamo noti per rimboccarci le maniche. Però il peso sulle nostre spalle è molto grande e abbiamo bisogno che le istituzioni nazionali siano al nostro fianco per ripartire visto che il sisma ha colpito un’area altamente produttiva con un prodotto interno lordo che incide molto a livello nazionale. E c’è un problema che chiedo di risolvere in fretta: Carpi e Mirandola hanno beni demaniali in centro. Il Demanio statale dovrebbe assegnare al Comune la sua parte di Palazzo dei Pio perché non può essere mantenuta ancora chiusa e non restaurata»
La Gazzetta di Modena 21.11.12
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«Adesso si decide che futuro vogliamo», di Stefano Luppi
I sindaci in coro: «Progetti per evitare la desertificazione dei centri. Recupero delle sedi istituzionali». La giornata ieri si è conclusa con una tavola rotonda con i sindaci modenesi, reggiani e ferraresi dei comuni colpiti. Ognuno di essi ha messo in rilievo priorità, problemi ancora aperti e visione del futuro, ovviamente in continuità con l’imminente legge regionale che governerà la ricostruzione. Spiega il sindaco di Mirandola Maino Benatti: «La prima cosa è stata riprendere con le scuole e il lavoro, mentre per il recupero dei beni culturali invece serve una maggiore riflessione e la legge regionale sulla ricostruzione l’abbiamo condivisa tutti. Aspetto fondamentale è ovviamente la messa in sicurezza dei beni pubblici perché chi va al castello dei Pico deve poter essere sicuro mentre vede una mostra. Nella consapevolezza comunque che siamo un territorio sismico. In centro occorre anche puntare sulla innovazione architettonica, mentre la biblioteca dal punto di vista culturale ora è la priorità: la sposteremo in uno dei due palazzi storici che abbiamo in centro». Sul tema la di Francesco non è d’accordo. «Sul terremoto il governo sta però scantonando sinceramente. Con il terremoto del 1996 – spiega il sindaco di Carpi Campedelli – facemmo dei lavori di consolidamento in centro perché avemmo dei danni: i musei civici e biblioteca li riaprimmo tra 2004 e 2008 e la Sagra l’abbiamo restaurata due anni fa. Ora il teatro comunale è la nostra priorità artistica, con i problemi sulla copertura: facciamo giovedì una variazione di bilancio per recuperare i fondi. Riaprire presto anche la chiesa di San Nicolò e i musei civici che per visitatori sono i secondi dopo quello Ferrari di Maranello». Il rischio che i sindaci paventano è una desertificazione dei centri storici, un evento da evitare a tutti i costi. «Le soprintendenze – spiega Sergio Maccagnani di Pieve di Cento – ci sono state vicine visti i beni culturali strategici che hanno subito molte lesioni. Una dozzina i nostri beni inagibili». Infine l’intervento del sindaco di Finale Fernando Ferioli: «Abbiamo 16mila abitanti e 12 chiese inagibili o distrutte: saranno recuperate tutte? In passato le chiese erano usate tutte e sono al centro dell’identità come il castello, ma occorre fare i conti con la mancanza di fondi. Le scuole di origine fasciste sono incredibilmente energivore e nessun bimbo ci andrà più: cosa ne facciamo? Prima di stanziare soldi dobbiamo decidere come impostare il nostro futuro».
La Gazzetta di Modena 21.11.12
“Silvio, il ragioniere e i banditi tutti i misteri di un rapimento”, di Massimo Giannini
Lo strano sequestro del ragionier Giuseppe Spinelli sembra il titolo di un romanzo di Gadda. E invece è solo un altro capitolo della trama infinita e oscura del berlusconismo, dove niente è mai ciò che sembra. Dove tutto appare incerto tra la verità e la manipolazione. Dove lo Stato di diritto è sospeso e vige l’Azione parallela di un ex premier miliardario che paga carissimi i suoi vizi, ricattato e circondato da un manipolo di famigli fedeli e trafficanti di dossier, avvocati senza scrupoli e poliziotti privati, professionisti dell’estorsione e procacciatori di escort. La buia vicenda di «Spinaus» (uno dei suoi servitori più discreti e preziosi che da anni gestisce a libro paga 42 «Olgettine» con un fisso mensile di 2.500 euro ciascuna più extra da 8.900, 10 mila o anche 20 mila euro) riassume l’intera parabola della macchina del potere di Silvio Berlusconi. Una macchina costruita per viaggiare sempre border-line. Tra il lecito e l’illecito. Tra la funzione politica e l’interesse personale.
IN QUESTO anomalo rapimento, gli “esteti” cantori del Cavaliere vedono solo luci, buone soprattutto a depistare l’attenzione: «Strepitoso, sublime, fantastico », si sdilinquisce Giuliano Ferrara, trovando «meraviglioso» che i rapitori abbiano recitato il rosario sul divano insieme ai coniugi rapiti, o che il solerte ragionier Giuseppe abbia riconsegnato il passamontagna ad uno dei suoi aguzzini che, andandosene, lo stava quasi per dimenticare. I legulei azzeccagarbugli del Cavaliere, per contro, non vedono ombre: le «ricostruzioni dei giornali oscillano tra il risibile e l’assurdo», mentre i fatti «sono del tutto chiari e lineari », dice Niccolò Ghedini.
Non è così. Il Dottor Stranamore dell’ex premier, insieme al suo ragioniere, giurano che «nessuna somma è stata pagata, e nessuna trattativa è stata fatta». Questo lo accerteranno i pm. Ma intanto niente è ancora chiaro, in questa storia che parla di un riscatto ma che può far pensare piuttosto ad un ricatto. E se persino i quotidiani di famiglia come Il Giornale e Il Foglio si spingono a parlare di «dettagli incongruenti», di «tasselli mancanti», vuol dire che i conti non tornano. C’è qualche verità nascosta, che i magistrati dovranno provare a far emergere. C’è un elenco di stranezze e di contraddizioni — nell’incrocio tra i fatti, i verbali e le interviste del giorno dopo — che merita di essere ricostruito. Ma che lascia intravedere, sullo sfondo, la collaudata ragnatela del Cavaliere, che oggi come negli ultimi vent’anni abusa del suo potere pubblico per difendere e nascondere il suo universo privato. Imbarca lenoni e mascalzoni sulla sua macchina del fango per passare le serate e schiacciare gli avversari, e finisce per esporsi al ricatto sistematico di veline e manutengoli.
IL VERO BOTTINO OFFERTO DALLA BANDA
Lo snodo cruciale dell’intera trama non è nei dettagli fuorvianti o da romanzaccio d’appendice della notte del sequestro, il 15 di ottobre. Certo, tra una minaccia e un rosario, intorno alle due, i banditi spacciano la loro «merce». Il terzo uomo fa vedere al ragioniere il «foglio A4 un po’ ingiallito», con su scritto « “Lodo Mondadori”, De Benedetti, l’indicazione dei due avvocati», e racconta della cena in cui «Fini avrebbe parlato ai magistrati pregandolo di aiutarlo a mettere in difficoltà Berlusconi, e che per questo gli sarebbe stato grato per tutta la vita».
Più tardi, in una prima telefonata delle 7 e 30 del mattino del 16 ottobre che Spinelli fa al Cavaliere sotto la «pressione» dei suoi sequestratori, ma senza fare alcun cenno al sequestro in atto, il ragioniere afferma: «Gli ho detto che mi era stato fatto vedere un pezzo di un filmato che io garantivo come autentico, dove si dava atto di un incontro tra Fini e i magistrati della causa civile sul Lodo Mondadori ». La banda offre il video, più una pen drive, e come noto chiede in cambio i famosi 35 milioni di euro. E qui, sia nel racconto di Spinelli,
sia nel comunicato di Ghedini, si aprono le prime crepe del racconto. Il ragioniere dice: «Quando l’ho raccontato a Ghedini e a Berlusconi, tutti e due si sono messi a ridere… ». La cena con i magistrati, con annessa richiesta d’aiuto, «non era nello stile di Fini».
Anche Ghedini, che avvisato dal Cavaliere chiama subito Spinelli a casa poco dopo le 8 e 30, a sua volta senza sapere nulla del sequestro in atto, ritiene poco credibile l’offerta. Nel comunicato di ieri, sostiene di aver «valutato il contenuto della presunta documentazione », e di aver ritenuto «del tutto inverosimile il ruolo attribuito al presidente Fini». Dunque, sia Berlusconi che Ghedini, in quel momento ignari del sequestro in casa Spinelli, sembrano convinti che al ragioniere sia stata offerta una bufala. Ma ecco la contraddizione: nonostante questo, scatta un’allerta, che ricorda un’altra notte tempestosa, quella del 27 maggio 2010, quando la macchina da guerra berlusconiana si adoperò per fare uscire Ruby dalla questura di Milano. Berlusconi dice al telefono a Spinelli «che a questo punto non sarebbe partito per Roma e mi avrebbe aspettato ad Arcore con il filmato». E Ghedini (lo scrive nel comunicato) chiede a Spinelli che è «necessario vedersi di persona».
Perché questa urgenza improvvisa, per un video e una pen drive su un fatto che poco prima li aveva «fatti ridere »? Perché il Cavaliere si rintana ad Arcore in attesa e rinuncia al pranzo romano con il premier Monti e al viaggio a
Bucarest per il vertice del Ppe? E perché Ghedini ha tanta fretta di incontrare faccia a faccia il ragioniere, per «carte» che (come dichiara nell’intervista rilasciata ieri a Liana Milella) né lui né il Cavaliere hanno «mai sospettato che potessero essere vere»? È un’incongruenza oggettiva, che nessuno sa spiegare. Ma che lascia pensare a qualcos’altro. Forse che il «bottino» mostrato a Spinelli e offerto da Leone e dai suoi scagnozzi era di tutt’altra natura ed entità, rispetto a un improbabile foglio di carta A4 sul Lodo Mondadori e a un «non credibile» video su Fini? E se sì, di cosa si è trattato? C’è forse qualche legame, tra lo strano rapimento del ragioniere di oggi, la banda dei baresi che l’ha orchestrato e gli ambienti pugliesi nei quali venivano reclutate da Gianpi Tarantini le ragazze per le «serate eleganti» del bunga bunga a Villa Certosa e a Palazzo Grazioli, tra il 2008 e il 2009?
IL BUCO NERO DELLE 31 ORE
Ma il vero rebus di questo giallo del ragioniere è racchiuso nello spazio successivo alla notte del sequestro, che va dalle 9 del mattino del 16 ottobre (quando Spinelli e la moglie vengono «liberati» dalla banda) e le 16,20 del 17 ottobre (quando un fax di Ghedini informa e denuncia alla Procura di Milano l’avvenuto sequestro). In queste 31 ore c’è il vero «buco nero» della storia, che né il ragioniere a verbale, né l’avvocato nel comunicato di ieri riescono a spiegare. Ma quello che succede in questo arco temporale da pieno conto dell’allarme rosso che dev’essere scattato nell’entourage berlusconiano. Siamo alla mattina di martedì 16 ottobre. Dopo le due telefonate delle 8 e 30, con Berlusconi e con Ghedini, intorno alle 9 Spinelli richiama quest’ultimo, e gli da appuntamento ad Arcore. Al telefono non lo dice, ma nel frattempo è stato liberato. I sequestratori, curiosamente, se ne sono andati. Quasi all’improvviso, senza aver ottenuto nulla.
E qui comincia un vortice di comportamenti incomprensibili e di spiegazioni insensate. Spinelli e Ghedini si incontrano ad Arcore «alle 12». Ma il ragioniere, scrive il Dottor Stranamore dell’ex premier nel suo comunicato, «non fece cenno al sequestro avvenuto, limitandosi a dire che le persone con cui aveva parlato erano state molto insistenti». Del sequestro, precisa ancora Ghedini, Spinelli parlerà finalmente a Berlusconi «soltanto nella tarda mattinata di mercoledì 17 ottobre, cioè il giorno dopo». E qui accade l’impensabile, come sintetizza lo stesso ragioniere nel verbale in mano ai pm: «Dopo che ho raccontato i fatti al presidente Berlusconi, lui mi ha detto che dovevo necessariamente per ragioni di sicurezza dormire altrove, cosa che si è verificata… Hanno mandato una macchina che ci facesse da scorta per il trasferimento da casa mia alla località segreta».
Questo è il lato più opaco del prisma berlusconiano. Perché Ghedini ha detto solo ieri che Spinelli non ha raccontato subito del sequestro? È credibile che il cassiere abbia taciuto per 24 ore del rapimento? E infine, se così fosse, come mai Berlusconi gli avrebbe consigliato di passare la notte in un luogo protetto? Può essere solo quello che Ghedini chiama «il timore provocato dai sequestratori», a giustificare questo silenzio? Ma soprattutto: cosa è successo nella «località segreta» in cui è stato trasferito, e che ora l’avvocato del Cavaliere traduce con una generosa «ospitalità in una sua abitazione »? Chi altro c’era o c’è stato in quell’abitazione? Che ne è stato del video e della pen drive?
Chi li ha visionati o decrittati? E che altri «documenti» aveva con sé il ragioniere, dopo lo strambo «rilascio» ad opera dei baresi?
I SOLITI SOSPETTI E LA MACCHINA DEI RICATTI
Le domande inevase sono tante. E tuttora non ci sono risposte plausibili. Ma la semplice ricostruzione dei fatti autorizza i soliti sospetti. A tirare tutti i fili, e a indagare tutti i dubbi, quello che emerge è un «metodo di governo» della cosa pubblica e della vita privata, al quale il Cavaliere ci ha e si è abituato in questi turbinosi diciassette anni. Lo «strano sequestro del ragionier Spinelli» ricorda precedenti altrettanto inquietanti, che hanno sempre visto l’Unto del Signore braccato dalla muta di cani dei quali lui stesso si è sempre circondato, e ogni volta costretto a inseguire e a comprare, a qualunque costo e a qualunque prezzo, le «prove» della sua debolezza eticopolitica di uomo, di imprenditore, di presidente del Consiglio.
Dalla rognosa vicenda Dell’Utri- Mangano alla penosa liaison con Valter Lavitola. Dallo scandalo della telefonata di Fassino sull’affare Unipol-Bnl (comprata e pubblicata sul giornale di famiglia) ai video di Marrazzo (non consegnati alla procura ma usati come arma impropria contro l’allora governatore del Lazio). È stata una costante di questa stagione, oscena e limacciosa. Che ha visto un uomo solo al comando, collettore di tangenti e di ricatti. Carnefice, e alla fine vittima del suo stesso micidiale «dispositivo» di potere.
La Repubblica 21.11.12
“Renzi e l’università: come prima peggio di prima”, Francesco Sylos Labini
La riforma Gelmini si è poggiata su una rappresentazione caricaturale dell’università italiana. La strada è stata spianata da una folta schiera di economisti: Roberto Perotti ci ha avvertito che “al di là della retorica, e con le solite dovute eccezioni che è sempre possibile citare, l’università italiana non ha un ruolo significativo nel panorama della ricerca mondiale”, Michele Boldrin ci ha informato del “mediamente basso livello didattico e scientifico dell’università italiana”, Luigi Zingales ci ha ricordato che “nella classifica internazionale creata dall’università di Shanghai, … nel 2008 la prima italiana (Milano) si trova soltanto al 138esimo posto” ed ancora (ma non infine)Alberto Bisin e Alessandro de Nicola hanno risottolineato che “L’università continua a produrre anche se con alcuni distinguo, poca ricerca (Roberto Perotti docet)”.
L’incipit delle idee di Matteo Renzi sull’università ricalca queste visioni:“L’Italia, che in molti settori dell’industria e del commercio è ai vertici mondiali, non è ugualmente rappresentata ai vertici delle classifiche delle istituzioni universitarie e di ricerca.”
Vero o falso? Nel periodo 1996-2010, l’Italia è ottava al mondo come numero di pubblicazioni scientifiche e settima come numero di citazioni ricevute.Inoltre “il buon livello degli atenei italiani in termini di citazioni è confermato anche dalla comparazione internazionale dei loro “impatti normalizzati” effettuata da SCImago … tutti gli atenei italiani tranne uno mostrano un impatto normalizzato superiore alla media mondiale”. E infatti, come ha messo in evidenza Marino Regini nel suo libro “Malata e denigrata: l’università italiana a confronto con l’Europa”, le classifiche degli atenei mostrano che vi sia un buon livello medio con una buona reputazione scientifica. I punti deboli, guarda caso, sono dovuti alle poche risorse: un basso rapporto docenti/studenti ed una scarsa internazionalizzazione di docenti/studenti. D’altra parte i dati Ocse, ci dicono che nell’alta tecnologia, sono innanzituttole imprese a spendere troppo poco in ricerca e sviluppo e a impiegare un numero insufficiente di ricercatori.
Da una visione disinformata dell’università non possono che discendere ricette sbagliate e viziate da quella stessa ideologia che deforma la realtà. La ricetta di Renzi usa la stessa retorica del merito di gelminiana memoria; una formuletta semplice e buona per tutte le stagioni: competizione, merito ed eccellenza. Bisogna, infatti, “mettere a punto un sistema di valutazione delle università e sostenere quelle che producono le ricerche migliori. Anche in questo campo si devono introdurre meccanismi competitivi. … È un risultato che si può ottenere usando indicatori quantitativi sulla qualità della ricerca prodotta sul modello dell’Anvur e il parere di esperti internazionali autorevoli e fuori dai giochi. L’obiettivo è avere una comunità scientifica meno provinciale, che esporta idee e attrae talenti”.
Chiunque abbia minimamente seguito cosa sta combinando l’agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca (Anvur) non può che sorridere di fronte agli indicatori quantitativi sulla qualità della ricerca che sono disgraziatamente stati introdotti. Proprio qualche giorno fa il più importante settimanale internazionale d’informazione universitaria, il Times Higher Education, ha pubblicato una lunga analisi che sbeffeggia l’Anvur: prendendo spunto dalla vicenda delle “riviste pazze” (le riviste che l’Anvur ha catalogato come scientifiche, anche se non rispettavano i requisiti di scientificità), l’articolo ripercorre a fondo le discutibili scelte strategiche che hanno condotto, con la ricerca senza speranza di criteri indiscutibili, ad un vero disastro. Sarà inoltre interessante sapere quanti straniere si sono cimentati nel presentare, immancabilmente in italiano, la domanda perl’abilitazione scientifica nazionale…
Il pezzo forte del programma di Renzi riguarda però le tasse universitarie e i prestiti d’onore. Ricordiamoci che l’Italia: (1) ha solo il 21% di laureati nella fascia 25-34 anni, occupando il 34-esimo posto su 37 nazioni, (2) è solo 31-esima su 36 nazioni per quanto riguarda la spesa per educazione terziaria rapportata al PIL, (3) durante la crisi, mentre in 24 nazioni su 31 la spesa in formazione cresceva, solo l’Estonia ha ridotto le spese più dell’Italia; (4) la spesa cumulativa per studente è inferiore alla media OCSE e ci vede sedicesimi su 25 nazioni considerate; (5) che le tasse universitarie sono tra le più alte in Europa: l’Italia è quarta dopo Regno Unito, Paesi Bassi e Portogallo e (6) il diritto allo studio si sta riducendo ad una presa in giro in un paese in cui il 20-30% degli aventi diritto non ottiene la borsa di studio. Inoltre secondo la Commissione Europea nel piano strategico denominato Europa 2020 i paesi UE sono chiamati a ridurre il tasso di abbandono scolastico a meno del 10% nella popolazione di età compresa tra i 18 e i 24 anni e a conseguire una percentuale di laureati pari almeno al 40% nella fascia di età tra i 30-34 anni. Vista la situazione italiana sarebbe dunque necessario agevolare il diritto allo studio così che si raddoppi in meno di dieci anni il numero di laureati.
Come si fa? Renzi lo spiega così: “Agli atenei che vi sono interessati deve essere consentito di aumentare le tasse universitarie in funzione di progetti di eccellenza didattica, trovando al tempo stesso compensazioni per le famiglie con redditi medi o bassi. Agli studenti devono essere offerti prestiti per coprire integralmente i costi, prevedendo che la restituzione rateizzata – parziale o integrale – inizi solo quando essi avranno raggiunto un determinato livello di reddito… Consentire a tutti gli studenti universitari di finanziarsi gli studi e le tasse.”
Dunque, aumentare le tasse universitarie e concedere, per pagarsi gli studi, prestiti con “l’obbligo per le Università di stabilire accordi con almeno tre banche (di cui almeno una locale e almeno una nazionale) per i finanziamenti agli studi universitari, garantiti da un fondo pubblico di garanzia”: un’ideona che diventerà un incentivo memorabile non c’è che dire.
D’altronde sono vari anni che un folto gruppo di economisti, più meno gli stessi che sono piuttosto critici della ricerca italiana come ricordato sopra, agitando slogan del tipo “dare ai poveri un’università gratis ma di pessima qualità è una truffa”, continua ad insistere sulla necessità di liberalizzare le tasse universitarie. L’anno scorso è stata presentata una’interrogazione ai ministri dell’Economia e dell’Istruzione (primo firmatario Pietro Ichino) che proponeva di sperimentare in Italia il modello Browne, contestato in Inghilterra all’unisono tanto dalla comunità accademica quanto dagli studenti, che alzava a 9.000 sterline (10.000 euro) la retta universitaria annua per studente, proponendo agli studenti meno abbienti di pagarne i costi avvalendosi di mutui bancari con interessi al 2,2/3%.
Questa proposta non consiste affatto nel far pagare l’università di più ai ricchi e di farla pagare di meno ai poveri. Quello che succederebbe è di escludere non solo i ceti meno abbienti, ma anche quelli medi, dall’istruzione universitaria, bloccando così uno dei maggiori veicoli di mobilità sociale, introducendo inaccettabili disparità territoriali e condizionando anche la scelta del corso di studi. Se l’istruzione è un investimento all’accorto studente-investitore converrà optare per gli studi potenzialmente più remunerativi.
Insomma Renzi proponendo la continuità dell’Anvur continua sulla stessa vacua direttrice competizione-eccellenza della Gelmini senza curarsi della valanga di polemiche generate dall’Anvur e che sono state ben sintetizzate dal giudice della Corte Costituzionale Sebino Cassese: “l’Anvur ha ucciso la valutazione con la sua disattenzione dei limiti della valutazione e del contesto nel quale essa andava ad inserirla. Non sono stato completo nel dir ciò. Bisogna anche aggiungere che l’Anvur ha ucciso se stessa, consegnando il compito di dire l’ultima parola sulla valutazione ai giudici amministrativi.”
Dall’altra parte fa un passo in più, spinto dai suoi spin doctors per cui ora e sempre “lo Stato è parassita il mercato crea ricchezza”: senza considerare il fatto che negli USA i prestiti per conseguire l’istruzione superiore stanno diventando la principale voce dell’indebitamento privato, che in Inghilterra vi è stato un crollo delle iscrizioni all’università dopo la riforma Browne, propone di aumentare le tasse universitarie introducendo un sistematico indebitamento degli studenti, a cui dovranno far ricorso soprattutto gli studenti delle classi meno abbienti: ma tanto la crisi economica è colpa dello Stato spendaccione e corrotto e non di una finanza incontrollata. Più che il nuovo che rottama il programma di Renzi sull’università è la saga delle idee obsolete da rottamare.
da Micromega
sullo stesso argomento leggi anche l’articolo di Marco meloni
“Le conseguenze della guerra”, di Barbara Spinelli
Quando i conservatori israeliani se la prendono con ragionamenti troppo pacifisti, o con chi in patria critica la politica dell’occupazione, subito tirano in ballo l’Europa: «Questo è un tipico ragionamento ashkenazita; non ha alcun rapporto con il Medio Oriente!», dice ad esempio Moshe Yaalon, già capo dell’esercito, oggi vice premier, rispondendo al giornalista Ari Shavit in un libro appena edito da Haaretz (Does this mean war?).
L’ebreo ashkenazita ha radici in Germania e in Europa centrale, parla yiddish.
Elo stereotipo non è diverso da quello usato ai tempi di Bush figlio: l’America è Marte e virile, il nostro continente è Venere e fugge la spada. L’ashkenazi tornò come altri ebrei in Terra Promessa, ma ha i riflessi della vecchia Europa. Lo storico Tom Segev racconta come erano trattati gli ebrei tedeschi, agli esordi. Li chiamavano yekke: erano ritenuti troppo remissivi, cervellotici, e poco pratici. L’Europa è icona negativa, e lo si può capire: ha idee sulla pace, ma in Medio Oriente è di regola una non-presenza, una non-potenza. Lo scettro decisivo sempre fu affidato all’America.
Tale è, per Yaalon, il vizio di chi biasima Netanyahu e gli rimprovera, in questi giorni, la guerra a Gaza e la tenace mancanza di iniziativa politica sulla questione palestinese. Lo stereotipo dell’ashkenazita mente, perché ci sono ashkenaziti di destra e sinistra. Era ashkenazita Golda Meir. Sono ashkenaziti David Grossman, Uri Avnery, Amira Hass, pacifisti, e espansionisti come Natan Sharansky. Ma lo stereotipo dice qualcosa su noi europei, che vale la pena meditare. Nel continente dove gli ebrei furono liquidati siamo prodighi di commemorazioni contrite, avari di senso di responsabilità per quello che accade in Israele. Predicando soltanto, siamo invisi e inascoltati.
Eppure l’Europa avrebbe cose anche pratiche da dire, sulle guerre infinite che i governi d’Israele conducono da decenni, sicuri nell’immediato di difendersi ma alla lunga distruggendosi. Ne ha l’esperienza, e per questo le ha a un certo punto terminate, unendo prima i beni strategici tedeschi e francesi (carbone, acciaio) poi creando un’unione di Stati a sovranità condivisa.
Le risorse mediorientali sono quelle acquifere in Cisgiordania, gestite dall’occupante e assegnate per l’83% a Israele e colonie. Tanto più l’Europa può contare, oggi che l’America di Obama è stanca di mediazioni fallite. È stato quasi un colpo di fucile, l’articolo che Thomas Friedman, sostenitore d’Israele, ha scritto il 10 novembre sul New York Times: provate la pace da soli, ha detto, poiché «non siamo più l’America dei vostri nonni». Non potremo più attivarci per voi: «Il mio Presidente è occupato-My President is busy». Anche gli ebrei Usa stanno allontanandosi da Israele.
È forse il motivo per cui pochi credono che l’offensiva si protrarrà, ripetendo il disastro che fu l’Operazione Piombo Fuso nel 2008-2009. Ma guerra resta, cioè surrogato della politica, e solo all’inizio la vulnerabilità di Israele scema. Troppo densamente popolata è Gaza, perché un attacco risparmi i civili e non semini odio. Troppo opachi sono gli obiettivi. Per alcuni il bersaglio è l’Iran, che ha dato a Hamas missili per raggiungere Tel Aviv e che ha spinto per la moltiplicazione di lanci di razzi su Israele. Per altri la guerra è invece propaganda: favorirà Netanyahu alle elezioni del 22 gennaio 2013.
Altro è il male di cui soffre Israele, e che lo sfibra, e che gli impedisce di immaginare uno Stato palestinese nascente. Un male evidente, anche se ci s’incaponisce a negarlo. Sono ormai 45 anni — dalla guerra dei sei giorni — che la potenza nucleare israeliana occupa illegalmente territori non suoi, e anche quest’incaponimento ricorda i vecchi nazionismi europei. Nel 2006 i coloni sono stati evacuati da Gaza, ma i palestinesi vi esercitano una sovranità finta (una
sovranità morbida, disse Bush padre, come nella Germania postbellica). Il controllo dei cieli, del mare, delle porte d’ingresso e d’uscita, resta israeliano (a esclusione del Rafah Crossing, custodito con l’Egitto e, fino alla vittoria di Hamas, con l’Unione europea). Manca ogni continuità territoriale fra Cisgiordania (la parte più grande della Palestina, 5.860 km²; 2,16 milioni di abitanti) e Gaza (360 km²; 1,6 milioni). I palestinesi possono almeno sperare nella West Bank? Nulla di più incerto, se solo si contempla la mappa degli insediamenti in aumento incessante (350.000 israeliani, circa 200 colonie). Nessun cervello che ragioni può figurarsi uno Stato palestinese operativo, stracolmo di enclave israeliane.
Se poi l’occhio dalle mappe si sposta sul terreno, vedrà sciagure ancora maggiori: il muro che protegge le terre annesse attorno a Gerusalemme, le postazioni bellicose in Cisgiordania, le strade di scorrimento rapido riservate agli israeliani, non ai palestinesi che si muovono ben più lenti su vie più lunghe e tortuose. Un’architettura dell’occupazione che trasforma le colonie in dispositivi di controllo (in panoptikon), spiega l’architetto Eyal Weizman. È urgente guardare in faccia queste verità, scrive Friedman, prima che la democrazia israeliana ne muoia. Forse è anche giunto il tempo di pensare l’impensabile, e chiedersi: può un arabo israeliano (1.5 milioni, più del 20% della popolazione) riconoscersi alla lunga in un inno nazionale ( Hatikvah) che canta la Terra Promessa ridata agli ebrei, o nella stella di Davide sulla bandiera? Potrà dire senza tema: sono cittadino dello Stato d’Israele, non di quello ebraico?
Questo significa che anche per Israele è tempo di risveglio. Di una sconfitta del nazionalismo, prima che essa sia letale. Separando patria e religione nazionale, la pace è supremo atto laico. Risvegliarsi vuol dire riconoscere i guasti democratici nati dall’occupazione. Le menti più acute di Israele li indicano da anni. Ari Shavit evoca i patti convenienti con Bush figlio, gli evangelicali Usa, il Tea Party: «Patrocinato dalla destra radicale Usa, Israele può condurre una politica radicale e di destra senza pagare alcun prezzo». Può sprezzare le proprie minoranze, tollerare i vandalismi dei coloni contro palestinesi e attivisti pacifisti. David Grossman ha scritto una lettera aperta a Netanyahu: l’accusa è di perdere ogni occasione per far politica anziché guerre ( Repubblica, 6 novembre 2012). L’ultima occasione persa è l’intervista di Mahmoud Abbas alla tv israeliana, l’1 novembre: il capo dell’Autorità palestinese si dice disposto a tornare come turista a Safad (la città dov’è nato a nord di Israele). «Nelle sue parole — così Grossman — era discernibile la più esplicita rinuncia al diritto del ritorno che un leader arabo possa esprimere in un momento come questo, prima dei negoziati». Abbas s’è corretto, il 4 novembre: la volontà di chiedere all’Onu il riconoscimento dell’indipendenza aveva irritato Netanyahu, e Obama di conseguenza ha sconsigliato Abbas. Quattro giorni dopo, iniziava a Gaza l’operazione «Pilastro della Difesa».
L’abitudine alla guerra indurisce chi la contrae, sciupa la democrazia. In Israele, allarga il fossato tra arabi e ebrei, religiosi e laici. Vincono gli integralisti, secondo lo scrittore Sefi Rachlevsky che delinea così il volto della prossima legislatura: una coalizione fra Netanyahu, i nazionalisti di Yisrael Beiteinu, e ben quattro partiti che vogliono — come l’Islam politico — il primato della legge ebraica (halakha) sulle leggi dello Stato. In tal caso non si tornerebbe solo alle guerre nazionaliste europee, ma alle più antiche guerre di religione. Stupefacente imitazione, per un paese dove l’Europa è sì cattivo esempio.
La Repubblica 21.11.12
