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Pier Luigi Bersani: “Basta tagli alla sanità. No a nuovi ticket”, di Cesare Fassari

Alla vigilia del primo turno delle primarie del centrosinistra per la scelta del candidato premier del centro sinistra alle prossime elezioni politiche, abbiamo intervistato il segretario del Pd Pier Luigi Bersani. Abbiamo parlato di tagli alla sanità, di federalismo, di industria del farmaco e di farmacie, sui cui Bersani intervenne fortemente già nel 2006, quando da ministro dello Sviluppo Economico diede il via alle prime liberalizzazioni e alla nascita delle parafarmacie in Italia. Un processo che ha subìto un’ulteriore spinta anche da parte del Governo Monti. Ma per Bersani non è ancora abbastanza.
Ma se per le farmacie e la distribuzione del farmaco Bersani pensa a nuovi interventi di liberalizzazione, quando si parla di Servizio sanitario nazionale la sua posizione resta salda nella difesa dell’assetto nato con la legge 833 del 1978. “Teniamoci stretta la sanità pubblica”, afferma dicendo “stop” ai tagli drastici di questi anni perché “siamo arrivati a una soglia oltre la quale non è possibile andare”. Ma dicendosi convinto che ci sia ancora molto lavoro da fare sul versante della riorganizzazione, della lotta agli sprechi e alle inefficienze. Riducendo così anche il gap tra Regione e Regione.
Segretario, la sanità pubblica italiana è considerata tuttora tra le migliori del mondo ed è anche quella che costa meno tra i Paesi europei con noi confrontabili. Eppure, prima con il governo Berlusconi ed oggi con Monti, continua ad essere oggetto di manovre economiche che hanno ridotto di 31 miliardi (dati Corte dei Conti) il finanziamento da qui al 2015. Una tendenza che il Pd ha intenzione di invertire modificando l’attuale ddl stabilità e, in ogni caso, qualora andasse al Governo nel 2013?
La situazione è difficile, inutile negarlo. Ma con i tagli drastici di questi anni siamo arrivati a una soglia oltre la quale non è possibile andare. Il rischio concreto è di ridurre al collasso l’intero sistema che già oggi si regge grazie all’impegno e alla dedizione di tanti medici, infermieri e tecnici che troppo spesso lavorano in condizioni di grave disagio, tra mille difficoltà. C’è molto lavoro da fare sul versante della riorganizzazione, della lotta agli sprechi e alle inefficienze. C’è da riequilibrare il rapporto tra ospedali e medici sul territorio, ci sono reparti ridondanti all’interno delle stesse strutture ospedaliere e c’è un ricorso alla diagnostica eccessivo che va rimodulato, ma a fronte di tutto questo il fondo del Servizio Sanitario Nazionale non va più toccato, non si può procedere ancora sulla strada dei tagli, la via è quella di una seria riorganizzazione.
Tra i tagli in arrivo figurano 2 miliardi di euro di nuovi ticket sanitari che dal 1° gennaio 2014 andrebbero ad aggiungersi a quelli già esistenti. Pensa di poter prendere un impegno con gli italiani per cancellare questa norma, sempre nel caso di vittoria alle politiche dell’anno prossimo?
Siamo contrari all’introduzione di nuovi ticket e siamo impegnati in Parlamento per cancellare una stangata che è bene ricordarlo, è stata voluta dal governo Berlusconi. Il ministro Balduzzi in questi giorni assicura che farà il possibile per evitare la norma. I ticket vanno nella direzione opposta all’equità, gravano su tutti ma in realtà pesano maggiormente sui bilanci delle famiglie che soffrono di più per la crisi. Anche per questo io credo che un eventuale ricorso al ticket, se non potrà essere evitato, dovrà essere per lo meno graduale e adattato in rapporto al reddito familiare.
In molti think tank liberali, ma anche in alcuni circoli vicini al centro sinistra, si fa comunque strada l’idea che “la sanità per tutti è un lusso che non possiamo più permetterci”. E si pensa a sistemi sanitari più orientati al privato per alleggerire il carico della spesa pubblica. Lei come la pensa?
Nella mia visione la sanità pubblica non è un lusso, è un bene prezioso, essenziale per un Paese che si dice davvero democratico. Inoltre non mi pare che dove i servizi sanitari sono gestiti dai privati, come negli Stati Uniti, la spesa sia inferiore, è vero piuttosto il contrario. I costi della sanità sono in aumento in tutto il mondo occidentale, non dipende dall’Italia ma dalla popolazione che invecchia, dalla tecnologia che aumenta e che fa crescere la domanda. Allora io dico, teniamoci stretta la sanità pubblica e introduciamo un sistema di valutazione serio. Poi, per aggredire i nodi che incidono sulla spesa lavoriamo sull’appropriatezza, rafforziamo il ruolo e le competenze dei medici di famiglia, interveniamo sul dannoso fenomeno della medicina difensiva che gonfia sensibilmente la spesa. Ma per assicurare la sostenibilità del sistema sul lungo periodo il percorso è obbligato e passa per la prevenzione e per la massima attenzione a stili di vita sani che riducano il rischio di malattie croniche come il diabete, i disturbi cardiovascolari, il sovrappeso.
L’esperienza del federalismo scaturita dalla riforma del Titolo V del 2001, e che vede la sanità tra i settori chiave passati sotto la responsabilità delle autonomie, sembra segnare il passo. Ha perso il suo appeal degli anni d’oro, tra scandali e spese fuori controllo. E soprattutto non si è riusciti a superare il divario Nord Sud che, al contrario, è aumentato. Pensa che vada ripensato il modello di federalismo all’italiana? E se sì, come?
La revisione del Titolo V è un tema reale, segnalato da tempo anche dalle Regioni. Il federalismo ha portato progresso e autonomia nella sanità ma anche una grande disomogeneità tra i vari territori. Un divario così marcato mette in discussione il diritto alla salute e il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini rispetto alle cure ma implica anche una grande difficoltà per fornire indirizzi coerenti a livello nazionale. E’ urgente introdurre un sistema di verifica e di valutazione che contribuisca a ridurre le differenze. Il caso di alcune regioni sottoposte a piano di rientro è esemplare: da un lato si riduce la spesa sanitaria, che in alcune situazioni è davvero fuori controllo, dall’altro si tagliano i servizi e così ora i cittadini per curarsi prendono l’aereo o il treno e vanno al nord. Così non ha senso e non si può andare avanti…
La sanità incide sul Pil per il 7,1% ma restituisce al Paese, in termini di ricchezza, oltre il 12% del Pil. Quindi produce di più di quanto costa. Eppure fino ad oggi, pur essendo maturata la convinzione che il comparto sanitario possa essere realmente un volano di sviluppo, mancano interventi concreti in tal senso. Ad esempio nessuno ha pensato di inserire l’ammodernamento strutturale e tecnologico dei servizi sanitari tra il piano delle grandi opere infrastrutturali. In altre parole ospedali e ambulatori più moderni e magari qualche strada in meno. Lei sarebbe d’accordo a farlo?
Continuo a ripetere in ogni occasione che bisogna far ripartire i cantieri se si vuole dare un po’ di respiro alle aziende, un po’ di lavoro alle persone e se si vuole mettere in sesto il Paese che si sta sgretolando sotto i nostri occhi. Figuriamoci se non sono d’accordo sugli interventi sugli ospedali, tanto più che la Protezione Civile dice che centinaia strutture sono a rischio sismico e necessitano di interventi per la messa in sicurezza. Il settore sanitario, che comprende anche la farmaceutica, va inserito a pieno titolo nel sistema industriale italiano. Esistono delle resistenze e dei condizionamenti che puntano a mantenere lo status quo rispetto ad intensificare gli sforzi per l’innovazione ma certamente, se ne avrò la possibilità, considererò il piano di rinnovamento tecnologico e strutturale degli ospedali una priorità.
Se vincerà le elezioni ci dobbiamo aspettare altre liberalizzazioni per le farmacie o bastano le norme fin qui attuate?
L’attuale Governo aveva annunciato un piano di riforma delle farmacie poi, di fronte alle molte resistenze, ha fatto rapidamente marcia indietro. In ogni caso, le norme per i farmaci non possono prescindere da un ragionamento complessivo che comprenda anche la produzione e la distribuzione. Ma è evidente che un processo di maggiore liberalizzazione è auspicabile. La vera sfida, con le difficoltà connesse, è quella di conciliare l’esigenza di contenere la spesa farmaceutica mantenendo i servizi che la filiera del farmaco assicura e il diritto dei cittadini ad accedere ai farmaci, anche quelli innovativi, per esercitare pienamente il diritto alla salute.
da Quotidiano della sanità 20.11.12

La Svizzera accelera sul patto «Rubik», di Alessandro Galimberti

La Svizzera accelera sul tavolo della trattativa “Rubik” con l’Italia. Il Dipartimento federale delle finanze auspica per vie ufficiali la possibile chiusura del tavolo tecnico tra le delegazioni governative entro il 21 dicembre prossimo. A fare l’annuncio alla stampa italiana è stato ieri mattina l’ambasciatore Oscar Knapp, capo della direzione della segreteria per le questioni Finanziarie internazionali.
Il trattato, tornato nell’agenda nel maggio scorso dopo il via libera giuridico della Commissione Ue – e dopo un’impasse italiana annosa che gli svizzeri imputano all’ex ministro Giulio Tremonti – tocca cinque temi, dalla regolarizzazione dei depositi in Svizzera all’imposizione alla fonte dei redditi futuri, alla revisione della Convenzione per la doppia imposizione fino allo stralcio dalla lista nera della Confederazione, un problema questo che sta toccando sul vivo centinaia di imprese medio/piccole, soprattutto delle aree di confine. Gli accordi, quand’anche trovassero una sintesi prima di Natale – soluzione ritenuta difficile dal ministero dell’Economia per le questioni ancora da risolvere, a cominciare dalle aliquote applicabili – dovranno comunque poi essere firmati in sede politica e quindi ratificati dai rispettivi Parlamenti. Oltre all’incognita delle elezioni in Italia, che potrebbero portare a soluzioni politiche difficilmente preventivabili, il problema riguarda anche la Confederazione, dove l’intesa bilaterale resterebbe congelata almeno per i cento giorni necessari all’assoggettabilità al referendum popolare.
Con l’accordo “Rubik” la Svizzera si impegnerebbe a versare allo stato italiano un’imposta di fatto tombale – con aliquota però ancora da definire, e questo sembra lo snodo chiave – per il passato in relazione ai patrimoni detenuti da cittadini italiani in banche e istituti elvetici, oltre a un prelievo periodico per il futuro sulle rendite finanziarie.
Il bilaterale così strutturato – sul modello di quelli già firmati con Gran Bretagna, Germania (dove però i Laender in queste ore stanno alzando la posta con il governo centrale per la ratifica: chiedono un incremento dei trasferimenti) e Austria – salva il segreto bancario, nel senso che non prevede l’automatismo nello scambio di informazioni (richiedibili solo per casi e contribuenti specifici e sospetti) e tra l’altro vieta agli stati contraenti di acquistare i cd con i dati dei depositi esteri dei propri contribuenti.
Nonostante l’ottimismo svizzero – che sugli accordi Rubik sta giocando la tenuta della «sovranità=segreto bancario» come confessa un consigliere federale – i nodi da sciogliere non sono di poco conto. Su tutti la determinazione del periodo di osservazione retroattiva su cui calcolare l’imposta (un conteggio modellabile, per rendere l’idea, sul calcolo degli interessi creditori bancari) per evitare una fuga preventiva di denaro italiano dai forzieri svizzeri. La Germania, proprio per questo, ha preteso e ottenuto una garanzia di 2 miliardi anticipata dalle stesse banche elvetiche.
La cronistoria
2009-2010
Alcuni banchieri ticinesi, tra cui Alfredo Gysi (presidente della Bsi), mettono a punto la proposta Rubik, basata su un’imposta liberatoria sui capitali non dichiarati depositati in Svizzera, in cambio del mantenimento di un seppur emendato segreto bancario e di un miglior accesso delle banche elvetiche ai mercati finanziari esteri. La proposta viene fatta propria dall’Associazione svizzera dei banchieri e poi dal Governo svizzero. Iniziano i negoziati bilaterali con Regno Unito e Germania
Agosto 2011
Firma delle due intese bilaterali della Svizzera con Londra e Berlino
Marzo-aprile 2012
Firma finale degli accordi con Regno Unito e Germania. La Commissione europea, attraverso il commissario alla Fiscalità Algirdas Semeta, dichiara che le intese con Londra e Berlino «sono conformi al diritto europeo». Nel frattempo ai due accordi si aggiunge anche quello con l’Austria, a cui pure Bruxelles non si oppone
Maggio 2012
Italia e Svizzera riprendono il dialogo bilaterale sul dossier fiscale, dopo una lunga assenza di negoziati e dopo un serie di tensioni politiche. Un dossier che comprende, oltre a Rubik, anche la revisione della convenzione sulla doppia imposizione, la revisione dell’accordo sui ristorni che sono legati ai frontalieri e che vanno ai Comuni italiani di frontiera, lo stralcio della Svizzera dalle liste nere fiscali italiane
Ottobre 2012
In Svizzera viene comunicato ufficialmente che la raccolta di firme per un referendum, contro i tre accordi Rubik già approvati dal Parlamento elvetico, non è riuscita. A sostenere il referendum è uno schieramento misto che comprende da un lato la destra populista contraria a cedimenti su fiscalità e segreto bancario e dall’altro i giovani socialisti elvetici, che sul versante opposto si battono per l’eliminazione del segreto bancario e per l’adesione della Svizzera allo scambio automatico di informazioni fiscali. Lo schieramento per il referendum su Rubik sostiene che non tutte le firme sono arrivate, a causa di disfunzioni in alcuni Comuni, e fa ricorso. Per ora però nella Confederazione non c’è referendum
Novembre 2012
Il ministro dell’Economia Vittorio Grilli ribadisce che l’Italia sarebbe favorevole a una conclusione positiva in tempi brevi dei negoziati fiscali con la Svizzera. L’ambasciatore elvetico Oscar Knapp, responsabile della divisione Mercati della Segreteria di Stato per le questioni finanziarie internazionali, dichiara che Berna è «fiduciosa su un accordo entro il 21 dicembre». Venerdì 23 novembre la Camera tedesca dei Länder, il Bundesrat, voterà sulla ratifica dell’accordo sulla Svizzera già approvato dall’altro ramo del Parlamento, il Bundestag. L’esito del voto del Bundesrat, in cui l’opposizione ha la maggioranza, è incerto. Regno Unito e Austria hanno per parte loro ratificato le rispettive intese con la Svizzera, che entreranno in vigore il 1° gennaio 2013
a cura di Lino Terlizzi
Il Corriere della Sera 20.11.12

Bersani contro la tenaglia del bis “Senza di noi difficile fare il governo”, di Goffredo De Marchis

Trattativa finita sulla legge elettorale, dicono al Partito democratico. Pier Luigi Bersani si concentra sulle primarie, convinto che alla fine dimostreranno soprattutto la forza del centrosinistra e del Pd. Nei sondaggi continua la crescita del suo partito e all’indomani del 25 potrebbe registrarsi un ulteriore balzo in avanti. «Senza di noi — è la convinzione dei democratici — sarà difficile sia una modifica del sistema di voto sia la formazione di un nuovo governo». Ma a Largo del Nazareno non si nascondono la doppia insidia di una tenaglia che ha un obiettivo ormai chiaro: il ritorno di Mario Monti a palazzo Chigi. L’iniziativa di Montezemolo e Riccardi ufficializza la corsa del premier per il bis. Le parole di Monti dal Kuwait la confermano anche se ieri la precisazione chiesta dal Pd è arrivata. L’esternazione di Napolitano completa il cerchio. Un quadro allarmante, completato dal muro contro muro sulla riforma del Porcellum. La legge, sostanzialmente proporzionale, che da oggi verrà votata in commissione al Senato favorisce una larga coalizione e dunque un nuovo esecutivo
Monti.
Bersani vede la conventio ad excludendum, ne conosce i contorni, l’ha denunciata ad alta voce quando ci fu il blitz sulla riforma elettorale di una maggioranza diversa da quella di governo, una riedizione della Casa delle libertà: Pdl, Udc, Lega, Fli. «Non vogliono farci governare», disse allora il leader Pd. Ma la partita delle primarie è la chiave e va oltre la sfida con Renzi. Una legittimazione popolare forte, le file ai gazebo, il riconoscimento degli avversari al vincitore, il patto che lega i candidati con la firma alla
carta d’intenti, sono elementi, secondo il segretario, capaci di offrire una prova muscolare e innescare un circolo virtuoso. Nel Paese, ma anche negli ambienti internazionali che rappresentano uno degli ostacoli all’ascesa del centrosinistra e uno dei viatici maggiori per il Monti bis. Milioni di elettori alla competizione interna sarebbero anche un segnale per chi vuole procedere senza il Pd sulla legge elettorale. Però, la preoccupazione per la tenaglia rimane.
Stamattina a Largo del Nazareno torneranno a riunirsi i capigruppo e gli sherpa del Pd sulla riforma. I contatti tra Maurizio Migliavacca e i colleghi Denis Verdini e Lorenzo Cesa sono interrotti da giorni. L’incarico affidato da Bersani ai suoi ambasciatori è molto netto: non stiamo fermi, ma la nostra posizione è quella, vediamo dove arrivano loro. “Loro” sono tuttavia determinati ad andare avanti. L’Udc non si occupa più di tenere i rapporti diplomatici con i democratici. Ha problemi nel suo campo dopo la comparsa di un soggetto concorrente come quello di Montezemolo e Riccardi. Può difendere la linea del Monti bis, che fuori dal Palazzo è stata impugnata dal movimento civico di Italia Futura, lavorando in Parlamento a una legge che aiuti l’esito desiderato. L’associazione “Verso la terza repubblica” gode di alcune simpatie tra i parlamentari, ma non ha un suo gruppo ed è fuori dalle trattative. I rapporti tra centristi e democratici sono ai minimi termini. Bersani fa sapere che guarda «con molta attenzione » al lavoro del presidente Ferrari. «Ho sentito parole d’ordine che sono le nostre da tempo. E sono coerenti con l’alleanza tra progressisti e moderati », dice. Un gesto di sfida all’altro Pier? Dario Franceschini da giorni suggerisce di avviare da subito un dialogo con la nuova lista civica. E stamattina proporrà al vertice del partito di andare a vedere le carte sulla riforma elettorale. «Possiamo accettare un premio al partito dell’8 per cento e metterli in difficoltà», è la posizione del capogruppo alla Camera.
La formula magica del Pd è quella del 40/10/5. Il 40 per cento è la soglia oltre la quale la coalizione vincente prende il 52,5 per cento dei seggi, 10 per cento è il premietto di governabilità al primo partito, 5 per cento lo sbarramento. Ricalca la formula D’Alimonte. La risposta del Pdl però è un rifiuto netto. E l’apertura iniziale dell’Udc a una mediazione sembra svanita. La conferma si avrà oggi quando cominceranno le votazioni al Senato e non saranno lanciati ponti verso il Pd. Ma adesso tutto il quartier generale di Largo del Nazareno ha l’attenzione solo sulle urne di domenica. Si attribuisce un enorme potere taumaturgico alle primarie, la forza di rovesciare gli equilibri. Tanto più se dopo un eventuale vittoria di Bersani nascerà subito un ticket con Matteo Renzi. Il segretario democratico non rinuncerà al contributo del sindaco di Firenze, al suo bacino di voti.
La Repubblica 20.11.12

“Il dividendo della crisi più pesante per i poveri”, di Nicola Cacace

Il 2012 con un Pil -2,3%, sarà l’anno più duro dopo il 2009. Chi paghera? i costi di questa ulteriore caduta del reddito, ancora la popolazione più povera? Come mostrano i dati Bankitalia elaborati da un gruppo di economisti (Peragine e Brunori, nel Merito.com, 16/11) «nel periodo 2006-2010 gli effetti della crisi non sono stati eguali per tutte le famiglie, le fasce a basso reddito hanno sofferto di più e complessivamente la recessione ha avuto un effetto regressivo sulla distribuzione dei redditi. A una riduzione annua del Pil nel quadriennio dello 0,7%, corrisponde una perdita di reddito del 3,5% annuo per il primo decile della popolazione (il 10% più povero), dell’1,5% per il secondo decile e così via; solo per l’ultimo decile cioè per i 2,4 milioni di famiglie più ricche, la crisi non ha prodotto riduzioni del reddito».
Nel biennio successivo, 2011-12 non c’è alcun dubbio che anche le politiche di risanamento, quelle precedenti e quelle attuate da novembre in poi dal governo Monti, hanno avuto carattere altrettanto regressivo. Monti, pur avendo avuto il merito del recupero di credibilità internazionale e di risanamento dei conti, non ha avuto in massima considerazione, o non ha potuto ispirarsi a una logica di più equa distribuzione dei sacrifici. I valori cui si sono ispirate le manovre governative, dalle pensioni al lavoro all’Imu, forse anche per i condizionamenti del centrodestra tuttora maggioritario in Parlamento, non hanno avuto alcun carattere di progressività.
D’altra parte non è un mistero che i valori del professore siano mossi da filosofie liberiste più che keynesiane, come confermato anche da un recente articolo dell’Economist sull’Italia, che definisce il professore «Monti, a declared antikeynesian». Anche i keynesiani sono per il libero mercato dando però importanza centrale al ruolo dello Stato investitore quando il ciclo economico lo richiede. Nella concezione keynesiana prevalente nei partiti europei socialdemocratici e progressisti, si sottolinea la funzione dello Stato nella redistribuzione della ricchezza e nel garantire diritti fondamentali come istruzione, sanità, sicurezza.
Monti ha fatto e sta facendo molte cose importanti e necessarie, ma senza toccare gli scandalosi privilegi dei super burocrati, senza attuare una spending review con tagli mirati e non orizzontali, aumentando la pressione fiscale per tutti ma non in modo progressivo, sui modelli Obama o Hollande. La legge sulle pensioni, necessaria ma poco attenta all’equità, ha fatto dell’Italia l’unico Paese che nel 2020 avrà un’età pensionabile di 67 anni ignorando i problemi della disoccupazione giovanile e femminile record. Nel Paese a più alta diseguaglianza d’Europa, anche per i privilegi dei politici, la norma per abbattere realmente i vitalizi dei consiglieri regionali (norma anti Fiorito) è stata introdotta dal Parlamento a correzione dell’inefficace versione governativa. L’Italia ha firmato il fiscal compact per ridurre in 20 anni il debito pubblico al 60% del Pil, ma si sono ignorate le proposte avanzate, anche da economisti e banchieri, di una patrimoniale straordinaria che chiedesse un contributo una tantum di solidarietà a quel 10% di famiglie super ricche proprietarie del 50% della ricchezza nazionale, che poco hanno sofferto dalla crisi come sopra mostrato. Il professore si è difeso dicendo che «non siamo attrezzati», mentre con un po’ di volontà politica qualcosa si poteva fare utilizzando il catasto per la ricchezza immobiliare e la centrale rischi di Bankitalia per la ricchezza finanziaria, come basi di partenza per una fiscalità patrimoniale più progressiva dell’Imu attuale che vale per tutti, ricchi e poveri. Il prof. ha condannato la concertazione, pratica seguita correntemente in Germania ed in tutti i Paesi più avanzati del nord Europa, per poi chiedere ai sindacati di firmare in tempi brevi un accordo per la produttività.
Altre scelte contrarie all’equità sono quelle sulla redistribuzione del lavoro. In Germania per non licenziare si riducono gli orari con la Kurtzarbeit mentre il nostro governo defiscalizza gli straordinari. Sulla responsabilità sociale delle imprese fa peggio, come quando approva le «libere scelte di delocalizzazione della Fiat», ignorando i sacrifici del Paese di un secolo di difesa della maggiore industria nazionale e le stesse posizioni più avanzate, Enciclica Caritas in veritate inclusa, che invocano «un capitalismo etico attento agli interessi non solo degli azionisti, ma anche di lavoratori e territorio». In conclusione, i motivi per cui Monti va bene ma l’agenda Monti un po’ meno, sono gli stessi che distinguono conservatori e progressisti nel mondo, i primi sono per la libertà senza eguaglianza, i secondi per l’eguaglianza nella libertà.
L’Unità 20.11.12

“Le Pillole della vergogna: ispettori al ministero dell’Istruzione”, di Sigfrido Ranucci e Giorgio Mottola

È in atto in queste ore un’ispezione da parte degli uomini della Ragioneria di Stato nelle stanze del ministero della Pubblica Istruzione. In seguito a quanto denunciato dalla puntata diReport “La banca degli amici” e quanto scritto dal Fatto Quotidiano sulla gestione degli appalti interni al Ministero, risulta che sarebbe stato lo stesso Ministero a presentare un esposto alla Procura. Più che pillole del sapere rischiano di diventare le pillole della vergogna e ancora prima di essere divulgate nella scuola.
Dopo la trasmissione di Report andata in onda domenica dal titolo “La banca degli amici” la Ragioneria di Stato, su richiesta del Ministro Profumo, ha inviato i propri ispettori al Miur che in queste ore stanno acquisendo documentazione.
Anche il presidente della Commissione Cultura della Camera Manuela Ghizzoni ha convocato d’urgenza il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo per un’audizione su quanto emerso nella puntata; il Ministro invece ha avviato un’ispezione interna per fare chiarezza sull’acquisto delle “Pillole del sapere” da parte dell’Ansas, l’agenzia ministeriale che si occupa di autonomia scolastica, e sul finanziamento di oltre 5 milioni di euro nell’ambito del progetto Smart Cities.
I più indignati sono però insegnanti e studenti.L’associazione Udu ha annunciato di essere pronta ad avviare una class action contro il ministero dell’Istruzione su come vengono impiegati i fondi ministeriali. E sul piede di guerra sono anche i maestri elementari che dopo la puntata di Report hanno inondato di fax e di e mail il ministero dell’Istruzione e l’Ansas.
Chiedono perché, mentre le scuole non hanno la carta igienica, gli insegnanti vengono tirati per il collo e si preparano tagli per centinaia di milioni per i prossimi anni, il Ministero decide di spendere 730 mila euro per le Pillole del sapere e per format prodotti da Interattiva Media, la società di Ilaria Sbressa, moglie di Andrea Ambrogetti, il responsabile relazioni istituzionali di Mediaset e presidente di Dgtvi, l’associazione per il digitale terrestre.
Lo spirito del progetto sarebbe quello di “divulgare la cultura anche a finalità didattiche e formative nonché di comunicazione generale”, come ci ha specificato la stessa signora Ilaria Sbressa in una diffida che ci ha inviato un paio di giorni prima della messa in onda.
Nell’agosto del 2011, Interattiva Media era riuscita a far entrare il suo format sul mercato elettronico della Consip, vale a dire lo spazio virtuale su cui la Pubblica Amministrazione può acquistare qualsiasi tipo di prodotto, evitando così di dover imbastire gare di appalto. Ed è proprio dalla Consip che comincia la storia delle Pillole del sapere. Ma cosa ha portato gli esperti del ministero a scegliere i prodotti da Ilaria Sbressa? Tutto parte da questa pillola sul Portogallo. Gli esperti del Miur e gli esperti di Consip, che hanno accettato il format, ne devono essere rimasti folgorati.
Sei mesi dopo, nel febbraio del 2012, una commissione congiunta Miur-Ansas, presieduta dal Capo dipartimento del Ministero Giovanni Biondi, decide di spendere i soldi stanziati dal ministero dell’Istruzione per acquistare 12 pillole e 7 format audiovisivi. Il costo singolo per ogni pillola, un filmato di 3 minuti realizzati in grafica, è di 39 mila euro, tanto è stata pagata questa sul semaforo
da corriere.it

“La storia di Leonardo non deve ripetersi”, di Anna Serafini

Il 20 novembre è una giornata memorabile perché celebra l’approvazione da parte dell’ONU, della carta dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Era il 20 novembre 1989. E la Carta Onu è stata la Convenzione Onu più ratificata dai Paesi del mondo, compresa l’Italia. Da allora molte cose sono cambiate e indubbiamente è cresciuta la consapevolezza che i bambini e gli adolescenti hanno diritti propri, dentro e fuori la famiglia. Ma i dati ci segnalano ancora molte carenze.
L’Italia è agli ultimi posti dei Paesi dell’ Unione europea per la spesa per la famiglia e l’infanzia: si spende solo 1’1,2% del Pil rispetto al 2.1 nella Ue a 15 e il 2.0% nella Ue a 27. Non solo, secondo i parametri dell’Ue, i bambini e ragazzi del nostro Paese a rischio di povertà sono il 24,4% del totale, il tasso più elevato della Ue. E il 70 % dei bambini e adolescenti poveri vive nel Mezzogiorno. Oltre alle limitate e inefficaci risorse, la spesa e i servizi per l’infanzia segnalano grandi differenze di standard e qualità, a seconda delle regioni. Gli ultimi dati rilevano che gli utenti degli asili nido sono passati dal 9,0% del 2003/2004, all’11,3%, un dato molto distante dal 33% imposto dal Trattato di Lisbona.
Nel complesso siamo quindi ancora molto lontani dall’aver posto la persona minore di età al centro delle politiche e delle decisioni che la riguardano.
Quello che è accaduto al bambino di Padova, indipendentemente dalle tante motivazioni dei soggetti coinvolti, ci spinge a chiederci come è possibile che sia potuto accadere. Sono le stesse domande che spesso ci rivolgiamo quando vediamo che non si è in grado di proteggere quei bambini contesi, spero meri oggetti di competizione, di rivalsa, rabbia di adulti che non sono in grado di ricostruirsi come coppia genitoriale dopo la separazione.
Sono gli stessi interrogativi che ci poniamo quando i bambini non riescono a vivere nelle proprie famiglie, magari per motivi economici o per difficoltà temporanee, o rispetto a quei bambini che, abbandonati e dichiarati in stato di adottabilità, non riescono ad essere accolti in affidamento o adottati in tempi adeguati e ad essere seguiti insieme alla loro nuova famiglia, non solo al momento dell’adozione, ma anche dopo. È la stessa preoccupazione che abbiamo quando vediamo tanti testimoni di violenza all’interno della famiglia, senza che ci sia la piena consapevolezza delle conseguenze che questo dolore avrà su di loro.
Ci rendiamo conto delle difficoltà che ancora impediscono di sviluppare una forte e incisiva politica per i diritti delle persone minori di età. Ma questi muri dobbiamo cercare di eroderli perché ci impediscono di vedere che non avremo il futuro proprio di un grande Paese, se non scegliamo di intervenire con decisione sui bambini e gli adolescenti di oggi.
L’Unità 20.11.12
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Napolitano: “Tutelare famiglia, scuola, infanzia”
“La difesa dei minori costituisce un impegno prioritario per le forze politiche e sociali del nostro Paese, soprattutto nell’attuale periodo di recessione economica che li vede maggiormente esposti all’abbandono, alla povertà e al rischio di esclusione sociale”. Ad affermarlo è stato Giorgio Napolitano in un passaggio del messaggio inviato, in occasione dell’incontro ‘I diritti dei bambini al tempo della crisi’, promosso per la Giornata nazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, al presidente della Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza, Alessandra Mussolini.
“Si deve compiere ogni sforzo – ha proseguito il Presidente della Repubblica – perché non venga meno la tutela delle famiglie più vulnerabili e venga sostenuto – ha aggiunto – il ruolo centrale della scuola e dei servizi per l’infanzia, affinchè siano in grado di fronteggiare con sempre maggiore efficacia tutte le situazioni di difficoltà ed emarginazione”.
“Difendere i diritti dei bambini, contrastare abusi, prevaricazioni e condizioni di sfruttamento che ne violano l’integrità e ne compromettono la formazione e la piena realizzazione – ha concluso Napolitano – significa non solo riconoscere anche ai più piccoli cittadini la loro dignità di persone ma anche salvaguardare il futuro civile del nostro Paese”.
da www.repubblica.it

“Malala e Savita il Medioevo è oggi”, di Moises Naim

Malala Yousafzai e Savita Halappanavar. Non è uno scioglilingua. Sono i nomi di due persone che non potrebbero essere più diverse, non potrebbero avere meno cose in comune. Ma a queste due persone sono accadute cose che mettono in risalto aspetti tragici e al tempo stesso incoraggianti del nostro mondo di inizio XXI secolo.
Malala Yousafzai, pachistana, ha 14 anni. Un mese fa, mentre tornava a casa con lo scuolabus, è stata colpita da un proiettile che le ha attraversato la testa e il collo andando a finire nella spalla. È miracolosamente sopravvissuta e ora è in convalescenza in un ospedale del Regno Unito. Il suo peccato? Battersi in favore dell’istruzione delle bambine.
Ehsanullah Ehsan, portavoce dei Taliban pachistani, ha rivendicato la paternità dell’attentato spiegando che Malala «è il simbolo degli infedeli e dell’oscenità », e ha messo in chiaro che se dovesse sopravvivere «riproverebbero a ucciderla». Hanno minacciato anche suo padre, Ziaudinn, che accusano di averle lavato il cervello. La prima prova di questo lavaggio del cervello si è vista quando Malala, a soli 12 anni, su richiesta di un giornalista della Bbc cominciò a tenere un blog dove raccontava la sua vita sotto il regime dei Taliban, che all’epoca (era il 2009) controllavano la valle di Swat, dove si trova la sua città, Mingora. Questo controllo comportava il divieto di studiare per le bambine e la chiusura di molte scuole che, in alcuni, casi venivano semplicemente date alle fiamme. Quando l’esercito pachistano riprese il controllo della regione, Malala diventò una voce di denuncia lucida e molto circostanziata: si scagliava contro i Taliban e sottolineava la necessità urgente che la società e lo Stato pachistani facessero di più per garantire il diritto allo studio delle bambine. Per i Taliban, portare avanti queste idee è un crimine da punire con la morte.
L’attentato contro Malala ha prodotto un’ondata di sdegno in tutto il mondo, e – cosa ancora più importante – ha scatenato un dibattito di vitale importanza all’interno del Pakistan.
Savita Halappanavar, una bella dentista 31enne di origine indiana, viveva a Dublino. L’Irlanda teoricamente dovrebbe essere un posto meno pericoloso della valle di Swat per le donne, ma un oscurantismo simile a quello che ha portato al tentativo di assassinare Malala ha determinato la morte di Savita. Incinta
di 17 settimane, Savita ha cominciato a stare male e suo marito l’ha accompagnata all’ospedale universitario di Galway. La diagnosi era chiara, ed era chiara, dal punto di vista medico, anche la cura. Ma la logica medica si è scontrata con impedimenti legali che hanno finito per uccidere Savita. I medici erano giunti alla conclusione che il feto non aveva speranze di nascere vivo. Savita, afflitta dalla perdita, alla fine si è rassegnata e insieme a suo marito ha chiesto che le fosse praticato un aborto. Non possiamo, le hanno spiegato i medici: le legge consente di farlo solo quando il cuore del feto cessa di battere, dobbiamo aspettare. E, nonostante le proteste e la disperazione della coppia, così è stato: Savita e suo marito hanno dovuto aspettare. Il cuore del feto si è fermato un mercoledì. Quello di Savita il sabato successivo.
L’autopsia ha rivelato che Savita è morta per setticemia, un’infezione generalizzata che finisce per interessare tutto il corpo. Praveen Halappanavar, il marito, ha detto alla Bbc: «Era il nostro primo figlio e lei si sentiva al settimo cielo… era felicissima e tutto andava bene, era emozionatissima. Sicuramente oggi Savita sarebbe ancora viva, se avesse potuto interrompere la gravidanza che ha finito per ucciderla ».
Perché proteggere un feto che con ogni evidenza non ha alcuna speranza di vivere è più importante che proteggere una giovane madre di 31 anni in perfetta salute? Conoscete la risposta.
Sia il fallito attentato contro Malala che la morte per «ragioni legali» di Savita hanno suscitato sdegno nell’opinione pubblica mondiale. Anche se questo sdegno non è ancora sufficiente per cambiare radicalmente le cose in Pakistan o in Irlanda, le due tragedie hanno prodotto effetti incoraggianti: i politici irlandesi sono stati costretti a promettere di riformare le leggi che hanno impedito di salvare la vita a Savita, e in Pakistan è diventato più difficile difendere l’idea che le bambine non devono studiare.
Non è sufficiente e la strada che rimane da fare è ancora tanta. Ma almeno le storie di Malala e di Savita hanno ricordato al mondo che l’oscurantismo non è un fenomeno confinato al Medioevo: è largamente presente anche nel XXI secolo e ancora impone un prezzo in vite umane.
La Repubblica 20.11.12